Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

22/10/2008

Montecitorio, Sala della Lupa - Fondazione della Camera dei deputati - Eredità e attualità della primavera cecoslovacca

Il quarantesimo anniversario della Primavera di Praga viene celebrato in un'Europa in pace e in un continente ormai riunificato. Cechi e slovacchi sono oggi parte integrante dell'Unione europea e condividono, per libera scelta, il destino di una comunità sovranazionale.
Se oggi è evidente che l'approdo europeo ha segnato la definitiva vittoria delle aspirazioni di libertà e democrazia che animarono il ?68 praghese, va però ricordato che la memoria di quell'esperienza appartiene indelebilmente a tutti i popoli europei, e quindi anche al nostro, che hanno attraversato le barriere ideologiche del ventesimo secolo per riaffermare il senso di una comune identità e di una comune cultura europea.
Sono veramente lieto che all'odierna importante iniziativa prendano parte alti esponenti della Repubblica ceca e della Repubblica slovacca e ringrazio le Ambasciate dei due Paesi per l'impegno profuso.
E' di tutta evidenza come la memoria della Primavera di Praga sia viva oggi più che mai in entrambi i Paesi, legati da profondi vincoli storici e culturali.
Sussistono profonde assonanze tra la tradizione democratica del ceco Tomas Masaryk e quella dello slovacco Alexander Dubcek, nel 1968 uniti nella difesa della libertà e dei valori della democrazia.
Nel salutare Pavol Dubcek, figlio dello statista, che oggi ci onora della sua presenza, mi piace ricordare che il primo viaggio all'estero che fu consentito al padre dopo la repressione sovietica avvenne proprio in Italia, nel 1989, a Bologna. L'ateneo felsineo, in occasione del nono centenario della Fondazione che ne fa la più antica Università europea, volle conferirgli la laurea honoris causa, a conferma di un'immediata e rinnovata solidarietà.
Tutta l'Italia seguì con commossa partecipazione il consumarsi della tragedia dell'invasione delle truppe del Patto di Varsavia, il più imponente esercito mai schierato in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Per la prima volta, a vent'anni dall'entrata in vigore della Costituzione repubblicana, fu richiesta la convocazione in via straordinaria del Parlamento. La riunione durò due giorni, il 29 e il 30 agosto 1968.
Quel dibattito, senz'altro tra i più intensi ed alti dell'Italia democratica, fu unanime nella condanna dell'aggressione sovietica e nella solidarietà al popolo cecoslovacco. Non mancarono naturalmente le diverse sfumature ideologiche né i distinguo dettati dalla politica interna, ma il fatto nuovo fu che anche il Partito comunista italiano assunse una posizione assai critica nei confronti dell'Unione Sovietica.
Da allora ebbe inizio quel processo di graduale ma inarrestabile presa di distanza dai modelli del socialismo reale che ha condotto nei decenni successivi la sinistra italiana a ripudiarne la intrinseca vocazione totalitaria.
E' notorio che tale svolta storica ha avuto tra i suoi più lucidi protagonisti il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Per questo la sua odierna presenza ha un significato che va ben oltre l'etichetta protocollare. La Camera dei deputati ripubblicherà integralmente i resoconti di quella seduta in appendice al volume che raccoglierà gli atti dell'odierna manifestazione, anche per ricollegarsi idealmente a quella sparuta, ma non per questo meno significativa, pattuglia di parlamentari dell'Assemblea nazionale cecoslovacca che, nell'ottobre 1968, ebbe il coraggio di votare contro il trattato imposto dall'URSS.
Mi sia, tuttavia, consentito di riferirmi a due degli interventi che furono in quella circostanza pronunciati nell'Aula di Montecitorio e che, da sponde politiche opposte, si rivelano oggi complementari nel comprendere storicamente la vicenda cecoslovacca.
Dai banchi della sinistra, Pietro Nenni evocò l'"eresia della libertà", che, nella sua indivisibilità, non è né proletaria né borghese. Da quelli della destra, Giorgio Almirante rispose evocando l'"eresia della Nazione".
Nel fallimento del "socialismo dal volto umano", cui alludeva Nenni, l'Europa traeva da Praga la lezione storica dell'irriformabilità del socialismo reale. La Cecoslovacchia era, infatti, all'avanguardia tra i Paesi del Patto di Varsavia: per l'eredità asