XVI LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 444 di lunedì 7 marzo 2011

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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ROCCO BUTTIGLIONE

La seduta comincia alle 11,05.

GREGORIO FONTANA, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 2 Marzo 2011.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Alessandri, Angelino Alfano, Berlusconi, Bonaiuti, Bossi, Brambilla, Brunetta, Carfagna, Casero, Cicchitto, Colucci, Crimi, Crosetto, D'Alema, Della Vedova, Fitto, Franceschini, Frattini, Galati, Gelmini, Alberto Giorgetti, Giro, La Russa, Mantovano, Maroni, Martini, Meloni, Miccichè, Leoluca Orlando, Prestigiacomo, Ravetto, Reguzzoni, Rigoni, Roccella, Romani, Rotondi, Saglia, Stefani, Stucchi, Tremonti, Vitali e Vito sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente quarantacinque come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Sull'ordine dei lavori (ore 11,10).

EMANUELE FIANO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EMANUELE FIANO. Signor Presidente, chiedo a nome del gruppo del Partito Democratico della Camera dei deputati che il Governo riferisca al Parlamento circa il grado di penetrazione del fondo sovrano di Tripoli, della Repubblica libica, nell'economia italiana.
Chiediamo di conoscere le interessenze, le compartecipazioni e gli investimenti del Governo libico nell'economia del nostro Paese ed esprimiamo un'opinione politica: crediamo, infatti, che il Governo italiano dovrebbe quanto prima adoperarsi per congelare, come già altri governi hanno fatto, le proprietà della Repubblica libica all'interno dell'economia del nostro Paese.
Ciò al fine di non far sembrare, in alcun modo, che vi sia da parte nostra, del nostro Paese, del nostro Governo un disinteresse per quello che sta accadendo in questo momento sul terreno, per le strade, nelle piazze e nelle città libiche; anche per questo crediamo sia importante conoscere fino in fondo il grado di penetrazione degli interessi del Governo libico nel nostro Paese, perché crediamo anche che questi interessi andrebbero immediatamente congelati (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

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Discussione del testo unificato delle proposte di legge: Caparini ed altri; Cirielli: Incentivi per favorire, nelle regioni dell'arco alpino, il reclutamento di militari volontari nei reparti delle truppe alpine (A.C. 607-1897-A) (ore 11,12).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del testo unificato delle proposte di legge d'iniziativa dei deputati Caparini ed altri; Cirielli: Incentivi per favorire, nelle regioni dell'arco alpino, il reclutamento di militari volontari nei reparti delle truppe alpine.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 607-1897-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare del Partito Democratico ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la IV Commissione (Difesa) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Gidoni, ha facoltà di svolgere la relazione.

FRANCO GIDONI, Relatore. Signor Presidente, onorevoli colleghi, a dire il vero avevo pensato di portare qui con me oggi quel cappello di alpino che mi fu consegnato nel lontano luglio del 1980 all'atto del mio incorporamento nella brigata alpina «Cadore» e che da allora mi accompagna a raduni e cerimonie. Quel cappello alpino che non è solo un simbolo, ma è anche elemento unificante di centinaia di migliaia di alpini che si riconoscono nella parola «solidarietà».
Veniamo al provvedimento al nostro esame che reca alcune misure destinate ad incentivare un più equilibrato reclutamento dei nostri ragazzi nel Corpo degli alpini allo scopo di preservarne, per quanto possibile, il radicamento territoriale posto in crisi dalla sospensione della coscrizione obbligatoria in tempo di pace.
Questo provvedimento nasce dall'iniziativa dei deputati del gruppo della Lega Nord, inizialmente osteggiata, ma che ha poi trovato convergenze nelle file della maggioranza ed infine anche in parte dell'opposizione. Il testo attuale rappresenta quindi l'esito di una mediazione tra le diverse sensibilità che sono emerse nel percorso compiuto in Commissione.
Mi piace ricordare che il corpo degli alpini costituisce una delle più apprezzate specialità delle nostre Forze armate, di cui sono universalmente riconosciuti il coraggio e lo spirito di sacrificio.
Non voglio certo partire da così lontano citando le legioni alpine dell'antica Roma fondate dall'imperatore Augusto e mi limito a dire che gli alpini formatisi nel 1872 sono il più antico corpo di fanteria da montagna attivo del mondo.
Originariamente il corpo fu creato per proteggere i confini montani settentrionali dell'Italia con Francia e Austria. Nel 1888 gli alpini furono inviati alla loro prima missione all'estero, in Africa, continente nel quale sono tornati più volte nella loro storia per combattere le guerre coloniali del regno d'Italia. Essi si sono distinti durante la prima guerra mondiale quando furono impiegati nei combattimenti al confine nord-est con l'Austria-Ungheria dove, per tre anni, dovettero confrontarsi con le truppe da montagna austriache e tedesche, rispettivamente i Kaiserjaeger e gli Alpen Korp, in quella che da allora è diventata nota come la guerra in alta quota. Durante la seconda guerra mondiale gli alpini combatterono a fianco delle forze dell'asse, principalmente sul fronte orientale, nei Balcani, con il tragico ricordo della campagna di Russia, signor Presidente, dei romanzi «Centomila gavette di ghiaccio» piuttosto che «Il sergente nella neve». Oggi gli alpini sono costantemente impegnati in Afghanistan.
È universalmente riconosciuto, dunque, che uno dei punti di forza degli alpini è proprio il carattere regionale e il radicamento territoriale delle unità dipendenti dai reparti delle truppe alpine. Ciascuna brigata è motivo di orgoglio per il suo territorio, ne rappresenta un pezzo di identità; vi sono legami secolari tra le truppe e il retroterra sociale di cui sono tradizionalmente espressione e ne è testimonianza l'occasione dei raduni dell'associazione nazionale alpini che vede la sentita Pag. 3partecipazione delle popolazioni locali. Per chi di voi ne avesse voglia e volesse vivere un'esperienza diretta vi invito a venire a Torino in occasione della prossima adunata nazionale, non per salutare dal palco chi per dodici ore sfilerà nella giornata di domenica, ma per immergervi, nelle giornate precedenti, nel clima di una irripetibile e coinvolgente festa alpina.
Purtroppo però, quegli elementi caratterizzanti che fanno degli alpini un corpo così unico stanno venendo meno. Il numero di coloro che provengono dalle regioni che da sempre animano le storie delle brigate degli alpini è in rapida e inesorabile diminuzione. Si sta progressivamente attenuando la connotazione territoriale e il radicamento culturale con le comunità locali che è sempre stato il punto più qualificante del corpo. Secondo i dati riportati dalla stampa e variamente declinabili, il Piemonte darebbe alle forze terrestri soltanto il 2 per cento degli effettivi, la Lombardia l'1,8 per cento, il Veneto l'1,6 per cento, il Trentino lo 0,4 per cento e la Valle d'Aosta lo 0,1 per cento. Persino un reparto come l'8o reggimento della brigata alpina Jiulia avrebbe organici composti al 68 per cento da volontari provenienti dalle regioni meridionali. Complessivamente, come riportato dal quotidiano La Stampa di qualche giorno fa, anche nei reparti alpini il personale proveniente dalle regioni settentrionali si attesta intorno al 9 per cento. È quindi facile prevedere, a medio e a lungo termine, l'esaurimento degli alpini come comunità territoriale con un conseguente impoverimento delle regioni dove più forte è stato, storicamente, il loro radicamento. Sia chiaro, non si intende, con questa iniziativa, mettere in dubbio il principio secondo cui chi si è arruolato negli alpini, da qualunque zona del Paese provenga, indossi il cappello con la penna con dignità, onore e purtroppo, in sempre più frequenti occasioni, anche sacrificando la propria vita. Voglio qui ricordare Gianmarco Manca, Francesco Vannozzi, Sebastiano Ville, Marco Pedone, giovani penne, spezzate, il 9 ottobre scorso, in Afghanistan unitamente a Matteo Miotto il successivo 31 dicembre, tutti appartenenti al 7o reggimento alpini della mia città, Belluno; e pochi giorni fa, il capitano Massimo Ranzani dell'8o reggimento alpini.
Tuttavia, se non si cercherà di porre un rimedio, rischia di venir meno quel valore aggiunto che è costituito proprio dal forte legame identitario che contraddistingue gli alpini anche come comunità che opera, dopo la cessazione del periodo prestato al servizio delle Forze armate, svolgendo, ad esempio, importanti funzioni in concorso all'espletamento delle attività della Protezione civile. Ricordo che questa problematica non è nuova; nel 2004, con il passaggio dalla leva al reclutamento professionale, per ovviare al declino degli arruolamenti nelle regioni dell'arco alpino, si introdussero, con l'articolo 9 della legge n. 226 del 2004, disposizioni volte ad incentivare il reclutamento dei giovani. La risposta però è stata deludente, da qui l'idea che muove l'intera proposta di legge in esame, ossia quella di cercare di invertire il trend che vede le truppe alpine progressivamente snaturalizzarsi, introducendo un regime rafforzato e mirato ad incentivi.
Veniamo ora ai contenuti salienti dell'articolato. Ricordo che esso costituisce il testo unificato di due proposte di legge a prima firma del presidente Caparini e Cirielli, in cui sono stati recepiti, pressoché totalmente, i rilievi espressi nei pareri delle Commissioni di merito. Vi è ancora un'ultima condizione posta dalla Commissione Bilancio che auspico venga accolta dalla Commissione Difesa in sede di emendamenti.
In sintesi, il testo si compone di quattro articoli. Il nucleo della proposta è certamente la lettera a) dell'articolo 1, che integra l'articolo 103 del codice dell'ordinamento militare in più punti. In primo luogo, al capoverso 4-bis, si dà la facoltà alle regioni e agli enti locali interessati di prevedere particolari benefici fiscali e assistenziali per coloro che, tra i volontari in forma prefissata di un anno e in rafferma, prestano servizio nei territori da sempre interessati al reclutamento alpino e sono ivi residenti. In questo modo è rinviata all'autonomia Pag. 4delle singole regioni e degli enti locali l'individuazione dei più opportuni incentivi di carattere fiscale o assistenziale per favorire il reclutamento degli alpini e nel contempo se ne favorisce il radicamento territoriale. Ai predetti volontari le regioni e gli enti locali possono riconoscere riserve di posti nei concorsi banditi in relazione a impieghi concernenti attività di sicurezza e protezione civile.
Signor Presidente, onorevoli colleghi, sottolineo «possono» perché in questi giorni ho letto dichiarazioni non proprio in linea con il testo proposto, in cui il «possono» è diventato «devono», travisando di fatto il senso del provvedimento, introducendo un'obbligatorietà che di fatto non c'è. In secondo luogo, al capoverso 4-ter, si riconosce come titolo preferenziale per l'arruolamento dei volontari in ferma prefissata annuale, il possesso dei brevetti di sci alpinismo, sci e soccorso in montagna o di altri brevetti, attestati e abilitazioni in settori collegati alle attività dei reparti delle truppe alpine, nonché l'adesione a organizzazioni di volontariato riconosciute dagli apposti registri regionali.
I successivi capoversi 4-quater e 4-quinquies prevedono che sia istituito un vero e proprio brevetto militare alpino, qualificato come titolo di preferenza nei concorsi per i volontari in ferma prefissata quadriennale e per i volontari in servizio permanente. Il capoverso 4-sexies dispone che, alla cessazione del loro servizio, i volontari delle regioni appenniniche e dell'arco alpino possono entrare, previa domanda, a far parte di un'apposita riserva, costituita su base volontaria e gestita dall'associazione nazionale alpini, mobilitabile in caso di calamità naturale, a disposizione delle autorità nazionali, regionali, provinciali e comunali eventualmente colpite dal disastro. L'appartenenza alla predetta riserva cessa al compimento del quarantesimo anno di età.
La lettera b) dell'articolo 1 integra l'articolo 978 del codice dell'ordinamento militare, rafforzando la già prevista assegnazione privilegiata dei giovani nelle località più vicine a quelle di residenza, circostanza che si combina con l'attuale norma secondo cui ogni regione dell'arco alpino ha sul proprio territorio almeno un reparto. Qualora gli aspiranti siano di numero inferiore all'organico è assicurata comunque la priorità a coloro i quali hanno comunque presentato domanda di impiego per tali reparti, anche se non residenti. L'articolo 2 coinvolge l'associazione nazionale alpini nell'attività di promozione del reclutamento delle truppe alpine nelle regioni di tradizionale provenienza, che ricordo essere: la Liguria, il Piemonte, la Lombardia, il Triveneto, l'Appennino tosco-emiliano, l'Abruzzo e la provincia di Isernia.
Anche in ragione di tale nuovo compito l'articolo 3 destina all'ANA la dotazione di un apposito fondo di consistenza pari a 200 mila euro annui. L'articolo 4, infine, reca la clausola di invarianza finanziaria.
Signor Presidente, concludo dicendo che vorremmo che agli alpini quali Giulio Bedeschi, Ardito Desio, Cesare Battisti, don Carlo Gnocchi, Mario Rigoni Stern, Gino Bramieri, Sergio Chiamparino, Carlo Emilio Gadda, Luciano Ligabue, Franco Marini, Giuseppe Prisco, Bruno Pizzul, Cino Tortorella, Giuseppe Lazzati e tanti tanti altri che qui non cito potessero essere aggiunti in futuro i nomi dei nostri giovani che oggi intendono servire questo Paese nelle divisioni alpine.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

GIUSEPPE COSSIGA, Sottosegretario di Stato per la difesa. Signor Presidente, il Governo si riserva di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gregorio Fontana. Ne ha facoltà.

GREGORIO FONTANA. Signor Presidente, il disegno di legge di cui si discute nasce da due proposte: una della Lega e una del Popolo della Libertà, e va a integrare il codice dell'ordinamento militare Pag. 5recentemente varato su iniziativa del Governo Berlusconi proprio nella parte relativa al reclutamento degli alpini.
Innanzitutto, si intende valorizzare il forte legame che unisce gli alpini al loro territorio tradizionale attraverso interventi sulla disciplina del reclutamento e la previsione di speciali benefici di carattere fiscale.
Tuttavia, si intende anche contribuire al rafforzamento del ruolo svolto dalle Forze armate nella società italiana, coinvolgendo anche chi non è più militare, ma può mettere a frutto l'esperienza maturata sotto le armi. Si prevede, infatti, che i militari volontari in ferma prefissata di un anno, provenienti dall'area di tradizionale reclutamento degli alpini, possano entrare a far parte - su richiesta - di un'apposita riserva costituita dall'Associazione nazionale alpini mobilitabile in caso di calamità naturale e a disposizione del Servizio nazionale della protezione civile, delle autorità civili delle regioni, delle province e dei comuni eventualmente colpite dal disastro.
La proposta di legge riguarda, dunque, aspetti specifici della normativa concernente gli alpini. Essa però, a ben vedere, tocca alcune questioni cruciali riguardanti il ruolo delle Forze armate nel nostro Paese e anche, per il particolare contesto storico nel quale ci troviamo, offre l'opportunità per svolgere alcune considerazioni di carattere generale. Il suo iter, infatti, si conclude in un periodo nel quale simultaneamente si ricordano i 150 dell'unità nazionale e si avvia finalmente la realizzazione del federalismo secondo gli auspici di alcuni grandi Padri sia del Risorgimento che della nostra Repubblica.
Si tratta di una coincidenza a mio avviso molto fortunata perché la storia degli alpini è la dimostrazione più evidente di come la difesa dell'interesse nazionale e il rispetto dell'identità e degli interessi territoriali e la crescita del ruolo internazionale del nostro Paese siano fenomeni tra loro profondamente interconnessi e interdipendenti a dispetto di chi ancora si ostina, al di là di vuote dichiarazioni di intenti e di principio, a contrastare il federalismo perché in fondo continua a considerarlo alla stregua di una minaccia all'unità e al prestigio nazionale. Mi riferisco qui ovviamente ai colleghi dell'opposizione che la scorsa settimana hanno perso ancora una volta un'occasione per contribuire all'avvio di una riforma epocale realizzata nell'interesse di tutti gli italiani.
Possiamo ben dire che il legame con il territorio è parte integrante della vocazione nazionale unitaria degli alpini. Il corpo degli alpini nasce, come sappiamo, alla fine del XIX secolo dalla convinzione - mostratasi poi fondata - che la tutela dei confini nazionali dell'arco alpino andasse affidata a persone del posto che avessero un legame forte con il territorio e fossero in grado di respingere con successo eventuali attacchi.
Gli alpini, insomma, sono espressione specifica della cultura di questi territori, ma la loro è da subito una missione nazionale di carattere militare, sociale e culturale. Il regio decreto di istituzione del corpo - vale la pena ricordarlo - fu firmato a Napoli nell'ottobre del 1872. L'esperienza delle penne nere dimostra, infatti, che un forte senso di identità nazionale non penalizza le identità locali. Ciascun alpino resta orgoglioso del proprio dialetto e delle proprie tradizioni in spirito cameratesco con i commilitoni.
Nelle adunate annuali, alle quali faceva riferimento proprio il relatore Gidoni, la città prescelta viene pacificamente invasa da centinaia di migliaia di persone festanti delle più diverse culture locali e convinzioni politiche, che sfilano dietro il tricolore unite nei valori fondamentali del nostro Paese. Quando si assiste a queste adunate - a me è capitato più di una volta, l'ultima proprio nella mia città (Bergamo) - si ha la netta impressione che un federalismo patriottico, basato sull'incontro tra la cultura dei diritti e lo spirito cristiano di solidarietà, rappresenti non solo una via percorribile, ma sia in qualche misura una realtà concretamente vissuta dagli italiani.
In ciò, bisogna che tutti noi - al di là delle nostre convinzioni politiche - riconosciamo Pag. 6i meriti all'Associazione nazionale alpini, che svolge un ruolo fondamentale nella società italiana non solo sul piano culturale, ma anche su quello concretissimo e drammaticissimo delle emergenze nazionali. Dal nord al sud del Paese, ma anche fuori dei confini del nostro territorio, gli italiani hanno imparato a riconoscere questa presenza efficiente, benevola e solidale, che si fa sentire operativamente in occasione dei disastri naturali che colpiscono la popolazione.
È un bene, dunque, che lo Stato, attraverso la proposta di legge in discussione, valorizzi anche attraverso un contributo economico questi - come si suol dire - «veci», che parlano poco di sé ma fanno tantissimo per noi.
D'altra parte, i valori degli alpini sono i valori non solo della nostra storia ma anche dell'Italia che cambia. Siamo un Paese all'altezza delle sfide del mondo contemporaneo e lo dimostriamo nei fatti con il nostro impegno nelle crisi internazionali, specialmente da quando è cominciata quella che è stata definita come una nuova guerra mondiale, vale a dire la battaglia contro la jihad globale che minaccia istituzioni, interessi e valori dell'Occidente. I nostri soldati si fanno onore, a giudizio unanime dei nostri alleati, ed è giusto che i nostri soldati godano in patria della medesima considerazione e delle medesime attenzioni di cui godono i militari degli altri Paesi democratici. Nessun grande Paese infatti, a partire dagli Stati Uniti per finire alla Francia o al Regno Unito, può fare a meno di un rapporto forte e intenso con le proprie Forze armate e con alcuni corpi militari in particolare, perché ci sono esperienze militari nelle quali si riassumono, in maniera emblematica, le caratteristiche principali di una nazione e della cultura del suo popolo.
Per quel che riguarda l'Italia, gli alpini incarnano oggi la capacità del nostro Paese di evolversi e di adeguarsi ai nuovi scenari internazionali, non solo non rinunciando alla propria identità ma, anzi, facendo leva su di essa. Si consideri, al riguardo, uno dei tanti motti delle «penne nere», in questo caso emblematico: «Di qui non si passa». Si tratta di un motto eroico e drammatico al tempo stesso, il cui significato si arricchisce oggi di nuove contenuti. Esso, come dimostra l'esperienza delle missioni militari internazionali di questi anni, riguarda ormai non solo i confini del territorio italiano ma anche i confini della libertà e della dignità dell'uomo. «Di qui non si passa» significa oggi che il Corpo degli alpini si è posto anche a presidio dei valori su cui si fondano tanto la nostra Costituzione quanto la legislazione internazionale sui diritti umani. È il motto che ha idealmente ispirato la condotta del capitano Massimo Ranzani, al quale gli italiani hanno da poco dato l'estremo e solenne saluto, l'ennesima «penna nera» caduta nel compimento del proprio dovere. È il motto che ispira, in fondo, tutti i nostri soldati impegnati in missioni molto delicate in Italia e all'estero, i quali danno quotidianamente prova di grande professionalità unitamente a un grande senso di umanità, meritandosi sia l'ammirazione dei vertici militari dei Paesi alleati, sia la gratitudine delle popolazioni che fruiscono del loro impegno per la pace e per la difesa dei più deboli.
Spiace che alcuni rappresentanti delle opposizioni abbiano polemizzato su questa proposta di legge che qui si discute proprio con riferimento ai valorosi morti alpini sul campo, facendo osservare che nessuno di loro era della zona alpina e aggiungendo, polemicamente, che ci sono nell'Esercito altri corpi da valorizzare. Ma questa proposta di legge, cari colleghi dell'opposizione e signor Presidente, non è fatta per escludere qualcuno dal Corpo degli alpini ma, piuttosto, per valorizzare, come abbiamo detto, il rapporto storico di questo Corpo con il territorio che ha fatto la sua storia. Il senso di solidarietà e di cameratismo universale - mi si consenta l'espressione - da sempre mostrato dagli alpini rende impensabile un atteggiamento discriminatorio nei confronti di una regione piuttosto che di un'altra. Si tratta solo Pag. 7di essere coerenti con i presupposti territoriali e logistici sui quali sono nati il Corpo degli alpini.
Quanto alla seconda obiezione sollevata dall'opposizione essa è ancora, se possibile, più strumentale e infondata della prima. C'è gloria per tutti, cari colleghi. Valorizzare il Corpo degli alpini non vuol dire sottrarre meriti agli altri Corpi dell'Esercito e delle Forze armate ma tutt'altro. Si tratta della via maestra per riconoscere agli italiani in divisa il ruolo che gli spetta nella società italiana, dopo anni di diffidenze e discriminazioni subite proprio da una parte della cultura della sinistra.
Valorizzare il ruolo delle Forze armate, nello specifico degli alpini, significa per noi italiani anche liberarci di certi brutti stereotipi in cui in passato siamo stati ingiustamente inquadrati. Credo che il Corpo degli alpini custodisca i tratti più forti e significativi della nostra identità nazionale, agli antipodi rispetto all'immagine dell'italiano festaiolo e improvvisatore, i nostri uomini da tempo fanno scuola alle Forze armate e di sicurezza di tutti i Paesi alleati. Tali capacità si fondano peraltro sul legame storico che gli alpini hanno con le loro radici culturali e sul forte collegamento con i loro territori di provenienza. È certamente vero che ci sono stati e ci sono ottimi e valorosi alpini provenienti dalle regioni meridionali, ma la forza identitaria del nostro Paese è data proprio dalla varietà delle sue espressioni culturali e territoriali.
Il nostro Paese è ancorato alle Alpi e al nord Europa, ma proiettato nel Mediterraneo: questi due poli della nostra condizione geopolitica non devono essere visti in contraddizione ma come poli, cioè punti di forza sui quali costruire il nostro ruolo sullo scacchiere internazionale. Valorizzare la specificità dell'identità settentrionale del Corpo degli alpini non vuol dire affatto sottovalutare il contributo che tanti meridionali hanno dato e danno al nostro Esercito e alle nostre missioni internazionali. C'è spazio nel nostro sistema di difesa per la valorizzazione di tutte le professionalità specifiche di determinate aree regionali. La vicenda degli alpini, ad esempio, potrebbe essere utilizzata come un modello dal legislatore che un domani intendesse auspicabilmente mettere a frutto la memoria storica e le particolari tradizioni e competenze culturali dei giovani del Mezzogiorno d'Italia per rafforzare la presenza del nostro Paese nel Mediterraneo, anche in vista dei prevedibili sconvolgimenti che interesseranno da qui a breve quel contesto geopolitico.
Insomma, questa legge, al di là della specificità delle questioni che tocca, può diventare una «legge pilota» per importanti e future iniziative legislative in materia di difesa ed è per queste ragioni che il Popolo della Libertà è stato fin da subito tra i suoi più convinti promotori e sostenitori. Vorrei concludere ricordando che abbiamo tutti molto da imparare dalle «penne nere» e mi auguro che ciò si tenga presente nelle prossime settimane e nei prossimi mesi mentre celebreremo i 150 anni dell'Unità d'Italia e ci appresteremo a cambiare il volto delle istituzioni nel nostro Paese (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Di Stanislao. Ne ha facoltà.

AUGUSTO DI STANISLAO. Signor Presidente, proverò a far capire ai colleghi - che rispetto, a partire dal collega Gidoni - che concordo pienamente con quanto hanno detto e che investe direttamente il senso e la presenza degli alpini nel nostro contesto nazionale. Sono convinto che gli alpini rappresentino un momento importante e fondamentale da salvaguardare ed anche da esaltare; la loro presenza, il loro ruolo e la loro funzione sono determinanti non solo in chiave storica ma anche in chiave odierna e di prospettiva per quello che hanno fatto e che stanno facendo e per quello che sanno fare e che continueranno a fare. Ancor di più apprezzo tutte quelle parti evidenziate, che rappresentano il valore che gli alpini incarnano non solo a livello nazionale ma anche, soprattutto in questa fase, a livello internazionale. Pag. 8
Sono pienamente d'accordo anche sull'identità che rappresentano, ed è proprio in virtù di questa condivisione nelle parti che riguardano principi, funzioni, ruoli, storia e prospettive che cercherò di far accogliere un mio ragionamento. Non possono pensare di imporre il loro ragionamento alle opposizioni, di cui parlano in maniera indistinta. Andrebbe infatti anche capito e compreso in che modo e in che misura le opposizioni spesso fanno un lavoro anche di approfondimento e di riflessione che sfugge magari alla maggioranza e che è oltremodo utile per meglio indirizzare alcune scelte ed alcune proposte di legge che, in questo modo, possano meglio cogliere alcuni aspetti che non appartengono più alla storia ma alla prospettiva.
Dirò alcuni numeri e anche alcuni dati, che forse possono farci riflettere in maniera più laica e anche più serena. Credo che il provvedimento che ci accingiamo a votare possa essere considerato - e questo penso che non possa essere sottaciuto - come una sorta di appello, che è stato messo nero su bianco, teso a convincere i nati sul suolo alpino ad indossare la divisa di alpino.
Nella relazione iniziale allegata al testo della proposta di legge presentata dalla Lega Nord si lamenta la riduzione drastica delle popolazioni del nord tra gli arruolati, il che snatura, a detta della Lega, l'identità dei reparti e spezza i secolari legami con il retroterra sociale di cui sono tradizionalmente espressione. Prima di entrare nel merito, voglio ricordare solo alcuni dati, che sono generali ma rendono l'idea e danno la cifra di ciò di cui stiamo parlando.
I dati sono recentissimi, di fine 2009, e ci dicono che, per 12 mila posti di volontario a ferma prefissata di un anno su tutto il territorio nazionale, si sono presentati 47.707 giovani, ma la gran parte delle domande, 31.125, sono arrivate alla regione militare sud, una marea rispetto alle 5.281 del nord, alle 9.271 del centro e alle 2.030 della Sardegna. Non è solo quindi un'impressione, sono le statistiche a dircelo: la maggior parte dei militari dell'Esercito viene dal sud.
Il generale Massimo Fogari, commentando questi dati solo alcuni mesi fa, ha dichiarato che non è un male, al contrario nel Meridione i ragazzi non trovano lavoro e quindi necessariamente studiano. Quelli che si arruolano hanno un livello di scolarizzazione elevato, tra i più alti del mondo, se non il più alto. L'80 per cento dei nuovi arruolati ha un diploma di scuola superiore, il 20 per cento ha addirittura una laurea. Molti parlano l'inglese e questo aiuta nelle missioni all'estero. Sanno comportarsi meglio, si arruolano spesso per trovare una sistemazione economica, ma il 90 per cento poi vuole restare per spirito di Corpo. A tenere alto l'onore è soprattutto la Campania. Arriva da lì il 27,3 per cento delle domande di arruolamento, seguono la Sicilia con il 18,8 e la Puglia con il 14,6 per cento. In questo scenario generale, risulta evidente che il 90 per cento degli alpini proviene dal Meridione.
Fin dall'inizio dell'esame del provvedimento è risultato - credo - non fruttuoso attribuire un'identità soltanto agli alpini residenti in alcune aree geografiche, negandola implicitamente ad altri, come a quelli provenienti dalle regioni meridionali, che peraltro, contrariamente ai primi, devono sostenere maggiori oneri e maggiori disagi per trasferirsi nelle località di lavoro. Gli incentivi previsti dal provvedimento sono risultati inadeguati e pericolosi, a prescindere dai gravi dubbi di costituzionalità che essi ingenerano. Sono inadeguati, in quanto si prestano ad essere facilmente elusi attraverso un semplice cambio di residenza, come hanno detto altri colleghi dell'opposizione; pericolosi, in quanto rischiano di disincentivare i reclutamenti nelle regioni meridionali, che attualmente rappresentano il principale bacino da cui attingono le Forze armate. Inoltre, il problema del reclutamento degli alpini, benché risulti un problema serio, non può essere certo risolto con l'utilizzo degli strumenti prospettati dal provvedimento in esame. I problemi di costituzionalità Pag. 9che tali strumenti pongono sono infatti così evidenti da impedire una conclusione positiva dell'iter legislativo del provvedimento in oggetto. Il problema del legame tra alpini e territorio, pur essendo un problema reale, non può essere risolto discriminando i trattamenti economici del personale militare in funzione della residenza geografica, bensì introducendo incentivi per tutti gli alpini in ragione della specificità dell'attività svolta. Un altro problema di rilevanza notevole è quello relativo alla copertura finanziaria, non prevista dal provvedimento. Non è da sottovalutare l'intervento del sottosegretario Giorgetti in Commissione, che fa presente che si andrebbe in contrasto con l'articolo 97 della Costituzione ed esprime comunque parere contrario sulla concessione di benefici, sia pure di natura non continuativa, di carattere fiscale, ancorché nei limiti consentiti dalla normativa statale vigente, e di carattere assistenziale che le regioni e gli enti locali possano riconoscere ai volontari, in quanto suscettibili di determinare oneri per la finanza pubblica.
Sempre il sottosegretario Giorgetti osserva, inoltre, che i benefici suddetti si configurano come ingiustificate disparità di trattamento rispetto alle altre categorie di volontari, potendo quindi determinare richieste emolutive, e conseguentemente un'estensione generalizzata del fenomeno.
Inoltre, circa l'articolo 2-bis, con riferimento alla copertura finanziaria prevista dal comma 2, pari a 200 mila euro annui, dal 2012, egli esprime, anche in questo caso, parere contrario, in quanto, sul fondo speciale di parte corrente, all'accantonamento del Ministero dell'economia e delle finanze non sussiste una specifica finalizzazione per fronteggiare gli oneri recati dall'iniziativa, e conseguentemente occorrerebbe ridurre la voce: «sentenza Corte costituzionale - IVA sulla TIA».
Nonostante i lavori in Commissione abbiano portato ad un testo unificato delle due proposte iniziali, con alcune modifiche, il provvedimento suscita, infatti, perplessità anche in merito a profili riguardanti, da un lato, il corretto rapporto tra legislazione statale e regionale, nella parte in cui invade le competenze legislative regionali sul piano degli incentivi fiscali e assistenziali, dall'altro, sotto un diverso profilo, per la parte in cui consente alle regioni di legiferare in materia di Forze armate, che rientra nella sfera esclusiva dello Stato centrale.
Gli emendamenti presentati anche dall'Italia dei Valori in Assemblea non vogliono esprimere - lo dico con tutta la stima possibile al collega Gidoni e alla Lega - una contrarietà preventiva agli incentivi riconosciuti alle truppe alpine. La prima proposta emendativa intende, però, evitare che si determinino disparità di trattamento nell'ambito delle Forze armate ed è mossa dalla necessità di assicurare che il provvedimento sia rispettoso della disciplina di carattere generale, con particolare riguardo al rispetto dei principi costituzionali.
La seconda proposta emendativa è volta a sopprimere la disposizione che prevede l'istituzione di una riserva speciale costituita su base volontaria per l'Associazione nazionale alpini. Tale Associazione, infatti, può efficacemente intervenire per far fronte alle emergenze che possono verificarsi sul territorio nazionale senza la necessità di istituire riserve speciali, che, peraltro, potrebbero essere più opportunamente organizzate con il concorso di tutte le Forze armate.
Questo è il nostro pensiero, fermo restando il fatto che si è disponibili a cercare di capire, intervenire, non ad andare in soccorso, ma ad essere disponibili affinché vi siano le necessarie possibilità che questa iniziativa rappresenti un'apertura anche per altri comparti. Infatti, credo che bisogna essere chiari: se questo provvedimento rappresenta, come ha detto il collega, un'esperienza pilota che può aprire anche ad altri opportunità che attualmente sono precluse, facciamo un ragionamento più complessivo. In questo caso, avremmo anche una disponibilità, come dicevo prima, laicamente, da mettere in campo. Vi sono, però, due elementi che sono in questo momento ostativi: uno è rappresentato Pag. 10dal dato costituzionale, l'altro è rappresentato dal dato economico-finanziario.
Arrivo al punto, perché le cose che ha detto il sottosegretario Giorgetti sono dei macigni, in questo caso, insuperabili, salvo che poi, in sede di replica, ci si dica il contrario. Vorrei poi rivolgermi al Governo, e nella fattispecie al sottosegretario Cossiga, in merito a quanto egli ha sottolineato qualche tempo fa, quando ha detto che il provvedimento in esame si muove nella giusta direzione di dare un adeguato riconoscimento al Corpo degli alpini e al forte legame esistente fra il territorio e il Corpo stesso. Perfetto, sono completamente d'accordo su quello che il sottosegretario ha detto in questa fase.
Poi, egli afferma ancora che il provvedimento si riferisce non solo alle regioni dell'arco alpino, ma a tutte le regioni tipiche di reclutamento alpino, tra le quali anche l'Abruzzo. Forse, rispetto a questo dato, credo che potrebbe anche essere cambiato il titolo della proposta di legge in esame, perché, al riguardo, non vi è alcuna preclusione da parte di chi vi parla. Il sottosegretario ritiene ancora che non siano ravvisabili profili di manifesta incostituzionalità in ordine agli incentivi previsti dalla proposta di legge dell'onorevole Caparini, in quanto tali incentivi si sostanzierebbero fondamentalmente nell'elevazione di un emolumento già previsto dalla legislazione vigente, volto ad attribuire uno specifico riconoscimento alle attività svolte da truppe alpine.
Conclude affermando che il problema più difficilmente risolvibile non è tanto quello della incostituzionalità dell'incentivo quanto, piuttosto, quello della sua copertura finanziaria, non prevista dal provvedimento in oggetto. Dico questo perché mi consente di riflettere su alcuni aspetti che non sono, generalmente e genericamente, rilevati dalle opposizioni. L'aspetto relativo alla suddetta copertura finanziaria, infatti, è stato sollevato dal sottosegretario Giorgetti qualche giorno fa.
Chiedo, dunque, come si possa superare questo problema. Se vi sono dei percorsi che consentono di superare questi due aspetti, nulla osta affinché la proposta di legge «pilota» in esame possa andare avanti nel suo iter e possa rappresentare la punta dell'iceberg, un'apertura verso opportunità anche nei confronti di altri comparti. Se è così e viene chiarito questo aspetto, evidentemente, vi è qualcosa di positivo che si può mettere in campo.
Per buona pace di tutti, voglio far capire che non vi è mai, da parte dell'opposizione né tanto meno del gruppo Italia dei Valori, una contrapposizione a prescindere. Vorremmo, però, capire di che cosa parliamo e cosa mettiamo in campo, vorremmo rendere omaggio e riconoscimento, in questo caso, agli alpini attraverso una legislazione coerente che tenga insieme anche il Paese rispetto ad alcune opportunità, perché non vengano riconosciute ad alcuni piuttosto che ad altri. Se la proposta di legge in discussione rappresenta un progetto pilota e di scenario che prevede al suo interno una serie di opportunità, ben venga!
Si chiariscano quali sono gli elementi che hanno a che fare con gli aspetti di unitarietà e di scenario, piuttosto che con quelli di frammentazione, e come si possano tenere insieme gli elementi di costituzionalità con quelli relativi al dato economico-finanziario e noi non avremo nessuna preclusione ad esprimere un voto favorevole sul provvedimento in esame perché, veramente, non vi è alcuna volontà di essere opposizione a prescindere. No! Abbiamo sempre dato un contributo importante, serio, costruttivo e di riflessione attraverso confronti e scontri anche aspri, ma ci siamo sempre misurati per portare avanti l'attività in Commissione e in Parlamento.
Credo che i due emendamenti presentati dal gruppo Italia dei Valori vadano in questa direzione perché vorremmo fare andare avanti le proposte di legge, non bloccarle. A noi non piace fare i «bastian contrari».
Soprattutto sulla scorta delle argomentazioni svolte dal relatore Gidoni e dal collega Fontana nelle premesse e nell'introduzione in relazione agli elementi di specificità cercate di comprendere i nostri ragionamenti Pag. 11e le nostre riflessioni perché, a quel punto, noi saremo oltremodo disponibili affinché il provvedimento in esame prosegua nel suo iter, in modo che non sia un provvedimento della Lega Nord e della maggioranza, ma del Parlamento all'interno del quale si creano opportunità per tutti gli alpini d'Italia - i quali possano riconoscersi nel provvedimento stesso - e rappresentare veramente un valore ed una forza nell'immediato e in prospettiva.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rosato. Ne ha facoltà.

ETTORE ROSATO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, intervengo per introdurre alcune riflessioni nella discussione sulla proposta di legge in esame in relazione alla quale ci stiamo sforzando di non buttare via tutto e di prendere quello che di buono vi è, ossia il tentativo di dare un segnale positivo e di attenzione da parte di questo Parlamento nei confronti delle truppe alpine e di coloro che ogni giorno rischiano la vita per il nostro Paese.
La nostra sensibilità nei confronti di questi uomini, di questi militari, è altissima. Credo che solo per questo motivo siamo in Aula a confrontarci su un testo che, purtroppo, non rappresenta molto più di un semplice spot.
Vi è un titolo e poco altro. Quel poco altro che vi è contenuto, poi, purtroppo, è anche foriero di problemi. Alcuni sono stati già citati dal collega Di Stanislao, che è appena intervenuto, richiamando i pareri presentati in sede di Commissione bilancio dal Governo e i profili di incostituzionalità che si paventano all'interno del testo della proposta di legge in esame.
Cercherò di svolgere alcune riflessioni aggiuntive per convincere il relatore ed i presentatori non solo che il testo in esame, così com'è, non può andare bene, ma anche che da parte nostra vi sono tutte le buone intenzioni per trasformare questa iniziativa parlamentare che, peraltro, è stata modificata in maniera radicale da quando ha iniziato il suo iter, ossia da quando è stata presentata la proposta di legge da parte dei colleghi della Lega Nord.
Abbiamo tutta la buona volontà per poter trasformare un testo che oggi, di fatto, dovrebbe semplicemente tornare in Commissione, per essere sistemato e messo a punto in qualcosa che possa essere approvato da questo Parlamento, senza rischiare di subirne dopo le conseguenze.
La prima cosa - e la più evidente di tutte - è che si cerca di rispondere a un problema reale - perché è vero che il reclutamento delle truppe alpine ormai è difficile tra le popolazioni e tra i giovani del nord - con una soluzione, che è completamente inefficace.
È inefficace perché stiamo parlando di dire agli enti locali che con i loro bilanci e con i loro soldi - cosa che peraltro potrebbero fare in altri mille modi, senza necessità di questo strumento legislativo - sono tenuti a incentivare il reclutamento nelle truppe alpine, e che non lo Stato, titolare della politica di difesa di questo Paese, ma gli enti locali (i comuni, le province e le regioni) si devono far carico di questo problema.
È la prima cosa assolutamente sbagliata sotto il profilo costituzionale. Oltre che essere sbagliata sotto il profilo costituzionale è anche inefficace, perché non saranno quei dieci euro in più al mese che possono far maturare la convinzione in un giovane che intende intraprendere una strada di vita, ovvero andare a fare l'alpino, perché prenderà dieci euro in più al mese, grazie a questa potente proposta di legge che noi oggi stiamo discutendo.
Se si vuole veramente ragionare sul reclutamento - e noi siamo qui per farlo - allora il Governo dovrebbe cominciare a fare una cosa molto semplice. Con l'ultima finanziaria è stato dimezzato il Fondo per la stabilizzazione e per l'assunzione del personale nelle Forze armate. Quindi, un giovane che va a fare l'alpino o che va a fare, volontario in ferma breve, il militare, si trova a dover affrontare cinque, sei o sette anni da precario per poi essere un precario a vita.
Questo è, allora, il primo disincentivo per un giovane del nord, che può avere oggettivamente, come sappiamo, più possibilità Pag. 12di lavoro rispetto a un ragazzo del sud per non andare a fare l'alpino. Si tratta di intraprendere una carriera di vita, infatti, e fare anche dei sacrifici e delle scelte pericolose (purtroppo lo leggiamo nei nostri bollettini e lo vediamo, ricordando sempre qui in Parlamento i militari che muoiono nel mondo, come adesso in Afghanistan), di svolgere un lavoro quindi pericoloso, che non solo poi non viene riconosciuto dallo Stato con un possibile percorso di carriera, ma per il quale è semplicemente previsto un lungo e lento richiamo a provvedimenti legislativi «che dovrebbero arrivare per poter procedere alla loro assunzione», cosa che non si realizza più per i tagli che sono stati apportati al bilancio del Ministero della difesa.
Se si vuole incentivare il reclutamento delle truppe alpine si dia certezza alle assunzioni! Se non c'è questo, è inutile: non sarà questo provvedimento a portare una soluzione.
Vi è un secondo aspetto: creare disparità tra ragazzi che fanno lo stesso mestiere. Io so che tutti i colleghi che sono intervenuti qui conoscono gli alpini, le caratteristiche umane che li contraddistinguono e che essi non vorrebbero mai avere dieci euro in più di paga per fare lo stesso lavoro rispetto a chi sta nella branda vicino, solo perché uno è residente a Treviso e uno è residente a Ravenna. Nessuno di loro vorrebbe una cosa del genere. Gli alpini si caratterizzano, infatti, per un senso di reciproca solidarietà, che è un emblema che li caratterizza e li distingue dagli altri.
Credo allora che questo sia un'altro aspetto profondamente sbagliato: siamo, allora, noi a produrre delle differenze tra ragazzi che fanno lo stesso mestiere e la stessa scelta di vita con un provvedimento legislativo? Signori, mi sembra una strada sbagliata, che non incentiverà nessuno e creerà solo divisione.
Il terzo elemento riguarda la divisione tra i diversi reparti delle Forze armate. Perché chi fa l'alpino deve ricevere dieci euro in più, a parità di contratto - passatemi così l'espressione - rispetto a chi fa il paracadutista nella Folgore o l'incursore nel Col Moschin o a chi è nella Brigata Sassari, con lo stesso livello di rischio, lo stesso mestiere e la stessa prospettiva di disoccupazione che ricordavo prima? Anche questo è sbagliato.
Capisco il collega Gregorio Fontana che giustamente evidenzia il fatto che non vogliamo trovare una soluzione per gli alpini perché ce l'abbiamo con gli altri, ma perché siamo stati sollecitati. La verità è che la Lega vuole questo provvedimento, è inutile che diciamo altro, il percorso in Commissione lo conosciamo, eravamo tutti contrari con le motivazioni che abbiamo enunciato io, i colleghi e, in particolare, l'onorevole Di Biagio. L'unico vero motivo per cui stiamo discutendo è che la Lega voleva questo provvedimento spot, che è stato modificato, come ricordavo prima, ma che resta sempre un provvedimento spot dannoso.
La verità è che, se vogliamo fare un percorso di modifica radicale del provvedimento in esame (presenteremo le nostre proposte emendative che tendono a risolvere i conflitti che ho citato e a porre tutti i giovani che entrano nel sistema dei volontari in ferma breve nella possibilità di avere lo stesso trattamento fiscale, perché di questo si tratta), degli oneri si dovrebbe far carico il bilancio dello Stato e non quello degli enti locali. Infatti se così fosse, paradossalmente il comune di Ravenna - cito apposta sempre il comune di Ravenna e non quello di Reggio Calabria - dovrebbe erogare un incentivo, mettendolo a carico del suo bilancio, per un alpino che si trova nella caserma di Vipiteno ovvero per un ragazzo che è domiciliato di fatto da un'altra parte ma resta residente nel comune di Ravenna. Parimenti, per un ragazzo residente nel comune di Udine che va a fare l'alpino a Vipiteno, sarebbe il comune di Udine a dover erogare l'incentivo, affinché stia nella caserma di Vipiteno. Non c'è nessuna logica!
Se vogliamo dare un incentivo fiscale ai giovani volontari in ferma breve, dovremmo farlo con un apposita norma della legge finanziaria, valevole per tutti, se questa Pag. 13è l'intenzione, e non certo facendone carico ad un comune. Questa è una formula veramente irragionevole, perché un comune piccolo non potrebbe assumersi l'onere corrispondente mentre il comune confinante, più grande, potrebbe farlo. Non c'entra niente il federalismo in questa vicenda, perché il federalismo non consiste nella possibilità di occuparsi dei compiti dello Stato posta a carico dei bilanci comunali, ma il contrario. In questo caso è lo Stato che scarica una sua responsabilità sui bilanci degli enti locali e ciò è sbagliato.
Il collega Gregorio Fontana ha evidenziato invece un argomento che devo riprendere perché è la verità: dei dieci ultimi alpini che sono morti in Afghanistan, non ce ne è nessuno che avrebbe diritto agli incentivi previsti nel provvedimento in esame. Non è un argomento secondario, che si può o meno utilizzare. Non possiamo non misurare gli effetti che produrrebbero i provvedimenti che discutiamo in quest'Aula: stiamo esaminando un provvedimento che non premierebbe persone che fanno gli alpini, che difendono il nostro Paese e lo stanno facendo bene, che rischiano la vita e che, come in questo caso, l'hanno anche persa.
Allora a me, che considero la buona fede dei colleghi che hanno lavorato sul provvedimento in questione, sembra forse che non ne abbiate misurato a sufficienza gli effetti, e il nostro lavoro, in questa sede, è quello di convincervi a farlo con una maggiore attenzione a quanto accade.
L'altra questione che intendo evidenziare fa riferimento al bilancio generale della difesa. Ci troviamo in questa sede a discutere di questioni assolutamente marginali - è così - mentre il bilancio della difesa è stato tagliato nei costi di esercizio di 1 miliardo e 800 milioni di euro, e non rispetto agli investimenti o agli F35, ma con riferimento a quelle risorse che servono per l'addestramento, il munizionamento e quindi per le esercitazioni, per la protezione dei nostri militari e anche per riconoscere loro gli aumenti contrattuali su cui ancora attendono una risposta. Mentre costoro aspettano che venga approvato il nuovo contratto, noi diciamo loro che del medesimo contratto non ci occupiamo, però i comuni riconosceranno un incentivo a quanti facciano gli alpini e solo se si è residenti in qualche regione determinata. Mi sembra non sia una risposta che il Parlamento possa dare a questi giovani che, com'è stato ricordato in tutti gli interventi, ci rappresentano nel mondo con onore.
Sono diecimila i militari italiani in giro per il mondo. Mi tocca dire che non è che l'opposizione fa demagogia su questo, perché non la fa. Il mio intervento non ha nulla di demagogico, si tratta solo di un elenco di problemi che vi invito a contestare nel merito. Semplicemente è che questo provvedimento rischia di essere letto da parte nostra solo come un provvedimento demagogico, se non c'è un'inversione di rotta radicale. Ho avuto occasione di occuparmi per conto del Governo, nella mia precedente esperienza, di Protezione civile, ed ho incontrato gli alpini in tantissime emergenze, piccole e grandi. Infatti, l'emendamento che destina all'Associazione nazionale alpini 200 mila euro è stato presentato da noi (e ringraziamo anche la maggioranza per averlo accolto) proprio perché riconosciamo questa loro funzione indispensabile nel sistema di Protezione civile di questo Paese; si tratta, infatti, di una grande organizzazione, piena di uomini di esperienza, con professionalità messe al servizio (in maniera volontaria) della collettività ogni volta che serve. Tuttavia, dire questo, dire che l'Associazione nazionale alpini per definizione (perché è previsto da provvedimenti, decreti emanati dalla Presidenza del Consiglio dei ministri con i quali si riconoscono le associazioni che fanno parte della sistema di Protezione civile) vada sostenuta economicamente per questi motivi è qualcosa di diverso rispetto all'istituzione di un'apposita riserva. È uno stato giuridico diverso, è uno stato giuridico di Forza armata, e non credo che noi qui dobbiamo istituire uno stato giuridico per l'Associazione nazionale alpini, che non lo vuole (credo). L'Associazione nazionale alpini è un ente dove vi sono moltissimi settantacinquenni Pag. 14che cucinano la pasta in occasione di calamità naturali, o che hanno il compito di montare i campi e di dare soccorso alle persone. Altra cosa è istituire una riserva dove i quarantenni escono. È un'altra cosa, è una cosa che non serve, va contro la natura e contro l'esistenza stessa dell'Associazione nazionale alpini che funziona bene così com'è. Non c'è bisogno che lo Stato si occupi di come deve funzionare l'Associazione nazionale alpini. Abbiamo deciso di attribuire un contributo finanziario per il loro lavoro? Benissimo, loro sapranno spendere bene questi soldi, sul fronte della Protezione civile, del loro addestramento, dei loro materiali, di ciò di cui hanno bisogno. Altra cosa è cambiare la natura di questo intervento e farne altro. Il Ministro La Russa (che non è un buon Ministro della difesa, questa è la parte politica del mio intervento, ma si limita a questo, e non si tratta di un intervento polemico, in quanto dico solo che non è un buon Ministro della difesa) ha fatto fare uno spot sui 150 dell'unità d'Italia, che noi abbiamo apprezzato nel suo senso. Le Forze armate hanno sempre unito il Paese. Credo che questo sia vero e che questo sforzo delle Forze armate di unire il Paese si sia realizzato anche all'interno delle camerate. Mi ricordo di quando ho fatto il servizio militare. Nella mia camerata c'erano ragazzi che provenivano da tutta Italia. Il servizio militare (oggi la leva prolungata e il servizio nei reparti operativi) unisce il Paese anche in questo, nel mettere insieme ragazzi che provengono da esperienze di vita e da luoghi diversi. Questo è un elemento di ricchezza, non di povertà, del nostro Paese. Se purtroppo il nostro Paese ha una conformazione della disoccupazione per cui i giovani del sud scelgono la carriera militare perché, nonostante la forma di precariato che ricordavo prima, comunque ciò dà una garanzia occupazionale, dobbiamo prendere atto di questo, e non dobbiamo cercare di creare un disoccupato in più al sud, mettendo invece una persona del nord a fare l'alpino perché ha 15 euro in più al mese. Non è questa una risposta politica che si può dare.
Anzi, ho insistito in Commissione per togliere quella norma che era stata inserita e voluta nella proposta di legge della Lega Nord Padania, norma che voleva, in sostanza, che ogni regione del nord avesse almeno un reparto alpino. In sintesi, ciò voleva dire prendere uno dei reparti alpini delle regioni dove storicamente ce ne sono più di uno per spostarlo in Lombardia. Ho insistito perché questo non venga fatto, ma sono anche consapevole che, se oggi dovessimo ridisegnare sulla carta italiana la dislocazione dei reparti militari, non li metteremmo dove sono oggi, ma magari qualche reparto di truppa alpina lo metteremmo al sud. Questo per tanti motivi, se non altro per quelli logistici, per la vicinanza maggiore ai teatri di manovra dove lavoriamo. Penso che la politica militare che riguarda la logistica non debba essere decisa nel Parlamento, ma debba essere fatta dai vertici militari. Penso che il reclutamento sia una forma importante di selezione di un pezzo della classe che serve questo Paese e deve essere realizzato con norme che consentono a tutti di accedervi con pari condizioni, così come prevede la Costituzione.
Penso sia giusto che questo Parlamento si occupi dello status dei militari e della loro possibilità, per chi vuole fare questa scelta, di essere assunti nei limiti del dimensionamento delle Forze armate italiane. Voi, con le vostre scelte, state cambiando la struttura delle dimensioni delle Forze armate italiane, ma non per una scelta precisa state rivedendo la dimensione dei nostri reparti, ma semplicemente perché state strangolando i reparti operativi privandoli delle risorse finanziarie. Ma se di questo si vuole parlare, noi siamo disponibili a parlarne, anzi siamo interessati a parlarne, ma bisogna parlarne con due elementi: l'equità e le risorse. Infatti, parlarne senza il principio dell'equità - e qui già ho detto che questo principio non è riconosciuto - e senza le risorse, dato che ne stiamo parlando con i soldi dei comuni, delle province e delle regioni, vuol dire semplicemente fare uno spot e non credo che su questi temi ci possiamo permettere il lusso di fare degli spot (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Futuro e Libertà per l'Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Di Biagio. Ne ha facoltà.

Pag. 15

ALDO DI BIAGIO. Signor Presidente, illustre sottosegretario, onorevoli colleghi, ci troviamo dinanzi ad una proposta di legge di portata piuttosto tecnica di cui, paradossalmente, la stampa si è occupata poco, ma che presenta aspetti molto interessanti e che vale la pena di approfondire. Le disposizioni in esame sembrerebbero evidenziare, in maniera molto chiara, la differenza di portata culturale che separa Futuro e Libertà per l'Italia dalla Lega Nord Padania, promotrice del progetto stesso, oltre a fornire un'immagine abbastanza chiara e a confermare l'immagine del reale assetto di potere all'interno dell'attuale maggioranza di Governo. I colleghi del PdL sono costretti a votare una proposta di legge che consentirà all'alleato leghista di ostentare la sua capacità di difendere gli interessi del nord a scapito del resto dell'Italia. Un provvedimento bandiera, quindi, ma bandiera verde, come quella che avete sventolato in quest'Aula per festeggiare il federalismo fiscale. Qui non si parla di federalismo, ma di una discriminazione legittimata istituzionalmente su base geografica; una discriminazione che consente a regioni ed enti locali, al fine di incentivare il reclutamento alpino nei rispettivi territori, di riconoscere ai volontari in ferma prefissata e in rafferma, che prestano servizio nei reparti alpini ubicati nel territorio medesimo, benefici di carattere fiscale ed assistenziale. Ciò vuol dire, in sostanza, che chi risiede nelle regioni di reclutamento alpino (quasi tutte situate nel nord Italia tranne l'Abruzzo) e sceglie di entrare nel Corpo degli alpini, oltre ad avere una corsia preferenziale di arruolamento - già, peraltro, prevista per legge -, avrà diritti e benefici fiscali regionali che non spettano, invece, agli alpini non residenti in quella regione. Insomma, nel caso di due alpini volontari in ferma quadriennale di stanza in Trentino che, magari, vivono e lavorano fianco a fianco, colui che è residente in quella regione godrà di uno stipendio netto più alto o di un'agevolazione per l'asilo nido di suo figlio, mentre l'altro, napoletano, no.
Inoltre la proposta di modifica vorrebbe stabilire che il possesso di brevetti di alpinismo, sci e soccorso di montagna ovvero di altri brevetti, attestati e abilitazioni in settori correlati alle attività dei reparti delle truppe alpine, costituisca titolo preferenziale per l'arruolamento e sin qui si può essere d'accordo. Infatti un volontario già esperto di come ci si comporta in montagna è oggettivamente avvantaggiato nel fare l'alpino rispetto a un altro che debba imparare tutto dalle basi. Il testo però vorrebbe estendere il titolo preferenziale per l'arruolamento anche a chi dimostra la sua adesione a organizzazioni di volontariato che operano nei medesimi settori. Ovviamente immaginiamo tutte le associazioni che hanno a che fare in un modo o nell'altro con la montagna che nascerebbero, guarda caso, nelle regioni di reclutamento alpino e che favoriranno, guarda caso, l'arrivo nel Corpo degli alpini dei loro associati. Inoltre, contravvenendo ad ogni principio di uniformità e parità di trattamento proprio dell'esercito, gli alpini volontari in ferma annuale avranno un vantaggio rispetto a tutti gli altri volontari in ferma annuale per l'accesso alla ferma quadriennale. Insomma l'idea di base è quella di arrivare all'istituzione di un esercito del nord. A noi pare impressionante e sembrerebbe rievocare antiche ambizioni legionarie facili da rintracciare in una certa e interessante filmatografia come Il gladiatore di Ridley Scott. Invece c'è il rischio, speriamo, che la nostra preoccupazione sia smentita dalla realtà che nella prossima campagna elettorale per le amministrative qualcuno della Lega esulti dicendo «Ora abbiamo il nostro esercito» o magari rivendicherà la ritrovata purezza etnico-geografica delle gloriose truppe alpine. Il PdL lascia fare piegando il capo di fronte ai desideri dell'alleato. Ma c'è dell'altro: le regioni in base alla proposta di legge in Pag. 16discussione potranno anche decidere di destinare agli alpini residenti riserve di posti nei concorsi banditi in relazione agli impieghi concernenti attività di sicurezza e protezione civile. Detto in altri termini i residenti al nord avranno un percorso agevolato che passando attraverso le truppe alpine li può portare diritti all'impiego pubblico regionale e locale. Prima nei settori della sicurezza e della Protezione civile, poi chissà con un concorso interno si può arrivare a sedersi comodamente ad una scrivania in modo da avere oltre che l'esercito del nord anche corsie preferenziali per la pubblica amministrazione. Secondo Calderoli questo è federalismo. Secondo noi è un modo surrettizio di ripetere al nord gli errori che per decenni sono stati commessi nel sud. In definitiva con queste proposte si stanno cercando condizioni per un conflitto di competenze tra Stato e regioni. L'esercito è una competenza esclusiva dello Stato, in Italia e in qualsiasi realtà federale. Si sta cercando di creare una discriminazione sempre più profonda tra l'alpino autoctono delle alpi e quello forse altrettanto, se non di più, appassionato della montagna e magari del sud. Magari lungo le coste pur tra le difficoltà già poste dalla legge esistente si ostina, disgraziato lui, a volere entrare in questo storico corpo dell'esercito. Infine si sta determinando una pericolosa discriminazione tra i diversi reparti dell'esercito attribuendo agli alpini privilegi altrove sconosciuti. Il gruppo parlamentare Futuro e Libertà proporrà emendamenti che almeno tenteranno di attenuare questa palese discriminazione nella convinzione che non è la provenienza geografica a fare l'alpino ma piuttosto il merito e semmai lo spirito di appartenenza al corpo.
Lo dico da cittadino di questa città, ma che ha portato quel vessillo nazionale consegnatogli dal Presidente della Repubblica in vetta al monte Bianco e sul K2: mi riferisco a quello spirito che se si insisterà nel creare disparità tra gli alpini di «serie A» e quelli di «serie B» rischia di essere irrimediabilmente compromesso. Evitate di fare danni a questo glorioso corpo. Noi vi invitiamo a portare il provvedimento in esame nuovamente in Commissione. Questa consapevolezza legittima la nostra completa e totale contrarietà alla proposta di legge in esame, malgrado la vostra ipocrisia, che vi porta a condividere questa paradossale proposta con inconsistenti buoni propositi e che si configura come una discriminazione arbitraria ed unilaterale e che pretenderà di essere legittimata in questa sede istituzionale (Applausi dei deputati del gruppo Futuro e Libertà per l'Italia).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 607-1897-A)

PRESIDENTE. Ha facoltà di replicare il relatore, onorevole Gidoni.

FRANCO GIDONI, Relatore. Signor Presidente, intanto prendo atto che sono stati preannunciati alcuni emendamenti e pertanto vedremo poi cosa verrà presentato e verrà esaminato in Commissione. Prendo atto delle critiche che sono state fatte e ringrazio il collega Gregorio Fontana per il pieno appoggio dato dal Popolo della Libertà alla proposta di legge in esame. Vorrei rassicurare il collega Di Biagio che la Lega Nord tutto ha in mente tranne che fondare con il provvedimento in esame un proprio esercito. Credo che la preoccupazione della Lega sia fondamentalmente quella di preservare l'attenzione e la cultura di un corpo quale quello degli alpini e soprattutto di agevolarne poi l'operatività nell'ambito della Protezione civile. Per quanto riguarda la riserva di posti la inviterei a fare un giro dalle nostre parti: nell'assegnazione delle case popolari, ad esempio, vi sono punteggi differenziati tra chi è residente da più anni o da meno anni e questo non ha mai comportato sollevazioni o richieste contro la costituzionalità di tali provvedimenti.

Pag. 17

PRESIDENTE. Prendo atto che il rappresentante del Governo rinuncia alla replica.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Testo sostituito con errata corrige volante Discussione della proposta di legge Di Stanislao: Disposizioni per la promozione e la diffusione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà (A.C. 2596-A); e dell'abbinata proposta di legge Mogherini Rebesani ed altri (A.C. 3827) (ore 12,22). Discussione della proposta di legge Di Stanislao: Disposizioni per la promozione e la diffusione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà (A.C. 2596-A); e dell'abbinata proposta di legge Mogherini Rebesani ed altri (A.C. 3287) (ore 12,22).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge d'iniziativa del deputato Di Stanislao: Disposizioni per la promozione e la diffusione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà; e dell'abbinata proposta di legge d'iniziativa dei deputati Mogherini Rebesani ed altri.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi è pubblicato in calce al vigente calendario dei lavori dell'Assemblea (vedi calendario).

(Discussione sulle linee generali - A.C. 2596-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che il presidente del gruppo parlamentare Partito Democratico ne ha chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la IV Commissione (Difesa) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore, onorevole Garofani, ha facoltà di svolgere la relazione.

FRANCESCO SAVERIO GAROFANI, Relatore. Signor Presidente, la proposta di legge oggi all'esame dell'Assemblea è diretta ad individuare una serie di iniziative volte a rafforzare nei cittadini ed in particolare nei giovani la condivisione della cultura della difesa, basata sul rispetto dei valori universali della non violenza e della solidarietà fra i popoli.
Si tratta di un'iniziativa importante in quanto la previsione legislativa di un percorso volto alla comunicazione e che coinvolga le istituzioni nella diffusione e nella promozione della cultura della difesa è di grande rilevanza non solo per rafforzare la partecipazione dei cittadini alle problematiche della difesa e della tutela della pace, ma anche per ricordare il senso più profondo delle motivazioni che sono alla base delle scelte fondamentali della politica di difesa e di sicurezza del Paese. Le motivazioni e i principi, come quelli della solidarietà e della pace di cui abbiamo parlato, sono scritti nella nostra Carta fondamentale e infatti, come sappiamo, l'articolo 11 della Costituzione recita che l'Italia ripudia la guerra sia come strumento di aggressione sia come mezzo di risoluzione dei conflitti; inoltre l'Italia consente, in condizioni di parità con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranità necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni.
In questo contesto si colloca anche la legge 14 novembre del 2000, n. 331, ora confluita nel codice dell'ordinamento militare, che dopo aver ricordato che il compito delle Forze armate italiane è la difesa dello Stato aggiunge che queste possono essere impiegate all'estero al fine della realizzazione della pace e della sicurezza, ma sempre in conformità delle regole del diritto internazionale e alle determinazioni delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia sia membro.
Sulla base di questi principi, nel corso degli ultimi decenni, come sappiamo, si è passato da semplici operazioni della cosiddetta ingerenza umanitaria attraverso l'invio di osservatori internazionali a missioni di mantenimento della pace, di formazione della pace e prevenzione dei conflitti e di costruzione della pace.
Ricordo inoltre come anche la politica estera dell'Unione europea e la sua politica di difesa e sicurezza devono essere prevalentemente Pag. 18orientate alla promozione della pace e alla diffusione dei diritti umani nel mondo.
Lo stesso Trattato sull'Unione europea, così come modificato dal Trattato di Lisbona sottoscritto il 13 dicembre 2007 dai rappresentanti dei 27 Stati membri, stabilisce infatti all'articolo 3 che «l'Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori ed il benessere dei suoi popoli» e aggiunge che «nelle relazioni con il resto del mondo l'Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all'eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite».
Prima di passare al merito del progetto di legge ricordo che il testo al nostro esame origina da due proposte di legge, una delle quali vede come prima firmataria l'onorevole Mogherini Rebesani e l'altro, che è adottato come testo base, è sottoscritto dall'onorevole Di Stanislao.
Devo ricordare anche che esso ha avuto un iter piuttosto anomalo; infatti in un primo tempo sembrava che vi fosse unanimità nella convergenza sui suoi contenuti tanto che l'impegno del relatore appartenente alla maggioranza aveva consentito che maturassero le condizioni per l'approvazione in sede legislativa del provvedimento stesso. Gruppi di maggioranza hanno poi successivamente ritenuto di ritirare il proprio assenso e ciò ha determinato uno stop dell'iter del provvedimento. Si è creata quindi una situazione di stallo che è stata sbloccata con l'avvenuta iscrizione del progetto di legge nel calendario dei lavori dell'Assemblea nella quota richiesta dalle opposizioni.
In sede di conferimento del mandato a riferire all'Assemblea il relatore per la maggioranza, l'onorevole Cicu, ha poi deciso di rinunciare all'incarico che è stato assunto dal sottoscritto.
Oggi ho motivo di ritenere tuttavia che le ragioni di questo percorso abbastanza travagliato non riguardino il contenuto del provvedimento e ritengo che esistano le condizioni per una larga convergenza.
Vengo dunque al merito di questo provvedimento. L'articolo 1 individua le finalità della proposta di legge ossia la promozione, la diffusione e la crescita tra i cittadini della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà.
L'articolo 2 prevede che, nell'ambito delle attività previste per la giornata del ricordo dei caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace, di cui all'articolo 1 della legge 12 novembre 2009, n. 162, le amministrazioni pubbliche possono promuovere, nell'ambito della loro autonomia e delle rispettive competenze, anche mediante il coinvolgimento di enti, istituzioni culturali e organismi associativi e cooperativi, iniziative per la conoscenza, l'approfondimento e la sensibilizzazione sui temi oggetto della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà.
Secondo l'articolo 3 il Ministero della difesa istituisce un premio nazionale annuale per la promozione e la diffusione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà, da assegnare a persone nonché a enti, istituzioni culturali e organismi associativi e cooperativi che si siano distinti per aver compiuto azioni particolarmente meritorie per la promozione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà.
Il premio nazionale è conferito nella giornata del ricordo dei caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace, di cui all'articolo 1 della legge 12 novembre 2009, n. 162 già menzionata.
Ai sensi del successivo articolo 4 presso il Ministero della difesa è istituito il Comitato per la cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà.
Il Comitato è formato da cinque componenti, il cui mandato ha la durata di tre anni, scelti tra personalità che si sono distinte nelle attività di promozione della cultura Pag. 19della difesa, della pace e dei diritti umani, nonché tra esperti e studiosi della materia. I componenti del Comitato sono nominati con decreto del Ministro della difesa. Il Comitato è costituito entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge. Al Comitato sono attribuiti i seguenti compiti: formulare al Ministro della difesa la proposta per la definizione del contenuto del premio, di cui all'articolo 3, e per il relativo conferimento, e proporre il conferimento del patrocinio del Ministero della difesa alle iniziative di cui all'articolo 2 giudicate di particolare rilevanza, senza corresponsione di contributi o altre forme di sostegno finanziario. Il medesimo articolo precisa poi che per la partecipazione al Comitato non spettano emolumenti, indennità o rimborsi spese. Da ultimo, l'articolo 5 precisa che dall'attuazione della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

GIUSEPPE COSSIGA, Sottosegretario di Stato per la difesa. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mazzoni. Ne ha facoltà.

RICCARDO MAZZONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, prima di tutto vorrei fare una piccola precisazione: vorrei fosse chiaro che quando il relatore Cicu ha deciso di dimettersi a causa delle posizioni sull'Afghanistan prese dal gruppo dell'Italia dei Valori, il provvedimento era già stato calendarizzato in Aula in quota all'opposizione, quindi, l'atteggiamento della maggioranza non ha portato a nessun rinvio.
La discussione odierna scaturisce da un testo legislativo le cui finalità generali sono sicuramente meritevoli di attenzione, in primo luogo per i valori che si vogliono diffondere. In qualche modo si tratta di una visione più moderna di valori antichi, penso al concetto di pace. La nostra epoca è caratterizzata da sfide globali e da pericoli tanto estesi quanto difficilmente identificabili in un singolo Stato o territorio. La minaccia terroristica, l'instabilità dell'economia mondiale, le grandi migrazioni e i sommovimenti, per certi versi inaspettati, di Paesi da noi divisi solo da una sottile striscia di mare, sono fattori che hanno portato a declinare il concetto di pace in modo molto diverso rispetto al passato.
La pace in un simile contesto non significa più solo rifiuto della guerra; il vero senso della pace o meglio della cultura della pace è proprio la difesa attiva dei principi che regolano la civile convivenza tra i popoli. È questo il senso profondo del nostro impegno, anche militare, in territori vicini e lontani, ed è profondamente condivisibile che questa nozione di difesa-patria, così strettamente legata come mai in passato all'idea di pace e solidarietà tra le popolazioni sia divulgata e trasmessa soprattutto alle nuove generazioni. Si pensi all'importanza di far comprendere quanto sia necessario il supporto delle Forze armate e di polizia alla ricostruzione della società civile afgana e delle sue istituzioni, al mantenimento dell'ordine internazionale e al supporto logistico per lo svolgimento delle missioni umanitarie e di cooperazione.
Questa è la nuova funzione delle strutture che operano per la difesa nazionale e questi i nuovi compiti che essi svolgono. Aggiungo che si tratta di una dimensione assolutamente non ristretta all'ambito nazionale. Le missioni internazionali del nostro millennio sono iniziate proprio all'insegna della cooperazione tra gli Stati contro un nemico comune qual è quello costituito dalla minaccia terroristica. Qui ritengo utile scindere in modo netto la nozione di pace da quella di pacifismo che ne rappresenta la declinazione strumentale a fini politici. Storicamente il pacifismo italiano e non solo, è stato e resta, infatti, lo strumento politico di coloro che si oppongono all'Occidente e che vogliono disarmarlo di fronte ai suoi nemici, quali essi siano. Penso ai partigiani della pace Pag. 20degli anni Cinquanta che, in nome della pace, difendevano l'Unione Sovietica e il suo espansionismo, e penso al pacifismo arcobaleno dei giorni nostri che vorrebbe una Europa e un Occidente inermi di fronte all'offensiva del fondamentalismo islamico.
La caratteristica del pacifismo occidentale è che parla di pace avendo scopi politici che con la pace nulla hanno a che fare, come prova il fatto che esso riesce a mobilitare le folle solo quando le democrazie occidentali sono coinvolte in una guerra contro qualche tiranno o criminale politico di cui non ha importanza l'ideologia. In tutti questi casi il pacifismo ha sempre scelto di schierarsi contro l'Occidente, e, quindi, implicitamente o esplicitamente, al fianco di dittatori, si chiamino Milosevic, Saddam o Ahmadinejad. Chi avesse dubbi in proposito potrebbe utilmente documentarsi rivedendo qualche puntata di alcuni programmi televisivi della TV nazionale.
Ai professionisti del pacifismo va insomma ricordato ad alta voce che la pace in sé non è un valore supremo, perché senza libertà e senza giustizia la pace diventa un valore del tutto relativo, e per imporre una pace nella libertà è necessario, piaccia o non piaccia, esportare la democrazia, l'unico regime il cui carattere distintivo consiste nella risoluzione pacifica dei conflitti interni e di quelli fra gli Stati. Ma se oggi le democrazie, davanti a Bin Laden, riesumassero lo spirito di Monaco, che nel 1938 spalancò le porte ad Hitler, compirebbero un nuovo sciagurato errore storico.
Per noi, insomma, la presenza dei nostri soldati in Afghanistan è strategica, perché sono là per migliorare la vita delle popolazioni locali, ma anche e soprattutto per difendere la nostra libertà e la libertà di tutto l'Occidente. Dico questo perché si comprenda appieno la posizione del PdL sulla proposta di legge in esame: non è possibile non ravvisare, infatti, una totale e radicale contraddizione tra il nostro concetto di pace e di cultura della pace e della solidarietà e gli atteggiamenti e le affermazioni del gruppo dell'Italia dei Valori, che di questo provvedimento assume la paternità. Ricordo che l'Italia dei Valori non si unisce a quella larga maggioranza parlamentare che sostiene gli impegni internazionali del nostro Paese a favore della pace e della stabilizzazione, anzi, proprio a quella maggioranza il leader dell'Italia dei Valori ha addossato le colpe della morte dei nostri militari.
Si tratta di dichiarazioni inaccettabili, tanto più perché pronunciate in occasione del gravissimo attentato in Afghanistan in cui ha perso la vita l'alpino Massimo Ranzani. Questo ha spinto il PdL ad assumere un atteggiamento di disimpegno su questo provvedimento tradotto nelle dimissioni del relatore, che, pure fino a quel momento, aveva responsabilmente svolto l'incarico di portare avanti due proposte di legge, entrambe dell'opposizione.
Aggiungo che, preso atto delle finalità, restano comunque le perplessità espresse fin dalle prime sedute di Commissione sull'effettiva utilità dell'intervento legislativo. Una legge è certamente anche un'affermazione di principio, ma non deve e non può ridursi solo a quello. L'impressione invece è che questo testo auspichi il realizzarsi di iniziative che in massima parte già ci sono o che comunque potrebbero esserci in base all'ordinaria organizzazione del Ministero della difesa e dei suoi consueti apporti ad altri settori come, ad esempio, quello della didattica.
Inoltre, essa ricalca sostanzialmente i contenuti, di cui all'articolo 1, della legge 12 novembre del 2009, n. 162, che abbiamo approvato proprio per onorare la Giornata del ricordo dei caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace, con attività ed iniziative del tutto similari a quelle che la proposta di legge in esame vorrebbe stimolare. Su questo punto bisognerà dunque fare un'ulteriore e approfondita riflessione.
Signor Presidente, concludo dicendo che il mio gruppo guarda sempre con scettico distacco alle iniziative di chi grida e invoca la pace e dice «viva la pace» intendendo però dire abbasso l'America, abbasso Pag. 21Israele e in definitiva abbasso la cultura occidentale (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Di Stanislao. Ne ha facoltà.

AUGUSTO DI STANISLAO. Signor Presidente, vorrei dire che nel momento in cui ho presentato questa proposta di legge, al mio ingresso in Commissione difesa, avevo solo una convinzione e una certezza che, appunto, si sono rafforzate nel tempo frequentando e comprendendo di più e meglio le iniziative e le direttrici verso cui si muoveva la stessa Commissione.
Chi vi parla è fermamente convinto - e mi dispiace se non è stato capito in questi anni di mia permanenza tanto in Commissione quanto in Parlamento - che la cifra piena e vera di una Nazione passa attraverso la difesa e il welfare. Questi due elementi mi hanno animato nella messa in campo di una proposta di legge che voleva e vuole cogliere alcuni elementi che sono tratti distintivi, ma unificanti, delle parti che siedono in Parlamento e delle parti che rappresentano la nostra comunità nazionale al di fuori del Parlamento.
Ho la convinzione che ognuno di noi possa e debba fare sforzi in questo senso, laddove si va verso elementi che promuovano sempre e comunque elementi legati alla cultura di un popolo, di un Parlamento e anche dei singoli parlamentari piuttosto che della loro appartenenza politica e partitica.
Ritengo che questa proposta, che oggi approda in Aula, sia arrivata attraverso un percorso che ritenevo fino a qualche giorno fa assolutamente sereno e lineare. Infatti, è passato da un coinvolgimento, da una partecipazione e da una condivisione piena dell'intera IV Commissione (Difesa) e da un lavoro fatto. A questo proposito devo veramente ringraziare il collega Cicu, perché con lui abbiamo «riorientato», migliorato e reso completamente agibile quella proposta all'interno della Commissione, affinché vi fosse non solo la piena condivisione, ma la piena consapevolezza delle parti, a partire dalle singole persone che ricoprono il ruolo di parlamentari e poi di rappresentanti politici, rispetto a questa proposta.
Debbo dire che questo lavoro lo abbiamo fatto bene perché non tanto tempo fa questo testo è stato licenziato all'unanimità e devo dire che rappresentava e rappresenta la sensibilità di ognuno di noi, delle parti politiche messe in campo (e anche e soprattutto da parte di chi l'ha proposta), la volontà di fare riconoscere l'intero Parlamento rispetto ad una attività di promozione e di diffusione che passi attraverso la cultura, ma che debba essere un luogo e un territorio comune affinché si facciano azioni che non dividano, ma che piuttosto uniscano.
Quindi, evidentemente si è fatto un buon lavoro e debbo dire che anche la proposta di legge abbinata della collega Mogherini Rebesani ha lavorato anche in questo senso e abbiamo fatto tutti uno sforzo importante. Voglio far capire che il tema della cultura all'interno di uno Stato e di un Parlamento come il nostro non è residuale, ma fondamentale, laddove si va a declinare la cultura all'interno di settori e segmenti che rappresentano noi stessi fuori e dentro la nostra Nazione.
Quando la cultura viene declinata all'interno della difesa e del welfare sta a significare che è la cifra di una nazione, non di Di Stanislao, ma di 60 milioni di abitanti dell'Italia e di altri 60 che si trovano fuori dall'Italia. Sta a significare che noi siamo dentro le questioni e vogliamo rappresentarle nella giusta maniera. Ho sempre pensato, sono sempre stato convinto - prima ancora di entrare in Parlamento e di essere capogruppo in IV Commissione (Difesa) - che la cultura fosse un tratto di condivisione e di unitarietà che dovesse unire nei principi tutte le nostre azioni.
Questa è la volontà che mi ha mosso all'interno di questa proposta di legge, affinché si legasse indissolubilmente tra rappresentanti del Parlamento, cittadini e comunità nazionale uno spirito che andasse alimentato costantemente al di là delle posizioni laicamente espresse. Credo che vadano richiamati in questi casi e Pag. 22soprattutto attraverso questa proposta di legge quegli elementi che ci uniscono piuttosto che quelli che ci dividono.
Ritengo che questo sia un piccolo grande provvedimento se riusciamo a farlo diventare legge e patrimonio di tutti, non solo del Parlamento ma anche e soprattutto della nostra comunità nazionale e - direi di più - anche e soprattutto patrimonio e condivisione delle nuove e per le nuove generazioni.
Questo è il dato che mi ha spinto a presentare, in un certo senso, la prima proposta di legge e, si potrebbe dire, a presentare le mie credenziali attraverso questo testo di legge che voleva significare la volontà di rappresentare alcuni mondi che forse spesso il Parlamento non contempla, perché preso da alcune situazioni che afferiscono, in un certo senso, al recinto della lotta interna parlamentare, che spesso nulla ha a che fare con la comunità nazionale.
È un provvedimento che richiama direttamente le volontà e le aspirazioni delle istituzioni, delle scuole e delle nuove generazioni, ma non solo. Con questo mi riferisco anche a quanto detto, in un saluto del 2008, dal Ministro La Russa, con il quale spesso mi confronto e mi scontro a causa del ruolo che svolge in termini, comunque, sempre culturali. In quella occasione - un incontro di fine anno avvenuto nel dicembre 2008 - riferendosi alla cultura della difesa La Russa parlava proprio di conoscenze e la pensava come me, sebbene non conoscessi affatto La Russa. Pertanto, evidentemente vi è qualcosa che ci lega e ci sono degli elementi che contraddistinguono la nostra comunità nazionale, al di fuori di questo Parlamento.
Dunque questa è la cultura della difesa, ossia quell'insieme di conoscenze che stanno alla base della condivisione consapevole, da parte dei cittadini, delle politiche di sicurezza e di difesa della nazione e, quindi, dell'agire quotidiano delle Forze armate. Il Ministro La Russa in quell'occasione fece un ulteriore riferimento al suo predecessore, il Ministro Parisi, che pure stimo tantissimo, che espresse più volte l'intendimento di favorire la crescita della cultura della difesa. L'allora Ministro Parisi evidenziò la necessità di invertire la tendenza, assicurando al Paese una cultura e una politica della difesa comune e trasversale, perché fino a quando nel campo della difesa e della politica estera non disporremo, al di là di possibili divergenze di valutazione su singole contingenze, di saldi e stabili riferimenti comuni l'Italia non potrà che giocare nel mondo il ruolo di gregario e, per di più, di un gregario sospettato ingiustamente di inaffidabilità.
L'Europa, cari colleghi, si propone di promuovere la pace e di contribuirvi nel resto del mondo, in un'ottica che prevede una missione esterna dell'Unione europea per mantenere la pace, per prevenire i conflitti e per rafforzare la sicurezza.
Ogni Paese che ha democraticamente scelto di aderire all'Unione europea adotta i valori di pace e di solidarietà su cui si fonda la costruzione comunitaria. L'obiettivo di questa proposta di legge è, quindi, la promozione e la diffusione della cultura della difesa, attraverso la pace e la solidarietà all'interno della comunità nazionale con particolare riferimento - evidentemente, come ho già detto - alle nuove generazioni. Questo è il tratto distintivo, la matrice e la fonte di ispirazione di questo provvedimento. Si tratta della cultura della difesa, intesa come integrazione ed esaltazione di tutti quei valori e sentimenti che costituiscono l'identità nazionale, attraverso il riconoscimento del ruolo imprescindibile delle Forze armate in ordine alle attività di tutela e salvaguardia della comunità nazionale e internazionale.
È necessario sottolineare che l'Unione europea ha saputo tradurre in obiettivi definiti e in strutture istituzionali i valori costitutivi della coscienza dei popoli europei, quali i valori della pace e della solidarietà. L'Europa ha indicato al mondo intero un modello per la promozione della pace, l'affermazione dei diritti umani e la diffusione della democrazia.
Ricordo a me stesso e a voi che la stessa Costituzione europea ha stabilito, all'articolo 3, che l'Unione si prefigge di Pag. 23promuovere la pace. Inoltre, nelle relazioni con il resto del mondo l'Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi. Contribuisce, altresì, alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all'eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti del minore, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite.
La politica estera dell'Unione, la sua politica di difesa e di sicurezza sono e devono essere prevalentemente orientate alla promozione della pace, alla costruzione di istituzioni internazionali democratiche e alla diffusione dei diritti umani nel mondo. In attuazione di tali principi occorrono percorsi, contenuti e organizzazioni tesi a favorire il radicamento e la crescita, su scala nazionale e territoriale, di una cultura della difesa e dei suoi presupposti fondamentali, quali l'educazione, il rispetto reciproco, la solidarietà e il riconoscimento delle attività di difesa, tanto in ambito nazionale quanto internazionale, e il suo alto significato sociale.
Una proposta, quindi, tesa a favorire e far crescere la cultura della difesa, quell'insieme di conoscenze atte a diffondere presso l'opinione pubblica la consapevolezza della necessità di dotare il Paese di un apparato in grado di garantire la sicurezza. Questo presuppone evidentemente e necessariamente la necessità da parte del Ministero della difesa di compiere uno sforzo che progressivamente tenda a creare, ravvivare e rafforzare il legame fra nazione e Forze armate. L'orgoglio dell'identità nazionale, l'importanza della difesa, della sicurezza e della libertà, l'idea stessa di patria costituiscono valori e sentimenti condivisi dalle comunità nazionali così come evidenziato da un sondaggio condotto dall'Istituto per gli studi sulla pubblica opinione. Questi rapporti e questi legami devono essere tenuti vivi e rafforzati, specie nei confronti dei più giovani.
Proprio alle giovani generazioni sono principalmente rivolti gli obiettivi di questa legge, la cui promozione e diffusione potrebbe avere spazio anche nelle scuole e negli istituti di ogni ordine e grado, al fine di favorire il radicamento e la crescita nella comunità nazionale di una cultura della difesa e dei suoi presupposti fondamentali quali l'educazione, il rispetto reciproco e la solidarietà.
Andando nello specifico - lo voglio ricordare pur avendolo, forse, già fatto il relatore - l'articolo 1 reca la finalità della legge, tesa a promuovere, diffondere e accrescere la cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà, volta a rendere consapevoli i cittadini delle politiche di sicurezza e di difesa della nazione e dell'azione delle Forze armate, nonché del valore che assumono a tal fine gli accordi sul disarmo, il controllo degli armamenti e le misure di cooperazione e di fiducia reciproca tra gli Stati.
L'articolo 2 prevede che le amministrazioni pubbliche possano promuovere iniziative per la conoscenza, l'approfondimento e la sensibilizzazione sui temi oggetto della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà, nell'ambito delle attività previste per la Giornata del ricordo dei caduti militari e civili nelle missioni internazionali, che cade il 12 novembre.
L'articolo 3 stabilisce che il Ministero della difesa istituisca un premio nazionale annuale, da conferire il 12 novembre e da assegnare a persone, enti o altri soggetti culturali che si siano distinti per aver promosso e diffuso la cultura della difesa, attraverso la pace e la solidarietà. L'articolo 4 istituisce presso il Ministero della difesa il Comitato per la cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà, formato da cinque componenti in carica per tre anni e nominati con decreto del Ministro della difesa, con il compito di formulare al Ministro della difesa la proposta per la definizione del contenuto del premio nazionale annuale e per il relativo conferimento e di proporre il conferimento del patrocinio del Ministero della difesa alle iniziative di cui al precedente Pag. 24articolo 2, senza corresponsione di contributi o altre forme di sostegno finanziario.
L'articolo 5 precisa che dall'attuazione della legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri finanziari e che il Ministero della difesa provvede al funzionamento del Comitato di cui all'articolo 4, nell'ambito delle proprie risorse umane, strumentali e finanziarie.
In definitiva, quindi, una proposta di legge tesa a far vivere, sentire e praticare la cultura della difesa come patrimonio e bene comune da custodire e valorizzare, quale irrinunciabile tratto identitario nazionale.
Voglio concludere, signor Presidente e onorevoli colleghi, dicendo che non possiamo e non dobbiamo perdere un'occasione per riconoscerci e ritrovarci all'interno di questa proposta di legge. A me non interessa che venga approvata la proposta di legge del deputato Di Stanislao, bensì che, attraverso questo, l'intero Parlamento ne faccia patrimonio proprio da destinare alla comunità nazionale e che esso venga indicato e possa raggiungere immediatamente le nuove generazioni.
Mi auguro che tutti insieme si possa superare gli ostacoli di carattere personale, istituzionale e ideologico, per far sentire che il Parlamento è capace di recuperare a se stesso e all'intera nostra comunità nazionale un ruolo di unitarietà, di unanimità, di consapevolezza, di condivisione perché sui principi bisogna stare insieme.
Sulle idee ci possiamo anche dividere, ma se vogliamo mandare un segnale importante - insisto - alle nuove generazioni, forse questa è l'occasione affinché dalla Commissione difesa arrivi in Parlamento un'idea comune di cultura della difesa, della pace e della solidarietà, che possa essere non più predicata ma praticata da ognuno di noi e possa diventare legge dell'intero Parlamento, che ogni deputato dei 630 possa sentire come propria, diventando uno strumento di lavoro operativo da domani in poi all'interno delle scuole e delle istituzioni.
Mi auguro, ringraziando il collega Cicu per il lavoro che ha svolto e per la sensibilità dimostrata, che faccia parte di questo contesto e di questa associazione verso un'apertura della cultura all'interno non solo dell'Aula parlamentare, ma all'interno del Paese, che possa, anche attraverso la presenza dei colleghi del Popolo della Libertà e della Lega Nord, avere uno scatto in avanti in termini di qualità e di presenza. Questo sì oggi rappresenta un punto di riferimento importante, se vogliamo abbattere alcuni steccati che non hanno più ragione di esistere all'interno di questo Parlamento. Abbiamo un'identità, una responsabilità ed una condivisione da mettere in campo, per dimostrare agli italiani e soprattutto alle nuove generazioni che sui principi questo Parlamento, la politica e l'istituzione parlamentare sanno ritrovarsi e sanno indicare ancora la rotta, perché non l'abbiamo smarrita.
Questo progetto di legge può essere non solo un buono strumento di lavoro, ma soprattutto un utile strumento per portare avanti il Paese, la nostra cultura, la nostra educazione e la nostra identità.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Mogherini Rebesani. Ne ha facoltà.

FEDERICA MOGHERINI REBESANI. Signor Presidente, credo che questa proposta di legge offra l'opportunità a quest'Aula di colmare una apparente, grave e fittizia contrapposizione tra la cultura della difesa e la cultura della pace e della solidarietà. Ci offre l'opportunità di superare un luogo comune che vuole contrapporre il mondo e l'azione militare oggi a quello che per semplificazione chiamiamo pacifismo.
Temo che le parole del collega Mazzoni del Popolo della Libertà ci abbiano confermato purtroppo quanto sia esteso il ricorso a questo luogo comune e anche pericoloso. Infatti, sinceramente credo che siano diversi decenni che non si vede più la ragione per cui debbano essere incompatibili e contrapposti i termini di cultura della difesa e di cultura della pace. Pag. 25
Può essere, quindi, un'occasione inedita ed importante per mettere in collegamento più diretto ed esplicito il mondo delle Forze armate con quello associativo, con i tanti movimenti per la pace e la cooperazione internazionale che mobilitano e tengono insieme, in rete, enti locali, organizzazioni umanitarie, comunità religiose e singoli cittadini. Sono mondi che talvolta appaiono inconciliabili ed espressione di culture di riferimento che si presume siano incompatibili e che, invece, con gli anni hanno dimostrato di essere in grado di svolgere un lavoro concreto e sviluppato in comune, soprattutto nell'ambito delle missioni italiane all'estero.
Abbiamo sperimentato, infatti, come siano crescenti i punti di contatto e i terreni di collaborazione possibili tra Forze armate e mondo della cooperazione. È importante che questa collaborazione si approfondisca in un confronto aperto e libero, che può contribuire ad offrire al Paese intero un'idea più moderna e più efficace delle nostre politiche per la sicurezza e la difesa, come strumenti che appaiono posti al servizio della pace e della solidarietà internazionale.
L'Italia è, infatti, come tanti altri Paesi al mondo, chiamata a confrontarsi con un nuovo contesto internazionale, nuovo poi soltanto per modo di dire, perché sono almeno un paio di decenni che nuovo non è. È un contesto attraversato da minacce che non sono più quelle classiche del mondo militare, ma minacce asimmetriche, come quella del terrorismo, del riemergere di particolarismi etnici e religiosi o di spinte secessioniste, come nel cuore dell'Africa.
A questo si accompagnano i rivolgimenti che stanno investendo il nord Africa e il mondo arabo alle porte dell'Europa, ai quali chiaramente non dovremmo essere indifferenti, come invece purtroppo questo Governo, almeno per le prime settimane, si è mostrato. È una rivolta popolare, laica e giovane, che travolge regimi autocratici e che invoca libertà, democrazia, partecipazione popolare, modernizzazione e sviluppo. Sono rivolte diverse tra loro che offrono certamente grandi opportunità, ma che contribuiscono a rendere complesso lo scenario internazionale che ci dobbiamo porre l'obiettivo di governare in qualche modo, se non altro per la nostra continuità geografica rispetto a quell'area.
Di fronte alla complessità delle minacce alla sicurezza, è evidente che queste minacce non sono più prevalentemente militari, ma tutt'altro. La risposta, quindi, per essere efficace e rilevante non può mai essere unicamente militare. Ed è per questo che credo che le Forze armate siano le prime ad essere consapevoli che tra cultura della difesa, cultura della pace e della solidarietà non c'è mai contrapposizione, ma piuttosto sinergia e complementarietà.
È per questo, quindi, che è importante oggi riconoscere che il ruolo strategico delle Forze armate è quello di essere strumento di costruzione e promozione della pace. Si tratta di una evoluzione storica che ormai dovrebbe essere consolidata; per questo, stupiscono le parole dei colleghi del Popolo della Libertà, perché si tratta di un'evoluzione storica positiva che pone le sue basi nel dettato dell'articolo 11 della nostra Costituzione, come giustamente ricordava il relatore.
L'intervento delle Forze armate non è più uno strumento di offesa, ma di sostegno alle politiche di cooperazione e di risoluzione dei conflitti attraverso la diplomazia, il dialogo tra le parti e il supporto ai processi di nation building. Promuovere la cultura della difesa nel ventunesimo secolo significa, quindi, inevitabilmente promuovere la cultura della pace e della solidarietà, e, viceversa, promuovere la cultura della pace e della solidarietà, data la complessità degli scenari e le minacce che attentano alla nostra sicurezza, significa costruire una cultura della difesa.
Le due cose si tengono insieme in modo inscindibile. Si tratta, oltretutto, di un obiettivo, quello di collegare i due concetti, che - è utile ricordarlo - è posto alla base dello stesso progetto di integrazione europea. Infatti, il Trattato sull'Unione europea stabilisce, all'articolo 3, che l'Unione si prefigge di promuovere la pace, i suoi valori e il benessere dei suoi popoli. Nelle relazioni Pag. 26con il resto del mondo l'Unione afferma e promuove i suoi valori e interessi, contribuendo alla protezione dei suoi cittadini. Contribuisce alla pace, alla sicurezza, allo sviluppo sostenibile della Terra, alla solidarietà e al rispetto reciproco tra i popoli, al commercio libero ed equo, all'eliminazione della povertà e alla tutela dei diritti umani, in particolare dei diritti dei minori, e alla rigorosa osservanza e allo sviluppo del diritto internazionale, in particolare al rispetto dei principi della Carta delle Nazioni Unite.
Discutere ed approvare questa proposta di legge significa, quindi, dare più credibilità e sostegno all'azione delle Forze armate; certamente non ne hanno bisogno, ma il nostro ruolo è rafforzarlo ulteriormente. Credo che le Forze armate siano le prime ad essere consapevoli che il loro impegno è quello di forze di pace.
Occorre, quindi, dare credibilità e sostegno alle Forze armate e, contemporaneamente, dare credibilità, sostegno e riconoscimento ai tanti protagonisti del mondo associativo e della società civile che operano nel nostro Paese e fuori da esso nei tanti teatri di crisi in giro per il mondo, portando, come i nostri militari, competenze ed esperienze al servizio di programmi di cooperazione e sviluppo, di missioni di peacekeeping, di interventi di ricostruzione materiale delle istituzioni e delle infrastrutture.
Senza l'operato di queste associazioni e di queste realtà di pace anche l'operato delle nostre Forze armate, anch'esso di pace, in questi scenari sarebbe più difficile e meno efficace. Serve sinergia tra questi due contesti e non contrapposizione. La proposta di legge oggi in discussione prevede poi, giustamente, oltre al riconoscimento e alla valorizzazione del ruolo delle Forze armate, anche la promozione degli accordi sul disarmo e sul controllo degli armamenti, e più in generale di tutte le misure di cooperazione e fiducia reciproca tra gli Stati.
Credo che i temi del disarmo e della non proliferazione nucleare, e più in generale la messa al bando delle armi di distruzione di massa e la promozione di strumenti internazionali di controllo degli arsenali, siano tanto più oggi decisivi per assicurare un'effettiva promozione della pace stabile e duratura nel mondo. Sostenere i processi di cooperazione tra gli Stati in materia di disarmo e di non proliferazione è dunque una priorità, che ha bisogno di una consapevolezza e di un sostegno tra i cittadini molto più diffusi di quanto non siano oggi.
Questa proposta di legge incoraggia, quindi, le istituzioni ad ogni livello territoriale a fare la propria parte in questo senso. Voglio ricordare come il Parlamento italiano, proprio sui temi del disarmo e della non proliferazione nucleare, sia riuscito, nel corso di questa legislatura - che pure non ha brillato per capacità di intese bipartisan, anzi - ad offrire comunque un suo contributo molto avanzato, approvando in due occasioni, con una convergenza unanime di tutte le forze politiche, degli atti di indirizzo molto importanti per incoraggiare il Governo italiano a fare la propria parte nelle sedi multilaterali internazionali, favorendo progressi concreti verso un mondo libero da armi nucleari. Faccio un inciso: il Parlamento ha raggiunto ampie ed importanti convergenze; l'uso che poi il Governo ne ha fatto, sinceramente, può essere discusso nell'efficacia della sua proiezione internazionale.
Comunque, per quello che potevamo, in questa sede un contributo importante lo abbiamo dato.
In questo ambito bisogna ricordare che l'impegno delle istituzioni è stato accompagnato in questi anni dalla mobilitazione di tante energie della società civile impegnate nella promozione della cultura della pace e della solidarietà internazionale.
Da ultimo, è utile ricordare l'esperienza della mostra «Senzatomica», promossa dall'Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai, che è stata presentata nei giorni scorsi proprio qui alla Camera dei deputati e che vedrà la sua prima tappa a Firenze proprio nei prossimi giorni.
Promuovere una maggiore consapevolezza tra i cittadini della cultura della difesa come cultura di pace e di solidarietà, Pag. 27e non come contrapposta ad una cultura di pace e di solidarietà, è l'obiettivo di fondo che anima la proposta di legge in esame che, tra l'altro, si collega alle previsioni già contenute nella legge n. 162 del 2009 con cui è stata istituita la «Giornata del ricordo dei caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace», giornata che ricorre ogni 12 novembre.
Come è noto, la suddetta legge prevede, oltre ad un ruolo di tutte le amministrazioni pubbliche nel promuovere cerimonie commemorative e occasioni di studio e riflessione, anche un impegno specifico del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca a premiare annualmente i venti migliori progetti realizzati da studenti di istituti superiori di secondo grado e aventi ad oggetto di approfondimento il sacrificio dei caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace e la fratellanza e la cooperazione tra i popoli.
La proposta di legge che discutiamo oggi integra questi impegni istituendo presso il Ministero della difesa un premio nazionale annuale per la promozione e la diffusione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà.
In quest'ambito, l'auspicio è che la proposta di legge in oggetto favorisca il rilancio di un impegno di tutte le istituzioni nella promozione della cultura della pace, recuperando lo spirito e l'ispirazione che hanno animato in passato tante iniziative come, ad esempio, quella del programma nazionale «La pace si fa a scuola», istituito nell'ottobre 2007 dall'allora Ministro della pubblica istruzione sulla base di un manifesto programmatico sottoscritto a Perugia insieme al custode della basilica di San Francesco ed al Ministro generale dei frati minori conventuali.
Penso, inoltre, ad esperienze più attuali, come il programma nazionale di educazione alla pace e ai diritti umani «La mia scuola per la pace», promosso per l'anno scolastico in corso dal coordinamento nazionale degli enti locali per la pace e i diritti umani e dalla tavola della pace.
Un programma, quest'ultimo, oltretutto promosso con l'ambizione di valorizzare la doppia ricorrenza che cade nel 2011: i 150 anni dell'unità d'Italia e il 50o anniversario della marcia per la pace Perugia-Assisi.
Sulla scorta di queste e di tante altre esperienze realizzate dagli enti locali e dal mondo associativo in tutta Italia, e non solo nelle scuole, con la proposta di legge in esame si intende, quindi, attivare un ruolo d'iniziativa analogo di stimolo positivo anche da parte del Ministero della difesa perché è evidente, credo, che sanare l'apparente contrapposizione tra cultura della difesa e cultura della pace serva a tutti, a chi opera nel contesto militare, a chi opera nel contesto civile, a chi opera in Italia e a chi opera nei teatri internazionali. Creare, quindi, quella sinergia che sola può portare una reale ed efficace risposta ed una reale ed efficace difesa dell'Italia di fronte alle complesse minacce alla sicurezza che il mondo di oggi ci pone (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gidoni. Ne ha facoltà.

FRANCO GIDONI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, giunge oggi in Parlamento anche la proposta di legge n. 2596, di iniziativa del deputato Di Stanislao, con la quale egli ha voluto sollecitare l'abbinamento di iniziative per la promozione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà alle celebrazioni della Giornata del ricordo dei caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace. In sé non si tratta certamente di una cattiva idea. Sfido chiunque a trovare qualcuno che possa opporsi a finalità politiche così elevate.
Riteniamo positiva soprattutto la circostanza che nel dispositivo si preveda la coincidenza delle iniziative incentivate con il 12 novembre perché, in questo modo, ne uscirà enfatizzato il rapporto tra l'obiettivo della pace e quanto fanno i nostri soldati nei teatri di crisi.
Il pensiero corre, evidentemente, ancora una volta, ai nostri più recenti sacrifici e, Pag. 28in particolare, alla figura del capitano Massimo Ranzani, ucciso da una mina mentre rientrava proprio da un intervento umanitario nei pressi di Shindand.
Naturalmente sarà necessario, in sede di attuazione del suddetto provvedimento, far sì che la promozione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà non venga utilizzata per alimentare improvvidi antagonismi tra funzioni civili e militari che sono ormai un lontano ricordo o, peggio ancora, per alimentare polemiche dannose su ciò che i nostri soldati fanno nel mondo in difesa della pace.
Collega Mogherini Rebesani, mi permetta, non sono così sicuro che ciò non avvenga perché, vede, non è possibile a questo proposito non ricordare come oggi, in quest'Aula, non riferisca sui contenuti del provvedimento il parlamentare originariamente designato a farlo, ovvero il collega Cicu che proprio in extremis ha ritenuto necessario rassegnare il proprio mandato in segno di protesta per le dichiarazioni rese dall'onorevole Di Pietro a margine della morte del capitano Ranzani.
Quella non è stata certamente una bella pagina tanto più che giunta in coincidenza con la conclusione dell'iter di un provvedimento che fino ad allora era stato caratterizzato da un clima sostanzialmente disteso e collaborativo.
Noi ci auguriamo che proprio dall'approvazione di questo provvedimento, che reca la firma dell'onorevole Di Stanislao, si possa partire per guardare con maggiore serenità ed obiettività alle nostre missioni di pace all'estero e, comunque, per respingere una visione che le considera come veri e propri atti di guerra ai danni della libertà di altri popoli. Infatti, come è ben noto, questo non sono ed, anzi, sono proprio l'esatto contrario.
Per questo motivo e con questo auspicio la Lega Nord sosterrà l'approvazione della presente proposta di legge.

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e, pertanto, dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche del relatore e del Governo - A.C. 2596-A)

PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore e il rappresentante del Governo rinunciano alla replica.
Il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Sull'ordine dei lavori (ore 13,11).

ERMETE REALACCI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ERMETE REALACCI. Signor Presidente, abbiamo già avuto modo di ricordare in Aula che vi è un problema molto serio che riguarda il recepimento della direttiva europea sulla promozione delle fonti rinnovabili, realizzato dal Governo attraverso l'approvazione dello schema di decreto legislativo. Tale schema di decreto legislativo di recepimento non ha in realtà recepito quelli che erano i pareri votati all'unanimità dalla Commissione ambiente e dalla Commissione attività produttive della Camera e, analogamente, dalla Commissione territorio, ambiente, beni ambientali del Senato.
Il risultato è stato un provvedimento che, come temevamo, sta gettando nell'assoluta paralisi un settore strategico del nostro Paese, quello delle fonti rinnovabili, in cui vi è stato uno sviluppo molto elevato e sono coinvolte migliaia di imprese e decine di migliaia di posti di lavoro. Le proteste arrivano da tutta Italia. Ho tra le mani, signor Presidente, proteste che arrivano dall'ex presidente dell'Unione degli industriali della provincia di Treviso, dal vicepresidente della Confindustria di Perugia, dalla CNA, dalla Confartigianato, e dalle imprese - penso ad esempio la Power-One di Arezzo - che, tra diretto e indotto, hanno oltre duemila occupati.
In sostanza si è bloccato un settore, che non solo è necessario per raggiungere gli obiettivi che ci siamo dati in sede di Unione europea, Pag. 29ma che è un settore competitivo e avanzato della nostra economia, che non solo ha messo in moto imprese oramai di una certa rilevanza, ma un estesissimo terreno di riqualificazione delle imprese esistenti: piccole imprese, artigiani, professionisti e installatori, una vera e propria filiera che nella crisi ha consentito di reggere e di tenere.
Il richiamo al Governo, signor Presidente, è perché comprenda che è necessario dare rapidamente nuove regole che garantiscano al tempo stesso il progressivo ingresso nel mercato di queste fonti, riducendo gli incentivi, ma garantisca certezza per quello che riguarda l'erogazione di questi stessi incentivi, la semplificazione delle procedure, insomma non si può fermare un settore strategico per il Paese.
Per questo la preghiamo, signor Presidente, di far pervenire al Governo queste nostre preoccupazioni - peraltro condivise da esponenti di vari gruppi parlamentari - e anche di invitare il Governo a riferire in Parlamento perché, se i lavori del Parlamento vengono ignorati dal Governo anche in settori così delicati, è chiaro che si rischia di produrre delle leggi che non servono al Paese, ma che lo danneggiano (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Sospendo la seduta, che riprenderà alle ore 14,30.

La seduta, sospesa alle 13,15, è ripresa alle 14,35.

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, il deputato Cossiga è in missione a decorrere dalla ripresa pomeridiana della seduta.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente quarantasei, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Discussione della proposta di legge: S. 10-51-136-281-285-483-800-972-994-1095-1188-1323-1363-1368 - D'iniziativa dei senatori: Ignazio Roberto Marino ed altri; Tomassini ed altri; Poretti e Perduca; Carloni e Chiaromonte; Baio ed altri; Massidda; Musi ed altri; Veronesi; Baio ed altri; Rizzi; Bianconi ed altri; D'Alia e Fosson; Caselli ed altri; D'Alia e Fosson: Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento (Approvata, in un testo unificato, dal Senato) (A.C. 2350-A) e delle abbinate proposte di legge: Binetti ed altri; Rossa ed altri; Farina Coscioni ed altri; Binetti ed altri; Pollastrini ed altri; Cota ed altri; Della Vedova ed altri; Aniello Formisano ed altri; Saltamartini ed altri; Buttiglione ed altri; Di Virgilio ed altri; Palagiano ed altri. (A.C. 625-784-1280-1597-1606-1764-bis-1840-1876-1968-bis-2038-2124-2595) (ore 14,40).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione della proposta di legge, già approvata, in un testo unificato, dal Senato, d'iniziativa dei senatori Ignazio Roberto Marino ed altri; Tomassini ed altri; Poretti e Perduca; Carloni e Chiaromonte; Baio ed altri; Massidda; Musi ed altri; Veronesi; Baio ed altri; Rizzi; Bianconi ed altri; D'Alia e Fosson; Caselli ed altri; D'Alia e Fosson: Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento; e delle abbinate proposte di legge Binetti ed altri; Rossa ed altri; Farina Coscioni ed altri; Binetti ed altri; Pollastrini ed altri; Cota ed altri; Della Vedova ed altri; Aniello Formisano ed altri; Saltamartini ed altri; Buttiglione ed altri; Di Virgilio ed altri; Palagiano ed altri.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi per lo svolgimento della discussione sulle linee generali è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta dell'Assemblea del 2 marzo 2011.

Pag. 30

(Annunzio di questioni pregiudiziali - A.C. 2350-A)

PRESIDENTE. Avverto che prima dell'inizio della discussione sulle linee generali sono state presentate le questioni pregiudiziali di costituzionalità Palagiano ed altri n. 1 e Farina Coscioni ed altri n. 2 (Vedi l'allegato A - A.C. 2350-A).
Poiché tali questioni pregiudiziali non sono state preannunciate nella Conferenza dei presidenti di gruppo in sede di definizione del calendario, le stesse saranno discusse e votate prima di passare all'esame degli articoli della proposta di legge.

(Discussione sulle linee generali - A.C. 2350-A)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari Unione di Centro e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Avverto, altresì, che la XII Commissione (Affari sociali) si intende autorizzata a riferire oralmente.
Il relatore per la maggioranza, onorevole Di Virgilio, ha facoltà di svolgere la relazione.

DOMENICO DI VIRGILIO, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la proposta di legge n. 2350-A, già approvata in un testo unificato dal Senato, giunta alla XII Commissione (Affari sociali) ed ora all'esame di questo Parlamento, rappresenta - e so di affermare una riflessione condivisa - un progetto di legge che ha suscitato e suscita tante discussioni, dibattiti, convegni e commenti in tutto il Paese, sia da parte di singoli cittadini che di organizzazioni sociali e scientifiche.
Ciò sta a dimostrare la delicatezza ed anche la complessità dell'argomento del quale ci stiamo interessando ed anche una logica e prevedibile differenza di opinioni.
Il Parlamento è chiamato ad esprimersi senza condizionamenti e logiche precostituite. Pertanto, desidero manifestare la mia soddisfazione anche per il dibattito libero, dialogante, ampio e senza costrizioni che si è svolto in sede di Commissione affari sociali.
Oltre che la soddisfazione desidero esprimere anche gratitudine a tutti coloro che sono intervenuti per il loro contributo.
Desidero ora prioritariamente esprimere alcune considerazioni di tipo, diciamo così, politico. La nostra Costituzione, più volte e da tutti gli interventi richiamata, riconosce nella nostra Repubblica il bicameralismo (articolo 55). Ciò significa che il lavoro svolto da una delle due Camere non può essere disatteso o ignorato dall'altra.
Per questo sono convinto che non avremmo potuto non tener conto del lungo e fattivo lavoro svolto su questo tema dal Senato che ha portato all'approvazione di un testo che, insieme a tutte le altre proposte di legge, abbiamo esaminato in sede di Commissione XII (Affari sociali).
Desidero ricordare sommariamente che la discussione su questo tema in sede di XII Commissione del Senato è stata ampia e anche vivace e si è estesa dal 1o ottobre 2008 al 19 febbraio 2009, quando è stato elaborato il testo base dopo numerosi e profondi interventi e un confronto tra maggioranza e opposizione.
Nel testo trasmessoci è stato recepito anche e significativamente molto di quanto i senatori dell'attuale opposizione hanno proposto (si veda l'articolo 1). In Aula al Senato ci sono state circa 70 votazioni a scrutinio segreto con un voto favorevole più largo rispetto ai numeri esprimibili dalla maggioranza. Anche per questo, dopo un attento esame, certamente non frettoloso, ho proposto di adottare in sede di Commissione il testo del Senato modificato, in modo significativo, a mio modo di vedere, da sei miei emendamenti e da altri presentati da altre componenti della XII Commissione. Pag. 31
Da tutto ciò scaturiscono alcune mie osservazioni. In merito alla prima considerazione desidero innanzitutto ricordare alcuni punti che ho chiaramente espresso nella mia relazione introduttiva e offrire alcune risposte a molte riflessioni anche di opposta valenza.
Dicevo nella mia relazione introduttiva e lo ripeto ora che è indubbio, e lo ricorda una storia millenaria, che il diritto alla vita è sempre stato garantito in tutte le società, trattandosi di un principio fondamentalmente laico e quindi comune a tutte le culture e civiltà, così che anche un paziente in stato vegetativo permanente è una persona gravemente disabile ma sempre persona rimane, con la sua dignità umana fondamentale, alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate che comprendono in linea di principio anche la somministrazione di acqua e cibo, anche per vie artificiali.
Questi casi eccezionali, infatti, nulla tolgono al principio etico generale secondo il quale la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avviene per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico, come affermato anche da alcuni interventi di qualificati rappresentanti. Il suo uso sarà, quindi, da considerarsi ordinario e proporzionato anche quando lo stato vegetativo si prolunghi.
Desidero ricordare che in Italia sono circa tremila i soggetti che attualmente si trovano in questo stato, con problematiche sociali, economiche ed organizzative che pesano fortemente sulle famiglie, che non solo non possono essere lasciate sole (e questo sarebbe grave e inammissibile) ma vanno sostenute in ogni modo e da subito.
Per questo ho presentato un emendamento che impegna il Governo e le regioni ad adottare misure concrete di supporto (nell'ambito dell'articolo 5), che si sta verificando proprio in questi giorni.
Seconda considerazione: il principio del consenso informato nel campo delle cure mediche e la consapevolezza che ogni persona ha il diritto di essere protagonista delle scelte riguardanti la propria salute (sia nel senso di accettare sia nel senso di rifiutare l'intervento medico) sono andati progressivamente affermandosi nella cultura della nostra società. La stessa Corte costituzionale ha sentenziato che il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell'articolo 2 della Costituzione (che ne tutela e promuove i diritti fondamentali), e negli articoli 13 e 32 (i quali stabiliscono, rispettivamente, che la libertà personale è inviolabile, e che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge).
Nel rispetto dell'articolo 32 della nostra Costituzione possono essere espresse, quando si è in grado di intendere e di volere, rinunce all'attivazione di qualsiasi trattamento sanitario: chi vorrà potrà scegliere di non curarsi, anche se questa scelta accelererà il decorso della patologia in atto e, quindi, anche il suo possibile cammino verso la morte.
La Convenzione sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina, approvata dal Consiglio d'Europa ad Oviedo nel 1997 e ratificata dall'Italia ha affermato, all'articolo 5, che qualsiasi intervento medico non può essere effettuato senza il consenso della persona. Anche il codice di deontologia medica adottato dalla FNOMCeO (Federazione nazionale dei medici chirurghi e odontoiatri) precisa (all'articolo 33) il diritto del malato a ricevere la più idonea informazione da parte del medico, affermando altresì, all'articolo 38, testualmente: il medico deve attenersi, nell'ambito dell'autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa dalla persona di curarsi, e di agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa. Sempre nello stesso articolo: il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato (proprio come afferma la Convenzione di Oviedo all'articolo 9, e come chiaramente Pag. 32espresso nel rapporto esplicativo - punto 62 - sull'articolo 9 della stessa Convenzione).
Non è, quindi, affatto veritiero quanto da alcuni sostenuto che il medico abbia pieni poteri sul nostro corpo e che lui possa decidere di non tenere conto della nostra volontà. La verità vera è proprio il contrario. Questa legge prevede chiaramente che il medico debba tener conto - ripeto, come recita l'articolo 9 della Convenzione di Oviedo - di quanto espresso in precedenza, ma il medico non può essere vincolato in modo assoluto ad esso (ed è bene ribadirlo) nell'esclusivo bene del paziente. Quando, nell'arco di tempo trascorso dal momento della sottoscrizione della DAT, il progresso scientifico metta a disposizione dell'attuale malato rimedi allora non prevedibili il medico non può non proporli ed utilizzarli per tentare (cosa impossibile in precedenza) di ripristinare la salute e ottenere comunque un miglioramento della patologia in atto.
L'autodeterminazione allora sarà, sì, un valore rispettato perché il bene del paziente è prevalente su qualsiasi altra considerazione. Il rifiuto delle cure ha effetti giuridici vincolanti se formulato da persona cosciente nello stesso momento in cui le cure devono essere decise. Le DAT invece non possono vincolare il medico in caso di successiva perdita permanente di coscienza del paziente: primo, perché non sappiamo quale sarebbe stato l'atteggiamento di quest'ultimo nella attualità della terapia da avviare; secondo, perché il medico non può svolgere azione di informazione ed eventualmente di persuasione in direzione della cura ora possibile per il progresso scientifico come registrato; terzo, perché il diritto alla salute è certamente prevalente rispetto al rifiuto delle cure; quarto, perché la cura non richiede mai l'uso di mezzi violenti.
Nessuno vuole tenere in vita forzatamente un individuo destinato a morire, ma neanche abbreviare volutamente la sua vita. Occorre, invece, rispettarne sempre la fine naturale.
È vero che, con il progresso tecnologico, mediante sistemi ed apparecchiature altamente sofisticate, come si legge anche nell'enciclica del compianto Giovanni Paolo II, «oggi la scienza e la pratica medica sono in grado non solo di risolvere casi precedentemente insolubili, ma anche di sostenere e procrastinare la vita perfino in casi di debolezza estrema». Ma occorre dire chiaramente che, quando la morte si annuncia come imminente ed inevitabile, si può in coscienza rinunciare a trattamenti che provvederebbero soltanto ad un prolungamento precario e penoso della vita. E, come dice l'attuale Pontefice, la fine naturale della vita è quella alla quale una persona va incontro nonostante il ricorso a mezzi di cura proporzionati. La rinuncia, invece, a mezzi sproporzionati, quindi inutili e dannosi, non equivale al suicidio o all'eutanasia, ma esprime piuttosto l'accettazione della condizione umana di fronte alla morte.
Terza considerazione: il diritto di libertà della persona, per quanto attiene alle scelte relative alle cure, incontra oggettive limitazioni nelle circostanze in cui la persona venga a perdere la capacità di decidere ovvero di comunicare le proprie decisioni.
Proprio per garantire il diritto al consenso informato, anche in questi casi, si è reso necessario prevedere uno strumento nuovo che consenta alla persona, finché si trova nel possesso delle sue facoltà mentali, di dare disposizioni per l'eventualità e per il tempo nel quale tali facoltà fossero gravemente scemate o scomparse.
A scanso di equivoci, comunque, il medico, anche in queste situazioni, deve dire sempre di no all'eutanasia, all'abbandono terapeutico e all'accanimento terapeutico, come anche chiaramente affermato nel Codice di deontologia medica agli articoli 16 e 17.
È, però, fondamentale, comunque, che, anche ai malati terminali, sia garantito l'accesso alle cure palliative e alle terapie del dolore che riteniamo assolutamente irrinunciabili. Da qui l'emendamento da me proposto di aggiungere al testo dell'articolo 1, dopo il comma 2, un comma a questo riguardo. Pag. 33
Deve essere, poi, chiaro che nessun trattamento sanitario deve essere sproporzionato e, quindi, mai e poi mai accanimento terapeutico. Il dovere terapeutico non è incondizionato, ma subordinato al bene fondamentale della vita, il cui mantenimento e la promozione non coincide semper et pro semper con la sconfitta della malattia, ma ha un valore più ampio che include dimensioni fisiologiche, psicologiche, spirituali, familiari e sociali.
In ragione di questo, la medicina, nel suo esercizio pratico, non contempla solo la prevenzione, la diagnosi e la terapia delle malattie, ma anche il prendersi cura della persona. Per il medico, curare e prendersi cura, procedimenti assolutamente insostituibili ed irrinunciabili, significa talora instaurare dei trattamenti che non sono terapie, ossia che non hanno come oggetto formale la patologia in atto nel paziente e come scopo la sua remissione, il controllo del suo decorso o la prevenzione delle sequele. Molte malattie possono e devono essere trattate, ma non è detto che ne consegua sempre la guarigione. Il prendersi cura non ha come oggetto formale la patologia in atto o la sua remissione o la prevenzione di sequele. In questa dimensione, ogni malato è sempre curabile, senza mai ricorrere a terapie sproporzionate ed è sempre oggetto del prendersi cura.
Tali trattamenti si rendono, invece, opportuni ed indispensabili per consentire l'espletamento delle funzioni fisiologiche che non possono più essere espletate senza l'ausilio di tali presidi. Non si tratta, in questi ed altri casi, di contrastare con una terapia il diffondersi di un'infezione, l'insorgere di un processo flogistico o la metastatizzazione di un tumore, ma di consentire la continuazione della vita del soggetto mediante la somministrazione di quei fattori che sono indispensabili per la fisiologia del corpo e dai quali tutti, sani e malati, siamo dipendenti dalla nascita alla morte.
Privare di essi un paziente, che è ancora in grado di farne uso per il suo metabolismo, non significa allora sospendere una terapia, ma non prendersi più cura di un malato; un'azione, quella dell'abbandono di una persona non fisiologicamente autosufficiente, che è sempre un male.
Idratazione e nutrizione, anche artificiali, sono sempre da considerarsi sostegni vitali anche se richiedessero tecniche sofisticate per essere adeguatamente attuate. Vale la pena ricordare qui l'articolo 39 del Codice di deontologia medica che, testualmente, recita: «in caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile evitando ogni forma di accanimento terapeutico».
Da queste considerazioni è scaturito il mio emendamento al comma 5 dell'articolo 3 ove, rispetto al testo del Senato, è previsto che idratazione ed alimentazione devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultano non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo.
Comunque nelle DAT non si può chiedere la sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione perché ciò equivarrebbe a procurare la morte non per il decorso naturale della malattia da cui si è afflitti ma per fame e per sete, e quindi ciò equivarrebbe ad introdurre l'eutanasia e il suicidio assistito nel nostro sistema.
Ma esiste anche un altro grave rischio, che spesso è sottovalutato o non percepito, ed è quello dell'abbandono terapeutico, un rischio grande, che nasce dalla crescente conflittualità, dalla paura dei medici, dalla sfiducia dei pazienti e dei familiari e che a volte portano il medico a mettersi sulla difensiva.
Desidero, inoltre, sottolineare che la DAT nel testo che è stato approvato con equilibrio dal Comitato nazionale per la bioetica non vincolante per il medico ci sembra la via giusta da percorrere.
Questo non significa che il medico debba riacquistare quel paternalismo assoluto o quel potere assoluto dei decenni passati, anche perché esiste l'importante norma del consenso informato e questo Pag. 34non vincolare in modo assoluto il medico lascia uno spazio vitale alla scienza e alla coscienza del medico. Il paziente ha sì il diritto di essere curato nel modo migliore dai medici ma non ha il diritto di chiedere la morte perché la vita e la salute sono beni indisponibili tutelati dallo Stato.
In ossequio a quanto sancito nella Costituzione italiana che riconosce la libertà del paziente sulle decisioni inerenti alla propria salute quale diritto fondamentale, si vuole riconoscere valore anche alla dichiarazione anticipata di trattamento espressa dal soggetto per il momento in cui dovesse trovarsi comunque privo permanentemente della volontà di intendere e di volere, considerazione alla base del mio emendamento all'articolo 3, comma 6, che amplia la platea dei soggetti.
Ma come già avviene nella stesura del consenso informato, quando il soggetto decide in piena coscienza si ritiene che, anche nella redazione della dichiarazione anticipata di trattamento, debba in qualche modo continuare quel rapporto di fiducia tra medico e paziente, che determina una vera e propria alleanza terapeutica tra i due. E questo soprattutto perché si vuole recuperare così idealmente il rapporto medico-paziente anche in una situazione estrema in cui il soggetto non è più in grado di esprimersi.
In tal modo quel rapporto di fiducia, che da sempre lega direttamente o indirettamente il paziente al medico, continua anche davanti all'impossibilità del malato di interagire, concretizzandosi nel dovere del medico di prestare tutte le cure di fine vita, agendo sempre nell'interesse esclusivo del bene del paziente, così come chiaramente espresso dall'articolo 39 del codice di deontologia medica.
Non si può, inoltre, non tenere in debita considerazione che le dichiarazioni anticipate di trattamento sono sì espressione della libertà del soggetto di esprimere i propri orientamenti circa i trattamenti sanitari e di fine vita cui essere sottoposto o meno, nell'eventualità di trovarsi in condizioni di incapacità di intendere e di volere, ma di contro lo privano della possibilità di contestualizzare e attualizzare la sua scelta, in virtù di eventuali cambiamenti scientifici intervenuti. Proprio per questo il diritto all'autodeterminazione, per non divenire costrizione tirannica che può esplicare i suoi effetti contro gli interessi della persona, deve sempre lasciare uno spiraglio alla revisione di quanto deciso in precedenza.
Questa concezione di libertà aperta all'empiria, e per questo mai perfetta e assoluta, interpreta un'idea della laicità comune a credenti e non credenti che s'ispirano a principi di autentico liberalismo.
Si è ritenuto, dunque, che il concetto di alleanza terapeutica a fondamento della proposta di legge in discussione rappresenti la possibile traduzione di tale concezione della libertà, conferendo al paziente l'autonomia di orientare le scelte terapeutiche in un contesto per lui ignoto; e al medico la responsabilità, nella situazione data, di attualizzarne le indicazioni. Insomma, l'alleanza tra il paziente e il medico è la premessa indispensabile per una scelta giusta nell'interesse del paziente e nel rispetto della vita.
Così all'articolo 9 della Convenzione sui diritti umani e sulla biomedicina, fatta ad Oviedo, si sancisce che nel caso in cui paziente non sia in grado di esprimere i propri desideri, come dicevo, si deve tener conto di quelli espressi precedentemente in modo chiaro, certo e documentato.
È un principio già recepito dal codice di deontologia medica, il quale inoltre precisa all'articolo 36 che «il medico, anche se su richiesta del malato, non deve effettuare o favorire trattamenti diretti a provocarne la morte»; si tratta di riferimenti normativi non a caso ripresi dal Comitato nazionale per la bioetica nel documento del 2003 intitolato «Dichiarazioni anticipate di trattamento».
In questo documento il Comitato nazionale per la bioetica, riprendendo la Convenzione di Oviedo e le norme di deontologia medica, ribadisce che mediante le DAT non si intende in alcun modo riconoscere al paziente il diritto all'eutanasia, peraltro vietata chiaramente dall'articolo 17 del codice di deontologia medica. Pag. 35La funzione giuridica delle DAT è, invece, quella di garantire al malato esclusivamente l'esercizio della libertà di decidere circa quei trattamenti sanitari che, se fosse capace, avrebbe il diritto morale e giuridico di scegliere.
Ne consegue che l'alimentazione e l'idratazione artificiale non possono essere oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento, trattandosi di atti eticamente e deontologicamente dovuti, la cui sospensione configurerebbe un'ipotesi di eutanasia passiva.
Inoltre, si ritiene opportuno specificare ancora una volta che una legge che voglia disciplinare in maniera esauriente le dichiarazioni anticipate di trattamento deve prendere in considerazione la distanza psicologica e temporale tra il momento in cui il soggetto esprime la sua volontà circa i trattamenti sanitari cui vorrà o meno essere sottoposto e il momento in cui realmente verranno attuati.
Non è superfluo notare la difficoltà di dare attuazione a decisioni assunte ora per allora, considerato che la visione della vita potrebbe mutare a seconda che il soggetto goda o meno di ottima salute fisica e psichica allorché esprime la sua volontà. Ciò non vuol dire che la volontà espressa dal paziente non abbia alcun valore, come ripeto, ma piuttosto si ritiene che non si possano ignorare gli eventuali sviluppi della scienza intervenuti in quell'arco di tempo. Nessun medico potrebbe in scienza e coscienza ignorare le nuove scoperte della medicina e non indicarle al paziente che potrebbe giovarsene.
Come il medico non può obbligare un paziente nel pieno delle facoltà mentali a sottoporsi ad un trattamento sanitario contro la sua volontà, così la volontà espressa nella DAT non può costringere il medico a compiere atti contrari al diritto e alla deontologia medica o atti che egli ritiene inutili e dannosi per il paziente.
È esattamente in questo ambito che deve essere inquadrato il ruolo del medico, che non deve limitarsi ad eseguire meccanicamente, come un burocrate, i desideri del paziente, ma ha l'obbligo morale di valutarne l'attualità in relazione alla situazione clinica e ai nuovi sviluppi scientifici, un'interpretazione conforme al più volte citato articolo 9 della Convenzione di Oviedo.
Onorevoli colleghi, credo fortemente che il testo in esame rappresenti un giusto equilibrio tra autodeterminazione, diritti dell'individuo e ruolo del medico. Nessuna legge che entri nell'intimità dell'ultimo respiro può essere incondizionatamente amata da tutti. Certo non è facile legiferare su una materia tanto complessa come il confine tra la vita e la morte. Ma la realtà chiede di essere governata. Ripeto: il diritto alla vita è sempre stato garantito in tutte le società perché rappresenta un principio laico, comune a credenti e non credenti e comune a tutte le culture e civiltà. Rispettiamolo tutti.
Signor Presidente, desidero inoltre rapidamente precisare che in Commissione affari sociali abbiamo recepito le condizioni della I Commissione sulla soppressione del terzo periodo del comma 3 dell'articolo 7 e le condizioni della Commissione bilancio, conformemente all'articolo 81 della Costituzione, che riguardano il comma 2 dell'articolo 1, il comma 6 dell'articolo 3, il comma 3 dell'articolo 7 e il comma 2 dell'articolo 9.
In particolare, il testo, che è attualmente all'esame nostro, rispetto a quello del Senato presenta le seguenti modifiche: al comma 1, lettera d), dell'articolo 1 si è introdotto il divieto di qualsiasi forma di eutanasia; al comma 2 dell'articolo 1 si è introdotto chiaramente il principio che le politiche sociali ed economiche volte alla presa in carico dei pazienti, in particolare dei soggetti incapaci di intendere e di volere, siano rivolte anche ai cittadini stranieri; sempre all'articolo 1 si è introdotto il comma 3, che fa riferimento alla terapia del dolore e alle cure palliative (ricordo qui che abbiamo approvato all'unanimità una legge in tal senso).
All'articolo 2, a parte la precisazione che il consenso informato, o la sua revoca, deve fare parte integrante della cartella clinica, si è introdotto significativamente che tutte le decisioni al riguardo sono Pag. 36adottate per la salvaguardia non solo della salute, ma anche della vita dell'incapace.
All'articolo 3, al comma 5 su alimentazione e idratazione, si è introdotto che, fermo restando che non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento, esse possono essere sospese quando «risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo». Inoltre, all'articolo 3 è stato aggiunto il comma 6, che ha ampliato la platea dei soggetti cui è rivolta la legge.
All'articolo 4, comma 2, si è precisato - cosa non prevista nel testo del Senato - che le DAT, quando non esistessero espresse come vuole la legge, non possano essere ricostruite da elementi terzi.
L'articolo 5 è stato riformulato rispetto al testo del Senato, specificando che la degenza ospedaliera, residenziale o domiciliare di questi soggetti deve essere prevista nei LEA.
All'articolo 6 è stato aggiunto il nuovo comma 2 per specificare che il dichiarante può sostituire il fiduciario precedentemente nominato in qualsiasi momento.
Inoltre, si è aggiunto il comma 7, che prevede che «in assenza di nomina del fiduciario, i compiti previsti dai commi 3, 4 e 5 del presente articolo sono adempiuti dai familiari quali indicati dal codice civile, libro II, titolo II, capi I e II».
Infine, all'articolo 9, al comma 2 si è aggiunto, rispetto al testo del Senato, che «tutte le informazioni sulla possibilità di rendere la dichiarazione anticipata di trattamento sono rese disponibili anche attraverso il sito Internet del Ministero della salute».
Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo fermamente che tutti dobbiamo fare una riflessione, al di là delle proprie ideologie. Questa legge va verso il bene del paziente; questo voglio dire, anche partendo dalla mia lunga esperienza di medico: non è una legge ideologica. Se vogliamo il bene del paziente, dobbiamo approvarla in modo incondizionato e trasversale (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il relatore di minoranza, onorevole Palagiano.

ANTONIO PALAGIANO, Relatore di minoranza. Signor Presidente, mi rivolgo a lei e, indirettamente, al relatore attraverso una frase che non è mia: «Io combatto la tua idea, che è contraria alla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita, perché tu la tua idea possa esprimerla liberamente», Voltaire.
Questa frase esprime il legame indissolubile fra libertà, pensiero e diritto. Al di là di qualsiasi visione personale, intimidazione, condizionamento, costrizione, ragione di Stato. In nome di questa libertà maltrattata, martoriata e offesa dovremmo tutti rispettare i diritti di ogni singola persona e in nome di questa libertà dovremmo legiferare. È con questo spirito laico che ho affrontato il dibattito sul testamento biologico, spogliandomi di ogni mio convincimento politico e religioso, pensando che stiamo legiferando per tutti gli italiani, pensando che fra gli italiani ci sono anche agnostici, non credenti e diversamente credenti.
Occorre fare una precisazione: perché siamo arrivati in quest'Aula a parlare del testamento biologico? Il testamento biologico oggi è una necessità in Italia in quanto in Italia vige ancora la discrezionalità dell'azione medica. Questo significa che, se scrivessimo su di un pezzo di carta e consegnassimo al notaio uno scritto in cui dichiariamo che in caso di coma irreversibile, in caso di coma vegetativo, che rappresenta una involuzione della corteccia cerebrale in cui si perdono tutte le funzioni superiori (il parlare, l'ascoltare, la sete, la fame e persino il dolore), non vorremmo più essere assistiti in questa sorta di vita artificiale, ebbene, questo nostro volere potrebbe essere disatteso. Potrebbe essere disatteso perché potremmo incontrare un medico vitalista che decide che ha più valore la vita in sé che il nostro stato di salute.
Questa è l'esigenza del testamento biologico e invece oggi ci troviamo a parlare di una proposta di legge che ci fa passare Pag. 37dalla padella alla brace e che non ha nessun valore vincolante. Non ha più senso la legge: se la legge serviva per vincolare il medico, oggi ci troviamo davanti a un testo che non solo limita l'espressione della nostra libertà (e quindi il bere, il bere che non è bere, avete lasciato pane e acqua); voi sapete che si tratta di idratazione e di nutrizione che tutte le società scientifiche (Società italiana anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva) che abbiamo ascoltato in Commissione hanno detto che si tratta di un atto medico, anche molto complicato. I medici, a proposito delle cure palliative, hanno detto che continuando all'infinito l'idratazione e la nutrizione potremmo dare un fine vita più doloroso ai nostri pazienti e qui ci si ostina a parlare di sostegno vitale, per entrare, come un cavallo di Troia, nell'articolo 32 della Costituzione, che vieta i trattamenti sanitari obbligatori. Il comma 2 di quell'articolo ha contribuito a stilare anche Aldo Moro proprio perché la classe politica non potesse avere un delirio di onnipotenza, delirio che oggi, questa maggioranza sta avendo nel voler costringere gli italiani a subire idratazione e nutrizione, nel costringere gli italiani a non poter più accettare il consiglio del medico: portatelo a casa, non c'è più niente da fare. Tutti i nostri pazienti invece dovranno invece ingolfare le corsie delle rianimazioni e subire questi trattamenti obbligatori. È quindi un testo veramente incostituzionale, di parte e teocratico.
Perché arriva la legge sul testamento biologico? Io vorrei sottolineare gli stop and go che ha subìto questa proposta di legge.
All'inizio è stata una spedizione: dopo il caso Englaro, per un anno circa, martellamenti in Commissione; per otto mesi, all'improvviso, stop, non si parla più: la legge è scomoda al terzo polo, perché sappiamo le divergenze che esistono tra il Presidente Fini e il Presidente Casini, sappiamo nel Partito Democratico le posizioni che vi sono tra gli ex DS, gli ex Margherita e sappiamo anche, attualmente, che nel Popolo della Libertà il Ministro Bondi e giornalisti come Giuliano Ferrara - che sicuramente non sono lontani dal Popolo della Libertà - hanno manifestato il loro dissenso. Adesso ci si sono messi anche i medici cattolici italiani in dissenso. Tutta l'intellighènzia italiana e tutte le persone con buon senso dicono che questa legge è una stortura e che, quindi, come tale, va ritirata.
Abbiamo avuto stop and go e, all'improvviso, dopo le cronache giudiziarie - rosa, direi - del nostro Presidente, dopo lo scandalo Ruby, vediamo che il testo subisce un'accelerazione improvvisata. Bisogna soltanto leggere l'intervista a Sacconi su La Repubblica del 25 gennaio di quest'anno per capire come il testamento biologico sia strumentale alla maggioranza e che nulla c'entrano la volontà e i diritti dei cittadini italiani. Quando il giornalista ha chiesto al Ministro Sacconi: vi rendete conto che il cardinal Bagnasco ha detto che per fare politica ci vuole un comportamento morigerato, che sia di sobrietà e di misura, che manca al vostro Premier? Sacconi ha risposto: non vi preoccupate, noi dimostreremo con una legge che riusciamo a convertire i nostri pensieri in azione politica, approvando un testo che costringerà anche all'idratazione e alla nutrizione. Questo significa opportunismo politico, significa cogliere l'opportunità per potersi far scontare altri peccati che sono stati compiuti e, quindi, questa legge, non coglie il suo punto, che è quello di dare peso alla volontà dei cittadini italiani.
Devo ricordare all'onorevole Di Virgilio - che si è vantato di aver accettato delle modifiche - che considerare il testo che proveniva dal Senato come il testo base in quest'Aula non è stato sicuramente un invito al dialogo. Vorrei ricordare all'onorevole Di Virgilio quali sono state le esternazioni che ha fatto la maggioranza prima dell'approvazione del testo al Senato. Il Ministro Sacconi ha dichiarato che con questo provvedimento non sarà più possibile un caso Englaro, e a ciò seguivano le indicazioni del cardinale Bagnasco: niente lungaggini o tentennamenti.
Dopo l'approvazione, Gasparri, con la sua solita leggerezza, ha dichiarato: il Pag. 38Senato ha scelto per la vita, contro il partito della morte e dell'eutanasia; poi ha rincarato Quagliariello, l'ex radicale: Eluana non è morta, Eluana è stata ammazzata. Non sono queste le basi per accettare un testo condiviso, per partire con delle proposte emendative che possano almeno dare rispetto alla cosa che ci è più cara, quella che nessuno vorrebbe ci venisse strappata di dosso: la nostra vita? Invece, così non è stato, vi è stata l'arroganza di questa maggioranza che ha riproposto il testo accordando delle modifiche ridicole.
Onorevole Di Virgilio, ho scritto quello che lei ha detto: l'idratazione e la nutrizione devono essere mantenute fino al termine della vita e poi vi ha aggiunto il suo emendamento: «quando non sono più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo». Mi chiedo chi stabilisce l'eccezione, come si fa e con quali strumenti. Quali esami clinici potranno dire che effettivamente quel trattamento non serve più a niente? Infatti, se il paziente è ancora in vita, vuol dire che tali trattamenti sono efficaci a mantenerlo in vita, altrimenti sarebbe morto. Si tratta quindi di emendamenti burla, che servono per addolcire la caramella, ma sarà sempre questo Stato ad imporre a noi una visione purtroppo religiosa della vita.
Dico - e di questo purtroppo sono convinto - che il dibattito politico in Italia è stato sostituito da uno scontro muro contro muro fra i sostenitori della vita e del valore della vita e quelli dell'autodeterminazione della persona. Da un lato, vi è la vita come un bene indisponibile persino al suo titolare, che va dal momento del suo concepimento alla morte naturale - ma credo che dovremmo discutere su cos'è la morte naturale - e invece, dall'altro lato, vi era il popolo che rivendicava l'autonomia decisionale. La maggior parte degli italiani vuole decidere su come andrà a morire; sono quelli che vogliono morire con la propria dignità, una dignità che non si insegna, che non si tramanda, ma che si costruisce giorno per giorno.
Ognuno di noi si comporta secondo un codice e secondo la propria dignità ed è quella stessa dignità che noi non vorremmo ci venisse strappata, l'ultimo giorno, quando in un letto di un ospedale siamo purtroppo in condizioni simili alle larve: bagnati con le nostre urine, maleodoranti con le nostre feci, con cateteri, cateterini e quant'altro. Purtroppo, non vorremmo consegnare quest'ultima immagine ai nostri cari, a quelli che ci hanno accudito con la speranza di poter tornare nelle condizioni iniziali.
Purtroppo, questo vuole essere oggi precluso con questa proposta di legge, che merita più rispetto da parte della politica. Non doveva essere come una partita di pallone tra i sostenitori della vita contro gli altri. Occorreva trovare un punto comune. Avevamo anche dato un suggerimento: vogliamo il rispetto di tutti, che chi desidera essere idratato e nutrito fino alla fine dei suoi giorni per allungare artificialmente la propria vita abbia le garanzie che ciò sia fatto.
Tuttavia, vorremmo anche che le garanzie valessero nelle condizioni opposte: quando davanti ad una malattia irreversibile, che non lascia speranza, il paziente possa tornare a casa ed accettare la fine naturale senza purtroppo andare incontro ad una fine che toglie la dignità. Per questo, mi chiedo se sia giusto che uno Stato che si definisce laico debba avere una visione religiosa della vita, imponendo tale visione, visto che tra i cittadini vi sono anche non credenti e diversamente credenti.
Mi chiedo se sia giusto che la medicina moderna sottragga, nascondendolo, il malato alla morte, e che la stessa medicina, in nome di un progresso tecnologico, determini un prolungamento artificiale della malattia e spesso sofferenze maggiori. Mi chiedo se sia giusto che il cittadino perda improvvisamente i suoi diritti nel momento in cui diventa incosciente. Anche questo è un profilo di incostituzionalità, onorevole Di Virgilio. L'articolo 3 della Costituzione dice che i cittadini sono tutti uguali. Non possiamo far valere il consenso informato solo quando siamo coscienti Pag. 39per perderlo poi quando diventiamo incoscienti. Sarà la Corte costituzionale un'altra volta a dover dire basta e non saranno i soliti magistrati, ma saranno il buon senso e il rispetto per i diritti dei cittadini.
Quindi, quando l'idratazione e la nutrizione servono solo per prolungare l'agonia di una malattia che non lascia scampo, sottraendo l'individuo alla morte naturale e costringendolo alla vita artificiale, credo che sia il caso di sospendere i trattamenti e di lasciare che la malattia faccia il suo decorso. L'Italia dei Valori ritiene che in Italia sia necessaria una legge che rispetti la libertà di tutti, che consenta giuridicamente di mettere fine ad un'esistenza irrimediabilmente compromessa e che non imponga terapie obbligatorie.
Vorrei però fare anche una riflessione su democrazia, libertà e laicità. Credo che un Paese sia democratico quando lascia la libertà ai cittadini, quando davanti a due tesi che si contrappongono emana delle leggi che servono per facilitarne la coabitazione, non attraverso la demonizzazione di una tesi. Questo è lo Stato democratico e, quindi, occorrono democrazia, laicità e il riconoscimento delle diversità e delle diverse sensibilità e passione per il conflitto che deve esistere e che è indispensabile per lo sviluppo democratico del Paese.
Potrei dilungarmi e vedere articolo per articolo tutte le norme incostituzionali messe in atto da questo Governo. Vorrei soltanto ricordarne qualcuna, perché non ho purtroppo il tempo che ha la maggioranza. Ricordo l'articolo 32, di cui ho parlato, che riguarda il consenso informato, questa grande conquista che mette al centro della sanità, della salute e dell'assistenza il cittadino, che può scegliere di essere trattato o meno: consenso e dissenso informato, che in questo caso viene fatto cadere in due condizioni. Pensate un po': l'articolo 4 prevede che in caso di pericolo di vita il testamento biologico non vale. Quando dovrebbe valere il testamento biologico, non vale più nulla. Non solo è un testamento che impone l'idratazione e la nutrizione, non solo non ha carattere di vincolatività, ma quando dovrebbe servire non serve. Si tratta di una proposta di legge contro il testamento biologico - come ha detto giustamente il professor Veronesi - non serve a nulla e sarà smontata.
L'articolo 1, poi, introduce il reato di eutanasia. Vieta qualsiasi forma di eutanasia. Devo soltanto leggere, presidente Di Virgilio, il parere della I Commissione (Affari costituzionali), che dice che il principio costituzionale di tassatività della fattispecie penale impone al legislatore di definire con chiarezza la condotta per la quale è prevista la pena, non essendo sufficiente il mero rinvio agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale (cioè l'omicidio, l'omicidio di consenziente e l'istigazione al suicidio o l'ausilio al suicidio, che prevedono tre pene diverse: 21 anni il primo, da 6 a 15 anni il secondo e da 5 a 12 anni il terzo). Quindi, è stata proprio prevista e suggerita fortemente questa modifica dalla Commissione affari costituzionali.
Tuttavia, con la solita arroganza non fa niente e si va avanti in questa maniera. Inoltre, vi è l'articolo 2 in cui il consenso informato serve per attivare un trattamento. Ma attivare è una cosa e proseguire o interrompere il trattamento è un'altra cosa. Vorremmo che questo provvedimento garantisse anche l'interruzione di tutti i trattamenti.
Ebbene, vorrei sottolineare ora quali sono gli emendamenti dell'Italia dei Valori perché - lo ripeto - il tempo non mi consente di andare oltre. L'Italia dei Valori vorrebbe un provvedimento più snello, che fosse innanzitutto diverso da quello proposto da questa maggioranza e che non debba necessariamente prendere in considerazione gli orientamenti del paziente. Il paziente non ha una competenza scientifica per poter dire quali sono i trattamenti che desidera. È sufficiente una legge più piccola e più snella, in cui il paziente possa dire quali sono i trattamenti cui non vuole essere sottoposto perché magari è un povero uomo che non conosce tutto quello che la scienza può offrire. Pag. 40
Dunque, vorremmo una legge più semplice. Vorremmo, inoltre, che le legge abbia un carattere di vincolatività o di impegno. Il medico si deve impegnare a fare gli interessi del paziente e a rispettare le sue volontà contestualizzandole - perché no - al momento scientifico, affinché anche il paziente possa fruire di eventuali scoperte che sono avvenute dal momento in cui ha redatto il testamento biologico a quando questo viene applicato.
Vorremmo anche comprendere la volontà in merito alla donazione del corpo e degli organi. Perché no? Sarebbe bello che nel testamento biologico ognuno potesse indicare che in caso di morte vuole donare il suo corpo all'università o un suo organo a un giovane che ne ha bisogno. Vorremmo una durata che non sia, anche in questo caso, scadenzata, di cinque anni. Ma vorremmo - perché no? - una durata senza fine, senza alcuna scadenza, valida cioè fino alla modifica o alla revoca. Non possiamo imporre al cittadino un'altra scadenza dopo le 10 mila scadenze che si presentano tutte le settimane, tutti i mesi e tutti gli anni. Vorremmo che anche in Italia - come accade negli Stati Uniti e in Europa, in Germania e in Inghilterra - fosse possibile prevedere la ricostruzione delle volontà, confermate magari dai familiari o, quando è presente, anche dal convivente more uxorio.
Infine, veniamo al ruolo del medico. Il medico deve rispettare ciò che afferma il paziente, nell'interesse del paziente. Siamo anche contro la vincolatività molto stretta, proprio perché vogliamo tenere aperta la porta - noi che siamo del partito della vita come lei, onorevole Di Virgilio - e se si verificassero delle nuove scoperte vorremmo che il medico potesse aiutare il paziente a fruire delle nuove conquiste della tecnologia.
Credo, infine, che libertà significhi poter scegliere e poter continuare a governare la propria vita quando la mente ci ha abbandonato e quando non siamo più padroni del nostro corpo. La libertà è il più grande valore dell'uomo e non è negoziabile, neanche nel fine vita (Applausi dei deputati dei gruppi Italia dei Valori e Partito Democratico).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

EUGENIA ROCCELLA, Sottosegretario di Stato per la salute. Signor Presidente, il Governo si riserva di intervenire in sede di replica dopo avere ascoltato gli interventi dei colleghi.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Binetti. Ne ha facoltà.

PAOLA BINETTI. Signor Presidente, colleghi, non accadeva da tempo che un provvedimento riuscisse ad interpellare la coscienza di tutto il Paese coinvolgendo persone diversissime tra di loro, a volte unite da uno stesso amore per la vita ma, altre volte, inguaribilmente separate da una diversa concezione della libertà, che segna un crinale drammaticamente conflittuale e inconciliabile.
Non è semplice comprendere cosa realmente unisca e cosa separi gruppi e persone nella proposta di legge sulle disposizioni in materia di alleanza terapeutica, consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento. Una proposta di legge che tecnicamente è indicata con l'atto Camera n. 2350, ma che tutti conoscono come legge sul testamento biologico. È un nome sbagliato, dal momento che con il testamento si danno disposizioni sulla destinazione di beni che ci appartengono dopo la nostra morte, e non prima. Un nome, però, che la morte di Eluana Englaro ha fortemente impresso nell'immaginazione il tutto il Paese.
Il provvedimento raccoglie le dichiarazioni che una persona rivolge al suo medico di fiducia, dopo aver parlato con lui di vita e di morte, della possibilità di ammalarsi gravemente fino al punto di andare incontro a una disabilità in cui il suo stato di coscienza può apparire del tutto assente. Medico e paziente - e forse nella stragrande maggioranza dei casi non si tratta neppure di pazienti - immaginano Pag. 41delle situazioni che potrebbero verificarsi un domani e su uno scenario del tutto virtuale costruiscono delle ipotesi e prendono in considerazione le eventualità peggiori che si potrebbero verificare.
Eppure il clima della conversazione non può che essere amicale, il provvedimento stesso parla di alleanza, un'alleanza che ha un obiettivo ben preciso: la relazione di cura; non a caso si parla di alleanza terapeutica. Fra di loro non c'è alcuna contrapposizione, non c'è ombra di conflitto di interessi, percorrono insieme un itinerario fatto di domande e di risposte, di interrogativi scientifici e di quesiti che hanno un forte impatto esistenziale. È un colloquio aperto, che può richiedere tempi più o meno lunghi perché le domande poste al medico richiedono la capacità di immaginare le emozioni che nascono davanti alla prospettiva della grave o gravissima disabilità cronica.
Il medico sa di avere davanti una persona che sta immaginando come potrebbe vivere in una possibile condizione di totale dipendenza dagli altri, in uno stato di non coscienza o di minima coscienza, dove potrebbe sentire tutto senza essere capace di comunicare in modo chiaro con gli altri. Il medico, nella sua lunga esperienza, sa e comprende che quest'uomo, pur facendo delle scelte in apparente totale autonomia, in realtà deve elaborare una serie di condizionamenti emotivi, di paure, di mostri interiori che attentano alla sua libertà, la irretiscono spingendola verso soluzioni che solo apparentemente sembrano più facili ed accattivanti.
L'uomo si trova ad un bivio in cui deve immaginare cosa vorrebbe fare in circostanze che inevitabilmente gli appaiono ostili, deve immaginare cosa farebbero i suoi familiari - di cui ignora la forza e la debolezza - ma deve anche provare ad immaginare cosa sarà in grado di fare la scienza in quel preciso momento. È un colloquio tutt'altro che formale quello che imbastisce con il medico di fiducia, una condizione che mette a nudo la sua anima, i suoi valori e le sue convinzioni, i suoi affetti ed i suoi sentimenti. Probabilmente si chiede se i suoi vorranno prendersi cura di lui nonostante sia diventato un peso o se invece lo abbandoneranno in qualche struttura, consegnandolo a mani estranee, forse altamente professionali, comunque prive di quel valore affettivo di cui nessuno può fare a meno.
Le informazioni che ci si scambia in quel momento non sono i dati asettici del linguaggio della scienza quando parla con l'asciutta astrattezza dei numeri e delle statistiche, sono dati che richiedono interpretazione, in cui il medico si mette in gioco per aiutare il paziente a immaginare nuove ragioni per vivere in modo diverso rispetto a quello vissuto fino ad allora.
La loro alleanza non si gioca solo sul piano del dire, ma anche sul piano di un possibile fare insieme. Il medico può raccontare esperienze, sollecitare ad andare a vedere, a misurarsi con orizzonti di vita imprevisti fino a quel momento, sapendo che possono offrire nuove modalità per comunicare, per comprendere e farsi comprendere, per amare e farsi amare.
La legge sul fine vita tiene conto di tutto ciò e coglie il senso e la complessità di questa alleanza che rilancia a tutto campo, in famiglia e con il fiduciario, oltre che con il medico stesso. Parla di solidarietà umana e di capacità di cura in contesti che non sono solo quelli professionali. Mette in evidenza una dimensione particolare dell'esistenza, quando ci appare più fragile, valorizza la ricchezza ed i rapporti umani e la loro forza. Una proposta di legge che cerca di archiviare una volta per tutte le false soluzioni che una cultura individualistica ed autoreferenziale si ostina a mostrare come le uniche plausibili. È un provvedimento che dice un «no» chiaro e determinato all'eutanasia in tutte le sue forme, attive e passive, perché dice contestualmente un «sì» forte ed appassionato alla relazione di cura, alla solidarietà umana che accetta di prendere su di sé la debolezza dell'altro, per accompagnarlo per il tempo necessario, fino al termine della sua vita, senza anticipare la morte, ma senza neppure accanirsi Pag. 42ostinatamente per prolungare una vita che sembra giunta al suo capolinea.
Nel provvedimento in questione, al di là dell'articolato tecnico, si confrontano due culture che stentano a trovare un punto di convergenza, nonostante le numerose occasioni di incontro e di confronto che si sono svolte nel lavoro delle Commissioni, in occasione di convegni e seminari o più semplicemente nei tanti incontri, formali e informali, che ci sono stati in questi anni. Nell'opposizione laica, di ispirazione cristiana, il valore della vita si affianca al valore della libertà, considerata come una delle qualità principali dell'uomo, strettamente collegata al senso della responsabilità, dal momento che non c'è vera libertà senza responsabilità. È una posizione che riconosce alla vita umana valore in sé stessa, la considera degna di essere vissuta proprio in quanto vita umana e non per le sue capacità e le sue competenze, e chiede a tutti gli uomini di riconoscere questo valore e di sentirsi coinvolti nel tutelarla e nel proteggerla.
In questa impostazione, etica della responsabilità ed etica della cura si intrecciano profondamente come due facce di un'unica medaglia che nella sua unità esprime il senso della nostra umanità. In questa concezione, il valore della persona implica nello stesso tempo autonomia e relazionalità, interdipendenza e capacità di comunicazione, solidarietà e spirito di servizio.
Nella posizione laico-laicista, al centro c'è quel principio di autodeterminazione che fa della libertà un valore assoluto, subordinando il valore della vita ad una serie di condizioni, quali la percezione del benessere e la possibilità di agire in piena autonomia, definendo soggettivamente i parametri che rendano una vita più o meno degna di essere vissuta. È un approccio culturale in cui il bene viene filtrato attraverso un'ottica di tipo relativista, dal momento che ognuno deve poter dire cosa è buono e cosa non lo è, cosa reputa vero e cosa non lo sia. Al soggetto tutto deve essere consentito, anche il negare il valore della vita, se e quando questa perda qualcuna delle prerogative che lo stesso reputa essenziali. È una posizione che si spinge fino al punto di considerare un diritto la possibilità di fissare i termini per la propria morte e, quindi, pretende dalle istituzioni l'aiuto necessario a tradurre in pratica questa volontà di morire, sia depenalizzando l'eutanasia sia arrivando addirittura a proporla come un bene con dignità di cura.
Vorrei argomentare queste affermazioni attingendo ad alcuni degli articoli usciti in queste ultime settimane sui principali quotidiani italiani. Pochi giorni fa, su La Repubblica Stefano Rodotà ha definito «legge truffa» l'attuale proposta di legge. Le sue parole, pesanti come pietre, rivelano una profonda fallacia sul piano linguistico, storico e medico. Dice Rodotà: «Non siamo soltanto davanti a una legge truffa, ma all'abbandono del lungo cammino che, partito dalle esperienze tragiche delle tirannie del Novecento, che si erano violentemente impadronite dei corpi delle persone, era approdato all'affermazione netta dell'essenzialità del consenso dell'interessato». Rodotà si sofferma sull'essenzialità del consenso umano, riaffermato anche nella Carta dei diritti fondamentali dell'uomo, dove dignità umana e consenso informato sono strettamente collegati.
L'approccio medico scaturito dalle ideologie del Novecento ha privato la persona umana del diritto a dare il proprio consenso agli interventi sul proprio corpo. Ma ciò che più sorprende in queste culture malate è la profonda corruzione di quell'alleanza terapeutica che fin dai tempi di Ippocrate è sempre esistita tra medico e paziente. I medici nazisti, e non solo loro, dal momento che anche dai gulag ci sono giunte testimonianze drammatiche in tal senso, nei campi di concentramento, sono venuti meno a questa relazione non solo e non tanto perché non hanno chiesto nessun consenso al malato e non gli hanno fornito nessuna informazione previa, ma perché hanno agito in grave ed evidente contraddizione con il bene della salute e della sua vita, hanno tradito il malato. Quella classe di medici, ideologicamente deviati, è colpevole di crimini nei confronti Pag. 43di tutta l'umanità, proprio perché hanno allungato l'ombra del sospetto su tutto l'agire medico, capovolgendo pesantemente il paradigma dell'arte medica. Ciò che definisce in profondità l'identità del medico, ciò che ne scolpisce in modo inequivocabile il suo profilo professionale, è la relazione di aiuto competente. È propria del medico la capacità e la volontà di curare, di alleviare dolori e sofferenze del paziente, perché anche quando non riesce a guarirlo c'è sempre la possibilità di migliorarne la qualità di vita, di rendere più accettabile il dolore, di mitigare il senso della sofferenza, di non farlo sentire solo né tanto meno abbandonato.
La nostra Costituzione, scritta oltre sessant'anni fa, proprio a ridosso della fine della guerra, quando era ben chiara nella memoria e nell'orrore di tutti di cosa si fosse macchiata la non-medicina nazista, all'articolo 32 ha voluto ribadire il valore del coinvolgimento del paziente nei processi decisionali che riguardano lui e la sua salute. Ma prima di tutto, al comma 1, ha voluto sottolineare la responsabilità delle istituzioni nei suoi confronti: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo ed interesse della collettività (...)».
Rodotà continua la sua invettiva dicendo: «La riconsegna della persona e del suo corpo al potere politico e al potere medico, che sarebbe l'esito vero dell'approvazione della legge, è fondata su due affermazioni: la prima essere la vita indisponibile, mentre è vero l'opposto, come dimostra l'ormai consolidato rifiuto delle cure; la seconda il divieto di rinunciare all'alimentazione e alla idratazione forzata, che le società scientifiche di tutto il mondo considerano trattamenti sanitari».
A queste due precise domande noi daremo risposta nell'arco della relazione. Galli della Loggia sul Corriere della sera è intervenuto più volte nell'arco della settimana. Lo ha fatto concentrandosi su due quesiti importanti: perché debba esserci differenza tra quanto si può chiedere e pretendere mentre si è in stato di piena coscienza e quanto, invece, non si può più chiedere quando lo stato di coscienza si riduce ad uno stato di incoscienza, o tutt'al più, di minima conoscenza.
Secondo quesito, si interroga perché, in caso di divergenza tra il parere del fiduciario e quello del medico, debba prevalere quest'ultimo. Sono domande con cui si sta cercando di incalzare l'opinione pubblica per ragioni diverse, che per alcuni tendono a dimostrare l'inutilità del provvedimento, mentre altri sostengono che questa proposta sia sbagliata, ingiusta e lesiva della dignità umana. Certamente a Galli della Loggia non sfugge la differenza abissale tra l'impero della mia volontà mentre sono sveglio e partecipe dei processi che sto vivendo e la condizione apparentemente immutabile dello stato vegetativo, a cui far pagare il prezzo di una decisione assolutamente irrevocabile.
Quando sono cosciente posso sempre modificare la mia posizione, se subentrano nuovi elementi di conoscenza e di valutazione. La mutevolezza è una caratteristica della nostra stessa esistenza: è proprio dell'uomo il dubbio, la necessità di tornare sui propri passi, la rivalutazione delle situazioni in cui si trova, cosa che in questo caso non gli sarebbe più concessa.
In quanto alla seconda obiezione, occorre prendere atto che una propaganda ostile ha profondamente contaminato l'immagine del medico, della sua responsabilità e della sua dignità. L'ultima parola tocca al medico perché il presupposto è che egli sappia e voglia agire in scienza e coscienza, che sappia valutare con oggettività le condizioni del malato, come dovrebbe imporgli una lunga esperienza clinica e un'altrettanto profonda esperienza umana.
La domanda vera che oggi tutti dovremmo farci riguarda in realtà il chi è del medico, la qualità etica della sua persona e la forza deontologica che ispira il suo agire. Francesco D'Agostino su Avvenire ha innestato la sua riflessione, pacata e tagliente al tempo stesso, rispondendo ad alcuni intellettuali che stanno raccogliendo firme di adesione ad un appello esasperato, che definisce la proposta di legge come ingannevole, ideologica, autoritaria, anticostituzionale, Pag. 44declamatoria, superflua, menzognera, a tal punto che, se venisse approvata, ciascuno di noi perderebbe il diritto fondamentale ad autodeterminarsi e verrebbe espropriato dei poteri di governare la propria vita. Non vi è chi non veda l'assoluta esagerazione di tutta questa serie di insulti messi in fila uno dopo l'altro. D'Agostino sottolinea con chiarezza come la posta in gioco non sia il miglioramento, sempre possibile, del provvedimento, ma una sorta di braccio di ferro tra coloro che chiama realisti e coloro che chiama illuministi.
Gli illuministi immaginano la fine della vita umana posta sotto il sogno o il segno di un'autodeterminazione lucida, coraggiosa, capace di anticipare la propria volontà di morte senza ripensamenti, nella convinzione che la vita sia degna di essere vissuta solo quando si presenta nella sua perfezione formale. Per i realisti le cose stanno in modo diverso: guardano alla realtà con la consapevolezza della fragilità umana, nella logica di una debolezza che appella continuamente alla solidarietà che matura negli affetti familiari e nella rete sociale del volontariato di quanti sono capaci di esprimere una relazione di cura concreta e reale, mettendosi in gioco faticosamente, ma generosamente.
I realisti temono che i cosiddetti illuministi sostengano le loro tesi quando sono in piena forza e totale autonomia, ma che sarebbero disposti a fare vistosamente marcia indietro se mutassero le condizioni del contesto. Oncologi e palliativisti sono dalla parte dei realisti. I maggiori esperti in questo campo ritengono che la richiesta di tipo eutanasico nel paziente terminale, che pure sarebbe in grado di firmarla, sia rarissima. Scompare nel momento in cui gli stessi pazienti si sentono sollevati dal dolore e dalla sofferenza e vedono che i loro familiari sono sostenuti dal sistema complessivo della rete di solidarietà socio-assistenziale.
I morenti, gli anziani e gli abbandonati sono tutt'altro che illuministi: cercano aiuto, si affidano a chi è disponibile, sperano di trovare l'appoggio necessario per concludere serenamente la loro esistenza. Ma voglio citare un altro autore di questi giorni, Veronesi, che è ripetutamente intervenuto nel dibattito di questi giorni con una sorta di accanimento mediatico, che ha mantenuto un unico punto fermo: la difesa incondizionata dell'eutanasia, considerata come gesto estremo della libertà e della dignità della persona. Dopo essersi battuto per il testamento biologico, mettendo in rete il suo modello e intercettando l'associazione dei notai perché aiutassero i potenziali pazienti a sottoscrivere anzitempo un documento del tutto privo di valore legale, ora sembra convintamente passato sul fronte della non legge. La proposta attuale non lo convince per la semplice ragione che non consente ai malati di esprimere i propri desiderata, spingendosi e probabilmente andando oltre l'eutanasia. Veronesi ha affermato con chiarezza che il malato deve poter morire quando vuole e come vuole, anche se per questo entra in rotta di collisione con l'attuale codice di diritto penale.
Pur di soddisfare questa richiesta del paziente, Veronesi accetta di ridurre il ruolo del medico a quello di mero esecutore della volontà del paziente, secondo una logica contrattualistica insidiosa e lesiva dell'autentica dignità del medico.
Veronesi ha definito il testo in esame anticostituzionale e antistorico nel corso del primo incontro del ciclo: «Vivere in salute alla Sapienza», organizzato dall'università romana.
«Se vogliamo guardare al futuro e ad una vera democrazia» - ha proseguito Veronesi - «non possiamo togliere alle persone la libertà all'autodeterminazione. Altri Paesi stanno aprendo alla depenalizzazione dell'eutanasia, noi stiamo invece imboccando una deriva antistorica». È proprio questo il punto in questione! Non vogliamo in alcun modo giungere alla depenalizzazione dell'eutanasia, ma questa era ed è la reale intenzione del senatore Veronesi.
Egli fa un ulteriore passo avanti, considera il tema dell'eutanasia già eccessivamente discreditato. Ritiene che la depenalizzazione dell'eutanasia sia troppo poco; chiede che anticipare la fine della vita Pag. 45su richiesta del malato sia considerata una cura dovuta. A tutto ciò, la proposta di legge in esame dice, giustamente, un «no» chiaro e secco.
Quali sono le differenze maggiori che vi sono tra gli approcci che stiamo prendendo in considerazione? Nelle due concezioni il valore della libertà e dell'autonomia, binomio essenziale nel processo di maturazione del soggetto, giocano un ruolo diverso. Nel primo caso l'uomo esercita la sua libertà all'interno di una progettualità che può svilupparsi proprio in quanto è vivo, mentre nel secondo caso è come se la libertà fosse un valore che sussiste in se stesso. Nel primo caso si può accettare di vivere anche per lunghi periodi in una condizione di apparente non libertà, nel secondo caso la perdita della libertà legittima l'intenzionale perdita della vita.
Nel dibattito sulle DAT, il costante riferimento alla libertà del paziente serve quasi esclusivamente per affermare il diritto a non vivere, per negare ogni tipo di cura e di sostegno, inclusa la nutrizione e l'idratazione.
D'altra parte, anche la libertà del medico non è un valore assoluto, è vincolata dalla necessità di agire in scienza e coscienza per esprimere il suo giudizio clinico con l'oggettività che gli conferisce la sua competenza, in coerenza con i principi etici e deontologici.
Sostenere che l'agire del medico possa essere strutturalmente ispirato da una sorta di accanimento terapeutico è falso e non dà ragione della libertà con cui il medico cerca, di volta in volta, di declinare, nell'esclusivo interesse del paziente, le sue conoscenze e le sue competenze.
La libertà di entrambi, quella del medico e quella del paziente, hanno un crinale lungo il quale si incontrano, nel costante rispetto della vita e della dignità del paziente. Entrambi sono vincolati dalla loro coscienza che deve essere ben formata perché possano agire rettamente.
Un'altra differenza sostanziale tra i due approcci è che il primo ha un carattere fortemente relazionale, mentre il secondo ha un carattere prevalentemente individualistico. Al centro del primo approccio vi è la relazione, un incontro interpersonale tra medico e paziente, mentre al centro del secondo vi è la pura e semplice volontà del paziente. Nel primo caso sono almeno due i protagonisti di una situazione evidentemente asimmetrica, ma non per questo meno fortemente coinvolgente, mentre nel secondo caso prevale una visione fortemente egocentrica.
La proposta di legge in oggetto ricava il suo titolo: «Disposizioni in materia di alleanza terapeutica, di consenso informato e di dichiarazioni anticipate di trattamento» proprio dal fatto che si è voluto mettere in primo piano il tema della relazione medico-paziente. L'urgente bisogno, di cui oggi tanto si parla, di riumanizzare la medicina significa proprio questo: restituire alla relazione medico-paziente il suo valore centrale di fiducia reciproca, di affidamento consapevole. Il malato non deve sentirsi solo davanti a decisioni importanti come sono quelle che coinvolgono la sua esistenza in modo irrevocabile e definitivo. Il medico, d'altra parte, è destinatario di un fondamentale dovere di garanzia nei suoi confronti, può agire solo dopo aver acquisito il consenso e può acquisire il consenso solo dopo averlo adeguatamente formato nell'ambito di un rapporto che non è mai riducibile ad un atto burocratico.
La proposta di legge in oggetto insiste ripetutamente sulla necessità che tra medico e paziente si crei una relazione di alleanza, ben sapendo che l'informazione che il medico fornisce al paziente ha un alto valore performativo che contribuisce a modulare i processi decisionali che ne conseguono. Il modo con cui il medico presenta l'una o l'altra alternativa, l'enfasi con cui sottolinea gli aspetti prognostici, la sicurezza con cui impegna la sua competenza e la sua esperienza, influiscono sui processi decisionali del paziente ed è per questo che è carico di una forte valenza etica in cui confluiscono il principio di responsabilità, di cui tanto parla Jonas, e l'etica della cura così radicata in quel sentire Pag. 46cristiano dell'assistenza che ha creato la cultura e la prassi del moderno ospedale.
Paradossalmente, quanti sostengono l'assoluta libertà del paziente pretendono la stretta vincolatività delle DAT senza cogliere la contraddizione con il fatto che, in questo modo, negano o per lo meno coartano pesantemente la libertà del medico.
In realtà l'attuale proposta di legge prova a valorizzarle contestualmente ed è in questa direzione che va l'emendamento che ripropone la formulazione del Senato, recuperando la prospettiva dell'articolo 9 della Convenzione di Oviedo che parla di carattere orientativo delle DAT, impegnativo, ma non vincolante.
Si è detto che il carattere orientativo delle DAT toglierebbe alla legge la sua ragion d'essere, come se la dignità umana in questa circostanza si potesse esprimere solo all'interno di una logica coercitiva, che obbliga il medico ad una posizione di sudditanza.
L'aspetto più insidioso nell'apposizione dei fattori del principio di autodeterminazione e della sua formulazione assoluta è quello di ribadire il diritto alla non attivazione o all'interruzione di ogni tipo di cura, anche quelle salvavita. La somministrazione di cibo e di acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita e, quindi, obbligatorio nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere finalità che gli sono proprie: assicurare idratazione e nutrizione al paziente, evitandogli le sofferenze e la morte dovute a inanizione e disidratazione.
Non si può prescindere dal criterio etico generale, secondo il quale la somministrazione di acqua e cibo, anche quando avviene per vie artificiali, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico. Il suo uso va, quindi, considerato come ordinario e proporzionato, anche quando lo stato vegetativo si prolunga.
Il dibattito sulla nutrizione ed idratazione medicalmente assistita, se sia un trattamento di tipo medico o se sia invece un sostegno vitale, può diventare però un distrattore rispetto ad un nuovo punto critico della legge, che riguarda il diritto del paziente al rifiuto o alla rinuncia di tutte le cure. Anche su questo punto interverremo con un emendamento ad hoc, perché il diritto alla non attivazione o all'interruzione delle cure, quando si tratta di cure salvavita la cui omissione non può che essere la morte, richiede necessariamente una volontà attuale, libera e consapevole.
D'altra parte, il rifiuto della nutrizione ed idratazione è perseguito con tanta ostinazione solo perché è un fattore sicuro di morte in un tempo che si presuppone ragionevolmente breve. Non vi è dubbio che la polarizzazione del dibattito sulla possibilità o meno di interrompere la nutrizione e l'idratazione assistita acquista il suo vero significato solo se non lo si osserva esclusivamente dalla prospettiva della libertà, come invece fanno alcuni quando si chiedono perché si debba sottrarre ad una persona il diritto a decidere, sia pure ora per allora, cosa intenderebbero fare in quelle determinate circostanze.
Il dibattito acquista tutto il suo senso drammatico solo quando si ammette con la giusta onestà intellettuale che la conseguenza immediata e diretta della sospensione della nutrizione e dell'idratazione è la morte del paziente. E in fondo è questa la lezione magistrale che Eluana Englaro ci ha lasciato, morendo dopo solo tre giorni dalla sospensione della nutrizione e dell'idratazione dopo essere vissuta almeno 17 anni con il semplice sussidio di un sondino naso-gastrico.
Senza nulla togliere al valore della libertà, che ognuno di noi ama appassionatamente, anche coloro che vogliono una legge e accettano con qualche opportuna modifica questa proposta, la questione in gioco è un'altra: questa libertà pretesa dai denigratori della legge conduce solo ed esclusivamente alla morte. Eluana docet. Stanno, infatti, chiedendo con insistenza solo una cosa: depenalizzare l'eutanasia e rendere possibile che la libertà umana si spinga fino a procurare la morte grazie all'intervento Pag. 47di alcuni medici compiacenti. Per loro si chiede che non possano essere perseguitati dalla legge, come accadrebbe se questa legge non formulasse con chiarezza assoluta questo principio. Il malato può chiedere molte cose ed è certo che il suo desiderio e le sue richieste saranno prese seriamente in considerazione: tutto, ma non la morte. È vero che la vita di un medico è una partita sempre persa con la morte, che prima o poi arriverà inevitabilmente, ma tocca al medico perderla il più tardi e il più onorevolmente possibile.
Questa è una legge laica, anche se sono chiari alcuni riferimenti di ispirazione cristiana. Voglio fare un passaggio sul punto. Giovanni Paolo II, testimone del coraggio con cui si può affrontare una malattia cronica, grave e progressiva, è stato citato tante volte a proposito di questa legge, spesso a sproposito, stravolgendo il suo pensiero e la sua stessa storia personale. Nel 1995 nell'enciclica Evangelium vitae, al paragrafo 64, afferma: «Oggi, in seguito ai progressi della medicina e in un contesto culturale spesso chiuso alla trascendenza, l'esperienza del morire si presenta con alcune caratteristiche nuove (...). Infatti (...) la sofferenza appare come uno scacco insopportabile, di cui occorre liberarsi ad ogni costo. La morte (...) diventa invece una liberazione rivendicata quando l'esistenza è ritenuta ormai priva di senso, perché immersa nel dolore e inesorabilmente votata ad un'ulteriore più acuta sofferenza. (...) In un tale contesto si fa sempre più forte la tentazione dell'eutanasia, cioè di impadronirsi della morte, procurandola in anticipo e ponendo così fine dolcemente alla vita propria o altrui. In realtà, ciò che potrebbe sembrare logico e umano, visto in profondità si presenta assurdo e disumano (...)».
Mentre condanna l'eutanasia, Giovanni Paolo II ne dà anche una corretta definizione, proprio come chiede la Commissione II (Giustizia) nella formulazione del suo parere. Per un corretto giudizio morale sull'eutanasia occorre innanzitutto chiaramente definirla. Per eutanasia, in senso vero e proprio, deve intendersi un'azione od omissione che, di natura sua e nelle intenzioni, procura la morte allo scopo di eliminare ogni dolore. L'eutanasia si situa, dunque, a livello delle intenzioni e dei metodi usati. È la volontà di procurare la morte che connota esattamente cosa sia l'eutanasia e per questo Giovanni Paolo II definisce anche con chiarezza cosa debba intendersi per accanimento terapeutico. Dall'eutanasia va distinta la decisione di rinunciare al cosiddetto accanimento terapeutico, ossia a certi interventi medici non più adeguati alla reale situazione del malato perché ormai sproporzionati ai risultati che si potrebbero sperare o anche perché troppo gravosi per lui e per la sua famiglia. È l'intenzione con cui si persegue un determinato fine che innanzitutto lo connota sotto il profilo morale. Per questo Giovanni Paolo II continua, dicendo: «Fatte queste distinzioni, in conformità con il magistero dei miei predecessori e in comunione con i vescovi della Chiesa cattolica, confermo che l'eutanasia è una grave violazione della legge di Dio, in quanto uccisione deliberata e moralmente inaccettabile di una persona umana. Tale dottrina è fondata sulla legge naturale».
In conclusione, sia a livello personale che come Unione di Centro, siamo sostanzialmente favorevoli alla legge, per quanto riguarda la tutela della vita e il «no» chiaro e fermo all'eutanasia, il «sì» alle cure palliative e il «no» all'accanimento terapeutico, la necessità di acquisire il consenso informato prima di qualsiasi intervento e il «no» all'abbandono del malato. Vogliamo arrivare a una formulazione in cui il valore della vita si integri con quello della libertà del paziente e del medico. Non vogliamo che l'autonomia del paziente si risolva nell'indifferenza del medico né che il valore della cura si confonda con un inutile accanimento né, tanto meno, che l'alleanza tra medico e paziente degeneri in una forma di contrattualismo. Vogliamo ricondurre le DAT nell'ambito delle scelte di cura, senza tentare scorciatoie che abbrevino la vita, alterandone i tempi naturali. È lo spirito della Costituzione, se si considera in toto l'articolo 32, Pag. 48primo e secondo comma, e se si tiene conto dei nostri codici e di tutta la giurisprudenza. Non reggono quindi le accuse alla legge in cui si rimprovera di violare la libertà del paziente, obbligandolo a vivere suo malgrado. In realtà, la legge non obbliga a vivere ma proibisce di accelerare la morte del paziente, sia provocandola in modo attivo sia omettendo le cure indispensabili.

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Binetti.

PAOLA BINETTI. Solo un momento, Signor Presidente. La legge restituisce al valore della solidarietà il senso proprio della relazione di aiuto e non quello della complicità in un gesto di irrevocabile soppressione della vita. È una legge realista, a cui non sfugge neppure la fragilità del malato virtuale quando scrive le sue dichiarazioni anticipate, immaginando una scenario povero di speranza umana e scientifica e teme di essere di peso per la sua famiglia. Sa bene che in un contesto clinicamente ben attrezzato è possibile assistere, anche grazie alla nutrizione e alla idratazione medicalmente assistite, pazienti che, per il 90 per cento - sono le attuali statistiche mediche - possono recuperare condizioni buone e persino eccellenti di salute. È una legge cui non sfuggono, nelle affermazioni più recenti di molti cosiddetti esperti o saggi, rigurgiti di una volontà eutanasica che si ammanta di parole come libertà e autodeterminazione mentre, in realtà, riafferma la negazione stessa della libertà, che non può che scomparire ipso facto con la morte del paziente. A tutti costoro, con questa legge opportunamente emendata, vogliamo semplicemente offrire un motivo di speranza in più, nella relazione umana con i familiari e con i medici e con la scienza e con le istituzioni. Lo Stato non li obbliga a vivere loro malgrado, ma si preoccupa semplicemente che nessuno impedisca loro di continuare a vivere (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro, Misto-Alleanza per l'Italia e di deputati del gruppo Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Livia Turco. Ne ha facoltà.

LIVIA TURCO. Signor Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, è motivo di grande amarezza e preoccupazione il fatto che il testo di legge sul testamento biologico che approda oggi in Aula, dopo due anni dalla sua approvazione al Senato, resti il testo della lacerazione tra Parlamento e Paese e della contrapposizione tra le forze politiche. Voi, onorevoli colleghi della Commissione Affari sociali, lei onorevole di Virgilio, non potete non rammentare la chiara posizione assunta dal Partito Democratico fin dall'inizio.
Vi esortammo a mettere da parte il testo dello scontro e della lacerazione, a costruire una nuova fase, a elaborare un testo condiviso che tenesse conto dell'importante dibattito pubblico che ha coinvolto il nostro Paese. Dai medici, dai giuristi, dalle associazioni dei malati sono state avanzate riflessioni e proposte molto importanti, che il legislatore aveva ed ha il dovere di ascoltare. Un dibattito pubblico che ci ha confermato quanto sia immotivato quel pessimismo antropologico che pervade il vostro testo di legge, perché il nostro Paese non è attraversato da una deriva eutanasica da ostacolare, contenere e domare con la forza della legge, ma al contrario è un Paese di donne e di uomini che chiedono certezza e qualità delle cure, presa in carico di ciascuna persona, lotta alla solitudine e all'abbandono terapeutico, rispetto della volontà del paziente. Il legislatore deve raccogliere questa domanda. Questo è il tema che vi avevamo posto nei mesi scorsi e che vi proponiamo ancora oggi. Fermiamoci, fermatevi, non approvate un testo anticostituzionale, irragionevole, di difficile applicazione. Vi abbiamo detto nei mesi scorsi, lo ribadiamo oggi: costruiamo insieme una legge condivisa, una legge umana, mite, che sia animata dal sentimento della pietas, che sia rispettosa della singola irripetibile persona, che promuova e valorizzi la relazione di fiducia tra medico, paziente e familiari, che ascolti la volontà del paziente all'interno della relazione di cura Pag. 49con il medico e i familiari; una legge che non imponga ma che rispetti la persona, che non lasci nessuno solo di fronte alla morte, che combatta la solitudine, che garantisca a ciascuna persona le cure necessarie ma anche la presenza amorevole; una legge che rispetti in particolare l'articolo 32 della Costituzione e l'articolo 9 della Convenzione di Oviedo. L'articolo 32 della Costituzione, come ci ricorda la sentenza n. 282 del 2002 della Corte costituzionale, sollecita il legislatore a realizzare un bilanciamento tra due diritti fondamentali: il diritto alla salute e il diritto all'autodeterminazione e alla libertà di scelta terapeutica. La questione che abbiamo posto e che consideriamo fondamentale per una buona legge sul fine vita è il rispetto della volontà del paziente all'interno della relazione di fiducia tra medico, paziente e familiari. Per usare un'espressione che mi è molto piaciuta del teologo, Bruno Forte, il connubio tra il sacrario della coscienza e la rete di comunione è ciò che vorremmo promosso e rispettato il più possibile in una legislazione sul fine vita. Relazione di fiducia e non solo di cura. La fiducia implica che, oltre a curare, il medico si prende cura, ascolta la competenza del paziente, non guarda solo alla sua malattia ma alla sua biografia e al suo contesto di vita, le persone che vi sono accanto. La relazione di fiducia tra paziente e medico, familiari, è la modalità di cura più ambiziosa e difficile ma è l'unica efficace. È ambito etico perché in essa il fluire della vita dimostra che vita e autodeterminazione, intesa come libertà per fare ciò che è bene, non sono tra loro in contrapposizione perché non c'è l'una senza l'altra. L'autonomia e la volontà del paziente non sono un io solipsistico e un'astratta signoria della mente. L'autonomia e la scelta si esercitano nel contesto delle relazioni umane, della comunità di affetti in cui ciascuno misura la sua dipendenza dall'altro. Nella relazione di fiducia sono su un piano di dignità, nella distinzione dei ruoli, il medico e il paziente, pari libertà e dignità di diritti e doveri pur nel rispetto dei diversi ruoli. L'autonomia decisionale del cittadino è l'elemento fondamentale dell'alleanza terapeutica al pari dell'autonomia e della responsabilità del medico nell'esercizio delle sue funzioni di garanzia. Sono affermazioni contenute nel documento dell'Ordine dei medici votato all'unanimità al Convegno di Terni. Chiediamoci: quali sono gli ingredienti della libertà, della dignità, della scelta, quando una persona è tormentata dal dolore e dalla sofferenza, quando sente di avere perso la sua forza, oppure quando è caduta nel sonno dell'incoscienza? Cosa significano autodeterminazione e scelta quando ciò che tiene in vita è la presenza dell'altro accanto a sé?
In queste circostanze, si è in vita se ci accompagna lo sguardo dell'altro, se senti la sua mano, se sai che, anche se non parli, la tua parola è ascoltata e conta perché l'altro ti conosce nella profondità dell'animo. La libertà è poter dire: «io sono con te che mi ascolti, che mi rispetti, che ti prendi cura di me». La libertà è una relazione amorevole di reciproca fiducia; io sono, io voglio, io decido, diventa io sono con te perché solo con te, con voi, posso dire di scegliere e decidere. Sempre, nella nostra vita, ma, soprattutto, quando si è travolti dalla sofferenza o si vive nell'incoscienza, il bisogno dell'altro diventa parte integrante della propria libertà e la dipendenza dall'altro diventa parte di sé e della propria autonomia.
La legge mite deve promuovere e valorizzare questa relazione amorevole di cura che non è soltanto un'esperienza umana, ma anche una forma del pensiero, capace di tenere insieme e di rendere concreti i valori dell'autonomia della persona e della difesa della vita. Consentitemi di richiamare un documento del Comitato nazionale per la bioetica che ho sentito poco fa chiamare nel nostro dibattito. «Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione paziente-medico» è il titolo della relazione del 28 ottobre 2008 illustrata, nella sua audizione al Senato, dal professor Casavola. Nella misura in cui la malattia stessa è causa di una compressione della sfera dell'autonomia del malato, allora la medicina, nella Pag. 50sua finalizzazione alla cura della malattia, contribuisce a promuove l'autonomia del paziente.
La tutela dell'autonomia si presenta, in questo senso, quale fine intrinseco della pratica medica e non soltanto quale argomento da contrapporre all'invadenza della medicina moderna. L'autonomia non va ridotta alla sola accezione negativa della non interferenza, ma va intesa anche positivamente, sia come fonte del dovere del medico di informare il paziente e di verificare, in un vero e proprio processo di comunicazione, l'effettiva comprensione dell'informazione data, sia come capacità, dello stesso medico, di ascolto, di comprensione, della richiesta del paziente, capacità necessaria per individuare le scelte terapeutiche più opportune e rispettose della persona nella sua interezza. Ciò significa che bisogna superare ogni concezione meramente formalistica o difensivistica del consenso informato.
D'altra parte, anche l'implementazione del diritto alla rinuncia consapevole delle cure, può esplicare riflessi positivi sul piano della relazione paziente-curante, alimentando la reciproca fiducia. Se il paziente può confidare che la propria volontà, da accertarsi in concreto con le dovute cautele e garanzie, verrà accolta e rispettata, l'elemento di fiducia alla base dell'alleanza terapeutica ne verrà rinsaldato. Inoltre, proprio la possibilità di richiedere l'interruzione può favorire l'adesione del paziente all'avvio di trattamenti che prevedono la dipendenza da macchinari surrogatori di funzioni vitali, trattamenti che potrebbero essere a priori rifiutati proprio per il timore di una perdita definitiva della possibilità di autodeterminazione.
La legge, dunque, deve promuovere, sostenere e valorizzare la relazione di fiducia tra paziente, medico, fiduciario e la comunità di affetti, prevedendo che la parola definitiva sia della persona interessata che la può esprimere attraverso il suo fiduciario. Questa relazione di fiducia deve essere attivata ed ascoltata tanto più quando si deve usare il massimo di precauzione, come nei confronti della sospensione della nutrizione artificiale che, però, in quanto trattamento sanitario, deve essere prevista nelle DAT.
Nel vostro testo di legge, la volontà del paziente si riduce ad essere un generico orientamento ed esso ha valore puramente indicativo per il medico il quale è unicamente tenuto a prenderla in considerazione. In tal modo, le DAT si configurano come uno strumento inutile e contraddittorio. Il medico stesso, cui è attribuito un grande potere, è, in realtà, avvolto da un alone di sospetto sul fatto che possa provocare interventi eutanasici, tanto che vengono citati gli articoli 575, 579 e 580 del codice penale (articolo 1, comma 1, lettera c) e al fiduciario viene attribuito il compito di vigilare - vigilare, sì questa parola, vigilare - perché al paziente vengano date le cure migliori (articolo 6 comma 3).
Non è previsto alcun miglioramento nell'assistenza dei malati in stato vegetativo e nessun impegno per diffondere come diritto le cure palliative e le terapie antidolore. Queste ultime sono riconosciute solo ai malati terminali. Per i soggetti minori, interdetti, inabilitati o altrimenti incapaci la legge non prevede l'alleviamento della sofferenza ma solo la salvaguardia della salute del paziente (articolo 2, comma 8). Questo è l'aspetto più cinico e più incredibile della vostra legge.
Voi esponenti del centrodestra purtroppo - dico purtroppo - siete molto generosi ad esaltare la vita umana con la retorica, con le chiacchiere, con l'esaltazione dei principi ma siete avarissimi nel prevedere misure concrete. E abbiamo ancora una volta assistito alla farsa di una norma svuotata di significato dalle decisioni della Commissione bilancio che ha imposto anche questa volta la formula di rito «senza maggiori oneri per lo Stato» all'articolo 5, da noi tenacemente voluto, relativo all'assistenza ai soggetti in stato vegetativo.
Irragionevole e anche incostituzionale è la formula dell'articolo 3, comma 5 e comma 6, che prevede la proibizione in ogni caso della sospensione della nutrizione artificiale riconosciuta unanimemente dalla scienza medica come trattamento sanitario. Pag. 51Anche in relazione agli stati vegetativi persistenti, come è stato detto nel giudizio di incostituzionalità presentato dalla Commissione affari costituzionali dal nostro gruppo, un limite di questo tipo può costituire violazione dell'articolo 32 della Costituzione il quale prevede non solo che nessun trattamento sanitario può essere reso obbligatorio...

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Livia Turco.

LIVIA TURCO. ...se non per disposizione di legge, ma anche che la legge in nessun caso può violare i limiti imposti dal rispetto della persona.
Sono queste le ragioni della nostra contrarietà a questa proposta di legge. Fermatevi e fermiamoci, costruiamo un nuovo inizio, costruiamo un nuovo testo che sia efficace e condiviso. Facciamolo per il rispetto delle persone e per il bene del nostro Paese.
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Onorevole Turco, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Calgaro. Ne ha facoltà.

MARCO CALGARO. La proposta di legge nella sua versione attuale riconosce e tutela l'indisponibilità della vita umana a prescindere dalla sua qualità e non permette di includere all'interno delle DAT volontà circa l'idratazione o l'alimentazione che, se rese cogenti, configurerebbero certamente, in casi come gli stati vegetativi persistenti, l'introduzione dell'eutanasia per fame o per sete.
Il percorso di elaborazione della legge ha risentito in modo troppo rilevante del fatto che tale articolato è nato come reazione alla vicenda di Eluana Englaro e ha pertanto dato luogo ad una disputa tutta ideologica che, come spesso accade, non ha consentito di tenere nel debito conto il merito medico-scientifico e il principio di fondo che dovrebbe ispirare ogni legge che ha che fare con le fasi di maggiore debolezza della vita di ogni uomo: il principio di empatia e di fiducia che deve svilupparsi e crescere nella relazione tra medico, paziente, parenti, fiduciario, così da realizzare nei fatti quella alleanza terapeutica tanto declamata nell'articolato.
Dico subito che io condivido totalmente i principi ispiratori della proposta di legge e anche la decisione più che opportuna di escludere la possibilità di inserire l'idratazione e l'alimentazione nelle dichiarazioni anticipate. Ma una legge non deve nascere solo per affermare principi e valori ma anche per consentirne la quotidiana applicabilità nelle situazioni concrete per i beni di ogni uomo ed evitando di generare più contenziosi di quelli che si vorrebbe evitare approvandola.
L'articolo 2 tratta del consenso informato e vorrei far notare come questo rappresenta il fondamento dell'alleanza terapeutica medico-paziente-famiglia ed è universalmente andata affermandosi come la fondamentale e indispensabile fonte di legittimazione dell'atto medico. Rileva inoltre che la maggior parte del contenzioso penale in campo di responsabilità professionale ruota intorno al consenso informato che, ad oggi, non è normato da una disciplina ad hoc ma da diversi atti legislativi. Questa proposta di legge diventerà quindi il principale riferimento normativo su questa delicata materia e, tralasciando altre osservazioni di minore importanza, vorrei sottolineare che il comma 7 recita: «Il consenso informato al trattamento sanitario del minore è espresso o rifiutato dagli esercenti la potestà parentale o la tutela dopo aver attentamente ascoltato i desideri e le richieste del minore. La decisione di tali soggetti riguarda quanto consentito anche dall'articolo 3 ed è adottata avendo come scopo esclusivo la salvaguardia della salute psico-fisica del minore». Pag. 52
Vorrei accennare due riflessioni: la prima riguarda il fatto che non si faccia alcuna differenza tra il minore maggiore di 14-16 anni e gli altri minori. Infatti mi sembrerebbe doveroso per gli ultraquattordicenni imporre l'obbligo al medico curante di informare con le debite precauzioni il minore riguardo alle decisioni che lo riguardano.
La seconda riflessione vuole solo ricordare che nella nostra società ormai multietnica il tema del consenso al trattamento dei minori deve essere trattato con molta attenzione, poiché vi sono culture nelle quali è diffusa una concezione sostanzialmente proprietaria del figlio minore e mi parrebbe utile prestare attenzione a che venga garantita in concreto una sua corretta informazione e compartecipazione alle decisioni che lo riguardano, soprattutto quando ultraquattordicenne.
All'articolo 2, comma 9, si afferma che il consenso informato al trattamento sanitario non è richiesto quando la vita della persona incapace di intendere o di volere sia in pericolo per il verificarsi di una grave complicanza o di evento acuto. Ritengo che questo sia molto grave. Infatti la situazione attuale - che penso debba essere mantenuta così com'è - prevede che il consenso informato non debba essere richiesto solo nelle situazioni di emergenza, cioè quelle nelle quali si verifica un pericolo di vita immediato, e non nelle situazioni di urgenza o in presenza di complicanze gravi, a meno che non ci si trovi nella reale impossibilità di reperire i familiari, il tutore o il fiduciario in un lasso di tempo tale da non pregiudicare la vita del paziente.
All'articolo 3, comma 3, si dice che nella DAT può essere anche specificata la rinuncia da parte del soggetto ad ogni o ad alcune forme particolari di trattamenti sanitari in quanto di carattere sproporzionato o sperimentale. Mi chiedo che senso abbia dire, magari con anni di anticipo, che non si vuole essere sottoposti a terapie di carattere sproporzionato o sperimentale. Infatti è dovere di ogni medico non sottoporre i suoi pazienti a terapie sproporzionate ed è chiaramente impossibile dire, ad anni di distanza dalla reale situazione, che una terapia piuttosto che un'altra è sproporzionata rispetto ad una situazione ipotetica. Quanto alle terapie sperimentali, un rifiuto così generico ed anticipato non può che essere largamente approssimativo rispetto all'importanza della decisione da prendere e alle sue conseguenze.
L'articolo 3, comma 5, è il più problematico del provvedimento. Infatti prevede che alimentazione e idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita, ad eccezione del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni fisiologiche essenziali del corpo; esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. Questa frase, così com'è scritta, impone di fatto nutrizione ed alimentazione fino alla morte del paziente, nulla di più e nulla di meno. Viene sostanzialmente sancito l'obbligo di idratazione e alimentazione fino alla morte, senza eccezioni e senza possibilità di valutazione da parte del medico curante. In questo articolo vi è una duplice criticità: per un verso è a tutti i medici noto che vi sono casi in cui nei malati terminali - e i pazienti in stato vegetativo sono disabili gravissimi e non malati terminali - idratazione e alimentazione possono davvero configurarsi come accanimento terapeutico. D'altro canto questo articolo, così com'è scritto, denota un'impostazione generale della legge improntata a sfiducia profonda nei confronti della buona fede e della positiva interazione fra medico, paziente, fiduciario e parenti. Non vi possono essere scorciatoie in certe situazioni delicatissime: posti dei limiti precisi di salvaguardia e delineato un percorso decisionale corretto, non resta che dare piena fiducia a questa interazione virtuosa, non resta che affidare alle relazioni tra persone che si stimano e si vogliono bene una decisione condivisa. Questa è una sana e vera alleanza terapeutica. Pag. 53
L'articolo 4, comma 6, afferma che in condizioni di urgenza o quando il soggetto versi in pericolo di vita immediato la dichiarazione anticipata di trattamento non si applica. Anche qui bisogna ribadire che, come per il consenso informato, una cosa è la situazione di emergenza o di pericolo di vita immediato nella quale è comprensibile che, come per il consenso informato, qualora non si siano precedentemente acquisite le volontà del paziente, le DAT non abbiano valore, ma bisogna assolutamente prestare attenzione al fatto che, qualora le DAT siano state precedentemente acquisite o ci si trovi in una situazione di urgenza e non di emergenza, è ragionevole che debba essere acquisito il consenso del fiduciario o del parente.
L'articolo 7 riguarda la figura del medico nelle DAT e denuncia al comma 1 che le volontà espresse dal soggetto nella sua dichiarazione anticipata di trattamento sono prese in considerazione dal medico curante che, sentito il fiduciario, annota nella cartella clinica le motivazioni per le quali ritiene di seguirle o meno. Non credo che le DAT debbano essere considerate vincolanti per il medico, che non può divenire un mero esecutore di quanto il paziente, anni prima, decide di sé e che oggettivamente potrebbe trovarsi di fronte a richieste non esaudibili perché violano la legge, la deontologia o non tengono conto dei progressi o dei cambiamenti intervenuti nella medicina. Ritengo però importante che la disposizione di legge preveda che le volontà espresse dal paziente assumano un ruolo rilevantissimo nell'orientare la decisione del medico e che solo dopo un confronto con il fiduciario o i parenti il medico curante possa contraddirle, motivando in modo approfondito e documentato la sua scelta sulla cartella clinica.
Il punto rilevante e debolissimo è quale possa essere il contenuto delle DAT. Va ancora trovato un equilibrio su cosa vi si possa effettivamente scrivere. Infatti, qualcuno potrebbe desiderare cose impossibili da imporre ad un medico o a chiunque altro di fare legalmente o avere desideri totalmente contrastanti con una reale ed effettiva possibilità di cura o irragionevoli scientificamente.
Oppure, ancora, potrebbe, molto più comprensibilmente, ribadire la sua volontà di non accanimento in certe situazioni limite, ad esempio il malato di SLA che non vuole essere intubato, il malato terminale che non vuole essere rianimato o, al contrario, potrebbe esprimere la volontà che su di sé sia tentato di tutto fino all'estremo.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

MARCO CALGARO. Tutte queste rispettabili manifestazioni di volontà hanno la forza della libertà e dell'autodeterminazione ma la debolezza della non attualità che non è solo caratterizzata, come molti, giustamente, affermano, dall'impossibilità di trovarsi concretamente in una data situazione e di conoscere le possibilità di terapia in quel preciso momento. Infatti, come molti lavori scientifici dimostrano, una persona che prende una decisione su di sé mentre si trova in piena salute cambia la sua determinazione nella stragrande maggioranza dei casi quando si trova, concretamente, in una condizione di disabilità o di malattia. La debolezza principale è data dall'impossibilità, nel momento in cui si affronta una decisione così importante, di giovarsi del rapporto diretto, professionale col medico e relazionale di affetto e di amore con chi ci è vicino. Quante persone si lascerebbero morire, si suiciderebbero e si sentirebbero perse e sconfitte in moltissime situazioni e invece cambiano le loro decisioni per la sola presenza e vicinanza di persone che vogliono il loro bene, che si prendono cura di loro.
A queste considerazioni conseguono, per quanto mi riguarda in modo combattuto ma chiaro, alcuni capisaldi che devono guidare gli emendamenti indispensabili per far sì che questa legge non sia solo un distillato di buoni principi ma salvaguardi concretamente l'autodeterminazione del paziente, la professionalità e l'autonomia del medico, la indisponibilità Pag. 54della vita umana e una antropologia che colloca il malato non solo con se stesso in un'isola deserta, ma all'interno di una rete di relazioni di cura e di amore.
La prima colonna portante è che la volontà del paziente deve essere assolutamente vincolante quando lo stesso è cosciente. Infatti la sua decisione scaturisce da quel confronto con la professionalità del medico e da quella rete di consigli amicali, familiari e di amore che conferiscono umanità profonda alla decisione e, in qualche misura, la legittimano.
La seconda colonna portante è che la volontà del paziente deve essere ritenuta importantissima anche quando espressa ora per allora; deve essere impegnativa, ma per i motivi precedentemente elencati non può essere vincolante, deve essere mitigata dal confronto con le disposizioni di legge che tutelano ogni vita come un bene indisponibile e prezioso per la comunità e dal confronto tra il medico, i familiari o fiduciari; al medico deve essere data la responsabilità della motivata e, in qualche caso certamente sofferta, decisione finale dal punto di vista terapeutico.
Sono convinto che se utilizzeremo il tempo che resta da qui al voto per un confronto costruttivo, che superi la contrapposizione ideologica e si concentri sul bene e sulla dignità di ogni persona, riusciremo a produrre emendamenti tali da giungere a un testo condiviso almeno da tutti coloro che si riconoscono nell'ispirazione di fondo di questa proposta di legge (Applausi dei deputati dei gruppi Misto-Alleanza per l'Italia, Unione di Centro e di deputati del gruppo Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mazzocchi. Ne ha facoltà.

ANTONIO MAZZOCCHI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, oggi con l'inizio del dibattito sul trattamento di fine vita il Parlamento sta mantenendo fede all'impegno assunto, dopo la triste vicenda Englaro, di legiferare in una materia così delicata. Credo di interpretare i sentimenti di tanti quando dico che molti avrebbero voluto evitare di essere coinvolti in tale dibattito perché convinti che, su tale materia, non solo le coscienze di credenti e non credenti siano diametralmente opposte ma soprattutto perché convinti che il tema del fine vita non possa essere regolato fino in fondo.
Il 9 febbraio 2009 ad Udine è accaduto qualcosa: è morta Eluana Englaro; la sua morte non è dovuta a un avvenimento fortuito, ma è stata frutto della prepotenza, a mio avviso, di quella magistratura che con una sentenza ha invaso il campo proprio del legislatore arrogandosi quella che è una prerogativa del Parlamento, il potere legislativo. Tutto questo solo perché, in una materia così delicata, in quanto avente ad oggetto un bene di primaria importanza quale quello della vita, bene indisponibile garantito dalla nostra stessa Costituzione, sussisteva una vacatio legis.
La sentenza della Cassazione, forzando non di poco l'articolo 32 della nostra Costituzione, ha autorizzato la sospensione dell'alimentazione e dell'idratazione di Eluana, concependo la stessa quale forma di accanimento terapeutico contrastante con la volontà della Englaro, volontà, peraltro, ricostruita a posteriori attraverso indici presuntivi e stili di vita. Su tale vicenda, le nostre coscienze si sono di certo divise; sulla scia di tale vicenda il Parlamento ha sollevato anche un conflitto di attribuzione criticando ai giudici, in primo luogo, un eccesso di creatività, dal momento che per non andare oltre la loro funzione avrebbero dovuto rifarsi esclusivamente al diritto vigente e dichiarare infondata la pretesa del tutore.
Sono convinto che ora, terminata l'onda emotiva della drammatica vicenda di Eluana ed esprimendo la più alta solidarietà umana e cristiana alla famiglia, i tempi non solo sono meno stringenti e dunque più favorevoli per raggiungere un testo, il più ampio condivisibile, ma soprattutto i nostri animi si sono raffreddati e possiamo finalmente, con quella lucidità che una materia del genere richiede, valutare le posizioni di tutti, per addivenire ad un buon compromesso normativo tra il confine Pag. 55del valore della vita e la salvaguardia della libertà e della dignità della persona umana.
Ora più che mai siamo chiamati a legiferare per impedire che scelte così delicate continuino ad essere delegate ai giudici; ora più che mai dobbiamo colmare il vuoto legislativo in materia per impedire che la magistratura si senta legittimata a disciplinare lei stessa e a violare conseguentemente la netta separazione tra legislazione e giurisdizione. Dobbiamo impedire che una giurisprudenza creativa si sostituisca alla legge, in quanto il legislatore è chiamato a emanare le norme e il magistrato poi le deve applicare. La sede giurisdizionale non può - ripeto: non può - ma soprattutto non deve poter continuare ad essere la sede per decidere sui diritti fondamentali quali quello della vita, della salute, della vita umana. Il dibattito mai sopito sulla conciliazione tra scienza, e coscienza religiosa, tornato alla ribalta purtroppo perché spinto dalla forte sollecitazione della cronaca, deve trovare una soluzione positiva, al fine di prevenire il ripetersi di soluzioni giuridiche del tipo di quella adottata dalla Cassazione.
In qualche maniera tutti noi siamo stati coinvolti da questa vicenda, che ha diviso profondamente il Paese, in quanto ci pone di fronte a un difficile interrogativo: qual è il confine tra vita e morte, tra diritto alla vita e diritto all'autodeterminazione, tra libertà dell'individuo e responsabilità collettiva?
Ora più che mai, in quanto rappresentanti del Paese, dobbiamo cercare le forme più consone affinché il Paese possa rimanere unito e non vi siano conflitti etici. In un momento in cui il contesto politico rivela la sua massima conflittualità - e poco fa ho ascoltato l'intervento di un collega che persino si è richiamato a Berlusconi in questo clima di conflittualità - non possiamo, ma soprattutto non dobbiamo far sì che questa conflittualità si ripercuota negativamente sul testamento biologico risvegliando quelle ostilità delle diverse correnti di pensiero che di fatto rischiano di impedire un dibattito ed una riflessione seri, ma soprattutto quell'assunzione di responsabilità da parte di credenti e non credenti nei confronti della stessa comunità e del bene comune, perché avente un unico fine. Qualcuno dice: meglio nessuna legge che una legge non gradita. Vi è chi definisce questa legge illiberale: non credo proprio che il testo che approda oggi alla Camera sia una cattiva legge, anzi, esso è il frutto di una lunga discussione incentrata nel difficile tentativo di considerare in tale casistica delle diverse situazioni. Non a caso, questa legge, vietando al contempo eutanasia e accanimento terapeutico, riconosce il principio fondamentale della libertà di cura. Non a caso, questa legge, lasciando al medico la possibilità di attualizzare le DAT, si è posta il problema che, trattandosi di una scelta compiuta ora per allora, in diverse condizioni psicologiche e in virtù di eventuali cambiamenti scientifici dovuti ai progressi della tecnica e della medicina, l'idea stessa del paziente avrebbe potuto essere un'altra.
Il diritto di autodeterminazione non può prevalere ed essere vincolante, perché se così fosse ci renderemmo tutti ciechi di fronte ad eventuali situazioni cliniche mutate e all'evoluzione scientifica e tecnologica intervenuta. Ecco perché ha ragione il relatore per la maggioranza quando dice che il ruolo del medico è fondamentale e non deve soggiacere ad alcuna sorta di vincolatività, perché, se così fosse, verrebbe meno la sua libertà di agire con scienza e coscienza, verrebbe violata la sua stessa libertà di valutare di eseguire la terapia ritenuta più appropriata secondo il quadro clinico sussistente, con il rischio di assecondare una richiesta del paziente effettuata non solo in anticipo, ma in modo generico in quanto noncurante delle possibili nuove terapie.
Il ruolo del medico non può e non deve essere ridotto a quello di mero esecutore. Ecco perché con questa proposta di legge abbiamo voluto garantire la continuità di quell'alleanza terapeutica tra medico e paziente, concependo tale alleanza quale continuazione del dialogo stesso tra medico e paziente anche quando quest'ultimo non possa più prendervi consapevolmente parte Pag. 56in quanto impossibilitato ad esprimere le sue scelte perché non più vigile e cosciente. Credo che stabilire il principio secondo cui l'alimentazione e l'idratazione non rientrino nell'ambito delle terapie, configurandosi quali funzioni vitali, e per questo stabilire che esse debbano essere mantenute fino al termine della vita, salvo in caso in cui le stesse risultino non più efficaci nel fornire ai pazienti fattori nutrizionali ad esso necessari, e stabilire al contempo che le DAT non siano vincolanti e che sia lo stesso medico a prenderle in considerazione, motivando le ragioni per le quali ritiene di eseguirle o meno, sia sinonimo di quel buonsenso che una materia così delicata necessita onde scongiurare il pericolo che l'autodeterminazione possa assurgere a presunzione assoluta con conseguenze fatali.
Dopo due anni siamo di fronte oggi ad un testo faticosamente elaborato e ringrazio il relatore Di Virgilio per l'ottimo lavoro svolto. Come ogni testo normativo, è ovvio che sia ancora migliorabile. È proprio perché non intendiamo fare forzature o estenuanti bracci di ferro tra credenti e non credenti e proprio perché all'interno degli stessi schieramenti sono emerse posizioni differenti anche tra gli stessi credenti, che dimostrano perplessità su alcuni punti fondamentali come l'articolo 3 sulla dichiarazione anticipata di trattamento e l'articolo 7 concernente il rispetto delle decisioni del paziente espresse nella DAT, che si è deciso di rinviare il voto ad aprile. Tale margine di tempo ci consentirà di apportare tutte quelle modifiche necessarie per rendere il più chiaro possibile il provvedimento e, al contempo, sciogliere quei nodi che ci impediscono oggi di trovare una posizione unitaria.
Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, mi avvio alle conclusioni: se da un lato in questi giorni sono emerse perplessità su alcuni punti della legge, ritengo però che non debbano sorgere perplessità sulla necessità improcrastinabile di una legge sul fine vita. Faccio, dunque, un appello a tutte le forze politiche, affinché tale periodo di riflessione non si traduca in un nulla, ma possa rappresentare un'opportunità per approfondire maggiormente nel merito e con il confronto costruttivo e trasversale i nodi fondamentali della legge. Si tratta di una legge che riteniamo possa e debba salvaguardare la libertà e la dignità della persona umana, tutelando - come giustamente ha sottolineato il relatore - un diritto che appartiene a tutti, credenti e non credenti: il diritto alla vita (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Mura. Ne ha facoltà.

SILVANA MURA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il tema del fine vita e del testamento biologico poteva costituire una grande occasione per realizzare con il consenso di tutti una buona legge su una questione molto sentita dai cittadini. Avevamo l'occasione di compiere un ulteriore passo in avanti nel rapporto tra medico e paziente, altrettanto importante come quello raggiunto con il riconoscimento del principio del consenso informato. Invece, si è scelto di intraprendere la stessa strada percorsa con la legge sulla fecondazione assistita, dando vita ad un provvedimento che peggiora sensibilmente la situazione rispetto al vuoto normativo preesistente e che rischia seriamente di essere successivamente sfogliato al pari di un carciofo da sentenze di tribunali e da pronunciamenti della Corte costituzionale.
Se era inevitabile che questa proposta di legge, nel testo approvato al Senato, risentisse fortemente della grande emozione e dell'influenza suscitata dalla vicenda di Eluana Englaro, dal momento che l'esame si è svolto proprio a seguito della sua morte, non è affatto comprensibile la linea che la maggioranza ha scelto di seguire alla Camera. Anche a molti mesi di distanza da quell'episodio che ha segnato e che segnerà a lungo la coscienza del Paese, invece di voltare pagina per scrivere doverosamente un capitolo nuovo, è stato imposto a tutti noi di disputare i tempi supplementari di quell'indegna partita che per troppo tempo si è giocata sconsideratamente Pag. 57e senza esclusione di colpi ai bordi del letto nel quale Eluana riposava.
Il corpo di quella ragazza è stato trasformato in una sorta di trofeo. A contenderlo c'erano da un lato una fazione che ha fatto di un corpo ormai privo dell'unico e vero soffio vitale una sorta di feticcio distorto del significato stesso della vita e, dall'altro, una fazione che ha quasi gioito per la morte di un essere umano.
A fronte di comportamenti perversi da parte del Governo, come quello di istituire la giornata degli stati vegetativi nel giorno della morte di Eluana Englaro, era praticamente inevitabile che sul tema del testamento biologico non ci potesse essere alcuna forma di confronto costruttivo. Il testo attuale è assolutamente inaccettabile ed è per questo che l'Italia dei Valori, che ha ritenuto di presentare una relazione di minoranza e una pregiudiziale di costituzionalità, si opporrà con ogni forza e con ogni mezzo alla sua approvazione.
Onorevoli colleghi, lo scontro a tutto campo che si verificherà quando passeremo all'esame degli articoli produrrà solo danni, qualunque sia il suo esito. Del resto, il rinvio al prossimo mese dell'esame ci consente però di disporre di un margine di tempo necessario per provare a porvi rimedio.
Questa legislatura sarà probabilmente ricordata come una delle peggiori dell'intera storia repubblicana, dopo che in tre anni non siamo stati in grado di produrre un solo provvedimento in grado di essere davvero utile al Paese. Dopo aver messo a serio rischio la tenuta di quasi tutte le istituzioni a causa di conflitti dirompenti, riflettiamo seriamente se sia davvero il caso di gravare questo bilancio negativo anche del fardello di una legge inaccettabile e dannosa come questa che si vuole approvare a tutti i costi.
Almeno su un tema che si ripercuote direttamente sulla pelle dei cittadini sarebbe necessario dimostrare responsabilità da parte di tutti e avere il coraggio di rinviare a un futuro migliore una legge così delicata.
Entrando nel merito del provvedimento, il giudizio sulla proposta di legge non può che essere fortemente negativo. In primo luogo, vi sono palesi vizi di costituzionalità. L'attuale formulazione dell'articolo 3, comma 5, che esclude alimentazione e idratazione artificiale dalla dichiarazione anticipata di trattamento, e il ruolo che si assegna al medico, con l'articolo 7, consentendogli di decidere anche contro la volontà del paziente, violano palesemente l'articolo 32 della Costituzione, ma anche gli articoli 3 e 13 della nostra Carta, in merito alla libertà individuale, al rispetto della dignità della persona e al diritto di uguaglianza.
Altro grave punto di dissenso riguarda il fatto che il testo che abbiamo davanti appare come una clamorosa presa in giro, perché introduce uno strumento come la dichiarazione anticipata di trattamento che, di fatto, non ha alcun valore. Questo aspetto è talmente macroscopico che è stato sottolineato anche dalla Commissione giustizia all'interno del parere favorevole che ha espresso. In sostanza, la Commissione giustizia segnala che non è scritto da nessuna parte - e tanto meno nell'articolo 4, ossia quello dedicato alla dichiarazione anticipata di trattamento - che le disposizioni in essa contenute abbiano valore vincolante.
Si tratta di una segnalazione di grande rilievo che, sebbene fosse contenuta in una parere approvato dalla maggioranza, il relatore non ha preso in alcun modo in considerazione. Il parere elaborato dalla presidente Bongiorno conteneva altre osservazioni di grande interesse, che meritavano maggiore considerazione prima dell'inizio dell'esame in Aula. È certamente condivisibile il suggerimento che nella dichiarazione anticipata di trattamento si inseriscano solo i trattamenti ai quali il paziente non vuole essere sottoposto, poiché questa è la formula che offre maggiori garanzie in merito alla tutela della volontà del paziente.
Di rilievo è anche l'osservazione volta a chiarire tutti quei casi in cui il trattamento non deve essere interrotto o deve essere interrotto e non semplicemente non attivato, Pag. 58come previsto, invece, dall'attuale formulazione dell'articolo 3, comma 2. Questo punto è stato sottolineato anche dal professor Vittorio Possenti, membro del Comitato nazionale di bioetica, in un recente articolo, il quale ha sostenuto la necessità di prevedere all'interno della dichiarazione anticipata di trattamento non solo la possibilità di rifiutare, ma anche quella di rinunciare. Si tratta di un elemento che è ancora più fondamentale all'interno di un provvedimento che prevede che la dichiarazione anticipata di trattamento non si applichi in condizione di urgenza o di pericolo di vita del paziente.
L'Italia dei Valori, riconoscendo la validità di queste osservazioni, ha ritenuto di farle proprie trasformandole in emendamenti da sottoporre al giudizio dell'Assemblea. Ci auguriamo che almeno su questi emendamenti vi possa essere una valutazione serena e il consenso di chi, come i deputati del Popolo della Libertà e della Lega, ha già espresso il proprio parere favorevole in Commissione giustizia.
L'articolo 3, comma 5, costituisce, a mio personale avviso, l'aspetto peggiore di questo provvedimento e non solo per quanto riguarda l'idratazione e l'alimentazione artificiale. Il riferimento alla Convenzione di New York sui diritti dei disabili rende perfettamente l'idea delle forzature ideologiche che si è cercato di mettere in atto con questo provvedimento. Certamente, la persona che versa in stato vegetativo deve essere considerata alla pari di un disabile grave e, anzi, gravissimo. Il problema, però, nasce nel momento in cui si tenta di distorcere questa evidenza. La foga nel sostenere tale tesi è stata tanta che si è arrivati ad inserire totalmente a sproposito il riferimento alla Convenzione di New York del 2006, come specificato dalla Commissione affari esteri nel parere che ha formulato.
La citazione della Convenzione non rafforza né giustifica il disposto relativo all'alimentazione e all'idratazione ma, semmai, vi contrasta in pieno. Proprio perché chi è in stato vegetativo deve essere considerato al pari di un disabile, si devono evitare assolutamente le discriminazioni, che si verificano invece quando gli si impedisce di autodeterminare la propria sorte attraverso una dichiarazione anticipata di trattamento.
Colleghi, il tema del fine vita coinvolge tre aspetti fondamentali dell'essere umano, quali la vita, la volontà e la dignità. La vita è un principio fondamentale e deve essere tutelata contro ogni pericolo. La volontà, intesa anche come pensiero, è l'essenza stessa dell'essere umano.
Se il principio astratto e distorto della vita prevale su ogni altro elemento, si finisce per annullare la volontà e la dignità. Quello che lo Stato deve assolutamente evitare è che un essere umano venga fatto morire contro la sua volontà, ma lo Stato non può e non deve imporre la vita ad ogni costo.
Ogni individuo ha un concetto diverso di vita ed una vita degna di essere vissuta in una determinata condizione per un individuo può non esserlo per un'altra persona. In questo caso il compito dello Stato non è decidere chi ha ragione, ma di lasciare la libertà di scelta ad ognuno nel pieno rispetto dei diritti di tutti.
In materia di cure mediche e di fine vita, in uno Stato in cui vigono i principi della democrazia liberale, la volontà dell'individuo deve essere considerata assolutamente preminente su ogni altro fattore, ma soprattutto la tutela della vita è un diritto inviolabile ma non indisponibile, come purtroppo prevede questa proposta di legge. Se il principio è già stato riconosciuto da un documento approvato dal Comitato nazionale di bioetica nell'ottobre del 2008 per un individuo in pieno possesso della sua coscienza e delle sue facoltà, a maggior ragione lo stesso principio deve valere per una persona che non è più in grado di affermare le proprie volontà. Se così non fosse, si verrebbe a creare una disparità inaccettabile nella quale sono tutelati i diritti all'autodeterminazione del soggetto più forte - ovvero il paziente cosciente in grado di far valere la sua volontà -, mentre sono disconosciuti quelli del soggetto più debole. Pag. 59
Colleghi, visto che siamo chiamati a legiferare, non possiamo trascurare il fatto che con la legge 28 marzo 2001, n. 145, il Parlamento italiano ha ratificato la Convenzione europea sui diritti dell'uomo e sulla biomedicina. L'articolo 9 di questa Convenzione stabilisce che, per quanto riguarda un intervento medico riguardante un paziente che al momento dell'intervento non è in grado di esprimere il proprio volere, debbono essere presi in considerazione i desideri da lui precedentemente espressi. Ciò significa che possiamo disciplinare alcuni dettagli relativi alla modalità di manifestazione della volontà del paziente, ma la scelta di principio è già stata fatta attraverso la legge di ratifica e questa scelta non può essere revocata senza violare un impegno internazionale assunto dall'Italia.
In queste settimane si è tornati a parlare di libertà e di pensiero liberale: non si capisce perché se questo principio vale per la libertà d'impresa arrivando a modificare in tal senso la nostra Costituzione, lo stesso principio non possa valere anche, a maggior ragione, per la sfera dell'individuo in relazione al fine vita. Perché allora non azzerare ogni impostazione e considerare invece il principio di una soft law, come proposto a suo tempo dal collega Della Vedova, limitandoci a stabilire solo alcuni principi fondamentali, senza avventurarsi in un rischioso tentativo di regolamentare aspetti che per la loro complessità non potranno mai trovare la loro giusta collocazione nello spazio troppo stretto ed angusto di commi e articoli di legge?
Limitiamoci ad approvare l'articolo 1 della proposta di legge attuale, sopprimiamo tutti gli altri, stabiliamo dei principi fondamentali dei quali sarebbe impossibile non tenere conto, ma evitiamo di produrre quei mostri giuridici e quelle incongruenze alle quali daremmo vita con il testo attuale.
L'Italia dei Valori si opporrà con forza all'approvazione di questa proposta di legge, ma la nostra opposizione non è strumentale - come si vedrà dalla lettura degli emendamenti presentati - ma vuole affermare il principio di libertà e di autodeterminazione che questa proposta di legge coarta in maniera irresponsabile. Siamo pronti ad un confronto serio nel merito e ci auguriamo davvero che questo confronto sia finalmente possibile, perché se questo non accadrà, a perdere sarà ancora una volta il Parlamento, che produrrà l'ennesima legge che distingue il Paese legale da quello reale e allontanerà l'Italia dal resto dell'Europa (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Polledri. Ne ha facoltà.

MASSIMO POLLEDRI. Signor Presidente, onorevole sottosegretario, onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, siamo partiti che c'era nebbia, a Milano, in Padania, ma c'è nebbia anche qui. C'è una nebbia su questo provvedimento, su questi temi, una nebbia della memoria. C'è una nebbia della paura delle emozioni, c'è una nebbia del diritto, della Costituzione e della politica. Cercheremo di fare un po' di chiarezza, avendo fiducia in questo dibattito e prendendo come positivo il dibattito che c'è già stato al Senato e all'interno della Commissione, non si parte da zero.
C'è una nebbia della memoria. Ma chi ce l'ha fatto fare di fare questa legge? Perché ci è venuto in mente di fare questa legge? Dobbiamo ritornare leggermente indietro, come è già stato anticipato. La Corte di cassazione, il 16 ottobre 2007, con la sentenza n. 21748, dopo avere respinto per tre volte il ricorso del signor Englaro - non parlo politichese anche per chi ci ascolta da casa - alla fine decide di accoglierlo, fissando fondamentalmente due principi: verificare che ci fosse l'irreversibilità della condizione di malattia e che ci fosse la documentata volontà del soggetto, espressa anteriormente. Alla fine, la Corte d'appello si esprime a favore. Noi solleviamo un conflitto di attribuzione e la Corte costituzionale ci dice: insomma si parla solamente di questo caso, però se volete fare i legislatori, fatelo. Ricordo anche che in Senato il vicepresidente Zanda presentò un ordine del giorno che Pag. 60impegnava il Senato a legiferare sul tema. Oggi avete cambiato idea. Per carità, non cambiano idea solamente i paracarri (Commenti dei deputati del gruppo Partito Democratico), ma faccio presente che l'opinione era diversa.
Si è parlato del vuoto, in realtà non c'era un vuoto, perché la legge dice che tutto quello che non è proibito è permesso. Esisteva l'articolo 579 del codice penale, cioè il reato di assistenza al suicidio, ma anche il reato di istigazione al suicidio. Il tribunale di Roma però dice: forse è anticostituzionale, quindi, visto che non lo condanniamo secondo l'articolo 579 del codice penale, vi invitiamo a riscriverlo. È un atteggiamento un po' difficile da giustificare, perché i giudici dovrebbero applicare il codice e non invitare a riscriverlo. Quindi, si sarebbe dovuto riscrivere: chiunque cagiona la morte di un uomo con il consenso di lui è punito, salvo che il consenso, sia pure in forma anticipata, sia stato presentato da un soggetto la cui malattia o disabilità è ritenuta senza possibilità di guarigione o di recupero. La giurisprudenza però fortunatamente si è espressa anche in altri termini, che poi magari andremo a vedere. Quindi, la giurisprudenza dice anche altre cose, soprattutto sul consenso e sull'impossibilità di poter imporre una terapia attraverso il proprio procuratore.
È una nebbia della paura delle emozioni. Certo, chi di noi non ha paura di rimanere in un letto di ospedale, costretto dai medici a restare attaccato ad una macchina? Questa è una paura concreta ma, come diceva un'oncologa condannata purtroppo a morte perché a sua volta colpita dal cancro, l'eutanasia è un vizio intellettuale degli uomini sani; le questioni cambiano molto. Dal punto di vista bioetico c'è stato tutto un dibattito per evitare di scontrarci tra una parte pro-life e una parte pro-choice, e ragionare sulle statistiche, su quello che succede concretamente. Basta andare a vedere quello che succede negli ospedali e nei pronto soccorso, dove la paura, soprattutto degli anziani, delle persone sole e delle persone deboli non è quella dell'accanimento, che noi vietiamo in questa legge, ma quella di essere abbandonati. Non c'è la paura di non ottenere una puntura di morfina in più, ma la paura di avere una terapia meno. In questo Paese, non ci sono file di anziani che vanno a chiedere l'eutanasia, ma file di anziani che vanno a chiedere la TAC. Ci sono file di malati che chiedono di essere aiutati - non sto parlando contro nessuno, perché questo sia chiaro, ma sto parlando a noi stessi, nel nostro ruolo di legislatori - e di attuare in pieno l'articolo 32 della Costituzione.
Non per niente esso è stato inserito nel Titolo secondo, che ha a che fare con la solidarietà. Questo principio è stato introdotto in questo punto dalla tradizione socialista. La paura ci fa mettere da parte la grave malattia, la grave disabilità, la grave sofferenza. Ce la fa a negare, come a dire che questa è una condizione eccezionale della vita, una condizione eccezionale, non dignitosa.
Abbiamo parlato molto di dignità umana; poi andremo a vedere la sfida della dignità. È una condizione, quindi, che dobbiamo togliere, ma non possiamo farlo. Non possiamo, negando la dignità, negare l'esistenza dei malati: i malati esistono. Quindi, una nebbia del diritto, una nebbia incostituzionale.
Ma, insomma, questa vita umana è disponibile o no? Abbiamo sentito varie opinioni sull'indisponibilità della vita altrui: credo che dovremmo essere tutti d'accordo, e lo siamo. Infatti, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo ha già bandito la pena di morte. Lo dico ai colleghi radicali: nella moratoria del 17 dicembre 2007, uno dei motivi di moratoria della pena di morte era che questa nuoce alla dignità umana, che la dignità umana è un bene, in qualche modo, impossibile da correlare all'azione dell'uomo. Per quanto sia efferato un delitto, con le mani del delinquente non si riuscirà mai a strappare l'ultimo brandello di dignità dell'essere umano. È un concetto laico, estremamente laico.
Non ci stiamo a farci trascinare in piazza da santoni laici o laicisti, né da preti e quant'altro. Stiamo ragionando in Pag. 61un contesto parlamentare, e quindi l'indisponibilità della vita altrui è già presente. Per quanto riguarda l'indisponibilità della propria vita, mi sembra che sia evidente l'invalidità del consenso: o si cambia la Costituzione - poi andremo a vedere l'articolo 32 - o il codice penale, ma nessuno di noi si scandalizza che non ci sia possibile oggi prescindere da alcuni diritti, per esempio il diritto alla sicurezza sul luogo di lavoro. Non posso girare in un cantiere omettendo dei comportamenti di sicurezza, non posso. Non posso girare senza casco o senza cintura: si tratta di un comportamento che, se valesse la libertà più assoluta, dovrebbe essere lecito; invece, è un comportamento, in qualche modo, sanzionato.
L'articolo 579 del codice penale sull'omicidio del consenziente elimina, in qualche modo, l'esimente del diritto di rifiutare le cure. Vi è poi l'inerzia colpevole: se in un carcere non si applicano tutte le misure per impedire un suicidio, vi è omicidio colposo. Se, da medico, non metto in atto tutte le misure per impedire che un paziente si butti dalla finestra, vi è omicidio colposo. Se il pompiere in qualche modo non interviene per salvare la persona in pericolo, vi è omicidio colposo.
Vi è l'articolo 359 del codice penale che stabilisce che il medico esercita un servizio di pubblica necessità e vi è anche l'articolo 40 del codice penale che sostiene che non impedire un evento che si ha l'obbligo di impedire equivale a cagionarlo. Questi sono elementi presenti nel nostro codice che mettono dei paletti alla disponibilità della vita umana, come l'articolo 54 del codice penale, che comporta che l'operatore sanitario possa prescindere dal consenso qualora sussista la necessità di salvare sé o ad altri dal pericolo attuale di un grave danno alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proporzionato al pericolo. Vi sono poi gli articoli 7 e 35 del codice di deontologia medica e l'articolo 8 della Convenzione di Oviedo.
Andrei a vedere l'articolo 32 della Costituzione, da cui si evince che la disponibilità della propria vita non esiste perché non esiste il principio di libertà assoluta. Addirittura, se non esiste il principio di libertà assoluta, che può sostanziarsi in un comportamento di disponibilità della propria vita, si entra in quell'aspetto a cui accennava la collega Mura e che è un giudizio sulla qualità della vita. Questo non può essere un giudizio soggettivo, ma un giudizio estremamente pericoloso, che deriva da una considerazione sociale.
Se oggi noi pensiamo, immaginiamo, che vi sia libertà di suicidarsi - è ovvio, sta nei fatti - ciò non vuol dire che vi sia indifferenza. È evidente che nessuno è mai stato condannato per aver impedito ad un suicida di attuare questo comportamento.
Allora, ci si può chiedere quanti di noi considerano il suicidio avvenuto l'altro giorno di un ragazzino giovane, che aveva tutta la vita davanti a sé, come assurdo, impossibile, devastante e, invece, il suicidio di un vecchio malato o di una persona, affetta da una malattia, sola, abbandonata, come il caso recente di un famoso regista, come un atto attinente alla dignità? Delle due, l'una. Non è forse la stessa libertà di cui hanno goduto sia il ragazzino che l'anziano? Vi è un giudizio di utilità sociale e questo giudizio è estremamente pericoloso, estremamente discriminatorio, estremamente, a nostro giudizio, anticostituzionale. Ricordo l'articolo 3 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.
Si è parlato della nozione di bilanciamento contenuta nell'articolo 32 della Costituzione; questa Costituzione la vedo tirare da una parte e dall'altra, al pari di un chewing-gum. È evidente che vi è il problema dell'articolo 2 della Costituzione che rimanda ad un aggiornamento, potremmo parlarne, ma sicuramente la casalinga di Voghera non sarebbe particolarmente interessata.
Vorrei che si ponesse l'accento sulla nozione di bilanciamento presente nell'articolo 32 della Costituzione. Nel primo comma il suddetto articolo parla di tutela della salute. Parla di tutela della salute come diritto fondamentale alla salute. Non Pag. 62stiamo parlando del diritto all'espressione della volontà individuale, stiamo parlando della tutela della salute come diritto fondamentale e come interesse della collettività. La collettività ha interesse che un soggetto stia bene, che sia in salute.
Quindi, onorevoli colleghi, se l'interesse è quello della tutela della salute, non possono esservi mezzi o strumenti che vanno contro questo diritto fondamentale alla salute, è evidente. L'interesse della collettività deriva proprio da questa radice solidaristica.
Nel secondo comma dell'articolo 32 della Costituzione - qui subentra la nozione di bilanciamento - si afferma che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento terapeutico se non per disposizione di legge. Vi è una riserva di legge per cui un soggetto non può essere obbligato ad un trattamento terapeutico. Questo bilanciamento venne introdotto su richiesta della parte cattolica, basta andare a leggere gli atti dell'Assemblea costituente. L'onorevole Moro spiega le ragioni che lo hanno indotto a presentare l'emendamento in questione, ricavato dai tre articoli proposti dal «gruppo parlamentare» dei medici. Non soltanto ci si riferisce alla legge per determinare che i cittadini non possano essere assoggettati a pratiche sanitarie, ma si pone anche un limite al legislatore, nella terza parte del citato articolo 32, impedendo pratiche sanitarie lesive della dignità umana. Si tratta, come si deduce dalle parole di Moro, prevalentemente, del problema della sterilizzazione e di altri problemi accessori.
Stiamo parlando di trattamenti sanitari e della necessità di tutelare tale spazio. Uscivamo infatti da una guerra, dove avevamo conosciuto i nefasti della sperimentazione clinica sugli esseri umani. Questo era lo spirito dei costituenti nella seconda parte dell'articolo 32. Si parla di «trattamento terapeutico». La sospensione non è un trattamento terapeutico, tant'è vero che, all'epoca, nel corso della discussione - credo sia un dato interessante - si volle inserire un altro punto nella Costituzione. L'onorevole Merighi - non conosco adesso precisamente la questione e la lascio sicuramente alle competenze di altri, come il Presidente Buttiglione, maestro in questo campo - propose un emendamento aggiuntivo, perché voleva dichiarare la salute come dovere della collettività e che fosse seguita di pari passo dal dovere dell'individuo di tutelare la propria sanità fisica, anche per rispetto della stessa collettività. Si intendeva, quindi, il dovere individuale in qualche modo di volersi bene, di trattarsi bene. E l'onorevole Tupini, in fase di votazione, osservò che il principio era implicito nella formula.
Questa è la verità dell'articolo 32 della Costituzione, tant'è vero che pure nell'articolo 5 del codice civile non si parla mai di autodeterminazione. Nella Costituzione, così come è stata tramandata, si parla di «disposizioni», si parla - credo 61 volte - di «persona umana», si parla di «uomo», si parla di «diritti», ma non si parla mai di «autodeterminazione». Questo lo si può inferire successivamente dall'evoluzione lasciata aperta dall'articolo 2 della Costituzione.
Si parla dunque di «disposizioni» e l'articolo 5 del codice civile prevede proprio l'indisponibilità degli atti che possono portare ad una menomazione permanente della propria integrità fisica contro la legge e addirittura contro il pudore (in questo campo abbiamo già derogato da tempo: nessuno può andare, in teoria, a denudarsi da una parte, perché è un atto in qualche modo proibito dalla legge e dagli atti di disposizione del proprio corpo in un contesto di dignità). Quale trattamento e quale disponibilità ci può essere, se è proibito menomare l'integrità? Quale peggiore integrità può prevedersi se non quella della morte?
Signor Presidente, questa è una legge che ha portato molti dibattiti sul consenso e ricordo quello che è stato detto: il consenso deve essere relato e dialogato ed è presupposto dei trattamenti. Nessuno obbliga la gente a subire trattamenti devastanti, anzi, secondo la concezione paternalistica, nessun obbligo, né accanimento né abbandono terapeutico è possibile. Il consenso deve essere relato e Pag. 63dialogato: infatti, oggi, un conto è decidere nella condizione ideale, in cui uno sta bene, è in salute ed è ricco, come nel caso di alcuni grandi clinici - certo! -; un altro conto è decidere in quel momento, alla soglia della morte. Questo dice il principio del consenso e lo conferma la Corte di cassazione, quando è intervenuta con due sentenze. Una sentenza concerne il caso dei Testimoni di Geova. Era stato negato da una persona il consenso alla trasfusione, ma poi questa cade in coma e il medico interviene con una trasfusione e gli salva la vita. La Corte di cassazione interviene a favore del medico, sostenendo - la faccio breve per gli amici che magari ci stanno ascoltando - che il medico doveva intervenire in questo senso, perché il consenso deve essere attuale, riferito a quel momento, e di solito, di norma, nel momento del bisogno e delle emergenze, il primo istinto è quello della vita e quindi generalmente si sceglie per quella.
La stessa sentenza arriva poi dal tribunale di Milano. In essa si afferma che il consenso deve essere informato, circostanziato e attuale, perché non può tenersi conto solo della cronologia ma - lo ripeto - anche della psicologia. Qui abbiamo vissuto l'esperienza di un collega, Umberto Scapagnini e sarebbe interessante ripercorrere tale esperienza umana per vedere come nel momento del bisogno cambino anche le idee e in qualche modo ci si aggrappi alla vita. A Scapagnini è andata bene. Se si fosse sottoposto al trattamento di fine vita, come pensava di fare e se ciò fosse stato vincolante, oggi non sarebbe in Parlamento.
Non ci sono medici che intendono accanirsi sul corpo dei malati o attaccarli alle macchine, però, è vero, c'è necessità di chiarezza normativa, perché il confine può essere debole e va rimarcata la posizione del malato che deve avere diritto a tutte le informazioni. Idratazione e nutrizione rappresentano un atto medico, un presidio di vita. È stato considerato, nel 1976, in base alla sentenza Quinlan, per poter consentire in qualche modo un atto eutanastico. Signor Presidente, esiste una graduazione di dignità? Quale Stato può dirsi democratico se in qualche modo gradua la dignità dell'uomo? Si può pensarlo o viverlo ma non si può pretendere che lo Stato in qualche modo disponga di un bene che non è suo. Oggi non posso derogare dal diritto di voto, non posso chiedere allo Stato che non mi faccia entrare nelle sale per votare, perché non è nella mia disponibilità. Posso scegliere liberamente di non votare, ma non posso chiedere allo Stato di non farmi votare. Non posso giudicare della mia libertà, posso sottomettermi a chiunque, ma non posso chiedere di essere schiavo. Non posso derogare all'immagine di dignità e lo Stato non può graduare la dignità. Non intendo richiamare tale concetto per rievocare vecchi momenti storici né per criminalizzarli, ma per fare un po' il punto di questa discussione, per cercare di togliere un po' di nebbia dai grandi principi e per ritornare a una posizione conservatrice, sì, conservatrice sui valori della Costituzione. La Lega Nord ha questa presunzione di continuità rispetto alla XIV legislatura, durante la quale è stata presentata una proposta di legge sull'eutanasia e sull'accanimento terapeutico. Ha avuto il pensiero, nel corso della XV legislatura, di presentare un progetto di legge concernente le cure palliative ma allora, al Senato, era molto di moda invece il diritto di morire e forse il diritto di essere curati non aveva un pari diritto di cittadinanza. Quest'anno abbiamo scritto assieme la proposta di legge in esame. L'attuale legislatura non è drammatica né traumatica e abbiamo avuto il coraggio di scrivere assieme, in Parlamento, una legge per curare i malati terminali in questo momento.
Signor Presidente, il principio di uguaglianza è figlio della dignità. Se noi eliminiamo il principio di dignità, in qualche modo veniamo meno a quello di uguaglianza. L'ultima delle persone, nel momento finale della sua vita, ha dignità pari a quella della più alta carica dello Stato. Siamo tutti uguali e tutti ugualmente degni di fronte alla legge. È questo il frutto di un percorso storico e culturale di accompagnamento. Oggi parliamo di malati e vogliamo Pag. 64immaginare, come diceva la collega Livia Turco, un percorso di accompagnamento del malato alla morte, di pietà per la morte, ma non di morte per pietà. Il principio di autodeterminazione non deve essere una spada che divide, ma uno scudo che in qualche modo mette insieme il medico e il malato, la politica e la società (Applausi dei deputati dei gruppi Lega Nord Padania e Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Argentin. Ne ha facoltà.

ILEANA ARGENTIN. Signor Presidente, non posso fare a meno di intervenire sul testamento biologico, però voglio iniziare con una precisazione: se il PdL si sente il partito della vita, io - come rappresentante del PD - non mi sento il partito della morte. Lo voglio dire e voglio dire in modo forte che non sono qui oggi a rappresentare il mondo della disabilità ma a rappresentare tutti i cittadini di questo Paese. Il problema vero è proprio questo: poc'anzi il collega della Lega ha concluso il suo intervento, affermando che siamo tutti uguali e che dobbiamo avere pari dignità.
Non siamo tutti uguali, siamo tutti diversi e la nostra dignità è garantita nel momento in cui si riconosce la diversità del nostro vivere. Non viviamo tutti facilmente. C'è qualcuno che vive con più facilità e c'è qualcuno che vive con più difficoltà, ma il vero problema è un altro ancora. La vita è assolutamente una cosa meravigliosa, e io personalmente - ci tengo a dirlo - non andrei mai a firmare il testamento biologico. C'è questa idea però molto malsana per cui, gli «sfigati», concedetemi il termine improprio, i disabili e i malati, siano quelli più interessati al testamento biologico. Non è così. Siamo interessati al testamento biologico nel momento in cui non c'è cura, non c'è assistenza, non ci sono pari opportunità. Questa è la cosa diversa, e questo Governo non garantisce pari opportunità. Non lo fa perché le cose si fanno con i soldi, e i soldi in certi settori sono stati tagliati, sono stati tagliati talmente fortemente che le persone che hanno un limite la vivono ancora peggio. Sarebbe assurdo quindi pensare che il testamento biologico sia una soluzione per chi vive male. Il testamento biologico è una soluzione, o meglio non è una soluzione, ma è una sorta di condivisione con il proprio medico per stabilire e decidere come non soffrire, come non star male, come scegliere. La gente non ha l'idea di che cosa sia la libertà di scelta. Non si ha l'idea di libertà di scelta finché non si ha l'idea di cosa è la non autonomia. È mai capitato a qualcuno in quest'Aula di avere sete, di avere un bicchiere davanti e di non poter bere? Si parla tanto di idratazione o di alimentazione. Guardate che è una cosa completamente diversa da quella della sopravvivenza. Non è che nell'alimentazione o nell'idratazione medica noi immaginiamo il budino, il litro di latte, il macinato, perché vi è qualcuno che è un po' malato e quindi gli diamo da mangiare e da bere, gli diamo i liquidi. No, quelle sono delle prestazioni mediche che permettono di non cessare lo stato di vita. E non è giusto, perché è una forma di egoismo assolutamente impari quanto stiamo scegliendo di fare, perché, in fondo, il non testamento biologico è la soluzione per chi ci vuole qui, non è la soluzione per una persona che ha difficoltà, o ha dei limiti, o fa fatica ogni giorno a sostenere la sua quotidianità. Certo, non c'è la fila degli anziani che vanno a chiedere il testamento biologico. Mi sembra più che normale che non ci sia, perché siamo tutti attaccatissimi alla vita. E io non credo che il testamento biologico sia la morte, né tanto meno una complicità alla morte. È soltanto una regolamentazione, una legittimazione di quello che già era: il medico che ti veniva incontro, o il medico che non ti viene incontro. Ma se decido di scegliere, quando sto bene, di poter fare a meno di star male non capisco perché qualcuno me lo vuole negare.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ILEANA ARGENTIN. Concludo, Presidente, dicendo una sola cosa. La mia collega Livia Turco, che è stata Ministro Pag. 65della sanità in questo Paese, mi ha fatto esser molto orgogliosa di poter dire la parola disabili gravi e disabili gravissimi. Oggi la disabilità e l'handicap che è uno status di vita viene considerato una malattia. Noi non siamo malati, noi abbiamo uno status di vita diverso dagli altri, e a priori abbiamo una patologia.
Non considerate la disabilità come una malattia grave; la disabilità non è altro che non essere abili rispetto ad un mondo che non è pronto ad accoglierci perché, da sempre, si dice che ci vogliono tutti bene, ci vogliono tutti assistere e non vogliono che moriamo, però, quando è il momento di starci accanto e non lasciarci soli, vengono fatti tagli e veniamo rimandati sempre alle nostre famiglie che continuano ad invecchiare e che, forse, saranno gli unici vecchi che andranno a chiedere un testamento biologico (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Capitanio Santolini. Ne ha facoltà.

LUISA CAPITANIO SANTOLINI. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, finalmente, dopo due anni, approda in Aula una proposta di legge che non è un provvedimento qualunque - e lo sappiamo bene - e che ha suscitato polemiche, dibattiti, discussioni a non finire; un provvedimento indubbiamente difficile, una materia delicatissima, alla quale dovremmo avvicinarci in punta di piedi, nella consapevolezza che mai, come in questo caso, parliamo di persone bisognose di solidarietà, di rispetto, di comprensione e di condivisione.
Parliamo di morte, di fine vita, ma, soprattutto, di vita che porta con sé paure, speranze, attese, angosce, senso di impotenza, imprecazioni e preghiere. Vorrei che questo non lo dimenticassimo per non far prevalere le discussioni politiche o costruite solamente sul politicamente corretto o sulle ideologie. In maniera asettica si discute di libertà, di autodeterminazione e di diritti e so benissimo che siamo in un'Aula parlamentare, alla Camera dei deputati, dove si parla sempre di leggi e di diritti, ma, forse, non è inutile ricordare che stiamo discutendo sul punto cruciale e decisivo della vita, quello in cui la si sta abbandonando o quello in cui la vita è come sospesa, in un mondo sconosciuto alla scienza, e che qualcuno considera inutile o non più vita. Quella vita che assume il suo significato vero con l'arrivo di un nuovo essere umano, ma quella vita che si conclude con una lotta con la sua acerrima nemica, la morte, che non è mai - e non può essere altrimenti - una dolce morte provocata.
Credo anch'io che, forse, una legge sul fine vita non avremmo mai dovuto scriverla o votarla, ma non nascondiamoci dietro una cortina di argomentazioni che possono sembrare faziose: questa legge si rende necessaria dopo che se ne parla da anni e dopo che, in alcuni Paesi europei, l'eutanasia, attiva e passiva, è stata legalizzata, ma, soprattutto, dopo che, due anni fa, sul caso Englaro, è stata forzata l'interpretazione delle leggi esistenti e si è autorizzata la sospensione della nutrizione e dell'alimentazione a Eluana Englaro, portandola così alla morte. Eluana Englaro non era una malata terminale, non era in fin di vita, non aveva patologie che l'avrebbero portata alla morte, ma era solo gravemente disabile e da molti anni viveva in un mondo tutto suo su cui la scienza non sa esprimersi. Ricordo, per inciso, che, allora, per salvarla, venne invocata la Convenzione sui diritti dei disabili che contiene un articolo in cui si vieta di sospendere l'alimentazione e l'idratazione alle persone con disabilità. Quella richiesta fu disattesa. Occorre evitare allora altri casi Englaro e fare chiarezza con una nuova legge che dica, come dice, che la vita è un bene indisponibile, che la morte è la sconfitta dei medici e della scienza, che il medico è vincolato al giuramento di Ippocrate e alla sua coscienza, che l'autodeterminazione non può essere un totem a cui sottomettere il buon senso, la giustizia, la pietà umana, le relazioni con chi ci sta vicino, il senso del limite, il principio di precauzione. Una legge che dica chiaramente «no» Pag. 66sia all'accanimento terapeutico che all'abbandono terapeutico, e che riaffermi, in modo chiaro e netto, la decisiva forza dell'alleanza tra medico e paziente. Una legge che protegga i pazienti che non sono in grado di decidere, che sono in condizioni debolissime, alla mercé di altri uomini, e che, come infinite esperienze dimostrano, chiedono solo di essere amati, di essere curati, di non sentirsi di peso e di non soffrire.
Sono considerazioni ovvie, quasi banali, ma è giusto metterlo per iscritto. Esiste il diritto alla vita, non esiste il diritto alla morte nel nostro ordinamento e dunque non si può consegnare a chicchessia questo diritto. Sappiamo bene che esiste un tam tam mediatico, medico, accademico, parlamentare, politico che invoca i diritti negati ma sappiamo bene che i diritti, quelli veri, sono tutti scritti nella nostra Costituzione e che l'articolo 32 è chiarissimo in proposito e non invoca il diritto a morire o qualsiasi deriva eutanasica. L'articolo 32 va letto per intero dove dice che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge e aggiunge che la legge non può in alcun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Esiste una riserva di legge. Non esiste un divieto assoluto ma l'eventuale trattamento sanitario deve sempre e comunque rispettare il valore della persona umana. Questo non significa il diritto all'eutanasia ma significa soprattutto vedere la persona umana mai come un mezzo bensì come un fine. Avremo modo nel corso del dibattito di approfondire i concetti e i punti chiave di questa legge ma vorrei subito sgombrare il campo da un equivoco di fondo. Vorrei cioè che almeno in quest'aula, visto che sono in molti a seguirci anche fuori da qui, si rispettasse la correttezza dei termini. Bisogna sempre parlare di dichiarazioni anticipate di trattamento e non di testamento biologico e che tra i due concetti esiste un'enorme differenza che alcuni volutamente ignorano. Il testamento biologico indica la vincolatività della volontà del paziente, anche se testamenti veri non sempre possono rispettare in toto, la volontà del defunto perché condizionati da leggi vigenti. Mentre l'essenza delle DAT è la non vincolatività per cui l'orientamento manifestato dal paziente deve essere preso in serissima considerazione senza che però sia vincolante per il medico. L'essenza del testamento biologico è la disponibilità della vita. Il presupposto delle DAT è la sua non disponibilità. Ciò detto siamo convinti che una legge serva. Infatti occorre colmare un vuoto normativo, come suol dirsi, che sarà sempre con maggiore frequenza colmato dal potere giudiziario che tra sentenze creative e motivazioni ideologiche ci porterà ad un far west della morte così come una volta esisteva il far west procreativo, ambedue non auspicabili. Nessuno può escludere future interpretazioni giudiziali simili a quelle di Eluana Englaro. E dunque una legge serve e serve subito se non altro perché in una materia tanto delicata occorre la certezza del diritto. Ho letto un articolo in cui i radicali sostengono che tutti i sondaggi certificano che almeno l'80 per cento degli italiani, cattolici compresi, vogliono decidere del loro destino con l'aiuto del proprio medico e dei familiari e a quali terapie sottoporsi o meno. Dicono anche che la maggioranza degli italiani ritiene che sia giusto tutelare chi vuole usare ogni tipo di terapia e tecnologia in ogni caso ma va altrettanto rispettato chi quelle tecnologie e quelle terapie rifiuta perché ritenute inutili. Sono perfettamente d'accordo. E non ho dubbi che i sondaggi siano corretti. Tutto dipende da come si fa la domanda. È senz'altro giusto decidere a quali terapie sottoporsi dopo una corretta informazione della propria situazione ma chiariamoci: questo vale se la decisione è ora per ora e non ora per allora e quando abbiamo poi rassicurato il malato che, di fronte a decisioni così difficili, non è e non sarà mai solo. Il medico e il paziente sono i protagonisti dell'alleanza terapeutica e il paziente può e deve decidere in piena autonomia quando è in grado di farlo ma quando non lo può più fare l'agire del medico non può essere un atto notarile e burocratico privo di quei rapporti fatti di lealtà Pag. 67e di fiducia instaurati quando il paziente era vigile e responsabile. Rifiutare terapie e tecnologie perché ritenute inutili è corretto ed è giusto scriverlo nelle dichiarazioni anticipate di trattamento.
Tuttavia va sottolineato che quanti sostengono l'assoluta vincolatività delle DAT di fatto negano alla radice la libertà del medico e dimenticano volutamente la convenzione di Oviedo, che nell'originario progetto parlava di volontà determinanti del paziente e che nella stesura finale parla di desiderio da tenere in considerazione: non è la stessa cosa.
Va inoltre ricordato che il medico non è mai obbligato a pratiche contro coscienza, perché sempre deve rispondere del suo operato alla luce del codice deontologico da lui sottoscritto e della sua piena autonomia di giudizio.
La vincolatività delle DAT, fatte a volte in anticipo di anni, non contribuisce a nostro avviso al bene del paziente, perché potrebbero non corrispondere più alla condizione del malato (nuove terapie, nuovi casi non previsti dalle DAT) e potrebbe essere meglio per lui operare diversamente. Allora che fare in questi casi? Dunque noi diciamo certamente «sì» alla libertà di scelta del malato, con alcuni limiti di buonsenso che nulla tolgono alla validità delle DAT.
Per quanto riguarda la polemica sull'idratazione e sull'alimentazione, i radicali affermano che la nutrizione e l'idratazione artificiale sono terapie mediche. È un'affermazione molto discutibile, perché l'idratazione e l'alimentazione non sono terapie, ma sostegno vitale e attività di cura. Viene da porsi la domanda: quale patologia viene curata con idratazione e nutrizione, se è vero come è vero che le terapie curano le patologie? Se si sospendono alimentazione ed idratazione il malato non muore a causa della sua patologia - che potrebbe anche non avere, come nel caso di Eluana Englaro - ma semplicemente muore di fame e di sete. Come si fa a prendere tale decisione di fronte ad una persona non in grado di intendere e di volere? Mettere alimentazione ed idratazione nelle DAT significa delegare ad altri la decisione di lasciarsi morire, mentre se qualcuno vuole togliersi la vita deve farlo personalmente e non può delegare questa decisione ad altri, meno che mai al servizio sanitario nazionale.
Il rifiuto di ordinarie misure di assistenza e di cura è un atto personalissimo, assolutamente non delegabile, perché ogni atto di volontà si colloca in un contesto e nessuno può dire se, trovandosi in un contesto di minaccia di vita, sarebbe disposto a morire di fame e di sete, cosa fattibile se la decisione è presa in piena coscienza attuale e consapevole.
Non si può parlare di alimentazione forzata, perché non essendo in presenza di un'indicazione attuale il medico è chiamato ad agire in favore della vita.
Scomodare l'articolo 32 della Costituzione è errato, perché stiamo semplicemente dicendo con questa legge che un atto di volontà con cui si rinuncia a misure di sostegno vitale è semplicemente non delegabile e deve essere attuale, ossia nel bilanciamento tra il principio costituzionale della vita e quello dell'autodeterminazione si stabilisce un equilibrio per cui prevale il principio di autodeterminazione quando la volontà viene espressa direttamente e prevale il favore per la vita quando manchi questa espressione diretta. In altre parole, non si può prescindere dal criterio generale secondo il quale somministrare acqua e cibo, anche per via artificiale, rappresenta sempre un mezzo naturale di conservazione della vita e non un trattamento terapeutico.
Andando verso la conclusione, mi sembra che ancora una volta chi si oppone a questa proposta di legge metta la vita umana al di sotto del principio di autodeterminazione. È successo trent'anni fa anche con l'aborto, per cui l'autodeterminazione della donna divenne la bussola unica e decisiva per stabilire se il suo bambino dovesse nascere o meno. Allora si trattava solo dell'autodeterminazione della donna, ora si è arrivati all'autodeterminazione universale, che però continua comunque a prevalere, in questo caso, sulla fine della vita umana. Pag. 68
Noi siamo di diverso avviso, anche perché non si può pensare che questa autodeterminazione sia sempre affermata da un soggetto forte, lucido, sereno e coraggioso che chiede l'assoluto rispetto dei suoi diritti e delle sue decisioni. Sappiamo bene che non è così, perché quando si parla di fine vita, i soggetti, diciamo meglio i malati e gli anziani, sono ben lungi da questa situazione, sono fragili, spaventati, sofferenti e quindi la loro lucidità non è garanzia di una ferrea e ferma volontà. Sono spesso in situazioni difficili e la loro unica preoccupazione è quella di non soffrire e di non essere abbandonati.
Non è possibile difendere ad oltranza i diritti delle persone senza tener conto della loro situazione reale e senza correre il rischio di mettere a repentaglio la loro vita. I morenti, gli anziani, i malati, gli abbandonati e i cosiddetti soggetti deboli sono davvero deboli, e non cercano l'affermazione della loro volontà che è fatta solo di dubbi; vogliono essere curati e amati come meritano, accompagnati alla fine nel rispetto della loro persona e della loro dignità. Basta andare in una corsia di ospedale per rendersene conto ed è stridente la differenza che intercorre tra una asettica Aula parlamentare come questa e la drammatica situazione delle corsie degli ospedali dove davvero, ogni giorno, senza ideologie, si lotta per la vita e contro la morte.
Vediamo favorevolmente l'impianto generale di questa legge, anche se alcuni aspetti potranno essere ulteriormente migliorati, in questo periodo, in attesa delle votazioni e nel corso del dibattito in Aula. Ci auguriamo comunque che questo dibattito sia in ogni caso sereno, corretto e improntato alla ferma volontà di ricercare, tutti insieme, il bene comune (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Buonfiglio. Ne ha facoltà.

ANTONIO BUONFIGLIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la proposta di legge di cui ci occupiamo approda oggi alla Camera dopo un lungo e travagliato dibattito. Mi accingo al dibattito in questione con umiltà soprattutto perché le mie perplessità su questa norma vengono da chi la pensa in maniera diametralmente opposta rispetto a quelli che, in questo momento, sono contrari alla legge. Devo dire che anche il dibattito, finora, non ha sciolto i miei dubbi, questo perché l'esigenza di legiferare è derivata dal tentativo di dare risposta ad un caso concreto, quello di Eluana, e il testo in discussione risente ancora oggi delle emozioni e delle polemiche che, purtroppo, hanno accompagnato questo triste evento.
Probabilmente non nego che, se ci fossimo limitati alla risoluzione del caso concreto, molti, che oggi, come me, manifestano contrarietà alla proposta di legge, avrebbero, allora, votato a favore di un intervento puntuale, tanto più che la possibilità di salvare concretamente una vita non può essere indebolita dal rispetto di qualsivoglia forma e procedura. Tuttavia, esaurita la fase emergenziale, la discussione deve riprendere in termini di generalità e astrattezza come è proprio di una norma, con la serietà, la pacatezza e, soprattutto, il rispetto che tale argomento richiede. La discussione deve analizzare tutte le conseguenze che deriveranno da un intervento legislativo in tale materia.
Oggi la legge non è, e non deve più essere, la «legge Eluana» e allora, se affrontiamo la norma partendo da questo presupposto, non posso non osservare che nel testo presentato ci sono sicuramente delle luci ma che in esso, a mia modesta opinione, prevalgono le ombre. Comprendo il tentativo di tanti colleghi che stimo ed apprezzo di chiarire a se stessi e agli altri la natura pubblica e coerente della propria fede; è ora quanto mai importante rivendicare la dimensione pubblica del cristianesimo che non può ridursi ad una semplice aspirazione o a una testimonianza individuale.
Non è infatti una teoria o una filosofia ma un incontro e un avvenimento storico, peraltro un incontro comunitario; è giusto affermare che chi vuole testimoniare la Pag. 69propria fede lo debba fare in maniera pubblica e coerente con ricadute concrete e specifiche anche in Parlamento; per questo esiste la dottrina sociale della Chiesa, che non è un'ideologia e tanto meno un manuale di buon comportamento sociale, ma un compito affidato in primo luogo ai laici e ai credenti impegnati in politica. È un unico corpus che contiene elementi permanenti ed altri mutevoli, che dà alcune indicazioni inderogabili accanto ad altre aperte alla discrezionalità e al discernimento, senza escludere le altre competenze, tra cui quella politica.
Si tratta, dunque, di un vedere, giudicare e agire con l'ausilio di tutte le altre scienze, dando piena cittadinanza ai motivi religiosi in politica, senza che quest'ultima perda la sua autonomia. Ciò vuol dire laicità, una corretta accezione di laicità, dove autonomia non significa separatezza, altrimenti la ragione politica abdicherebbe alle proprie competenze e lo spazio pubblico sarebbe depauperato in riserve assolute. Perciò, ancora di più, il laico credente sa che le scelte a cui è chiamato insistono sempre sulla sua coscienza morale, ma sa anche che quando le assume non rappresenta i cattolici suoi elettori e tanto meno rappresenta la Chiesa. Tanto più sa che le sue scelte sono morali tanto più è cosciente che investono esclusivamente la sua libertà e la sua responsabilità. Senza responsabilità personale non vi è infatti alcuna libertà, ma l'azione politica fatta in coscienza non può non avvalersi della prudenza, che non significa certamente rinviare, temporeggiare o procrastinare, ma neppure accontentare tutti; essa richiede di conoscere i principi e di analizzare le situazioni.
Vi sono, infatti, delle situazioni che mai, in alcuna circostanza, sono ammesse: l'omicidio, l'aborto e l'eutanasia, dove vi è un'unica possibilità, quella del «non devi». Il nostro dissenso, e il mio personale, non si fondano sul rispetto di una procedura o sull'esaltazione dell'autodeterminazione.
È proprio per questo che mi chiedo da dove siano uscite fuori queste dichiarazioni anticipate di trattamento. Naturalmente questa è una mia opinione, ma se guardo il testo delle Commissioni e quanto espresso all'articolo 2, comma 8, in tema di soggetti minori interdetti e inabilitati, si capisce qual è il vero spirito delle dichiarazioni anticipate di trattamento. È proprio per questo, dunque, che la proposta di legge in questione meriterebbe di fermarsi di fronte a inutili tecnicismi. Credo che, con questa proposta di legge, possa attuarsi la peggiore eterogenesi dei fini. Questa proposta di legge, dal nome stesso in cui viene trattata dai media nel dibattito, rischia di essere a forte ispirazione eutanasica.
Nella relazione di accompagnamento al testo del Senato si legge che si vuole intervenire sulle scelte prese pensando all'eventualità di un periodo in cui il paziente si troverà in stato vegetativo, ma nel testo si amplia sensibilmente la categoria dei soggetti non ritenuti in grado di intendere e di volere. Espressamente si afferma che le dichiarazioni anticipate di trattamento assumono rilievo nel momento in cui è accertato che il soggetto si trova nell'incapacità permanente di comprendere le informazioni e le sue conseguenze e, per questo motivo, di assumere le decisioni che lo riguardano. Si tratta di un ampliamento che ha conseguenze di assoluta rilevanza. Il Senato aveva posto due limiti: l'alimentazione e l'idratazione e il divieto di pratiche riconducibili all'omicidio del consenziente e del suicidio assistito.
In tal modo, però, il divieto di eutanasia contenuto nell'articolo 1 si applicava solo ai casi di eutanasia attiva e non a quelli di eutanasia passiva, posto che si ribadisce che nessun trattamento può essere attivato a prescindere dall'espressione del consenso informato. L'omissione della legge deontologica, dunque, resta non perseguibile quando corrisponde al rispetto del rifiuto del paziente. La DAT, dunque, comincerà ad avere valore in una fase compatibile con tante altre malattie neurovegetative.
Del resto, la distinzione stessa tra il cagionare e l'omettere è flebile e non rileva, poiché vi è un consolidato orientamento Pag. 70interpretativo - sviluppato anche dalla Corte costituzionale, in tema di consenso informato - nel senso di non riconoscere il diritto a non essere sottoposti ad una cura medica. Anche su tale punto la legge mostra tutti i suoi limiti. Se è stato possibile ricostruire una volontà anche in assenza di una manifestazione espressa, tanto più sarà possibile desumerla in presenza di una dichiarazione anticipata di trattamento, vincolante e non, quale che ne sia la forma.
Ci saranno molti più casi in cui i giudici saranno chiamati ad intervenire e, inoltre, vi è il valore pedagogico delle leggi. Nel tempo sarà una prassi ammissibile disporre della propria vita. Ci si è interrogati sulla qualificazione giuridica di una dichiarazione anticipata di trattamento? Il solo fatto che si sia aperta al dibattito ha dato luogo a migliaia di adesioni spontanee e di raccolte di testamenti biologici - quale che sia il nome che gli diamo - in alcuni municipi così come nella Chiesa valdese di Roma. Pertanto rivolgo un appello, innanzitutto a quei 44 parlamentari, perlopiù tutti di maggioranza, che al momento dell'apertura del dibattito firmarono un documento contro la legge per la stessa inclusione delle dichiarazioni anticipate di trattamento; rivolgo un appello, poi, a coloro che - molti nel PdL - firmarono una proposta emendativa interamente sostitutiva del testo con una legge soft, minima, che fosse solo di principio.
Fermiamoci ed evitiamo che sia un'arma brandita contro un gruppo politico o che sia un'OPA sul mondo cattolico. Proprio perché questa legge investe la coscienza di ognuno di noi, non ne abbiamo forse fino in fondo sviscerato le conseguenze. Proprio perché stiamo parlando di un bene indisponibile, che non appartiene a nessuno, voler trovare un compromesso qualunque ad ogni costo equivarrebbe ad assolutizzare la politica facendone qualcosa di più importante della persona stessa e della sua dignità. La difesa della vita, del resto, non consiste nel disciplinare alcune pratiche sanitarie. Non si fa solo nelle sale operatorie, ma anche in molti altri settori della vita sociale. Richiede politiche coordinate. Si fonda non solo sui «no», ma anche su priorità ed i «sì».
Davanti ad alcuni interventi legislativi, è necessario riconoscere non solo la libertà di coscienza - ci mancherebbe anche - ma attivare l'obiezione di coscienza che in questo caso non è un comportamento pilatesco, ma una forma di espressione politica di tutto riguardo. Per questo, colleghi, se riteniamo che una norma vada introdotta, non possiamo andare al di là di un'annunciazione di due principi: il «no» fermo all'eutanasia e il «no» all'accanimento terapeutico, tanto discende dalla ragione, dalla libertà e dalla responsabilità (Applausi dei deputati del gruppo Futuro e Libertà per l'Italia).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Nicco. Ne ha facoltà.

ROBERTO ROLANDO NICCO. Signor Presidente, colleghe e colleghi, rappresentante del Governo, l'alleanza terapeutica, il consenso informato e la dichiarazione anticipata di trattamento sono tutte materie di particolare delicatezza essendo in gioco aspetti fondamentali dell'esistenza di ognuno di noi in un contesto che sta rapidamente mutando e in cui sempre più la conclusione della nostra vita è nelle mani delle strutture sanitarie dato che la morte medicalizzata è passata, secondo dati già da altri citati, dal 18 al 75 per cento negli ultimi quarant'anni. Il dibattito si è acceso nel 2009, in particolare attorno al caso di Eluana Englaro. Si tratta di un dramma tremendamente lungo: diciassette anni di sofferenze e di calvario per Eluana e per la sua famiglia, per quel padre che qualcuno si è permesso anche di insultare oltraggiosamente.
Di fronte a quel dramma ci sarebbero voluti comprensione, misericordia e pietà. Tutti avrebbero dovuto fare un passo indietro e abbassare i toni. Invece, così non fu, anzi abbiamo assistito allora esattamente all'opposto: una spettacolarizzazione inaccettabile, assurda e vergognosa. In un tale clima esasperato guai anche solo a pronunciare la parola «eutanasia» Pag. 71considerata alla stregua di una bestemmia da chi forse ha dimenticato volutamente il senso proprio del termine «buona morte» (per quel che la morte possa mai essere buona), mentre in altri paesi certo non meno civili dell'Italia da anni si legifera in materia.
Poi la discussione si è come assopita quasi che ci fosse una sorta di salutare armistizio, avendo preso atto delle lacerazioni profonde che essa provocava nel Paese e nelle coscienze dei singoli. Oggi ne riprendiamo l'esame. Su qualche quotidiano abbiamo letto di moneta pagata da Berlusconi per rinsaldare il rapporto con i vertici vaticani. Ci auguriamo che così non sia e che le motivazioni siano altre e più nobili.
Nel merito, per noi il punto di riferimento ineliminabile è la libertà individuale e di scelta. Su un punto così delicato che tocca la sfera più intima e personale, del confine tra la vita e la morte, non può essere lo Stato ad arrogarsi il diritto di decidere d'imperio, ma solo deve rassicurare la salvaguardia del diritto di ciascuno di disporre della propria integrità personale. Sul piano personale mai vorrei trascorrere diciassette anni nelle condizioni di Eluana (in stato vegetativo permanente) che il padre ha definito «offensive della sua dignità». Dunque, se tale fosse la mia condizione (una vita artificiale, priva di coscienza e di relazione) non avrei dubbi nel dire: «staccate la spina».
Ci sono evidentemente altre posizioni parimenti rispettabili di chi quella spina non intende staccarla e non rifiuterà in nessun caso alcun trattamento che lo mantenga in una vita considerata comunque, anche nel momento di più atroce sofferenza, indisponibile in quanto dono di Dio. Tuttavia, nessuno può pretendere di imporre la propria etica, nemmeno la Chiesa che certo è portatrice di una rispettabile etica, ma che è e rimane la sua etica e non l'etica. Ve ne sono altre, altrettanto degne di rispetto.
La storia ci ha, purtroppo, insegnato che chi si ritiene interprete unico della verità ha in sé inevitabilmente un pericoloso germe di integralismo, foriero di scelte illiberali e di grandi drammi. Riteniamo che in tale contesto generale debba collocarsi anche la decisione su un punto centrale oggi in discussione: alimentazioni ed idratazioni artificiali in casi estremi, quali quello di Eluana.
A nostro avviso, come per ogni altro trattamento sanitario, queste devono poter essere oggetto della dichiarazione anticipata, senza formulazioni ambigue e contorte, foriere unicamente di ulteriori dispute interpretative sulla pelle di chi si trova in quella drammatica situazione. Per quale ragione una persona, quando si trova in piena consapevolezza, è libera di rifiutare la nutrizione artificiale, secondo quanto recita l'articolo 51 del codice italiano di deontologia medica, e tale facoltà dovrebbe esserle impedita nella dichiarazione anticipata?
La dichiarazione anticipata, anche con riferimento all'articolo 9 della Convenzione di Oviedo, non può non avere valore vincolante rischiando, altrimenti, di costituire una mera indicazione di orientamento senza effetti pratici. In questo senso vanno gli emendamenti che abbiamo presentato come Minoranze linguistiche.
In conclusione, ci sembra che su questa complessa e lacerante questione, da un lato, vi sia chi pretende di imporre il proprio credo ex lege a tutti, senza rispettare le altrui convinzioni culturali e filosofiche e, dall'altro, vi sia chi non vuole imporre niente a nessuno, rispetta scelte diverse dalla propria e non le contrasta, ma rivendica per sé il diritto all'autodeterminazione sancito dall'articolo 32 della Costituzione. Noi siamo tra questi ultimi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole De Nichilo Rizzoli. Ne ha facoltà.

MELANIA DE NICHILO RIZZOLI. Signor Presidente, l'atto Camera n. 2350-A è giunto all'esame di quest'Aula dopo il suo iter al Senato e nella XII Commissione affari sociali, di cui faccio parte, dove è stato elaborato, non senza difficoltà, un testo Pag. 72base unificato, dopo numerosi interventi e confronti tra maggioranza e opposizione.
Il testo del Senato è stato parzialmente modificato con l'introduzione di diversi emendamenti presentati dalla XII Commissione. Per questo desidero esprimere il ringraziamento mio e dei commissari al relatore, onorevole Di Virgilio, per il suo impegno e per il suo contributo.
Onorevoli colleghi, nessuno di noi sarebbe mai voluto arrivare a questo punto, a questo provvedimento, ovvero a normare il momento più delicato e più fragile della nostra esistenza terrena, il nostro futuro fine vita. Tuttavia, gli eventi e la storia ci hanno portato con forza a questa scelta necessaria.
Due anni fa il caso di Eluana Englaro ha evidenziato, con clamore e anche con violenza, un vuoto legislativo che andava necessariamente colmato. Esattamente due anni fa, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, un tribunale amministrativo ha autorizzato la sospensione dei sostegni vitali su un cittadino italiano. Due anni fa, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, un tribunale amministrativo ha autorizzato un medico ad indurre la morte su un paziente incosciente e clinicamente vivo. Due anni fa, per la prima volta nella storia della nostra Repubblica, un tribunale amministrativo ha accolto la richiesta di un cittadino italiano di ottenere una morte autorizzata su un congiunto in stato vegetativo persistente. La sentenza - lo ricorderete - fu regolarmente rispettata, ottenendo l'esecuzione immediata di quella che noi medici definiamo «eutanasia omissiva».
La magistratura ha dovuto comunque assumersi la responsabilità di una decisione, in risposta a una domanda pervenutale da un cittadino in assenza di una legge votata dal Parlamento che regolasse la materia in questione. La magistratura ha svolto, quindi, un ruolo di supplenza in assenza delle decisioni della politica e, in particolare, del Parlamento, che è il solo ad avere il potere legislativo.
Per questo motivo, questa proposta di legge arriva oggi in quest'Aula, per colmare quel vuoto legislativo e per evitare il ripetersi di interpretazioni o iniziative da parte di organi o poteri il cui compito è quello di vigilare sul rispetto delle leggi del Parlamento e non quello di legiferare, sostituendosi al ruolo del Parlamento stesso, o ancora di generare precedenti che possono diventare o creare giurisprudenza in una materia che non è stata regolata da una legge specifica.
Onorevoli colleghi, è il momento di assumerci questa responsabilità. È stato molto difficile scrivere questo testo di legge, stabilire in rigidi articoli quello che può e non può succedere attorno al letto di un paziente patologicamente incosciente, nel momento più fragile della sua vita, rispettando le sue volontà e le sue convinzioni, ma anche tenendo sempre presente il rispetto della persona e della vita e seguendo il dettato della nostra Costituzione.
Questa proposta di legge, onorevoli colleghi, non difende solo la vita nel momento più difficile e delicato della nostra esistenza, ma difende il diritto alla vita garantito dalla nostra Costituzione, dalle nostre coscienze e dalle nostre convinzioni, e soprattutto non autorizza in nessun caso l'eutanasia di Stato. Tra gli obiettivi e i contenuti di questa proposta di legge - che sono già stati diffusamente illustrati e spiegati dal relatore, onorevole Di Virgilio - per evitare ripetizioni voglio soffermarmi solo su alcuni punti qualificanti anche sotto l'aspetto scientifico, a mio parere, particolarmente significativi.
Onorevoli colleghi, i cittadini italiani in stato vegetativo persistente sono oggi nel nostro Paese poco meno di tremila, un piccolo esercito. Lo stato vegetativo è una condizione funzionale del cervello che insorge subito dopo l'evento traumatico che lo ha determinato, diventando riconoscibile però solo quando si esaurisce il coma che, sovrapponendosi, lo aveva mascherato ed è caratterizzato dall'assenza di comportamenti associati alle attività di coscienza. Questi pazienti per la maggior parte, avendo subito traumi violenti, sono stati in pericolo di vita e sono stati rianimati e strappati alla morte e ad essi sono Pag. 73state riattivate tutte le funzioni vitali, che riprendono a funzionare autonomamente, ovvero senza ausilio alcuno di macchinari o sostegni terapeutici.
Su cento pazienti rianimati, uno o due scivolano nello stato vegetativo, che può essere persistente e potenzialmente reversibile. Molti di questi pazienti non sono totalmente incoscienti, ma presentano uno stato di minima coscienza e comunque sono considerati tutti clinicamente vivi - incoscienti ma clinicamente vivi -, infatti il loro elettroencefalogramma continua a mostrare sempre segni di attività celebrare. A titolo informativo, aggiungo anche che i medici trapiantologi guardano con molta attenzione a questi pazienti, perché sono per la maggior parte pazienti giovani, con organi giovani, con organi sani, esenti da patologie, ma non possono toccarli, perché non sono pazienti in morte celebrale, con elettroencefalogramma piatto, ma sono pazienti definiti clinicamente vivi. Quando hanno superato la fase acuta, questi pazienti si stabilizzano e non hanno più bisogno di nessun ausilio meccanico, né di alcuna terapia, tanto che i congiunti che lo desiderano possono portare il paziente a casa. Queste persone hanno naturalmente, come tutti noi, solo bisogno del sostegno vitale rappresentato da acqua e cibo, ovvero necessitano di idratazione e di alimentazione, oltre che della normale assistenza che si deve alle persone non autosufficienti. Differenti sono i pazienti in fase terminale, che sono appunto arrivati alla fine del percorso di una malattia che li sta portando alla morte e il loro coma è causato dalla stessa malattia che ha preso il sopravvento sulle terapie, ha invaso il corpo del paziente e ne sta determinando il destino.
La prognosi negativa per questi pazienti condiziona sempre il trattamento terapeutico, che viene di regola sospeso, e nessun accanimento viene effettuato mai e in nessun caso su questi malati terminali, ai quali non viene somministrata nemmeno l'alimentazione, ma solo l'idratazione e gli antidolorifici necessari per alleviare le ultime sofferenze.
L'idratazione si sospende solo alla morte del paziente terminale. Negarla in questi casi ed in queste fasi significherebbe accelerare la morte con grave sofferenza del malato terminale. Lo stesso accade nel caso del paziente in stato vegetativo, che oltretutto non è afflitto da alcuna malattia, da alcuna patologia o da alcuna malattia terminale, e la sospensione dell'idratazione significa anche in questi casi indurre la morte per disidratazione con le stesse sofferenze del paziente terminale.
Onorevoli colleghi, noi medici siamo addestrati ed abilitati a custodire e a proteggere la vita, nel rispetto dell'articolo 49 del codice deontologico, che testualmente recita: «In caso di compromissione dello stato di coscienza, il medico deve proseguire nella terapia di sostegno vitale finché ritenuta ragionevolmente utile, evitando ogni forma di accanimento terapeutico». Ripeto: finché ritenuta ragionevolmente utile. A proposito di questo, nel testo di legge in questione è stato accolto un emendamento che prevede, in casi eccezionali, la sospensione dei sostegni vitali, ovvero nel caso in cui questi non risultassero più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni essenziali del corpo, come avviene sovente nei malati terminali e come è avvenuto al Santo Padre Giovanni Paolo II.
Noi parlamentari abbiamo il dovere di rispettare il diritto alla vita dei cittadini italiani, di rispettare la Costituzione e di legiferare nel rispetto della dignità della persona, senza perdere di vista il bene comune e tenendo presente che ogni cittadino ha il diritto di essere curato nel migliore dei modi dai medici, ma non ha il diritto di chiedere loro la morte, perché la vita e la salute sono beni indisponibili tutelati dallo Stato.
Il mio auspicio, onorevoli colleghi, è che questa legge sia ampiamente condivisa, anche al di là della maggioranza, perché il tema della vita e della morte riguarda tutti gli uomini e tutte le donne, senza distinzione di appartenenza politica e ideologica, e per i motivi suesposti deve essere regolato da una legge che oggi manca. Pag. 74Come dicevano i latini: dura lex sed lex, ovvero meglio una legge dura, difficile e imperfetta che nessuna legge.
Questo che vi chiediamo, onorevoli colleghi, non è un voto per la morte, ma un voto per la vita, per proteggere la vita, quella stessa vita che appartiene a tutti noi (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zazzera. Ne ha facoltà.

PIERFELICE ZAZZERA. Signor Presidente, signor sottosegretario, onorevoli colleghi, in questa solenne Aula oggi discutiamo di un provvedimento che interroga la coscienza di ognuno e che ci costringe a confrontarci con il significato di vita e di morte. Sono temi straordinariamente importanti, da maneggiare con grande cautela, liberi da contrapposizione ideologica.
Credo che non ci sia rispetto per la vita senza che vi sia rispetto per la morte. La morte è un evento che va accettato serenamente, come il termine naturale del ciclo biologico della vita. Se partiamo da queste due semplici affermazioni, allora possiamo affrontare il tema di oggi, del fine vita, dell'alleanza terapeutica tra medico e paziente e del testamento biologico. Questo provvedimento, invece, viene usato come una clava a seconda dei momenti.
L'approvazione al Senato è avvenuta dietro l'emotività della vicenda Englaro e genuflessi rispetto alle gerarchie ecclesiastiche; anche oggi la discussione della proposta di legge sul testamento biologico avviene dietro l'onda dell'emotività. Questo provvedimento arriva in Aula contestualmente al fatto che il Premier si accinge ad essere processato con l'accusa di prostituzione minorile; arriva in quest'Aula, quindi, nel momento più basso di credibilità morale della maggioranza; arriva in quest'Aula nel momento in cui più freddi sono i rapporti con la Chiesa. Insomma, si usa una questione delicatissima come il fine vita per riabilitare agli occhi delle gerarchie ecclesiastiche un «escortiere».
Vi è chi strumentalmente vuole utilizzare la discussione sulla proposta di legge in esame per contrapporre il partito della vita al partito della morte, chi vuole difendere la vita da chi vuole praticare l'eutanasia. Niente di più falso! Non riuscirete a dividere il Paese. I cittadini hanno già dimostrato, insieme ai giudici, di essere più avanti di voi e di noi con il referendum sull'aborto, sul divorzio e con la sentenza della Consulta sulla fecondazione assistita. Questa proposta di legge è pertanto solo un'arma di «distrazione» di massa: in essa non si regola il fine vita, non si parla di consenso informato e neppure di testamento biologico.
Vi chiedo, invece, se in questo Paese si potrà un giorno discutere di temi così delicati fuori dalle contrapposizioni ideologiche, fuori dall'influenza vaticana, con indipendenza e autonomia di pensiero, nel pieno della sovranità del Paese e di questo Parlamento. Vi chiedo se in questo Paese si potrà discutere di laicità senza essere additati e messi al pubblico ludibrio.
Le premesse su cui si basa la discussione sono quindi sbagliate e i contenuti sono falsi. Ma voglio provare ugualmente a discutere con voi del fine vita, del consenso informato, della libera scelta del trattamento, del testamento biologico. Voglio provare a discutere in quest'Aula libero da vincoli, voglio esercitarmi in questa solenne Aula con la voce della laicità.
Parlare di testamento biologico significa entrare nel campo dell'autodeterminazione della persona, dei diritti dell'individuo, della libera scelta di trattamento. Con questa proposta di legge, invece, imponete la vita per legge, obbligate alla cura, sottraete la persona al diritto di libera scelta.
Vi state arrogando un diritto superiore che non potete avere, vi state impossessando di una legge divina. Questa proposta di legge è incivile e illiberale, oltre che incostituzionale; è contro il testamento biologico.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

PIERFELICE ZAZZERA. Questo provvedimento è incostituzionale. Lo voglio citare, Pag. 75perché è giusto che venga citato: con questa proposta di legge violate l'articolo 32 della Costituzione, del quale Aldo Moro aveva contribuito a scrivere proprio il secondo comma, che riguarda, in questo caso, proprio il fine vita. Concludo, signor Presidente, perché così mi incita a fare, lasciando a questa Assemblea l'ultima parte del mio intervento, chiedendo che resti agli atti il mio testamento biologico, la mia volontà di rifiutare il trattamento imposto dai medici.
Io sottoscritto, Pierfelice Zazzera, nato a Putignano il 20 giugno 1967, nel pieno delle mie facoltà mentali e in totale libertà di scelta, dispongo quanto segue: in caso di malattia o lesione traumatica cerebrale irreversibile e invalidante chiedo di non essere sottoposto ad alcun trattamento terapeutico o di sostegno, nutrizione e idratazione. Queste mie volontà dovranno essere assolutamente rispettate dai medici che si prenderanno cura di me. Lascio come fiduciario questo Parlamento.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Calderisi. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE CALDERISI. Signor Presidente, intervengo a titolo personale e ringrazio il mio gruppo di assicurare piena libertà di coscienza su questa delicatissima materia, fermo restando il diritto-dovere per ciascuna forza politica di avere una propria posizione.
Il mio intervento riguarda i forti dubbi di costituzionalità posti dal testo al nostro esame. Si tratta di cinque ordini di questioni. Le ho affrontate in dettaglio in Commissione affari costituzionali, ma solo una di esse è stata recepita nel parere della Commissione, come semplice osservazione, della quale la Commissione affari sociali non ha peraltro tenuto alcun conto.
Eppure, si tratta di questioni di grande rilevanza che mettono in causa proprio l'obiettivo di fondo del provvedimento. L'intervento legislativo viene infatti motivato con l'obiettivo, certamente condivisibile, di evitare, dopo il caso Englaro, nuovi esiti di tipo giudiziario. Certo, oggi questo rischio esiste, anche se il percorso giudiziario è comunque arduo e dopo il caso Englaro, fortunatamente, non vi sono stati altri casi del genere. Tuttavia, se fosse approvato il testo al nostro esame il rischio di deriva giudiziaria non verrebbe affatto eliminato, verrebbe anzi accentuato, moltiplicato per mille, si aprirebbe una autostrada a ventiquattro corsie. Non solo, molto probabilmente il provvedimento in esame sarebbe oggetto di pronunce molto incisive della Corte costituzionale, non nel senso della sua cancellazione totale, ma della sua profonda trasformazione in un complesso normativo dai contenuti molto diversi. Una proposta di legge che interviene per disciplinare le dichiarazioni anticipate di trattamento, come indicato addirittura nel titolo, e che, contemporaneamente, prevede limiti assoluti al contenuto di tali dichiarazioni è in sé contraddittoria e denota un'irrazionalità intrinseca della normativa che la espone a più che probabili declaratorie di incostituzionalità. Il provvedimento in oggetto diverrebbe solo un contenitore, ma il contenuto normativo alla fine sarebbe molto diverso, probabilmente opposto, rispetto a quello che i sostenitori del testo al nostro esame intendono perseguire. Insomma, una sorta di legge boomerang.
Per queste ragioni ritengo che il testo sia da modificare. Esistono, a mio avviso, due strade alternative che si possono seguire e che cercherò di illustrare, se si vuole evitare che divenga preferibile una terza soluzione, quella di non legiferare affatto su questa delicatissima materia.
Affronto, innanzitutto, i problemi di costituzionalità della proposta di legge in esame. Come dicevo, si tratta di cinque ordini di questioni che in questa sede posso affrontare solo in modo sommario, rinviando per la loro più compiuta trattazione al testo che depositerò.
La prima questione concerne la costituzionalità. La proposta di legge in esame, nel disciplinare la delicatissima questione del fine vita, dovrebbe realizzare un ragionevole bilanciamento tra i beni e gli interessi costituzionali in gioco, ossia, da una parte, il diritto alla vita, il diritto alla salute ed il dovere del medico di curare e, Pag. 76dall'altra, il diritto all'autodeterminazione individuale, la dignità personale, il rispetto della persona umana ed il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari non voluti. Al riguardo esistono numerose sentenze della Corte costituzionale. Naturalmente, il legislatore ha una ampia discrezionalità nel trovare il migliore bilanciamento, ma questa discrezionalità non può spingersi fino a prevedere limiti assoluti al contenuto delle dichiarazioni anticipate di trattamento, azzerando, in determinate fattispecie, uno dei beni o diritti in considerazione. Il bilanciamento deve essere reale.
Passiamo alla seconda questione. La proposta di legge in oggetto non dà una definizione legale di eutanasia. Viene, infatti, vietata ogni forma di eutanasia attraverso il richiamo a fattispecie penali - articolo 575 del codice penale: omicidio; articolo 579 del codice penale: omicidio del consenziente; articolo 580 del codice penale: istigazione o aiuto al suicidio - in realtà ben distinguibili dal concetto di eutanasia ed estranee alle problematiche di fine vita. Non viene pertanto risolto il problema della definizione legislativa di eutanasia, cioè dei comportamenti che si intendono vietare sotto il duplice aspetto attivo e passivo, in relazione al consenso del malato o alla sua assenza, dal punto di vista del malato e dell'agente.
Nel testo in esame il Parlamento, invece di legiferare, abdica al suo ruolo e introduce, invece, previsioni penali irragionevoli e prive di determinatezza, in contrasto con l'articolo 25, secondo comma, della Costituzione che prevede una riserva assoluta di legge in materia penale proprio per impedire qualunque attività di integrazione o di creazione di illeciti penali da parte dei giudici e degli interpreti. La vaghezza dei riferimenti a tre diverse norme penali che prevedono fattispecie penali assai distinte tra loro, punite con pene diverse nel quantum (dall'ergastolo ad un minimo di un anno, a seconda dei casi) e, comunque, difficilmente trasponibili alle problematiche di fine vita, rende possibili interpretazioni giudiziarie assai divergenti e addirittura creative, in contraddizione frontale con uno degli scopi di fondo della proposta di legge in esame, ossia proprio quello di impedire derive giudiziarie in questo settore.
Vi è poi una terza questione. Il progetto di legge non riguarda solo i casi di malati in stato di incapacità di intendere e di volere, come i soggetti in stato vegetativo permanente o persistente, ma è applicabile anche ai soggetti pienamente capaci di intendere e di volere; ciò vale, in particolare, per quanto riguarda l'articolo 1, «Tutela della vita e della salute», la cui sfera di efficacia non è circoscrivibile alle situazioni di pazienti non coscienti. Una serie di affermazioni e di espressioni contenute nelle lettere a), c) e d) - che non ho qui il tempo di evidenziare e che sono contenute nel mio intervento, che lascio agli atti - insieme alla mancata definizione legale di «eutanasia» possono mettere in discussione il diritto individuale a rifiutare in piena coscienza e attualità di consenso alcuni trattamenti sanitari, anche laddove da questo rifiuto possa discenderne la morte.
Vi è poi la quarta questione. Il bilanciamento legislativo non appare soddisfacente nemmeno in riferimento all'efficacia delle dichiarazioni anticipate di trattamento, quindi con riferimento alla forza della volontà espressa «allora» da un paziente «ora» in condizione di incoscienza. Ciò risulta con evidenza dall'articolo 7, dove si afferma che il medico è legittimato a non porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico, contrastando così le decisioni non solo del dichiarante, ma anche del fiduciario e addirittura dell'eventuale collegio medico.
Qui è di tutta evidenza che la volontà espressa dal dichiarante, tutelata dall'articolo 32, comma secondo, della Costituzione, non è bilanciata affatto, ma assolutamente azzerata dalla prevalente volontà del medico. Il problema non pare affatto risolto dal comma 3 dell'articolo 7, ove si prevede che, in caso di controversia fra fiduciario e medico curante, la questione è sottoposta alla valutazione di un collegio di medici. La Commissione ha eliminato il terzo periodo del comma 3, Pag. 77dove si affermava che «il parere espresso dal collegio medico è vincolante per il medico curante, il quale non è comunque tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico o deontologico». Era una formulazione priva di senso giuridico, che è stata opportunamente espunta.
Rimane però un vuoto. Che accade in caso di contrasto tra il collegio medico e il medico curante? Si vuole intendere, senza esplicitarlo che prevale comunque il parere del medico curante? Ma così si aprono, anzi si spalancano, le porte al ricorso alla magistratura. Se invece si vuole salvaguardare il diritto all'obiezione di coscienza del medico, questo è giustissimo e sacrosanto, ma in questo caso occorre prevedere contestualmente che la struttura sanitaria sia tenuta ad individuare un altro medico al fine di assicurare il rispetto quantomeno delle indicazioni del collegio medico.
Arriviamo alla quinta questione. L'articolo 3, comma 5, sancisce l'obbligo di mantenere l'alimentazione e l'idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle, fino al termine della vita e dispone che esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento. Viene dunque esclusa, in assoluto, la natura di trattamento sanitario dell'alimentazione e dell'idratazione forzata, anche se vi sono casi, ben noti alla pratica medica, in cui di trattamenti sanitari sicuramente si tratta, ed anche particolarmente invasivi. In questo modo si invade la sfera della scienza medica, sovrapponendo ad essa definizioni assolute.
L'eccezione «nel caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni essenziali del corpo» costituisce solo un'invasione ulteriore della sfera della scienza medica, giacché è ovvio per qualunque medico che un trattamento inefficace va evitato. Se si vuole dire che è vietato l'accanimento, la disposizione è superflua, essendo già prevista dall'articolo 1, comma 1, lettera f). In questi termini, a seguito dell'esclusione, in assoluto, della natura di trattamento sanitario, il paziente non ha diritto di rifiutare l'alimentazione e l'idratazione forzata, in contrasto con gli articoli 32, secondo comma, e 13 della Costituzione.
Alla luce di tutte queste considerazioni, si possono seguire, a mio avviso, due strade alternative. La prima è quella di riformulare il testo al fine di realizzare un effettivo e ragionevole bilanciamento tra i beni e gli interessi costituzionali in gioco, risolvendo le questioni di costituzionalità che ho esposto e in particolare introducendo una definizione legislativa di eutanasia.
La seconda strada è quella di limitare l'intervento legislativo al divieto di eutanasia e di accanimento terapeutico, previa loro definizione legislativa, senza introdurre la dichiarazione anticipata di trattamento, lasciando quindi la «zona grigia», più delicata, alla sapiente cura e decisione del medico, della persona interessata e dei suoi familiari (è la strada della cosiddetta soft law).
Queste sono, a mio avviso, le uniche due strade a disposizione tra cui scegliere se si vuole evitare che divenga preferibile, o addirittura obbligata, una terza opzione, quella di non legiferare affatto su questa delicatissima materia (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Calderisi, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Fioroni. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE FIORONI. Signor Presidente, signor sottosegretario, colleghi, ho deciso di intervenire in sede di discussione sulle linee generali per condividere con voi alcune riflessioni, ma soprattutto alcune profonde preoccupazioni, augurandomi che ciò possa indurre tutti ad una maggiore attenzione e alla revisione del testo in esame. Pag. 78Spero vivamente che il Parlamento e tutti i suoi gruppi parlamentari affrontino questo argomento con la libertà di coscienza, come scelta profondamente voluta e non come uno strumento, un mezzo e tanto meno come una concessione che qualcuno deve fare, ma come scelta consapevolmente voluta. Biopolitica e bioetica sono le nuove sfide, complesse e difficili, che ci toccano nel profondo del nostro sentire, dove ciascuno di noi, come ciascun cittadino, è interpellato nella propria coscienza da valori alti ed essenziali. Sono i temi per i quali l'etica non può essere graduata con richieste di adattamento a quella prevalente o presunta tale, ma affidata alla responsabilità personale. Vita e morte non sono e non possono mai essere nella signoria angusta di un'appartenenza politica o partitica, anche perché ciascuno di noi è specchio delle ansie, dei turbamenti, delle scelte e delle divisioni di una società complessa e profondamente plurale che su questi temi è più attenta e incerta, più mossa da dubbi che da indomite certezze, se non da quelle che promanano dai valori fondanti delle nostre esistenze.
La seconda riflessione riguarda il fatto che spesso, per opportunismo, viene rimosso il termine limite che si coniuga in due modi con la nostra azione politica. La politica del limite: dobbiamo essere consapevoli che nella società del progresso tecnico e scientifico tutto si evolve con rapidità. Le barriere vengono abbattute quotidianamente, richiedendo una valutazione attenta perché sempre di più ciò che è tecnicamente possibile non è detto che sia eticamente corretto. Sempre più saremo chiamati a verificare che la dignità della persona e il bene comune siano rispettati. Pensiamo, per esempio, ai dibattiti sulla clonazione, sulla brevettabilità di parti del corpo umano e a tanti altri, quindi è perfettamente laico che la politica affronti il senso del limite oltre il quale il bene è messo in discussione. Il limite della politica: dove ci dobbiamo fermare per non essere invasivi e pervasivi dell'autonomia e della libertà della coscienza delle singole persone? Se riconosciamo l'autonomia dei corpi intermedi, delle organizzazioni civili, come non possiamo non riconoscere una autonomia rispettosa di quella comunità che nei millenni si è definita come comunità di destino, rappresentata dal paziente, dalla famiglia e, nel tempo, dallo stregone, dallo sciamano e poi dal medico. Comunità di destino che, con la saggezza dell'amore e con la compassione, che rappresenta il comune patire e il soffrire insieme, ha compiuto le scelte migliori e più giuste per il malato.
Per quelli di noi credenti ma anche non credenti può essere utile riflettere sulla parabola del buon samaritano e sugli scritti di un pastore protestante, Bonhoeffer, che ci ricordano che non c'è vera conoscenza e amore se non condividiamo e incontriamo nella nostra sofferenza e lì ne abbiamo compassione. Come si può non rispettare al massimo tutto ciò? Come non provarne rispetto profondo e doverosa ritrosia nell'andare oltre, ossia oltre il limite che rischiamo di superare?

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE MAURIZIO LUPI (ore 18,10)

GIUSEPPE FIORONI. Dico subito che condivido, come afferma la proposta di legge in esame, il fatto che nessuno possa essere fatto morire di fame o di sete perché, conseguentemente, idratazione e nutrizione sono per me sostegni vitali. Nessuno può rimuovere, neppure per sentenza, tali sostegni vitali senza avvertire la profonda ipocrisia di chi, di fatto, autorizza, scaricandola implicitamente sul medico, l'eutanasia attiva per non indurre nel paziente le conseguenze drammatiche della deprivazione. Ma qui si è andati ben oltre il limite, si è generato un accanimento normativo rischioso tanto quanto quello terapeutico perché capovolge la naturale prospettiva che vede il medico intento a curare la persona che presenta sintomi di malattie, costringendo di fatto il medico a curare la malattia e la persona malata ad adeguarsi alla standardizzazione della malattia che viene da noi codificata per legge. Pag. 79
Il medico, così, sarà più attento ad avere le carte a posto piuttosto che a curare il malato, per non dire del possibile avvio di uno spaventoso contenzioso medico-legale in sede giurisdizionale. Pensate al consenso informato, fino ad oggi limitato, di fatto, ai soli trattamenti diagnostici invasivi o agli interventi chirurgici. Oggi viene esteso, giustamente, e generalizzato per ogni cura o atto medico, anche quelli appropriati e semplici e quelli definiti lex artis.
Un consenso informato che deve essere reso dal paziente - la legge dice - in maniera consapevole e libera, quando sappiamo che per giurisprudenza consolidata il rapporto tra medico e paziente non è mai ritenuto paritario, e quindi come tale con un rischio di contenzioso ex post fondato sulla dipendenza dal bisogno del malato nel momento cui si relaziona con il medico per la propria patologia. Ancora, il consenso informato, per essere dato, necessita da parte del medico di una spiegazione giustamente definita completa, chiara, semplice, esaustiva e comparata. Credo che non sfugga a nessuno che in questi termini sono insite tutte le potenzialità per un futuro complesso contenzioso, a prescindere dal livello di reale alfabetizzazione del paziente nei riguardi delle cose che il medico riferisce. Dal consenso informato scaturisce che il paziente può giustamente rifiutare tutti i trattamenti, compresi quelli appropriati, come prevede il nostro articolo 32 della Costituzione.
Dopo questo presupposto si giunge alla dichiarazione anticipata di trattamento, dalla quale sono escluse soltanto l'idratazione e la nutrizione, e che nel testo del Senato riguardava solo i pazienti che io definisco in coma irreversibile. Ora il paziente con la DAT può rifiutare, oggi per domani, ogni trattamento, anche quelli lex artis. Anche qui il medico deve dare al paziente una compiuta informazione medico clinica. Ditemi voi, questa non è forse una follia? Quale malattia mi esporrà il medico? Quali trattamenti mi spiegherà? Cosa rifiuterò come cura non sapendo di che cosa mi ammalerò? Il paziente non ha la contestualizzazione degli eventi, non potrà - non sapendo di cosa si ammalerà - neppure per astrazione valutare quali trattamenti rifiutare, come non potrà neppure valutare per comparazione i trattamenti terapeutici possibili che nella contestualità potrebbe decidere per progressiva acquisizione di notizie e informazioni. Con questo provvedimento la DAT sembra essere lo strumento con cui di norma il cittadino può rifiutare i trattamenti lex artis, se al comma 3, articolo 3, avete avuto la necessità di specificare che oltre ai trattamenti appropriati il paziente può rifiutare anche i trattamenti sproporzionati e sperimentali. Con questo testo viene introdotta la categoria della futura incapacità di intendere e di volere, per far assumere rilievo, quindi rilevanza giuridica, alla DAT.
L'incapacità di intendere e di volere è forse semplice poterla definire rispetto a fatti relazionali o per il compimento di atti amministrativi, ma come si stabilisce il rapporto che esiste fra l'essere e la coscienza che questo ha di sé, del proprio schema corporeo, della propria vita? Chi è in grado di definire tutto questo? Un collegio medico? E come? Con quali dati oggettivi? Pensate, che idea ha della propria vita un bambino down che sorride, che bacia la propria mamma, che gioca? Pensate, che idea hanno della propria vita quei pazienti affetti da malattie cerebrali degenerative quali l'Alzheimer, l'atrofia corticale, la patologia micro e multinfartuale della corteccia, che nelle fasi iniziali già danno incapacità di intendere e di volere permanente. Le nostre mamme, le nostre nonne, i nostri anziani, possono trovarsi in questa situazione, ma noi tante volte nella quotidianità vediamo bene come vivono gli affetti, i gesti i gusti, le loro cose.
Che idea ha della propria vita quel giovane che diventa incapace di intendere e di volere per una grave conseguenza postraumatica o per una patologia infettiva grave? Che idea ha della propria vita ha un soggetto incapace di intendere e di volere per l'asportazione di un tumore cerebrale? Oppure che idea ha della propria Pag. 80vita quel paziente divenuto improvvisamente affetto da una malattia psichiatrica dissociativa o bipolare? Pensate veramente che questi pazienti, sottoscritta la DAT nei cinque anni precedenti, rinunciando a cure e terapie, possano sapere quale sarebbe stato il loro rapporto con la vita in quel momento? Pensate veramente che la loro scelta sia stata libera, consapevole e informata, e non pensate che in una società dove spesso l'egoismo degli interessi alimenta abbandoni e fa crescere fastidi non possa tutto ciò rappresentare un'inedita occasione magari di Rupe Tarpea?
Tutto questo introduce a mio avviso un grave rischio di eutanasia passiva, ancora più evidente quando il paziente possa decidere di sospendere addirittura delle cure in essere al momento dell'insorta capacità. Certo, il testo di legge afferma che è vietata ogni forma di eutanasia. È vero, l'eutanasia è sicuramente vietata nella fattispecie in cui è assimilabile agli articoli 575, 579 e 580 del codice penale, l'eutanasia attiva, quella che cagiona la morte, mentre a mio avviso l'eutanasia passiva, che non è cagionare la morte ma omettere interventi, e pure nel rispetto e nell'ossequio di una prescrizione di legge che prevede la DAT, e del codice deontologico, non viene vietata e trova nel testo un'autostrada per la propria realizzazione.
Il fiduciario prioritariamente è chiamato, tra tante cose, a far rispettare la volontà del paziente che redige la DAT per rifiutare, all'insorgere dell'incapacità di intendere e di volere, una serie di trattamenti. Il fiduciario, quindi, deve garantire che il medico ometta quegli interventi, come è scritto nel testo, vigilando che non cagioni, con azioni attive, la morte del paziente. Peraltro, quando nel testo si specifica che, in presenza di grave complicanza o evento acuto insorto, la DAT non è presa in considerazione, voi provate a porre un rimedio nei casi in cui l'eutanasia passiva non sarebbe un rischio, ma una certezza. Tutte le procedure della DAT, la sua entrata in vigore o le frasi generiche: «grave complicanza o evento acuto», aprono la via ad una discrezionalità, da parte dei medici, che non sarà più come nella comunità di destino, affidata alla scienza, alla coscienza, all'amore e alla compassione, ma alle paure giuridiche, ai rischi penali ed anche alle convinzioni ed interpretazioni individuali. Con questa tipologia di DAT, per gli incapaci di intendere e di volere, apriamo una legislazione molto simile a quella dei Paesi del nord. Una cosa è certa: se l'assumere rilevanza della DAT, nei pazienti incapaci di intendere e di volere, non produce alcuna omissione di cura e di trattamento, scongiurando ogni rischio di eutanasia passiva, tanto vale toglierla dal testo in esame, ma così non è. Quando la DAT, con l'insorgere dell'incapacità di intendere e di volere, assume rilevanza, con tutte le implicazioni giuridico-penali, il medico, insieme ai familiari, sarà condizionato, in tutti i giudizi sui trattamenti, e preoccupato di rendere i propri atti il più possibile omogenei alla legge per evitare contenziosi penali. Non è un caso, infatti, che all'articolo 1, comma 1, lettera c), nei principi, parlate di tutela della salute e della vita e, nell'articolo 7, comma 2 (ruolo del medico), parlate della tutela della salute secondo i principi di precauzione, proporzionalità e prudenza.
Tutto questo conferma la mia opinione che la cura, la salute, la vita e l'amore per il paziente finiranno sotto le variabili interpretazioni della norma di legge esponendo al rischio di avere migliaia di sentenze che affideranno ai giudici decisioni che non gli competono. Pensate che la legge serviva ad evitare una sentenza invasiva. Per questo, ritengo necessario, per evitare di aprire il rischio di un'eutanasia passiva, che questo testo venga profondamente modificato, lasciando soltanto un'indicazione chiara per l'idratazione e la nutrizione ed il divieto dell'accanimento terapeutico con la possibilità di rifiutare le cure sproporzionate o sperimentali che potranno essere effettuate solo se nuove evidenze tecnico-scientifiche, dopo la redazione della DAT, siano insorte. Non ho dubbio che la legge, nell'intenzione dei promotori, serva a tutelare la vita e, quindi, non può non avere al centro anche la Pag. 81qualità della vita terminale, garantita dalle cure palliative e dalla terapia del dolore. Per questo, trovo terribilmente burocratico, arido e assolutamente poco compassionevole ed ipocrita la ripetuta dizione che tutto questo debba essere svolto senza oneri aggiuntivi per lo Stato. Questo significa che intendiamo abbandonarli a loro stessi, alle loro famiglie ed alle loro risorse. Forse, potrebbe essere utile che, magari, se facciamo quell'election day, almeno altri 100 milioni di euro di finanziamento potremmo prevederli in ordine a questi aspetti. Cari colleghi, ritengo che serva una legge buona, non invasiva, essenziale e chiara; non serve, in questo ambito, una legge qualunque, tanto meno una legge, dal mio punto di vista, pericolosa. Per questo, mi auguro che vogliate correggerla e rinviarla in Commissione (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Patarino. Ne ha facoltà.

CARMINE SANTO PATARINO. Signor Presidente, signor sottosegretario, non sono pochi in Italia quelli che, da qualche settimana, si stanno chiedendo se sia opportuno o no che il Parlamento di questi tempi tratti argomenti come quello di cui ci stiamo occupando oggi. Tra così gravi problemi che angustiano la nostra società, sono in tanti a domandarsi, in quest'Aula, ma anche fuori di qui, dove sia la necessità di accapigliarsi su una questione così complicata ed, invero, assai difficile da inserire tra gli argomenti di somma urgenza e di prima necessità. Da giorni, Ernesto Galli della Loggia, su Il Corriere della Sera, va argomentando sull'inopportunità di questa legge e, sempre su Il Corriere della Sera, anche Paolo Conti va sostenendo la stessa tesi chiamando in causa alcune personalità di diversa radice culturale che, da molto tempo, si occupano di bioetica: il professor Fiori, il professor Rescigno, la professoressa Carlassare, il poeta Rondoni, ai quali chiede se sia opportuno legiferare in una materia così complessa e delicata come quella riguardante il trattamento di fine vita.
Tutti pur partendo da valutazioni diverse sconsigliano il varo della legge e dello stesso avviso si sono più volte dichiarati l'ex Ministro della salute Veronesi e l'attuale Ministro dei beni culturali Bondi. Non mancano tuttavia altrettante voci autorevoli a sostegno della necessità di una legge, di questa legge. Insomma contrarietà, dubbi e forti perplessità non si fermano in uno schieramento piuttosto che in un altro. Sono trasversali ed investono tutti gli ambienti: anche la Chiesa, i medici cattolici. C'è addirittura chi, come don Raffaele Garofalo, che su, Altrachiesa, per difendere la decisione di Englaro, parte da Petronio, passa per il «dissolvi et esse cum Christo» di Paolo di Tarso, procede per il «bene che mi aspetto» di San Filippo Neri, per finire, citando gli ultimi due Papi, Wojtyla e Benedetto XVI.
Non credo, onorevoli colleghi, che qualcuno di noi, condividendo l'una o l'altra posizione, possa dire di essere sicuro di fare la scelta giusta, di non avere alcuna perplessità, di non avvertire, data l'unicità della materia, un senso tutto umano di umiltà e di incertezza. L'incessante incedere del sapere medico può illudere invero di restituire alla persona la signoria sulla vita e di elevare la stessa ad unica titolare del diritto di decidere in ordine ai trattamenti sanitari e al rifiuto degli stessi. Tale illusione tuttavia svanisce al contatto con l'etica della sacralità della vita e si inchina al cospetto delle tematiche di fine vita nella dichiarazione dell'eutanasia del 20 dicembre 2000 della Pontificia Accademia per la vita dove così è detto: «nell'immediatezza di una morte che appare ormai inevitabile ed imminente vi è grande differenza etica tra procurare la morte e permettere la morte: il primo atteggiamento rifiuta e nega la vita, il secondo accetta il naturale compimento di essa e rievoca una delle pagine più alte della scrittura: »Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito". Sono le parole pronunciate da Gesù sulla croce prima di morire.
Una scelta di campo questa non universalmente condivisa. Indro Montanelli, ad esempio, non era d'accordo. Non voglio soffrire, egli scriveva. Io non ho della Pag. 82sofferenza un'idea cristiana. Ci dicono che la sofferenze eleva lo spirito. No, la sofferenza è una cosa che fa male e basta. Non eleva niente. Quindi ho paura della sofferenza. Allora, qualsiasi sia il piano di osservazione etico o giuridico, risulta davvero molto difficile per chiunque accampare ragioni per una tesi o per un'altra. Ed anch'io, com'è naturale, non mi sento affatto libero da quella sensazione di umiltà, di incertezza e di dubbi. Quando questo provvedimento approdò al Senato in più occasioni si vide salire il livello dello scontro per alcune prese di posizione assai divergenti non solo tra maggioranza e opposizione ma anche all'interno degli stessi schieramenti politici a causa di evidenti diversità culturali e di concezioni etiche e giuridiche molto distanti riguardo ai temi della bioetica. Quel clima non era dei migliori per poter legiferare serenamente perché fortemente condizionato dal caso Eluana Englaro, la diciannovenne entrata in coma il 18 gennaio del 1992 a seguito di un incidente stradale.
Televisioni e giornali avevano per molti giorni raccontato nei minimi particolari la triste storia, rendendo pubbliche le atroci sofferenze della famiglia e provocando, forse senza volerlo, un acceso dibattito sulla tormentata decisione del padre di fare richiesta di sospendere l'alimentazione artificiale che teneva in vita la figlia. Quella decisione del padre di Eluana, certo terribile, estrema, divise l'Italia e la politica. Vi fu subito chi condannò quell'uomo senza appello e chi lo presentò come simbolo e campione di un nuovo modello di etica. Vi fu addirittura chi lo propose come candidato in una qualche elezione. In second'ordine invece passò il grande travaglio che da così lunghi anni erano costretti a vivere quell'uomo e la sua famiglia. Quel travaglio e quel dolore non andavano strumentalizzati da nessuno.
Io non condivisi quella decisione, ma non espressi alcun giudizio: la rispettai proprio pensando a quella tristissima storia e a tante altre come quella e, pur non vedendo dissolversi i miei dubbi, mi sono più volte chiesto, come persona credente e al tempo stesso come parlamentare dall'interpretazione laica della politica e del proprio mandato, che cosa si potesse fare per consentire a quanti si trovano nelle stesse condizioni di Englaro di poter assumere decisioni così tremendamente dolorose, senza rimanere confinati nell'angustia della solitudine e senza essere assediati dal fuoco dell'ostilità, ma contando sul pieno conforto dello Stato.
Fare una legge: era e sembrava quella essere la soluzione per risolvere questo angoscioso problema. Fu quindi da quella dolorosa vicenda che nacque nel Paese l'idea di un provvedimento legislativo, che prese l'avvio da una mozione presentata al Senato dal compianto Presidente Cossiga, alla quale seguì la proposta Calabrò, il cui testo, dopo un lungo dibattito, fu licenziato dal Senato per passare alla Camera.
Ringrazio il collega Di Virgilio, relatore, per il prezioso lavoro che ha fatto e per la grande disponibilità, di cui ha dato larga prova prestando la massima attenzione alle proposte, alle critiche ed ai suggerimenti di ogni provenienza, con l'unico obiettivo, peraltro espressamente da lui dichiarato proprio all'inizio della sua relazione in Commissione e anche qui in Aula, di dar vita ad una legge che trovi se non l'unanimità un vasto consenso.
Noi di Futuro e Libertà per l'Italia, ciascuno con la propria sensibilità e nell'assoluta libertà di coscienza, daremo anche qui alla Camera con osservazioni critiche costruttive e proposte emendative un contributo franco, leale e deciso per far uscire da quest'Aula un testo quanto più condiviso possibile, invitando tutti, almeno in occasioni come questa, in cui non sono in ballo interessi di partito o di schieramento, ad abbandonare la tattica del muro contro muro e a mettere da parte ogni pregiudizio ideologico, per evitare qui e di rimando fuori di qui, nel Paese, pericolose ed insanabili lacerazioni di cui ciascuno di noi, chi più chi meno, potrebbe sentirsi domani responsabile.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bressa. Ne ha facoltà.

GIANCLAUDIO BRESSA. Signor Presidente, Friedrich Carl von Savigny scriveva Pag. 83che la morte quale confine della capacità giuridica è un evento naturale talmente semplice da non rendere necessaria al pari della nascita da parte del diritto alcuna più esatta determinazione dei suoi elementi. Ma oggi al diritto si chiede di misurarsi con istanze profondamente diverse, radicalmente nuove. C'è, parafrasando Heidegger, da chiedersi quale sia il ruolo del diritto nell'età della tecnica, età della tecnica che si caratterizza per l'enorme progresso e le straordinarie potenzialità che le nuove conoscenze e applicazioni mettono a disposizione degli uomini e per il fatto che questo progredire della scienza e della tecnica avviene in concomitanza con quella che Engelhardt chiamava la fine delle grandi narrazioni morali, con il conseguente sgretolarsi delle comunità monoetiche, in cui esisteva una sola idea di bene per tutti i membri.
Tutto ciò incide grandemente sul diritto, la quasi onnipotenza tecnica non può convivere, per dirla come Jonas, con la quasi vacuità dei limiti. Porli spetta al diritto, facendo attenzione che questa ansia di giuridicità non sconfini in una giuridificazione totalizzante dell'intera esistenza dell'uomo. Questo è il contesto, nostra è la responsabilità, titanica responsabilità, di fare una legge. Ma allora cominciamo a capire di quale diritto stiamo parlando; con il testamento biologico non si tratta di scegliere un diritto a morire con dignità, bensì il suo esatto contrario: il diritto di poter scegliere la vita che si vuol continuare a vivere, quando ci si dovesse trovare in uno stato di incapacità; diritto a una vita degna anche quando si è incapaci. È questo un tema di una delicatezza assoluta, cristallo puro; per non appannarlo o peggio infrangerlo, c'è bisogno di definire un metodo, un approccio culturale inequivoco. Personalmente mi riconosco in Aldo Moro quando dice che «il tema dei diritti è centrale nella dialettica politica. Di fronte a questa fioritura, la politica deve essere conscia del proprio limite, pronta a piegarsi su questa nuova realtà che le toglie la rigidezza della ragione di Stato per darle il respiro della ragione dell'uomo». La ragione dell'uomo, la dignità dell'individuo come persona, la solidarietà nei confronti degli altri uomini come appartenenti ad una comunità, questo è in gioco, non altro.
Per questo non convince la vostra legge, perché al centro di essa non c'è il respiro della ragione dell'uomo, c'è il dogma di quella che per voi è la verità, che deve vincere, non convincere, affermarsi come fine attraverso lo strumento democratico della legge del Parlamento; è la tirannia dei valori, descritta da Carl Schmitt, per la quale, la libertà puramente soggettiva di porre valori, senza più il limite reale del testo costituzionale, conduce inevitabilmente ad una lotta eterna dei valori e delle concezioni del mondo, a una guerra di tutti contro tutti. Piegare il testo costituzionale a mero alibi nella lotta per un valore, non riconoscere ad esso alcun ruolo di limite, significa privare la Costituzione della sua unità di senso.
Con questa legge si pongono questioni costituzionali fondamentali che voi eludete o forzate, incapaci di ammettere il portato dell'articolo 32 della Costituzione che, introducendo il principio della volontarietà dei trattamenti sanitari, stabilisce il passaggio dalla fase del paternalismo medico di origine ippocratica a quello dell'autonomia e dell'alleanza terapeutica medico-malato. Così come è opportuno ricordare che nel principio della volontarietà dei trattamenti sanitari si riflette l'intero sistema dei valori a cui la Costituzione è ispirata: il principio personalista, il principio pluralista, l'inviolabilità della libertà personale, il rispetto della dignità umana, la capacità di autodeterminarsi relativamente alla propria dimensione esistenziale. Il contenuto della dignità di una persona sta nelle sue convinzioni, nella sua cultura, nella sua fede, quindi, quando la Costituzione pone come limite il rispetto della persona umana, è questo quello che ha scritto nella Costituzione l'onorevole Moro, non le sciocchezze che ha ricordato lei, onorevole Polledri. Quando la Costituzione pone come limite il rispetto della persona umana non c'è volontà parlamentare, anche unanime, che possa sostituirsi alla volontà del singolo, perché vorrebbe dire Pag. 84negare il senso del diritto che è strumento a servizio dell'uomo e non viceversa; a meno che non si voglia, in nome della tirannia dei valori, creare un altro assoluto, laico e non religioso, cui l'uomo dovrebbe inchinarsi.
Accanto a queste riflessioni di tipo costituzionale, vorrei farne una più squisitamente politica; io non so cosa sia la morte, come credente ne accetto il mistero e credo nella resurrezione ma so che cosa è la vita, che non è solo pane e acqua, idratazione o alimentazione, ma è sentimenti, affetti, amore condiviso e vissuto insieme, è carità, carità nel senso originario recuperato da San Paolo nella prima lettera ai Corinzi: «e se avessi il dono della profezia e conoscessi tutti i misteri e tutta la scienza, e possedessi la pienezza della fede così da trasportare le montagne ma non avessi la carità, non sono nulla». Carità come dono, senza interesse, come mero atto di bontà. La decisione di come vivere la propria fine della vita spetta alla persona, ai suoi cari, alla famiglia, mai, mai allo Stato.
Questa libertà per la persona non è arbitrio, non è relativismo etico, ma rispetto del patrimonio più geloso e autentico della persona, che sono i suoi convincimenti, i suoi valori, la sua dignità.
Carlo Maria Martini, in una sua conferenza-meditazione sul senso della beatitudine (beati coloro che pur non avendo visto crederanno, commentando il vangelo di Giovanni) sosteneva che il fatto che la fede non si imponga, ma solo presenti motivi di credibilità, significa, in fondo, il profondo rispetto di Dio per la nostra libertà. Libertà che non possiamo smarrire o conculcare quando siamo chiamati a fare le leggi. Aldo Moro, in occasione del referendum sul divorzio, richiamava discrezione e prudenza, consigliando, talvolta, di realizzare la difesa dei principi e valori cristiani al di fuori delle istituzioni e delle leggi, e cioè nel vivo, aperto e disponibile tessuto della nostra vita sociale. È sbagliato far coincidere la religiosità con la tutela giuridica.
Come cattolico credo nel valore supremo della vita e nel magistero della Chiesa per difenderla sempre. Come parlamentare cattolico interpreto sotto la mia esclusiva responsabilità l'applicazione dei valori cristiani alla luce della Costituzione, dei suoi principi ispiratori in senso laico, perché devono valere non per la città di Dio, ma per la città degli uomini. La laicità per me è questo: la legittimazione esclusivamente politica della scelta politica.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

GIANCLAUDIO BRESSA. Concludo, signor Presidente. Facendo politica da cattolico democratico ho imparato che laicità è responsabilità personale, non pregiudiziale, ancoramento alle situazioni, non manipolazione delle esigenze, ricerca incondizionata del socialmente utile e delle soluzioni rette dei problemi di fondo della comunità nazionale, non dell'interesse di parte. Quella che abbiamo da votare non è una proposta di legge qualsiasi, non è una cosa che si possa decidere a colpi di maggioranza. Riflettiamo insieme responsabilmente (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

MASSIMO POLLEDRI. Un ora pro nobis alla fine ci stava bene.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Toccafondi. Ne ha facoltà.

GABRIELE TOCCAFONDI. Signor Presidente, vorrei iniziare con una frase di un medico premio Nobel per la medicina Alexis Carrel: «Poca osservazione e molto ragionamento conducono all'errore. Molta osservazione e poco ragionamento conducono alla verità». Il realismo esige che per osservare un oggetto in modo tale da conoscerlo il metodo non sia immaginato, pensato, organizzato, creato dal soggetto stesso, ma sia imposto dall'oggetto. Forse è utile quindi partire dal fatto che ha portato a questa proposta di legge. Il caso Eluana Englaro ha aperto, infatti, una strada, una breccia. Nell'ottobre 2008, la Corte costituzionale, dichiarando inammissibili i ricorsi di Camera e Senato, con i quali si chiedeva l'annullamento delle sentenze Pag. 85della Corte di cassazione e della corte di appello di Milano sull'interruzione del trattamento che teneva in vita Eluana Englaro, ha aperto una crepa. Fino a quel momento non era possibile, nel nostro Paese, praticare alcuna forma di eutanasia. Adesso, grazie alle interpretazioni e alle ricostruzioni di pensiero, è possibile farlo.
Con il caso di Eluana si è messa in pratica anche in Italia una forma di eutanasia, si è deciso che la libertà possa significare libertà di morire e si è sentenziato che si possa intraprendere un percorso che porti ad un verdetto sulla vita, e, soprattutto, su una vita definita imperfetta, attestando per legge o sentenza quale possa essere il livello non più dignitoso per una vita stessa. Da qui dobbiamo partire per comprendere perché il Parlamento abbia deciso di proporre una legge che, dopo quella sentenza e quella morte, è doverosa, perché sono circa tremila le persone che nel nostro Paese sono in stato vegetativo, termine, quest'ultimo, da rivedere, per dare il vero senso e significato della condizione di quelle persone con gravissima disabilità, ma assolutamente non vegetali.
Si tratta di una proposta di legge doverosa perché sono decine i casi pronti a fare il percorso fatto dal padre di Eluana nei tribunali italiani e perché sono migliaia le dichiarazioni di volontà depositate da notai, comuni ed enti locali che si sono inventati fantomatici registri di volontà sul fine vita.
Si tratta di documenti che qualche associazione è già pronta a portare in tribunale. Con la sentenza Englaro si è creato un precedente secondo il quale le proprie volontà possono essere ricostruite o desunte addirittura dallo stile di vita. È dovere del Parlamento affrontare quello che si è manifestato come possibile arbitrio delle interpretazioni della volontà soggettiva, stabilendo delle regole. Attualmente, infatti, il rischio è quello di un'anarchia giudiziaria e, non a caso, chi parla di eutanasia sta chiedendo a gran voce di non approvare questa proposta di legge (Applausi del deputato Polledri).
Questo testo è chiaramente un argine al ripetersi di casi come quello di Eluana. Lo ripeto: è un argine, con la consapevolezza che la violenza dell'acqua può prevalere. Ma per questo si fanno gli argini. È una proposta di legge che dice chiaramente «no» all'eutanasia e «no» all'accanimento terapeutico. È una legge che prevede un'alleanza ed un rapporto di fiducia tra medico e paziente ed in questo vuole intendere chiaramente che nessun soggetto esterno potrà interpretare la volontà del paziente che valuterà rispetto alle cure insieme al proprio medico.
Sulla scia della sentenza e del precedente Englaro sono previste le cosiddette DAT, che contengono alcuni punti fermi. La dichiarazione assume rilievo quando è certa, scritta e firmata. Non è, quindi, più possibile ricostruire o immaginare le dichiarazioni di volontà. Assume rilievo quando il paziente è certo che non sia più capace di comprendere e, quindi, se ne è certa l'incapacità. Le DAT hanno validità di cinque anni e, quindi, la volontà deve essere espressa e confermata. Alimentazione e idratazione non sono oggetto di dichiarazioni che non possono essere equiparate a terapie mediche tranne il caso in cui non risultino più efficaci nel fornire fattori nutrizionali.
In condizioni di urgenza o quando il soggetto versa in pericolo di vita immediato la dichiarazione non si applica. Il medico applica il principio di inviolabilità della vita umana e della tutela della salute secondo principi di precauzione, proporzionalità e prudenza. Il medico curante ha un ruolo centrale sia nella fase di informazione costante al paziente cosciente, sia in seguito quando lo stesso si trova nell'incapacità permanente di comprendere e, quindi, subentra la dichiarazione di trattamento. In questo caso, al paziente subentra il fiduciario da lui nominato che sarà l'unica persona autorizzata ad interagire con il medico.
Si tratta di una proposta di legge che segna un percorso pieno di ostacoli, che però sono superabili. Il traguardo paradossalmente è la fine di una vita. L'alternativa è l'anarchia delle sentenze di qualche Pag. 86tribunale che più che accompagnare alla morte determinano la morte per legge, togliendo acqua e cibo a chi non aveva mai detto di voler morire ed era amorevolmente accudito.
Che società è quella che chiama la vita un inferno e la morte una liberazione? La sospensione dell'alimentazione ad Eluana è stata un omicidio, così come è omicidio quello che qualche associazione e qualche deputato dichiara nella sua volontà di aprire all'eutanasia. La questione è più grave, in quanto si vuole impedire addirittura l'esercizio della carità, dal momento che c'era chi si stava prendendo cura di Eluana e, come dichiarato pubblicamente, avrebbe continuato gratuitamente a farlo.
La storia del nostro popolo è un'altra. La storia della medicina è progredita quando è cominciata l'assistenza agli inguaribili, che prima venivano espulsi dalla comunità degli uomini cosiddetti sani, lasciati morire fuori dalle mura delle città o eliminati. Chi cominciò a prendersi cura degli inguaribili lo fece per una ragione che era più potente della vita stessa: una passione per il destino dell'altro uomo, per il suo valore infinito. La stessa storia degli ospedali in questo Paese nasce in questo senso. È una storia che adesso farà una brusca inversione. Il caso Eluana e il dibattito su questa proposta di legge ci mettono davanti alla prima evidenza che emerge nella nostra vita, che non ci facciamo da soli. Rifiutare questa evidenza significa rifiutare la realtà e chi rifiuta la realtà rifiuta di vivere (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Sarubbi. Ne ha facoltà.

ANDREA SARUBBI. Signor Presidente, la cosa che più mi addolora, del provvedimento che stiamo discutendo, non è tanto il merito, quanto il metodo, perché siamo in un Paese in cui anche una legge che decide sulla vita e sulla morte delle persone può diventare un'arma politica, può diventare un voucher da giocarsi nei rapporti con la Chiesa, quando tutto il resto va male.
Lo abbiamo visto all'inizio del 2009, quando il Governo doveva farsi perdonare le atrocità anti-immigrati contenute nel disegno di legge sulla sicurezza. Lo rivediamo in questi mesi, in cui il Presidente del Consiglio tenta di uscire dall'angolo in cui si è messo da solo, con le proprie condotte certamente poco edificanti e forse - ma questo lo diranno i giudici - anche poco lecite.
Quando non serve ai propri calcoli, come è stato ad esempio per gran parte del 2010, questa legge finisce in freezer. Invece, quando torna utile, come in questo periodo, si scongela ed è pronta all'uso. Il problema è che, nel frattempo, anche il dibattito si è congelato e l'opinione pubblica italiana appare ferma, quasi pietrificata, intorno al letto della povera Eluana Englaro, dove la guerra tra guelfi e ghibellini ha riportato l'Italia indietro di otto secoli.
Vista da destra, è una guerra tra il popolo della vita e quello della morte. Vista da sinistra, è una guerra tra i clericali e i laici autentici. Vista da dentro, a mio parere, è una partita a risiko che, impostata in questo modo, fa innanzitutto del male all'Italia, a quel concetto di unità nazionale che proprio nell'anno del centocinquantesimo non va ricercato solo sull'asse nord-sud, ma anche nella costruzione di una coscienza condivisa.
Lo ricordo innanzitutto alla mia parte politica, a quanti del Partito Democratico ho sentito in questi mesi sostenere che una legge non deve avere contenuti etici, ma solo giuridici. Ebbene, se il problema fosse davvero in questi termini, allora non esisterebbe il diritto del lavoro e neppure il codice della strada e sarebbe difficile anche spiegare, in una legge finanziaria, un sistema di tagli non lineari, visto che ogni soldo in più o in meno su un capitolo di spesa, anziché in un altro, comporta una scelta di valore.
Ma lo ricordo anche al centrodestra, o almeno a quanti nel centrodestra hanno derogato allo sforzo principale che è quello di cercare, all'interno di un quadro del Pag. 87genere, valori il più possibile condivisi. È il passaggio logico tra credente o non credente e legislatore, che ai nostri padri costituenti riuscì, in un'Italia certamente più cattolica di quella attuale, un po' perché erano evidentemente migliori di noi, un po' perché ci provarono davvero. Penso all'articolo 7 della Costituzione, quello dei rapporti tra Stato e Chiesa. In questo clima, saremmo in grado di riscriverlo in maniera così equilibrata, così plurale? Purtroppo, credo di no.
Il tema del pluralismo è un tema che dovrebbe stare a cuore a tutti - e non solo al centrosinistra - perché il pluralismo è nel DNA dei liberali, perché tra i popolari europei le posizioni sui temi etici sono discordanti e perché lo stesso Presidente Berlusconi, in campagna elettorale, parlò testualmente di «un partito anarchico, perché su questioni di etica e morale, ad esempio, noi lasciamo la libertà di coscienza in tutte le situazioni».
Tuttavia, questo approccio rispettoso si è poi perso in ascensore, perché al quarto piano - in Commissione affari sociali - di pluralismo, nel Popolo della Libertà, ne abbiamo visto ben poco. In un primo momento si è fatto ricorso alle sostituzioni forzate, per non far votare i deputati in dissenso. Poi vi è stato l'abbandono della Commissione al momento del voto da parte di diversi colleghi che, pur essendo d'accordo con alcuni emendamenti molto equilibrati presentati dal Partito Democratico, non potevano farli passare per ordini di scuderia. Si tratta di quegli stessi ordini di scuderia che, voglio sottolinearlo, hanno visto bocciare un emendamento dell'Unione di Centro, a prima firma Buttiglione, colpevole di opporsi a trattamenti terapeutici non proporzionati, futili o inutilmente invasivi e di ricordare che il medico non ha l'obbligo di contrastare e ritardare ad ogni costo l'esito finale della malattia, ma piuttosto, nel rispetto del miglior interesse del paziente, ha il compito di accompagnarlo e assisterlo verso la sua fine naturale. «Emendamento eutanasico», si commentò allora, con quella parola magica che nel lessico del Governo è diventata un passepartout.
È bene ripeterlo, dunque, una volta per tutte. Con grande rispetto per le posizioni della delegazione radicale, espresse sempre alla luce del sole, il Partito Democratico non ha mai voluto uccidere le persone depresse, come troppo spesso avviene nelle cliniche svizzere. Il «no» all'eutanasia è scritto nei nostri emendamenti - bocciati, naturalmente, dal Popolo della Libertà e dalla Lega - ed è messo in pratica nel tentativo, anche faticoso, di trovare soluzioni che tengano insieme il «no» all'accanimento terapeutico con il «no» all'abbandono terapeutico, nel rispetto della dignità della persona. Il centrodestra ha tentato la strada della camicia di forza. Sappiamo, invece, che l'unica legge possibile è una legge a maglie larghe, in cui vi siano adeguati spazi di manovra per l'alleanza terapeutica.
Sono due anni che ci lavoriamo in silenzio, lontano dal clamore e dalle polemiche, e durante tutta la discussione in Aula cercheremo di avviare un dialogo costruttivo: emendamento su emendamento, sfideremo la maggioranza a confrontarsi con le nostre proposte; a dirci, se ci riesce, dove si nascondono il laicismo, il disprezzo per la vita, la minaccia antropologica. Prima ancora di una legge, c'è in ballo un sentire comune che merita di essere tenuto al riparo dalle lacerazioni. E l'unica strada possibile è quella della pietas, del diritto mite: a meno che non si voglia un'Italia in lotta perenne tra guelfi e ghibellini, nella speranza di lucrare consensi cattolici sulla pelle del Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Barani. Ne ha facoltà.

LUCIO BARANI. Signor Presidente, è d'obbligo fare alcune riflessioni e riportare la verità perché la disinformazione e la teoria del sospetto non mi appartengono, appartengono ad una cultura comunista che dobbiamo sfatare.
La mozione Cossiga-Schifani è della scorsa legislatura, pertanto già nella scorsa legislatura - con Presidente del Consiglio l'onorevole Pag. 88Prodi - era stato sollevato conflitto di attribuzione fra poteri dello Stato dal Senato e poi anche dalla Camera. I progetti di legge di iniziativa parlamentare, sia alla Camera che al Senato, sono firmati da oltre 150 senatori e 320 deputati. Ma di cosa stiamo parlando? È di iniziativa parlamentare, e tirare in ballo il Presidente del Consiglio ed il Governo significa continuare a raccontare bugie al popolo sovrano.
È ora di fare chiarezza su questa proposta di legge, licenziata sì dalla Commissione affari sociali nel rispetto del testo Calabrò allora preso in esame, ma modificata dal relatore per la maggioranza, che siede qui alla mia sinistra, l'onorevole Di Virgilio, dopo una settantina di sedute e dopo aver discusso quasi 2.600 emendamenti. Quindi, non si può superficializzare o non rendere la discussione in Parlamento. Il testo che è vento fuori dice «no» all'accanimento terapeutico, dice «no» all'eutanasia, è contro l'abbandono del paziente e abbiamo sottratto giustamente il vincolo al medico perché un medico ha il dovere di portare avanti sempre le cure, anche perché possono esserci continui progressi della scienza medica e nella ricerca, non noti nel momento in cui il soggetto in condizione di fine vita aveva redatto le sue DAT, e badate bene, parlo di dichiarazioni, non di testamento.
Perché è necessaria una legge? È necessaria proprio per quello che il collega Toccafondi ha citato prima: il 9 luglio 2008 la Corte d'appello di Milano, con decreto, emanava, o meglio comminava, o meglio - come diceva Toccafondi - condannava a morte per fame e sete una ragazza da diciassette anni in stato vegetativo permanente, a seguito di una lunga battaglia intrapresa dal padre tutore, sapientemente guidato da mani esperte che lo hanno pilotato verso quei precisi giudici per avere quella determinata sentenza. Non dobbiamo nasconderlo.
Giustamente il Presidente Berlusconi e il suo Governo approntarono un decreto-legge d'urgenza, con un solo articolo, che vietasse la sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione e che entrasse immediatamente in vigore ma, inopportunamente e ingiustamente, il Presidente della Repubblica fece sapere che non lo avrebbe firmato perché lo riteneva incostituzionale per mancanza del requisito dell'urgenza e per invasione di giurisdizione. Ebbene, secondo i giudici di Milano la Costituzione non garantisce più la vita, pertanto una, cento, mille Eluana sono in pericolo di vita, ecco perché il bisogno di una legge. La prova del nove viene data da tutti coloro che si dicono anche cattolici, ma che sono favorevoli all'eutanasia, sono fortemente contrari alla proposta di legge Calabrò-Di Virgilio. Spieghiamo pertanto, secondo noi e secondo il sottoscritto, la corretta interpretazione dell'articolo 32 della Costituzione, voluto dai costituenti riformisti, cattolici e laici ai quali il sottoscritto si ritiene culturalmente appartenente e continuatore, non solo per il garofano rosso che porto all'occhiello del bavero della giacca.
Sono le culture postfasciste e postcomuniste che vorrebbero incrinare il principio di indisponibilità della vita umana ed introdurre quindi, una forma di eutanasia cosiddetta passiva o omissiva per non attivazione o interruzione di cure salvavita, sia per i competenti, cioè coloro capaci di comprendere, che potrebbero lasciarsi morire esercitando il diritto costituzionale previsto dal secondo comma dell'articolo 32 della Costituzione, sia per gli incompetenti, cioè coloro che non sono in grado di comprendere e di intendere e di volere, che in base al principio di uguaglianza potrebbero esercitare il loro diritto mediante le date, il cui effetto giuridico dovrebbe essere vincolante per il medico. Questa è una tesi assurda, falsa e non consona ai principi ispiratori della nostra Carta costituzionale, in particolare dell'articolo 32, per tre ragioni. In primo luogo, l'uguaglianza tra competenti e incompetenti non esiste, perché non può esistere. Infatti, non ci può essere uguaglianza in ordine alla manifestazione di volontà tra la persona pienamente capace di intendere e di volere e il malato in stato vegetativo permanente, cioè completamente Pag. 89incompetente. Il primo può cambiare la sua decisione riguardo alle cure, il secondo non lo può fare.
Il rapporto tra paziente e medico non è paragonabile ad una relazione contrattuale di tipo commerciale, infatti in questo provvedimento si parla di alleanza terapeutica, un dialogo continuo, una relazione che non cessa mai, che è dinamica e non statica. Questa alleanza terapeutica è rivolta alla guarigione, alla lotta contro la malattia, alla lotta contro la morte, comunque per avere una qualità di vita migliore. Con un paziente incompetente il dialogo e l'alleanza terapeutica non sono possibili. Fra i due la differenza è sostanziale e per la nostra Costituzione il dialogo è rivolto alla cura sempre e comunque e mai al rifiuto della stessa. L'alleanza terapeutica è sempre e solo improntata ad ottenere dal paziente un consenso libero e informato alla cura e mai al rifiuto di essa, per quanto da rispettare. Perciò, attribuire agli orientamenti manifestati prima dalla persona pienamente competente un valore giuridicamente vincolante per il dopo, in cui è sopraggiunta un'incapacità di intendere e di volere, non significa affatto garantire l'uguaglianza costituzionale, ma al contrario cristallizzare definitivamente la disuguaglianza. Sono concetti tipici di culture fasciste, comuniste, relativiste e massimaliste.
Il secondo punto che si evince dall'articolo 32 della Costituzione consiste nel fatto che il potere di rifiutare le cure non può essere considerato come un diritto da porsi sullo stesso piano del diritto alla salute. È come se il diritto alla cura comprendesse di necessità il diritto alla non cura. Il secondo comma dell'articolo 32 della Costituzione stabilisce che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Il senso di questa norma è reso chiaro da cinque punti e da cinque considerazioni. In primo luogo, un trattamento è sanitario non solo perché eseguito da un medico, in quanto questi può ricorrere alle sue arti professionali anche per procurare delle ferite anche a scopo truffaldino o risarcitorio, ma è sanitario se finalizzato alla guarigione, al mantenimento della salute e a conservare la vita. La morte è il contrario della salute. La cura, in quanto volta a salvaguardare la salute, non può avere lo scopo di causare o affrettare la morte, quindi non può essere qualificata come terapeutica la scelta che favorisce la morte. L'alleanza tra medico e paziente è terapeutica se è rivolta alla salute, quindi il secondo comma dell'articolo 32 è completamente estraneo alla prospettiva della garanzia di un ipotizzato diritto alla non cura, finalizzato alla cessazione della vita.
In secondo luogo, il primo comma dell'articolo 32 considera fondamentale il diritto alla salute, che è un bene privato ma è anche pubblico. Quindi, la salute, la cura, è un diritto costituzionale che viene esteso anche agli indigenti, collocandone l'onere a carico delle strutture pubbliche.
In terzo luogo, nello stesso secondo comma - visto che viene considerato assolutamente prioritario l'interesse pubblico alla salute, che ammette la possibilità di cure obbligatorie per legge - se la Costituzione avesse messo sullo stesso piano l'autodeterminazione e il rispetto del diritto alla salute, non avrebbe consentito l'imposizione dell'obbligo di sottoporsi ad un determinata terapia.
Il senso è chiaro. Proviamo ad ipotizzare la norma costituzionale opposta: la legge può proibire il ricorso a cure mediche. Si tratterebbe di una disposizione assurda; quindi, la cura e il suo rifiuto per la nostra Costituzione non sono sullo stesso piano.
In quarto luogo, il diritto alla salute di cui all'articolo 32 della Costituzione è fondamentale, mentre quello di rifiutare le cure è strumentale. È finalizzato a rendere meglio realizzabile il primo e ad impedire uno straripamento...

PRESIDENTE. La prego di concludere.

LUCIO BARANI. Un minuto, signor Presidente, ho finito. È finalizzato ad impedire uno straripamento del potere medico, che potrebbe creare un cortocircuito, e quindi ritorcersi contro l'individuo e la sua salute. Pag. 90
Questo è quello di cui parla l'articolo 32 della Costituzione, rispettando la dignità umana. Infatti, i padri costituenti, nella preparazione di questo articolo, lo avevano previsto e focalizzato perché venivamo dai campi nazisti, in cui erano state praticate le torture. Si è dovuto prevedere questo articolo per dire che non si possono fare esperimenti sull'uomo. È per questo che riteniamo che questa proposta di legge sia necessaria proprio per il cortocircuito che si è venuto a creare nel conflitto di competenze con dei poteri che vorrebbero legiferare al posto del Parlamento (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Barani, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritta a parlare l'onorevole Murer. Ne ha facoltà.

DELIA MURER. Signor Presidente, l'onorevole Barani diceva ora che il Governo non c'entra assolutamente con questo testo. Mi pare una frase ardita rispetto al contesto politico e all'urgenza di arrivare ad approvare questo testo per ristabilire una credibilità persa e messa in discussione da tanti altri eventi e anche per il merito.
Infatti, abbiamo visto molto bene in Commissione il parere che è venuto non solo dal relatore, ma anche dal Governo, sugli emendamenti che sono stati via via respinti. Vorrei dire questo: la proposta di legge di cui discutiamo oggi è un testo che è ulteriormente peggiorato rispetto al testo Calabrò che ci ha inviato il Senato. Vorrei dire che questa è un'occasione mancata: si tratta di un testo che amplia la platea di riferimento in modo scombinato e confuso.
Avevamo avviato una discussione importante in Commissione affari sociali. Volevamo provare, dopo la vicenda di Eluana, che tanto aveva influenzato il dibattito al Senato, ad avviare una riflessione pacata. Non si è, però, voluto tenere conto delle tante audizioni di medici, studiosi e famiglie. Il testo Calabrò non considerava alimentazione e idratazione cure mediche e le sottraeva alla libera disponibilità del paziente nella DAT.
Proprio su questo in molti ci avevano chiesto di riaprire la discussione, richiamandoci al rispetto non solo della volontà della persona, ma anche del rapporto medico-paziente. Questo ci hanno detto i tanti che sono venuti nelle audizioni. Devo dire che è stata davvero deludente la fase del dibattito in Commissione, perché, di fronte alla ricchezza che proveniva dal mondo esterno e anche, mi permetto di dire, alla ricchezza degli interventi e dell'impegno che il nostro gruppo e altri colleghi hanno profuso, abbiamo trovato, invece, un muro, una rigidità totalmente ideologica.
Ci è stato detto da chi è venuto in audizione con chiarezza che la nutrizione artificiale è una forma di sostegno vitale, volta ad alleviare le sofferenze nel rispetto della dignità della persona, che viene assicurata da competenze mediche e sanitarie conformemente alle migliori evidenze scientifiche disponibili ed ai principi di deontologia professionale. Su questo i medici, con il convegno di Terni, ci hanno insegnato molto. Vorrei chiedere, a questo proposito, di poter consegnare il mio intervento più esteso, che non posso svolgere per i pochi minuti che abbiamo a disposizione.
In questo senso si è svolto tutto il lavoro del gruppo Partito Democratico, al fine di modificare la proposta di legge in esame nella fase degli emendamenti avendo sempre presente il dibattito aperto nel Paese.
Avevamo auspicato un diritto mite, come dice Livia Turco e come ci hanno detto e chiesto i medici, invece siamo di fronte ad una proposta di legge liberticida, che nega il diritto all'autodeterminazione del paziente e anche che questo diventi un impegno per il medico, un elemento sul quale il medico deve essere coerente attraverso una decisione impegnativa per il medico Pag. 91stesso. Il provvedimento in oggetto è, purtroppo, ideologico; non rispetta la dignità della persona e la sua sfera decisionale. Questo, come è stato già ricordato brillantemente dall'onorevole Bressa, in aperto contrasto con la Convenzione di Oviedo e con l'articolo 32 della Costituzione.
È, inoltre, una proposta di legge fortemente lesiva anche della deontologia professionale dei medici. Ancora, non vengono previsti finanziamenti sugli stati vegetativi e le cure palliative. Come è stato ben detto, quando si parla di vita e si chiedono risorse vediamo che il Governo e la maggioranza non sono disponibili ad un'azione reale.
Mi sembra, quindi, che non vi sia nessuna possibilità di dare vita ad una buona legge, rispettosa sia dei valori della vita sia di quello dell'autonomia decisionale della persona. Una legge mite, che sappia interpretare questi nuovi dilemmi in modo laico, dando sostegno e presa in carico dei pazienti, ma rispettandone gli orientamenti personali e favorendo la consapevole espressione in una forte alleanza tra paziente e medico fiduciario.

PRESIDENTE. Onorevole Murer, la prego di concludere.

DELIA MURER. Auspico che il nostro dibattito si svolga con una profonda consapevolezza del senso del limite che deve avere la politica su questi temi, un dibattito che ci porti ad avere una buona legge, anche se mi pare difficile, e, quindi, a ripartire con uno spirito profondamente diverso o che, in carenza di questo, sappia, invece, assumere la decisione più giusta: fermare l'iter della proposta di legge in oggetto (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Murer, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritta a parlare l'onorevole Pedoto. Ne ha facoltà.

LUCIANA PEDOTO. Signor Presidente, prendo la parola sul provvedimento in discussione per esprimere le mie perplessità. Purtroppo, come hanno già dichiarato alcuni colleghi che mi hanno preceduta, abbiamo pochissimo tempo, per cui non posso essere dettagliata come vorrei.
Ritengo che la discussione che si è svolta in Commissione affari sociali, della quale faccio parte, sia stata molto utile, per due ragioni. Da una parte, per il decorso del tempo. Credo che questi mesi, questi due anni che sono passati abbiano contribuito a svelenire quell'atmosfera tesa di emozioni e di posizioni che poi aveva portato ad un conflitto ideologico.
Credo, inoltre, che il dibattito che si è svolto in Commissione sia stato molto utile anche per il gran lavoro fatto da parecchi colleghi, che voglio ringraziare. Sono state presentate delle proposte emendative in Commissione molto qualificanti. Vi sono colleghi che hanno lavorato alacremente, che in buona fede, con rettitudine, hanno cercato di raggiungere un bilanciamento tra difesa della persona dall'insidia dell'eutanasia e rispetto delle volontà meditate del malato.
Tuttavia, continuo ad essere molto perplessa e a ribadire che il tema è molto complesso. Resto convinta che legiferare su questo tema non sia solo molto difficile, ma anche sbagliato. È sbagliato perseguire l'obiettivo di gerarchizzare i due principi di sacralità della vita e di difesa della dignità della vita. Ritengo difficile, impossibile ed anche ingiusto il tentativo di metterli in ordine, di fare una scala di valori.
Diversamente da molti colleghi del gruppo Partito Democratico - faccio questa affermazione in riferimento ad un articolo che è apparso ieri mattina sul quotidiano Avvenire - non ho mai proposto né sottoscritto proposte di legge o mozioni che contenessero impegni a legiferare su tali temi. Tuttavia, siamo stati chiamati a legiferare. Pag. 92
Ritengo che avremmo dovuto o avremmo potuto mettere dei paletti. Dovevamo solo colmare la lacuna legislativa ed invece ci siamo trovati a legiferare ogni volta in un modo sempre più minuzioso e ogni volta lasciando fuori qualcosa. Alla fine ci siamo ritrovati con un testo scritto che, se resta così com'è scritto, rischia di andare laddove la stessa legge dichiara di non voler andare. Tengo a ripetere questa frase: se il testo resta scritto così, ritengo che vada proprio laddove la legge, per dichiarazione, dichiara di non voler andare. Mi riferisco all'eutanasia, seppure nella forma passiva o remota, come è stata chiamata in quest'Aula, e mi riferisco all'accanimento, perché abbiamo iniziato ad occuparci di questa legge per evitare l'accanimento terapeutico e siamo arrivati ad un testo di legge che offre l'accanimento normativo.

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Pedoto.

LUCIANA PEDOTO. Sto concludendo, signor Presidente. Pertanto - lo ribadisco - sarebbero necessarie tre cose: un'indicazione chiara per l'idratazione e la nutrizione; il divieto dell'accanimento terapeutico con la possibilità di rifiutare le cure sproporzionate o sperimentali, che potranno essere effettuate solo se nuove evidenze tecnico-scientifiche dopo la redazione della DAT siano insorte e, terza necessità, destinare maggiori risorse, ovvero destinare risorse aggiuntive.
Per tali ragioni ritengo pericolosa una legge che dovesse restare così com'è scritta (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mazzarella. Ne ha facoltà.

EUGENIO MAZZARELLA. Signor Presidente, il tema che affrontiamo, il fine vita, chiede al legislatore qualcosa in più del senso di responsabilità: chiede prudenza, del cuore e dell'intelligenza. Nel limite intrinseco al diritto, quando esso si confronta con la concretezza della vita etica, saremo chiamati a ragionare insieme agli altri con onestà intellettuale sui nostri convincimenti più profondi e a guardarci dalla pretesa di imporre unilateralità di principio e dal soggiacere a valutazioni di opportunità politica contingente.
Nel dibattito pubblico, anche più direttamente ispirato dalla politica di questi giorni, si è reso evidente che nessuna parte politica od opzione ideale, anche al suo interno, ha sui temi in gioco la verità in tasca. La dissonanza delle voci ascoltate non è in questo caso un limite della politica, ma un'opportunità, se la sappiamo afferrare, per giungere ad una soluzione condivisa o, quantomeno, ben più condivisa di quella finora profilata.
Questo ci aiuterebbe ad uscire da un paradosso. Le risposte di autorevoli esponenti della maggioranza alle critiche sull'illiberalità di fondo delle previsioni della legge, obbliganti oltre ogni ragionevolezza su una materia, quale il fine vita e la dignità della persona - che non tollera partigianerie valoriali, neanche in nome di un valore indubbiamente forte come l'indisponibilità della vita -, insistono sulla rivendicazione alla proposta di legge proprio di un equilibrato e non illiberale contemperamento dei principi in gioco: l'autodeterminazione del paziente, il principio fondamentale della libertà di cura e l'alleanza terapeutica tra medico e paziente, da attualizzare al letto del paziente incosciente, contestualizzandone le scelte anticipate, che potrebbero risultare datate alla luce dei progressi della medicina. Se fosse davvero così, non si capirebbe perché non si sia già trovato un accordo, ispirandosi ad un analogo bilanciamento, più proposte, in sede di esame, del PD, ma anche di un gruppo di deputati di diversa collocazione politica.
Il punto è che questo bilanciamento nel progetto di legge non c'è ma, se si vuole, vi si può giungere, se si garantisce il rispetto della volontà del paziente sulle scelte di cura del fine vita, ma insieme si riserva al dialogo fra medico, fiduciario o familiari, una meditata possibilità di sospensione di queste volontà (ad esempio in relazione al rifiuto di alimentazione e di idratazione Pag. 93artificiale in stati vegetativi permanenti) e se da questa sospensione si può attendere, fin quando lo si può, un reale beneficio terapeutico.
Un approccio siffatto raccoglie, peraltro, le giuste preoccupazioni espresse dal relatore di maggioranza, onorevole Di Virgilio, ovvero che la legge dica «no» all'eutanasia, «no» all'abbandono terapeutico, «no» all'accanimento terapeutico, e che, inoltre, a questo fine il diritto di autodeterminazione non sia così costruttivo da rivolgersi contro gli interessi della persona stessa. Ciò richiede uno spiraglio alla revisione di quanto deciso in precedenza.
È cruciale però che lo spiraglio di revisione al dispositivo delle DAT sia previsto nella forma giuridicamente mite della possibilità di sospensione motivata e pro tempore dell'attuazione del vincolo giuridico delle disposizioni del paziente. A questo fine parliamo di impegnatività giuridica delle DAT, perché una norma, che a priori disconosca quel vincolo e impedisca il rifiuto del paziente di questa o quella previsione terapeutica di cura, non ne rispetta l'autodeterminazione, tutelata in diritto e in deontologia.
In realtà, si vanifica anche qualsiasi istanza di alleanza terapeutica, la quale si fonda sull'autonomia del rapporto tra medico e paziente, autonomia che viene meno, e con essa l'alleanza terapeutica stessa, se è lo Stato a decidere per legge a quale decisione di cura deve addivenire quella relazione.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

EUGENIO MAZZARELLA. Con una norma impediente anche quello che in ipotesi solo un medico deve decidere e non come è giusto e coerente in diritto e in deontologia in dialogo con il paziente informato, con il suo fiduciario e i familiari, si esautora nei fatti qualsiasi versione pensabile di alleanza terapeutica, rispetto a cui la norma può essere solo sussidiaria.
In uno scenario giuridico di divieti e di prescrizioni obbliganti su questo tema, siamo fuori sia dall'autodeterminazione del paziente che dall'alleanza terapeutica, siamo sul terreno di un'insostenibile bioetica di Stato, che nasce dall'incoerenza della proposta di legge con gli stessi principi che dichiara di voler bilanciare, entrambi protetti sul piano costituzionale, la libertà di cura e il favor vitae, la tutela della vita umana. Sanare questa incoerenza, se si vuole, è possibile. In Parlamento i termini del dibattito sono ormai chiari e sarebbe un successo di tutti, non farlo sarebbe un'occasione mancata di civiltà del diritto e dell'anima (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Mazzarella, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Duilio. Ne ha facoltà.

LINO DUILIO. Signor Presidente, essendo in fase di discussione sulle linee generali vorrei svolgere poche considerazioni di carattere generale, appunto, per argomentare circa la mia posizione che sostiene la tesi della non opportunità di adottare un provvedimento in questa materia. La prima ragione per la quale ritengo che sia assolutamente inopportuno approvare un provvedimento su tale materia, è che la pretesa che viviamo in questa situazione consuma in modo evidente, se ce ne fosse bisogno, quella inclinazione di una razionalità del pensiero moderno, sia nella sua declinazione di sinistra che di destra, di dover intervenire in ogni campo dell'esistenza umana, occupandosi anche delle cosiddette questioni ultime, quando tutti sappiamo che la legge non può che fermarsi alle questioni penultime, come, per quanto mi riguarda, ho imparato da alcuni maestri tra i quali mi piace segnalare in questa sede l'onorevole Mino Martinazzoli. Pag. 94
La seconda considerazione che vorrei formulare riguarda quella che è l'incomparabilità, in termini eminentemente e squisitamente giuridici, tra la situazione di colui che può manifestare la propria volontà per quanto riguarda il momento finale della vita, assolutamente solitario, personale, individuale e che, come dicevo prima, non può essere codificato in una norma la quale, come abbiamo imparato a scuola, è invece generale e astratta, nonché tra la dichiarazione che eventualmente venisse fornita dalla persona quando ha la possibilità di manifestare la sua volontà, rispetto alla situazione in cui tale possibilità non sussista.
Al di là di ogni altra considerazione credo sia assolutamente scorretto, sul piano squisitamente giuridico, lo ribadisco e, se volete, filosofico-giuridico ovvero sul piano del diritto per quanto riguarda il suo fondamento, assimilare queste due fattispecie e non mi convincono affatto le «esternazioni», le chiamo così, di omelie quotidiane che in questi ultimi giorni si sono succedute anche su autorevoli quotidiani - chiedo scusa del bisticcio di parole - laddove, non casualmente, la soluzione al problema della incomparabilità viene affidata ad una prassi che abbiamo introdotto nel nostro ordinamento, la quale assimila la disponibilità della vita a quella di una cosa, come può essere un terreno o qualsiasi altra cosa che rientri nel patrimonio ereditario e che si può trasmettere attraverso un atto formale che venga depositato prima che maturi una condizione in cui non si possa magari esplicitare la propria volontà.
Ciò la dice lunga su una certa cultura proprietaria, dura a morire nel pensiero liberale di destra che, non casualmente, realizza in tale situazione il paradosso di affidare allo Stato, cioè al suo principale antagonista, il diritto di essere intrusivo nella sfera eminentemente individuale e personale della vita. Queste due situazioni sono assolutamente incomparabili e credo che vadano affidate - è il terzo e ultimo punto che voglio affrontare in questa sede - a quella disciplina che, vorrei ricordarlo, qualifica anch'essa un sistema di diritto. Stiamo infatti discutendo partendo dal presupposto, magari non esplicitato, che il diritto coincida esclusivamente con la legge, quando abbiamo imparato a scuola che esso coincide anche con la consuetudine.
La consuetudine è qualcosa che è sedimentata nel corso del tempo e fa riferimento a orientamenti, disposizioni, disponibilità che ineriscono alla sfera della libertà della persona, e che viene assunta, prendendone atto, dal diritto appunto. Credo sia questa la strada che si dovrebbe seguire, affidandosi dunque a quella comunità di persone - la chiamo comunità amante - che non si esaurisce - lo dico concludendo - nella figura del medico (peraltro viene presentato in questi articoli di cui parlavo come una persona necessariamente motivata da intenti non condivisibili, quando noi sappiamo bene che anche nella persona del medico abita l'orientamento a fare il meglio rispetto alla persona che si trova di fronte). Ecco, a questa pietas credo debba essere affidato questo momento che è un momento solitario, individuale e personale. Personalmente, credo non si debba fare alcuna legge. Se proprio la si vorrà fare - io spero di no - credo che debba essere una legge essenzialissima, che dica essenzialmente - chiedo scusa anche qui del bisticcio - «no» all'eutanasia, «no» all'accanimento terapeutico, e che preveda la trasparenza assoluta di quel momento finale affinché non vi siano abusi (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Si sono così esauriti gli interventi previsti per la seduta odierna. Come stabilito dalla Conferenza dei presidenti di gruppo, la discussione sulle linee generali proseguirà nel corso della settimana al termine degli argomenti per i quali sono previste votazioni.

Sull'ordine dei lavori (ore 19,20).

ROBERTO GIACHETTI. Chiedo di parlare.

Pag. 95

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ROBERTO GIACHETTI. Signor Presidente, non volevo intervenire sull'ordine dei lavori, perché questo è il momento riservato alle sollecitazioni e anche all'evidenziazione di alcuni problemi, ed inoltre stiamo discutendo di un tema molto serio. Però, signor Presidente, vorrei condividere con lei e anche con i colleghi che sono in Aula la mia forte preoccupazione per quanto sta accadendo. Il Presidente del Consiglio più volte ci ha richiamato alla possibile congiura, prima da parte dei magistrati, poi da parte dei giornalisti, poi da parte dei comunisti, in alcuni casi da parte dei magistrati e dei giornalisti comunisti, all'attentato alla sua persona dal punto di vista politico, ma anche con riferimento a questo Governo. La preoccupazione che vorrei condividere con lei però, signor Presidente, è che qui stiamo andando oltre frontiera, nel senso che la congiura sta diventando una congiura internazionale, perché, a distanza di sette giorni dalle dimissioni del Ministro della difesa zu Guttenberg (di 48 anni), astro nascente della Germania, pensi che oggi si è dimesso un altro Ministro, dall'altra parte del mondo in Giappone (nel primo caso si trattava di un conservatore, in questo caso si parla di un appartenente al Partito Democratico, guarda caso la coincidenza, anch'esso di 48 anni). Signor Presidente, sa perché si è dimesso? Perché non ha denunciato un rimborso di 50 mila yen. Devo dire la verità, non mastico questa materia, quindi ho fatto una scoperta. Sa a quanto equivalgono 50 mila yen? A 440 euro (non mila euro). Quindi questo signore si è dimesso da Ministro degli esteri del Giappone per non aver denunciato 440 euro della sua raccolta fondi. Sa qual è la motivazione - concludo signor Presidente - con la quale ha deciso di dimettersi? Di essere fiducioso, con il suo gesto, di contribuire a rasserenare il clima con l'opposizione. Per la seconda volta, signor Presidente, mi viene da dire: meditate gente (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico)!

Ordine del giorno della seduta di domani.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della seduta di domani.

Martedì 8 marzo 2011, alle 11:

1. - Svolgimento di una interpellanza e di interrogazioni.

(ore 15)

2. - Seguito della discussione delle mozioni Bratti ed altri n. 1-00510, Libè ed altri n. 1-00569, Piffari ed altri n. 1-00571, Di Biagio ed altri n. 1-00572, Lo Monte ed altri n. 1-00573, Tommaso Foti ed altri n. 1-00574, Guido Dussin ed altri n. 1-00575 e Mosella ed altri n. 1-00576 concernenti iniziative per la bonifica dei siti contaminati di interesse nazionale.

3. - Deliberazione in merito alla costituzione in giudizio della Camera dei deputati in relazione ad un conflitto di attribuzione sollevato innanzi alla Corte costituzionale dalla Corte di cassazione - sezione III civile, di cui all'ordinanza della Corte costituzionale n. 14 del 2011.

4. - Discussione della domanda di autorizzazione all'utilizzazione di intercettazioni di conversazioni telefoniche nei confronti di Alfonso Pecoraro Scanio (deputato e Ministro dell'ambiente e del territorio all'epoca dei fatti) (Doc. IV, n. 8-A).
- Relatore: Consolo.

5. - Discussione della domanda di autorizzazione a procedere all'acquisizione di tabulati telefonici della deputata Polidori (Doc. IV, n. 12-A).
- Relatore: Gava.

Pag. 96

6. - Discussione della domanda di autorizzazione a procedere in giudizio ai sensi dell'articolo 96 della Costituzione nei confronti del deputato Pietro Lunardi nella sua qualità di Ministro delle infrastrutture e trasporti, pro-tempore (Doc. IV-bis, n. 2-A).
- Relatori: Consolo, per la maggioranza; Samperi e Palomba, di minoranza.

7. - Seguito della discussione del testo unificato delle proposte di legge:
CAPARINI ed altri; CIRIELLI: Incentivi per favorire, nelle regioni dell'arco alpino, il reclutamento di militari volontari nei reparti delle truppe alpine (C. 607-1897-A).
- Relatore: Gidoni.

8. - Seguito della discussione della proposta di legge:
DI STANISLAO: Disposizioni per la promozione e la diffusione della cultura della difesa attraverso la pace e la solidarietà (C. 2596-A).

e dell'abbinata proposta di legge: MOGHERINI REBESANI ed altri (C. 3287).
- Relatore: Garofani.

La seduta termina alle 19,25.

TESTO INTEGRALE DEGLI INTERVENTI DEI DEPUTATI LIVIA TURCO, GIUSEPPE CALDERISI, LUCIO BARANI, DELIA MURER ED EUGENIO MAZZARELLA IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DELLA PROPOSTA DI LEGGE N. 2350-A

LIVIA TURCO. Onorevoli colleghi, è motivo di grande amarezza, di preoccupazione, il fatto che il testo di legge sul testamento biologico che approda oggi in aula, dopo due anni dalla sua approvazione al Senato resti il testo della lacerazione tra il Parlamento e il Paese e della contrapposizione tra le forze politiche. Voi, onorevoli colleghi, della Commissione affari sociali, lei onorevole Di Virgilio, non potete non rammentare la chiara posizione assunta dal Partito Democratico fin dall'inizio. Vi esortammo a mettere da parte il testo dello scontro e della lacerazione, a costruire una nuova fase, ad elaborare un testo condiviso che tenesse conto dell'importante dibattito pubblico che ha coinvolto il nostro Paese. Dai medici, dai giuristi, dalle associazioni dei malati sono state avanzate riflessioni e proposte molto importanti che il legislatore aveva, ed ha il dovere di ascoltare. Un dibattito pubblico che ci ha confermato quanto sia immotivato quel pessimismo antropologico che pervade il vostro testo di legge, perché il nostro Paese non è attraversato da una deriva eutanasica da ostacolare, contenere e domare con la forza della legge, ma al contrario è un Paese di donne e uomini che chiedono certezze e qualità delle cure, presa in carico di ciascuna persona, lotta alla solitudine e all'abbandono terapeutico, rispetto della volontà del paziente. Il legislatore deve raccogliere questa domanda. Questo è il tema che vi abbiamo posto nei mesi scorsi e che vi proponiamo ancora oggi. Fermiamoci, fermatevi! Non approvate un testo anticostituzionale, irragionevole, di difficile applicazione. Vi abbiamo detto nei mesi scorsi, vi ribadiamo oggi: costruiamo insieme una legge condivisa. Una legge umana, mite, che sia animata dal sentimento della pietas. Che sia rispettosa della singola, irripetibile persona. Che promuova e valorizzi la relazione di fiducia tra medico, paziente e familiari. Che ascolti la volontà del paziente all'interno della relazione di cura con il medico ed i familiari. Una legge che non imponga ma che rispetti la persona. Che non lasci nessuno solo di fronte alla morte. Che combatta la solitudine, che garantisca a ciascuna persona le cure necessarie ma anche la presenza amorevole.
Una legge che rispetti gli articoli 13 e 32 della Costituzione e l'articolo 9 della Convenzione di Oviedo. In particolare, l'articolo 32 Pag. 97della Costituzione, come ci ricorda la sentenza n. 282 del 2002 della Corte costituzionale sollecita il legislatore a realizzare un bilanciamento tra due diritti fondamentali. Il diritto alla salute (primo comma, articolo 32), il diritto alla autodeterminazione ed alla libertà di scelte terapeutiche (secondo comma, articolo 32).
La questione che noi abbiamo posto e che consideriamo fondamentale per una buona legge sul fine vita è il rispetto della volontà del paziente all'interno della relazione di fiducia tra medico, paziente e familiari. Per usare una espressione del teologo Bruno Forte «il connubio tra il sacrario della coscienza e la rete di comunione è ciò che vorremmo promosso e rispettato il più possibile in una legislazione sul fine vita».
Relazione di fiducia e non solo di cura. La fiducia implica che oltre a curare il medico si prende cura, ascolta la competenza del paziente, non guarda solo la sua malattia ma la sua biografia e il suo contesto di vita, le persone che gli sono accanto. La relazione di fiducia tra paziente, medico, fiduciario, familiari è la modalità di cura più ambiziosa e difficile ma l'unica efficace; è «ambito etico» perché in essa il fluire della vita dimostra che vita e autodeterminazione intesa come libertà per fare ciò che è bene non sono tra loro in contrapposizione perché non c'è l'una senza l'altra. L'autonomia e la volontà del paziente non sono un io solipsistico e una astratta signoria della mente. L'autonomia e la scelta si esercitano nel contesto delle relazioni umane, della comunità di affetti in cui ciascuno misura la sua dipendenza dall'altro. Nella relazione di fiducia sono su un piano di dignità, nella distinzione dei ruoli il medico e il paziente «pari libertà e dignità di diritti e doveri, pur nel rispetto dei diversi ruoli. L'autonomia decisionale del cittadino è l'elemento fondamentale dell'alleanza terapeutica al pari dell'autonomia e della responsabilità del medico nell'esercizio delle sue funzioni di garanzia» (dal documento della FNOMCEO approvato a Terni nel Convegno dedicato ai temi del fine vita). L'autonomia e la responsabilità del medico è il motore dell'alleanza terapeutica e della relazione di fiducia ed essa implica, ingloba il rispetto della volontà del paziente. «L'autonomia e la responsabilità del medico, la sua funzione di garanzia a tutela della salute del paziente all'interno delle DAT è ciò che consente di declinarle dal passato al presente, dall'ipotesi al fatto, dall'ignoto alle migliori evidenze disponibili, per accompagnare ognuno nella sua storia di vita, unica ed irripetibile» (Giovanni Maria Flick già presidente emerito della Corte costituzionale). Attraverso la cifra della fiducia si può superare la contrapposizione tra il perseguimento del bene del paziente, oggettivamente inteso e la sua autonomia.
Dobbiamo chiederci: quali sono gli ingredienti della libertà, della dignità, della scelta quando una persona è tormentata dal dolore e dalla sofferenza, quando sente di aver perso la sua forza oppure quando è caduta nel sonno della incoscienza? Cosa significa autodeterminazione e scelta quando ciò che tiene in vita è la presenza dell'altro accanto a te? In queste circostanze sì è in vita se ti accompagna lo sguardo dell'altro, se senti la sua mano, se sai che anche se non parli la tua parola è ascoltata e conta perché l'altro ti conosce nella profondità dell'animo. La libertà è poter dire: io sono con te che mi ascolti, che mi rispetti, che ti prendi cura di me. La libertà è una relazione amorevole e di reciproca fiducia. Io sono, io voglio, io decido diventa io sono con te perché solo con te, con voi io posso dire scelgo, decido. Sempre, nella nostra vita ma soprattutto quando si è travolti dalla sofferenza o si vive nell'incoscienza il bisogno dell'altro diventa parte integrante della propria libertà e la dipendenza dall'altro diventa parte di sé e della propria autonomia. La legge mite deve promuovere e valorizzare questa relazione amorevole di cura. Che non è solo una esperienza umana ma anche una forma del pensiero capace di tenere insieme e di rendere concreti i valori dell'autonomia della persona e della difesa della vita. Pag. 98
«Nella misura in cui la malattia stessa è causa di una compressione della sfera dell'autonomia del malato, allora la medicina, nella sua finalizzazione alla cura della malattia, contribuisce a promuovere l'autonomia del paziente. La tutela dell'autonomia si presenta, in questo senso quale fine intrinseco della pratica medica e non soltanto quale argomento da contrapporre all'invadenza della medicina moderna. L'autonomia non va ridotta alla sola accezione negativa della »non interferenza« ma va intesa anche positivamente, sia come fonte del dovere del medico di informare il paziente e verificare in un vero e proprio processo di comunicazione, l'effettiva comprensione dell'informazione data; sia come capacità dello stesso medico di ascolto e di comprensione della richiesta del paziente, capacità necessaria per individuare le scelte terapeutiche più opportune e rispettose della persona nella sua interezza. Ciò significa che bisogna superare ogni concezione meramente formalistica o difensivistica del consenso informato. D'altra parte anche l'implementazione del diritto alla rinuncia consapevole delle cure può esplicare riflessi positivi sul piano della relazione paziente-curante alimentando la reciproca fiducia. Se il paziente può confidare che la propria volontà (da accertarsi in concreto con le dovute cautele e garanzie) verrà accolta e rispettata l'elemento fiduciario alla base dell'alleanza terapeutica ne verrà rinsaldato. Inoltre, proprio la possibilità di richiedere l'interruzione può favorire l'adesione del paziente all'avvio di trattamenti che prevedano la dipendenza da macchinari surrogatori di funzioni vitali; trattamenti che potrebbero essere a priori rifiutati proprio per il timore di una perdita definitiva della propria possibilità di autodeterminazione» (dal documento della commissione nazionale di bioetica sul tema «Rifiuto e rinuncia consapevole al trattamento sanitario nella relazione medico-paziente» del 28 ottobre 2008 ed illustrata nella sua audizione al Senato dal professor Casavola).
È alla relazione di fiducia tra paziente medico fiduciario e familiari ed è alla valutazione caso per caso della singola e irripetibile persona che deve essere affidata la scelta. La legge dunque deve promuovere, sostenere, valorizzare la relazione di fiducia tra paziente, medico, fiduciario e la comunità di affetti. Prevedendo che la parola definitiva sia della persona interessata che la può esprimere attraverso il suo fiduciario. Questa relazione di fiducia deve essere attivata ed ascoltata tanto più quando si deve usare il massimo di precauzione come nei confronti della sospensione della nutrizione artificiale. Che, in quanto trattamento sanitario deve essere prevista nelle DAT.
Nel vostro testo di legge la volontà del paziente si riduce ad essere un generico orientamento (articolo 3, comma 1) ed esso ha valore puramente indicativo per il medico, il quale è unicamente tenuto a prenderla in considerazione (articolo 7, comma 1) in tal modo le DAT si configurano come uno strumento inutile e contraddittorio. Il medico stesso, cui è attribuito un grande potere, è in realtà avvolto da un alone di sospetto sul fatto che possa provocare interventi eutanasici tanto che vengono citati gli articoli 575, 579 e 580 del codice penale (articolo 1, comma c)) e al fiduciario viene attribuito il compito di vigilare perché al paziente vengano date le cure migliori (articolo 6, comma 3).
Non è previsto alcun miglioramento all'assistenza dei malati in stato vegetativo e nessun impegno per diffondere come diritto le cure palliative e le terapie antidolore. Queste ultime sono riconosciute solo ai malati terminali. Per i soggetti minori, interdetti, inabilitati o altrimenti incapaci, la legge non prevede l'alleviamento della sofferenza ma solo la salvaguardia della salute del paziente (articolo 2, comma 8). Questo è l'aspetto più cinico e incredibile della vostra legge! Voi, esponenti del centrodestra, purtroppo siete molto generosi ad esaltare la vita umana con la retorica, con le chiacchiere, con l'esaltazione dei principi ma siete avarissimi nel prevedere misure concrete! Pag. 99
Abbiamo ancora una volta assistito alla farsa di una norma svuotata di significato dalle determinazioni della Commissione bilancio che ha imposto anche questa volta la formula di rito «senza maggiori oneri per lo Stato» all'articolo 5, da noi tenacemente voluto, relativo all'assistenza ai soggetti in stato vegetativo. Irragionevole ed anche incostituzionale è la formulazione dell'articolo 3, comma 5 e comma 6, che prevede la proibizione in ogni caso della sospensione della nutrizione artificiale, riconosciuta unanimemente dalla scienza medica come trattamento sanitario. Anche in relazione agli stati vegetativi persistenti, un limite di questo tipo può costituire violazione dell'articolo 32 della Costituzione, il quale prevede non solo che nessun trattamento sanitario può essere reso obbligatorio se non per disposizione di legge, ma anche che la legge in nessun caso può «violare i limiti imposti dal rispetto della persona».
Sono queste le ragioni, onorevoli colleghi, della ferma contrarietà a questa legge. Fermatevi. Fermiamoci. Costruiamo un nuovo inizio. Costruiamo un nuovo testo, che sia efficace e condiviso. Facciamolo per il rispetto delle persone e per il bene del Paese.

GIUSEPPE CALDERISI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, intervengo a titolo personale e ringrazio il mio gruppo di assicurare piena libertà di coscienza su questa delicatissima materia, fermo restando il diritto-dovere per ciascuna forza politica di avere una propria posizione.
Il mio intervento riguarda i forti dubbi di costituzionalità del testo al nostro esame. Si tratta di cinque ordini di questioni. Le ho affrontate in dettaglio in Commissione affari costituzionali, ma solo una di esse è stata recepita nel parere approvato dalla stessa Commissione, come semplice osservazione, della quale la Commissione affari sociali non ha peraltro tenuto alcun conto.
Eppure si tratta di questioni di grande rilevanza che mettono in causa proprio l'obiettivo di fondo del provvedimento. L'intervento legislativo viene infatti motivato con l'obiettivo - certamente condivisibile - di evitare, dopo il caso Englaro, nuovi esiti di tipo giudiziario. Certo, oggi questo rischio esiste, anche se il percorso giudiziario è comunque arduo. Ma se fosse approvato il testo al nostro esame, il rischio di derive giudiziarie non verrebbe affatto eliminato, verrebbe anzi accentuato, moltiplicato per mille, si aprirebbe un'autostrada a 24 corsie. Non solo: molto probabilmente questa legge sarebbe oggetto di pronunce molto incisive della Corte costituzionale, non nel senso della sua cancellazione totale, ma della sua trasformazione in un complesso normativo dai contenuti molto diversi. Un progetto di legge che interviene per disciplinare le «dichiarazioni anticipate di trattamento», come indicato nel titolo, e contemporaneamente prevede limiti assoluti al contenuto di tali dichiarazioni, con particolare riguardo alle più cruciali scelte di fine vita, è in sé contraddittorio e denota un'irrazionalità intrinseca della normativa che la espone a più che probabili declaratorie di incostituzionalità. La legge diverrebbe solo un contenitore, ma il contenuto normativo alla fine sarebbe molto diverso, probabilmente opposto, rispetto a quello che i sostenitori del testo al nostro esame intendono perseguire. Insomma, una legge boomerang.
Per queste ragioni, ritengo necessario modificare il testo. Esistono, a mio avviso, due strade alternative che si possono seguire e che cercherò di illustrare (se si vuole evitare che divenga preferibile una terza soluzione, quella di non legiferare affatto su questa delicatissima materia).
Affronto innanzitutto i problemi di costituzionalità del provvedimento. Come dicevo, si tratta di cinque ordini di questioni.
La prima questione di costituzionalità. Il progetto di legge, nel disciplinare la delicatissima questione del fine-vita, dovrebbe realizzare un ragionevole bilanciamento tra i beni e gli interessi costituzionali in gioco, ossia il diritto alla vita, il diritto alla salute ed il dovere del medico di curare, da una parte, e il diritto all'autodeterminazione individuale, la dignità Pag. 100personale, il rispetto della persona umana ed il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari non voluti, dall'altra, beni ed interessi che trovano fondamento negli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione.
Come riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, infatti, «la pratica terapeutica si pone [...] all'incrocio fra due diritti fondamentali della persona malata: quello ad essere curato efficacemente, secondo i canoni della scienza e dell'arte medica; e quello ad essere rispettato come persona, e in particolare nella propria integrità fisica e psichica, diritto questo che l'articolo 32, secondo comma, secondo periodo, della Costituzione pone come limite invalicabile anche ai trattamenti sanitari che possono essere imposti per legge come obbligatori a tutela della salute pubblica» (sentenza della Corte costituzionale n. 282 del 2002). C'è naturalmente ampia discrezionalità legislativa nel trovare il migliore bilanciamento tra questi beni e diritti costituzionali, ma questa discrezionalità non può spingersi fino ad azzerare, in determinate fattispecie, uno dei beni o diritti in considerazione. Il bilanciamento deve esser reale e, in qualche misura, non può che presentarsi come il frutto di compromessi realistici e ragionevoli.
Il progetto di legge in esame, invece, da un lato, riconosce principi fondamentali a livello costituzionale, quali il principio della dignità della persona, che prevale rispetto all'interesse della società e alle applicazioni della scienza, il principio dell'alleanza terapeutica tra medico e paziente, il principio del consenso informato, dall'altra pone tali e tante limitazioni ai predetti principi da svuotarli sostanzialmente.
La seconda questione di costituzionalità. Il progetto di legge non dà una definizione legale di eutanasia; viene infatti vietata «ogni forma di eutanasia» attraverso il richiamo a fattispecie penali (articolo 575 codice penale - 'Omicidio', articolo 579 codice penale - 'Omicidio del consenziente', e articolo 580 codice penale - 'Istigazione o aiuto al suicidio') in realtà ben distinguibili dal concetto di eutanasia, in quanto relative a situazioni estranee alle problematiche di fine vita, che il provvedimento in esame intende disciplinare; non viene pertanto risolto il problema della definizione legislativa di eutanasia, cioè del comportamenti che si intendono vietare sotto il duplice aspetto attivo e «passivo», in relazione al consenso del malato o alla sua assenza, dal punto di vista del malato e dell'agente; vengono invece introdotte previsioni penali irragionevoli e prive di determinatezza, in contrasto con l'articolo 25, secondo comma, Cost., che prevede una riserva assoluta di legge in materia penale, da cui discendono i principi di sufficiente determinatezza e di tassatività delle fattispecie penali, volti ad impedire qualunque attività di integrazione o di creazione di illeciti penali da parte dei giudici e degli interpreti; la vaghezza dei riferimenti a tre diverse norme penali, che prevedono fattispecie penali assai distinte tra loro, punite con pene diverse nel quantum (se va dall'ergastolo ad un minimo di un anno, a seconda dei casi), e comunque difficilmente trasponibili alle problematiche di fine vita, rende possibili interpretazioni giudiziarie assai divergenti e addirittura creative, in contraddizione frontale con uno degli scopi della legge, cioè proprio quello di impedire derive giudiziarie in questo settore.
La terza questione di costituzionalità. Il progetto di legge, inoltre, non riguarda solo i casi di malati in stato di incapacità di intendere e di volere, come ad esempio i soggetti in stato vegetativo permanente o persistente, ma è applicabile anche ai soggetti pienamente capaci di intendere e di volere; in particolare, per quanto riguarda l'articolo 1 («Tutela della vita e della salute») la cui sfera di efficacia non è circoscrivibile alle situazioni di pazienti non coscienti: l'affermazione di principio iniziale contenuta nell'articolo 1, comma 1, lettera a) (la vita è diritto «indisponibile»), che per la prima volta viene introdotta nell'ordinamento, appare opportuna e condivisibile a condizione, però, che non pregiudichi il necessario bilanciamento che il legislatore è tenuto Pag. 101ad effettuare con altri beni e interessi costituzionalmente tutelati. Nel caso del progetto di legge in esame occorre evitare che tale affermazione di principio entri in contraddizione con il diritto individuale a rifiutare in piena coscienza e attualità di consenso alcuni trattamenti sanitari, anche laddove da questo rifiuto possa discenderne la morte. Ciò sembra confermato dall'inciso «anche» previsto nell'articolo 1, comma 1, lettera a) («diritto indisponibile, garantito anche nella fase terminale dell'esistenza e nell'ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e volere»); il che significa, se i termini usati hanno un senso, che il diritto è indisponibile anche prima della fase terminale e non solo nell'ipotesi in cui la persona non sia più in grado di intendere e volere; all'articolo 1, comma 1, lettera c), vi è il chiaro riferimento a un divieto - ai sensi degli articoli 575, 579 e 580 codice penale - di «ogni forma di eutanasia, e di ogni forma di assistenza o aiuto al suicidio, considerando l'attività medica e quella di assistenza alle persone esclusivamente finalizzata alla tutela della vita e della salute nonché all'alleviamento della sofferenza». Non sembra che questa disposizione possa riferirsi esclusivamente alla condizione di soggetti in stato vegetativo permanente o persistente, ma emerge che essa possa estendere la sua efficacia anche a situazioni di pazienti pienamente coscienti. L'aggiunta - all'articolo 1, comma 1, lettera d) - dell'obbligo del medico di informare anche sul divieto di qualunque forma di eutanasia, rafforza questa valutazione; inoltre, lo stesso riferimento preciso alle finalità dell'attività medica sembra deporre nella medesima direzione, addirittura qualificando l'attività del medico che segua le indicazioni esplicite ed attuali del paziente con il riferimento a fattispecie penali gravissime; di conseguenza, il riferimento - che pure è contenuto nell'articolo 1, comma 1, lettera e) - al principio per cui nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario, se non per disposizione di legge e con i limiti imposti dal rispetto della persona umana, sembra rimodellato nel modo che segue: l'autodeterminazione trova un limite legale, e questo limite è dato anche e proprio dalla normativa in esame, che avverte che il limite dell'autodeterminazione è situato nell'impossibilità di chiedere al medico «qualunque forma» di eutanasia. In tal modo, il problema del rispetto del diritto all'autodeterminazione garantito dall'articolo 32 della Costituzione è solo spostato verso le «forme» che l'eutanasia può assumere, che restano indistinte: se (in piena coscienza) si chiede al medico di non porre in atto un trattamento sanitario, che in base alle conoscenze mediche è il solo che può salvare la vita, vi è il rischio che tale richiesta urti contro i principi contenuti nell'articolo 1, comma 1, lettere c) e d). Ciò ripropone fortemente l'esigenza di chiarire cosa si intenda per eutanasia (attiva e passiva), in modo preciso e determinato ai sensi dell'articolo 25 della Costituzione.
La quarta questione di costituzionalità. Sotto altro profilo, il bilanciamento legislativo non appare soddisfacente nemmeno in riferimento alla efficacia delle dichiarazioni anticipate di trattamento, quindi con riferimento alla forza della volontà espressa «allora» da un paziente «ora» in condizioni di incoscienza. Ciò risulta con evidenza in riferimento all'articolo 7 della proposta di legge, nella parte in cui si afferma che il medico è legittimato a non porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico, contrastando così le decisioni non solo del dichiarante, ma anche del fiduciario e addirittura dell'eventuale collegio medico. Qui è di tutta evidenza che la volontà espressa dal dichiarante, tutelata dall'articolo 32, comma secondo, della Costituzione, non è bilanciata affatto, ma assolutamente azzerata dalla prevalente volontà del medico. Il problema non pare affatto risolto dal comma 3 dell'articolo 7. Qui si prevede che in caso di controversia fra fiduciario e medico curante, la questione è sottoposta alla valutazione Pag. 102di un collegio di medici che deve sentire il medico curante. La Commissione ha eliminato il terzo periodo del comma 3 dove si affermava che «il parere espresso dal collegio medico è vincolante per il medico curante, il quale non è comunque tenuto a porre in essere prestazioni contrarie alle sue convinzioni di carattere scientifico e deontologico». Una formulazione priva di senso giuridico, opportunamente espunta. Rimane però un vuoto normativo. Che accade in caso di contrasto tra il collegio medico e il medico curante? Si vuole intendere, senza esplicitarlo, che prevale il parere del medico curante? Prevale anche se in contrasto sia con le dichiarazione anticipate di trattamento, sia con il parere del fiduciario, sia con il parere del collegio medico? Ma così si aprono, anzi si spalancano le porte al ricorso alla magistratura! Ma non era quello che si voleva evitare? Se invece si vuole salvaguardare il diritto all'obiezione di coscienza del medico curante questo è giustissimo, sacrosanto; ma in questo caso occorre prevedere che la direzione sanitaria della struttura di ricovero c dell'azienda sanitaria sia tenuta ad individuare al suo interno un altro medico disponibile a mettere in atto quantomeno le indicazioni collegiali, con l'eventuale precisazione che, se tale medico non si trovi, onde evitare che al fiduciario e ai familiari del paziente non autosufficiente sia imposto di spostarsi in altro luogo di ricovero, debba prevedersi una procedura di assegnazione temporanea di un medico esterno disponibile (in caso di aziende sanitarie «pubbliche» o accreditate).
La quinta questione di costituzionalità. L'articolo 3, comma 5, sancisce l'obbligo di mantenere l'alimentazione e l'idratazione, nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle, fino al termine della vita e dispone che l'alimentazione e l'idratazione non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento; viene dunque esclusa in assoluto la natura di trattamento sanitario dell'alimentazione e dell'idratazione forzata, anche se vi sono casi, ben noti alla pratica medica, in cui di trattamenti sanitari sicuramente si tratta, ed anche particolarmente invasivi, invadendo la sfera della scienza medica e sovrapponendo ad essa definizioni assolute. L'eccezione «del caso in cui le medesime risultino non più efficaci nel fornire al paziente i fattori nutrizionali necessari alle funzioni essenziali del corpo» costituisce solo una invasione ulteriore della sfera della scienza medica, giacché è ovvio per qualunque medico che un trattamento inefficace va evitato; se si vuole dire che è vietato l'accanimento, la disposizione è superflua, essendo già prevista dall'articolo 1, comma 1, lettera f). In questi termini, a seguito dell'esclusione in assoluto della natura di trattamento sanitario, il paziente non ha diritto di rifiutare l'alimentazione e l'idratazione forzata, in contrasto con gli articoli 32, secondo comma, e 13 della Costituzione.
Cosa fare alla luce di tutte queste considerazioni ? A mio avviso, si possono seguire due strade alternative.
La prima è quella di modificare il testo nella direzione che ho cercato di delineare, risolvendo le diverse questioni di costituzionalità. In particolare, sarebbe necessario: introdurre una definizione legislativa di eutanasia, sotto il duplice aspetto attivo e «passivo», in relazione al consenso del malato o alla sua assenza, dal punto di vista del malato e dell'agente; e definire puntualmente le fattispecie penali relative al fine-vita, al fine di garantire il rispetto del principio di legalità in materia penale, di cui all'articolo 25, secondo comma, della Costituzione; riformulare il testo al fine di realizzare un effettivo e ragionevole bilanciamento tra i beni e gli interessi costituzionali in gioco, che trovano fondamento negli articoli 2, 3, 13 e 32 della Costituzione: il diritto alla vita, il diritto alla salute ed il dovere del medico di curare, da una parte, e il diritto all'autodeterminazione individuale, la dignità personale, il rispetto della persona umana ed il diritto di rifiutare i trattamenti sanitari non voluti, dall'altra; chiarire in maniera inequivoca che non è in alcun modo messo in discussione il diritto Pag. 103del paziente cosciente di rifiutare i trattamenti sanitari, incluso il diritto di interrompere i trattamenti sanitari già iniziati, modificando, sulla base dei rilievi esposti, le disposizioni dell'articolo 1, comma 1, lettere a), c) ed e); riconoscere la volontà del paziente, come espressa nella dichiarazione anticipata di trattamento, rispetto alle convinzioni del medico (fermo restando per quest'ultimo il diritto all'obiezione di coscienza) e, in caso di rifiuto del medico curante di seguire le indicazioni del collegio medico, va comunque garantito il rispetto della volontà del paziente in tempi certi e rapidi e nella stessa struttura di ricovero o, in caso di mancato ricovero, da parte dell'azienda sanitaria di competenza; infine, non escludere, in assoluto, il diritto del paziente di rifiutare l'alimentazione e l'idratazione forzata, consentendo la dichiarazione anticipata di trattamento nel caso in cui costituiscano un trattamento sanitario.
La seconda strada, alternativa alla prima, è quella di limitare l'intervento legislativo al divieto di eutanasia e di accanimento terapeutico, previa loro definizione legislativa, senza introdurre la dichiarazione anticipata di trattamento, lasciando quindi la «zona grigia» più delicata alla sapiente cura e decisione del medico, della persona interessata e dei suoi familiari.
Queste sono le due strade tra cui, a mio sommesso avviso, occorre scegliere se si vuole evitare che divenga preferibile, o addirittura obbligata, una terza opzione, quella di non legiferare affatto su questa delicatissima materia.

LUCIO BARANI. Il disegno di legge licenziato dalla Commissione affari sociali della Camera rispetto al testo «Calabrò» del Senato è improntato contro l'accanimento terapeutico, dice «no» all'eutanasia ed è contro l'abbandono dei pazienti; abbiamo tolto il vincolo al medico perché un medico ha il dovere di portare avanti sempre le cure, anche perché possono esserci sempre e continui progressi della scienza medica e nella ricerca che non erano noti al momento in cui il soggetto, poi in condizione di fine vita, aveva redatto le sue DAT e, badate bene, parlo di dichiarazioni e non di testamento.
Perché una legge è meglio? La legge è necessaria, perché il 9 luglio 2008 la corte d'appello di Milano con decreto emanava o meglio comminava o meglio ancora condannava a morte per fame e sete una ragazza di 17 anni in «stato vegetativo permanente» a seguito di una lunga battaglia intrapresa dal padre tutore sapientemente guidato da mani esperte che lo hanno pilotato verso quei precisi giudici per avere quella determinata sentenza.
Giustamente il Presidente Berlusconi ed il suo Governo approntavano un decreto-legge d'urgenza con un solo articolo che vietasse la sospensione dell'idratazione e dell'alimentazione e che entrasse immediatamente in vigore. Ma inopportunamente e ingiustamente il Presidente della Repubblica fece sapere che non lo avrebbe firmato, perché lo riteneva incostituzionale per mancanza d'urgenza (i giudici di Milano avevano emesso una sentenza di morte non presente in nessun articolo e in nessun rigo della nostra Costituzione) e per invasione della giurisdizione (anche di questa invasione non vi è traccia nella Costituzione).
Secondo i giudici di Milano la legge vigente e la Costituzione non garantiscono più la vita e una, cento, mille «Eluane» sono in pericolo di vita. Ecco perché il bisogno di una legge e poi la prova del nove viene data da tutti coloro che sono favorevoli all'eutanasia, sono fortemente contrari alla legge «Calabrò-Di Virgilio».
Spieghiamo allora al Presidente della Camera (di cultura post fascista) e al Presidente della Repubblica (di cultura post comunista) la corretta interpretazione dell'articolo 32 della Costituzione voluto dai costituenti riformisti cattolici e laici dei quali il sottoscritto è per cultura e formazione l'erede e il continuatore non solo per il garofano rosso all'occhiello del bavero della giacca.
Sono le culture post fasciste e post comuniste che vorrebbero minare il principio di indisponibilità della vita umana Pag. 104ed introdurre quindi una forma di eutanasia cosiddetta «passiva o omissiva» consistente nella rinuncia per non attivazione o per interruzione delle cure salva-vita, sia per i competenti (coloro capaci di intendere e volere nel senso di comprendere che potrebbero lasciarsi morire esercitando un diritto costituzionale previsto dal secondo comma dell'articolo 32; sia per gli incompetenti (coloro non capaci di intendere e volere) in base ad un principio di eguaglianza potrebbero esercitarlo mediante le DAT, il cui effetto giuridico dovrebbe essere vincolante per il medico.
Questa è una tesi assurda, falsa e non consona ai principi ispiratori della nostra Carta costituzionale (articolo 32) per le seguenti tre ragioni. La prima: «l'eguaglianza tra competenti e incompetenti non esiste perché non può esistere». Infatti non ci può essere eguaglianza in ordine alla manifestazione di volontà tra la persona pienamente capace di intendere e di volere e il malato (in stato vegetativo permanente cioè completamente incompetente). Il primo può cambiare sua decisione riguardo alle cure, il secondo non può farlo. Il rapporto tra paziente e medico non è paragonabile ad una relazione contrattuale di tipo commerciale. Infatti si parla in questa legge di alleanza terapeutica: è un dialogo continuo, una relazione che non cessa mai, è dinamica e non statica. In questa alleanza la terapia ha lo scopo di guarigione o di lotta contro la malattia o la morte, comunque per avere una migliore qualità di vita, con un paziente «incompetente» il dialogo, l'alleanza terapeutica non è possibile e fra i due la differenza è sostanziale e per la nostra Costituzione il dialogo è rivolto alla cura sempre e comunque e mai al rifiuto della cura. L'alleanza terapeutica è sempre e solo improntata ad ottenere dal paziente un consenso libero ed informato alla cura e non al rifiuto di essa, per quanto da rispettare. Perciò attribuire agli orientamenti manifestati prima dalla persona pienamente competente un valore giuridicamente vincolante per il dopo, in cui è sopravvenuta una incapacità di intendere e di volere non significa affatto garantire l'eguaglianza costituzionale, ma al contrario cristallizzare definitivamente la diseguaglianza (concetti tipici di culture fasciste, comuniste, relativiste e massimaliste).
Il secondo punto che si evince dall'articolo 32 della Costituzione consiste nel fatto che il potere di rifiutare le cure non può essere considerato come un diritto da porsi sullo stesso piano del diritto alla salute, del diritto alle cure. È come se il diritto alle cure comprendesse di necessità il diritto alla non cura. Il secondo comma dell'articolo 32 della Costituzione stabilisce che nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Il senso di tale norma è reso chiaro da almeno cinque considerazioni. Un trattamento è sanitario non solo perché è eseguito da un medico in quanto questi può ricorrere alle sue armi professionali per provocare una ferito o un danno o per fini truffaldini, ma è sanitario se è finalizzato alla guarigione, al mantenimento della salute ed a conservare la vita. La morte è il contrario della salute. La cura in quanto diretta a salvaguardare la salute non può avere lo scopo di causare o affrettare la morte. Quindi non può essere qualificata come terapeutica la scelta che favorisce la morte. L'alleanza tra medici e pazienti è terapeutica se rivolta alla salute. Quindi il secondo comma dell'articolo 32 è estraneo alla prospettiva della garanzia per un ipotizzato diritto alla non cura finalizzato alla cessazione della vita.
Il primo comma dell'articolo 32 considera fondamentale il diritto alla salute che è un bene privato ma anche pubblico, quindi la salute è un diritto costituzionale che estende la cura anche agli indigenti collocandone l'onere a carico delle strutture pubbliche.
Nello stesso secondo comma visto che viene considerato assolutamente prioritario l'interesse pubblico della salute che annette la possibilità di cure obbligatorie per legge, se la Costituzione avesse messo Pag. 105sullo stesso piano l'autodeterminazione rispetto al diritto alla salute non avrebbe consentito l'imposizione di un obbligo di sottoporsi a una determinata terapia.
Il senso è chiarito ulteriormente se proviamo ad ipotizzare una norma costituzionale di tipo opposta («la legge può proibire il ricorso a cure mediche»). Si tratterebbe di una disposizione assurda. Quindi la cura e il suo rifiuto per la nostra Costituzione non sono sullo stesso piano.
Il diritto alla salute per l'articolo 32 è «fondamentale» mentre quello di rifiutare le cure è «strumentale»; è finalizzato a rendere meglio realizzabile il primo e ad impedire uno straripamento del potere medico che potrebbe creare un corto circuito e quindi ritorcersi contro l'individuo e la sua salute.
E quando l'articolo 32 parla di rispetto della dignità umana riguarda il fatto che se un paziente rifiuta una cura bisognerebbe ricorrere alla violenza e verrebbe meno l'alleanza terapeutica; e venendo la collaborazione e la fiducia la cosiddetta sinapsi tra medico e paziente le cure non avrebbero o avrebbero minore efficacia.
Il fondamento del secondo comma è che nessuno può essere sottoposto a trattamenti disumani e degradanti e questa interpretazione è confortata dall'origine storica del comma 2 dell'articolo 32e la lettera dei lavori preparatori di quei costituzionalisti che avevano la mia cultura riformatrice mostra l'esattezza di quanto da me sostenuto in quanto la formulazione fu sollecitata dall'esperienza storica allora recentissima dei campi di sterminio e delle pratiche di sterilizzazione e di sperimentazione che vi erano attuate.
La norma fu approvata dai legislatori proprio con l'intendimento specifico di vietare esperimenti scientifici sul corpo umano che non fossero volontariamente dal paziente e più in generale di proteggere la salute del singolo da illecite interferenze da parte dei pubblici poteri. Oggi il secondo comma dell'articolo 32 è solo una garanzia contro l'accanimento terapeutico del resto già vietato dall'ultimo comma perché contrario alla dignità umana.
Il consenso del paziente ad un intervento sanitario non è il suo fondamento ma la sua condizione, perché il fondamento dell'attività medica è la tutela del bene salute costituzionalmente garantito. Nel silenzio prevale il diritto alla cura non il diritto a rifiutarla. Il self per ogni individuo prevale sempre sul non-self. Coloro che tentano il suicidio appena arrivano ad un pronto soccorso chiedono di essere salvati e per un'altissima percentuale di pensieri autolesivi prevale sempre il mantenimento del proprio stato di benessere (il proprio Io, il cosiddetto Self).
Il terzo punto di forza su cui basa e appoggia l'articolo 32 contro coloro che ammettono uno spazio per giustificare un diritto all'eutanasia passiva e omissiva consisterebbe in un rifiuto di cura proporzionata; è esplicitato dal secondo comma quando si pone un limite alla facoltà di rifiuto: la legge può imporre la cura per continuare, grazie agli articoli 579 e 580 del codice penale e articolo 5 del codice civile, ma si può ricavare da altre disposizioni normative in materia di trapianto di organi, di circolazione stradale, di prevenzione degli infortuni sul lavoro o di sperimentazione medica.
La stessa proposta di legge una volta approvata diverrebbe legge per cui i limiti da essa imposti alla facoltà di rifiuto non sarebbero censurabili proprio in base al secondo comma dell'articolo 32 della Costituzione.
Concludendo l'alleanza terapeutica deve essere attuale (espressa nel momento in cui si manifesta l'esigenza terapeutica) e deve essere mantenuta nel tempo. Quindi l'attualità e la non vincolabilità futura fanno sì che questa legge non può ammettere un testamento biologico inteso come un atto giuridicamente vincolante per il futuro. Un testamento è un vincolo anche per terzi che viene disciplinato dal codice civile e riguarda essenzialmente i diritti patrimoniali e non si può applicare o meglio non può riguardare la «bios», la vita.
Infatti, in questa legge non si parla di testamento di disposizioni o di manifestazioni Pag. 106di volontà ma solo di dichiarazioni anticipate di trattamento che non è una volontà individuale di autodeterminazione ma di una mera dichiarazione di desiderio nel senso di auspicio e non manifestazioni negoziali di volontà e «prendere in considerazione» non vuol dire «eseguire» ma valutare con serietà e sempre con il filo conduttore dell'alleanza terapeutica.
Le DAT sono una forma di razionalizzare nei momenti più drammatici della vita ed evitare che il malato venga considerato dai medici non più come una persona ma un corpo da sottoporre a trattamenti.
Con le DAT il dialogo le sinapsi tra medico e paziente idealmente continuano anche quando il paziente non possa più prendervi consapevolmente parte.
La stessa nomina di un fiduciario è un rafforzativo del dovere di »prendere in considerazione«. Questa legge ha un postulato, una verità assoluta: il paziente non può non essere privato dell'idratazione e dell'alimentazione comunque esse vengano effettuate nelle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente; quindi l'idratazione e l'alimentazione non possono essere oggetto di DAT.
Dopo oltre settanta sedute di Commissione e oltre 2500 emendamenti discussi nella XII Commissione, caratterizzate dall'ostruzionismo delle culture con tendenze eutanasiche, i ringraziamenti d'obbligo al relatore Di Virgilio e una critica a tutti coloro, principali cariche dello Stato comprese, portatori di culture diverse da quelle che hanno portato alla nostra Carta costituzionale pretendono con arroganza di insegnarci o interpretare quello che volevano i padri costituenti che, come il sottoscritto, erano portatori, i più, di cultura laica, riformista positiva che da sempre avevano respinto culture relativistiche o negativistiche.
Costoro pretendono di insegnare ai gatti a fare miao o ad arrampicarsi, forse se si rileggessero la nostra Carta capirebbero quanto male sta facendo alla nostra Italia lo strapotere giudiziario di talune procure deviate dai principi fondamentali della nostra Carta.
Una nazione i cui i governi dipendono nella formazione delle leggi, dai veti o imposizioni di una magistratura elevata al rango di Santa inquisizione, non segue più i buoni principi voluti dai padri della patria proprio nella realizzazione di quella Carta che avrebbe dovuto riportare e garantire democrazia, giustizia e libertà e bandire qualsiasi forma di ingiustizia.

DELIA MURER. La legge che discutiamo oggi è un testo ulteriormente peggiorato rispetto al Calabrò inviatoci dal Senato. Possiamo definirla un'occasione mancata. Un testo che duplica la platea di riferimento in modo scombinato e confuso.
Avevamo avviato in Commissione affari sociali una discussione importante, provare dopo la vicenda di Eluana che tanto aveva influenzato il dibattito al Senato, ad avviare una riflessione pacata.
Non si è voluto tener conto della tante audizioni di medici, esperti, studiosi, famiglie. Il testo Calabrò non considerava alimentazione e idratazione cure mediche e le sottraeva alla libera disponibilità del paziente nella Dat.
Proprio su questo in molti ci avevano chiesto di riaprire la discussione richiamandoci al rispetto non solo della volontà della persona ma anche del rapporto medico e paziente.
Ci è stato detto con chiarezza che la nutrizione artificiale è una forma di sostegno vitale volta ad alleviare le sofferenze nel rispetto della dignità della persona, che viene assicurata da competenze mediche e sanitarie conformemente alle migliori evidenze scientifiche disponibili ed ai principi di deontologia professionale.
Un documento del Consiglio nazionale della Federazione degli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri, approvato a Terni lo scorso 13 giugno, lancia un allarme forte su questo punto. In esso si afferma, infatti, che sulla materia in questione «il legislatore dovrà intervenire formulando 'un diritto mite' Pag. 107che si limiti cioè a definire la cornice di legittimità giuridica sulla base dei diritti della persona costituzionalmente protetti, senza invadere l'autonomia del paziente e quella del medico prefigurando tipologie di trattamenti disponibili e non disponibilità nella relazione di cura. Ognuna di queste, unica e irripetibile, contiene tutte le dimensioni etiche, civili e tecnico-professionali per legittimare e garantire la scelta giusta, nell'interesse esclusivo del paziente e rispettosa della sua volontà. Lo stesso documento afferma anche che 'in accordo con una vasta e autorevole letteratura scientifica, la nutrizione artificiale è trattamento assicurato da competenze mediche e sanitarie, in grado di modificare la storia naturale della malattia, calibrato su specifici problemi clinici mediante la prescrizione di nutrienti, farmacologicamente preparati e somministrati attraverso procedure artificiali, sottoposti a rigoroso controllo sanitario ed infine richiedente il consenso informato del paziente in ragione dei rischi connessi alla sua predisposizione e mantenimento nel tempo'».
Alla luce dei passi citati appare evidente come sia strumentale non annoverare queste pratiche alle cure mediche e come, questa sottrazione, contenga in realtà un tentativo di ridurre gli spazi giuridici nei quali il cittadino può muoversi con libertà di coscienza. Si tratta, in sostanza, di una scorciatoia ideologica per negare un principio più generale e cioè che l'individuo ha diritto alla libertà di scelta e di coscienza. Sottrarre tale diritto è una invasione di campo nella sfera della relazione medico-paziente ed è un'aperta violazione dell'articolo 32 della Costituzione, che riconosce a tutti una facoltà assoluta, quella di dire no all'invasione di un sondino che in modo artificiale rilascia nell'organismo una soluzione medica che tiene allacciata artificialmente a quella condizione che non è morte, ma non è vita. E a poco servono, nell'ottica di una discussione pacata e ragionevole, le esternazioni sui giornali del sottosegretario Roccella che indica, con poco rispetto, chi difende il diritto a rifiutare determinate terapie, come il portatore di una cultura che rifiuta l'esperienza del dolore e della morte.
In questo senso si è svolto tutto il lavoro del PD per cambiare la legge, nella fase degli emendamenti avendo sempre presente il dibattito aperto nel paese.
Avevamo auspicato un diritto mite invece siamo di fronte ad una legge liberticida, che nega il diritto all'autodeterminazione del paziente e l'impegnatività della sua decisione per il medico.
La legge è ideologica.
Non rispettosa della dignità della persona e della sua sfera decisionale. In aperto contrasto con la convenzione di Oviedo e l'articolo 32 della Costituzione.
Fortemente lesiva della deontologia professionale dei medici.
Inoltre non vengono previsti nuovi finanziamenti per gli stati vegetativi persistenti e per le cure palliative dei malati terminali, irridendo ogni attenzione vera per la vita umana e la sua dignità.
Quando si tratta di vita la destra abbonda in retorica ma non trova un euro per sostenere chi più soffre.
Mi sembra quindi che non ci sia nessuna possibilità di fare una buona legge rispettosa sia del valore della vita che di quello dell'autonomia decisionale della persona.
Una legge mite che sappia interpretare questi nuovi dilemmi in modo laico, dando sostegno e presa in carico dei pazienti ma rispettandone gli orientamenti personali e favorendone la consapevole espressione in una forte alleanza tra paziente, medico fiduciario.
Non siamo purtroppo di fronte a questo.
Auspico che il nostro dibattito si svolga con una profonda consapevolezza del senso del limite che deve avere la politica su questi temi, un dibattito che ci porti ad avere una buona legge e quindi a ripartire con uno spirito profondamente diverso o che in carenza di questo sappia assumere la decisione più giusta: fermare questa legge!

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EUGENIO MAZZARELLA. Signor Presidente, il tema che affrontiamo, il «fine vita», chiede al legislatore qualcosa in più del senso di responsabilità; chiede prudenza, del cuore e dell'intelligenza. Nel limite intrinseco al diritto quando si confronta con la concretezza della vita etica, siamo chiamati a ragionare insieme agli altri con onestà intellettuale i nostri convincimenti più profondi, e a guardarci dalla pretesa di imporre unilateralità di principio, e dal soggiacere a valutazioni di opportunità politica contingente. Nel dibattito pubblico, anche più direttamente ispirato dalla politica, di questi giorni, si è reso evidente che nessuna parte politica o opzione ideale, anche al suo interno, ha sui temi in gioco la verità in tasca. La dissonanza delle voci ascoltate non è in questo caso un limite della politica, ma un'opportunità, se la sappiamo afferrare, per giungere ad una soluzione condivisa, o quanto meno ben più condivisa di quella finora profilata. Questo ci aiuterebbe ad uscire da un paradosso, che è in questo: le risposte di autorevoli esponenti della maggioranza alle critiche sull'illiberalità di fondo delle previsioni della legge, obbliganti oltre ogni ragionevolezza su una materia - fine vita e dignità della persona - che non tollera partigianerie valoriali, neanche in nome di un valore indubbiamente «forte» come l'indisponibilità della vita, insistono sulla rivendicazione al ddl proprio di un equilibrato e non illiberale contemperamento dei principi in gioco: l'autodeterminazione del paziente, il principio fondamentale della libertà di cura, e l'alleanza terapeutica tra medico e paziente da attualizzare al letto del paziente incosciente contestualizzandone le scelte anticipate, che potrebbero risultare datate alla luce dei progressi della medicina. Fosse davvero così, non si capirebbe perché non si sia già trovato un accordo, ispirandosi ad analogo bilanciamento di più proposte in esame (del Pd, ma anche di un gruppo di deputati di diversa collocazione politica). Il punto è che quel bilanciamento nel ddl non c'è. Ma se si vuole, vi si può giungere: se si garantisce il rispetto della volontà del paziente sulle scelte di cura del «fine vita», ma insieme si riserva al dialogo tra medico, fiduciario e/o familiari una meditata possibilità di sospensione di queste volontà, in relazione ad esempio al rifiuto di alimentazione e idratazione artificiali in stati vegetativi permanenti, se da questa sospensione si può attendere (e fin quando lo si può) un reale beneficio terapeutico. Un approccio siffatto raccoglie, per altro, giuste preoccupazioni espresse dal relatore di maggioranza, onorevole Di Virgilio, che la legge dica «No all'eutanasia, No all'abbandono terapeutico, No all'accanimento terapeutico»; e che a questo fine il diritto di autodeterminazione non sia così costrittivo da rivolgersi contro gli interessi della persona stessa, il che richiede uno spiraglio alla revisione di quanto deciso in precedenza. È cruciale però che lo «spiraglio di revisione» al dispositivo delle DAT sia previsto nella forma giuridicamente «mite» della possibilità di sospensione motivata e pro tempore dell'attuazione del vincolo giuridico delle disposizioni del paziente, e a questo fine parliamo di impegnatività giuridica delle DAT; perché una norma che a priori disconosca quel vincolo e impedisca il rifiuto del paziente di questa o quella previsione terapeutica e/o di cura non ne rispetta l'autodeterminazione, tutelata in diritto e in deontologia. E in realtà vanifica anche qualsiasi istanza di alleanza terapeutica. Questa si fonda sull'autonomia del rapporto tra medico e paziente. Un'autonomia che viene meno, e con essa l'alleanza terapeutica stessa, se è lo Stato a decidere per legge a quali decisioni di cura deve addivenire quella relazione. Con una norma impediente «anche» quello che in ipotesi il solo medico deve decidere (quando e come sospendere idratazione e alimentazione artificiale perché non si dia accanimento terapeutico), e non com'è giusto e coerente in diritto e in deontologia in dialogo con il paziente «informato» e/o con il suo fiduciario o i familiari, si esautora nei fatti Pag. 109qualsiasi versione pensabile di alleanza terapeutica, rispetto a cui la norma può essere solo sussidiaria. In uno scenario giuridico di divieti o di prescrizioni obbliganti su questo tema, siamo fuori sia dall'autodeterminazione del paziente, che dall'alleanza terapeutica; siamo sul terreno di una insostenibile bioetica di Stato, che nasce dall'incoerenza del disegno di legge agli stessi principi che dichiara di voler bilanciare, entrambi protetti sul piano costituzionale: la libertà di cura e il favor vitae, la tutela della vita umana. Sanare questa incoerenza, se si vuole è possibile: in parlamento i termini del dibattito sono ormai chiari. Sarebbe un successo di tutti. Non farlo sarebbe un'occasione mancata di civiltà del diritto e dell'anima.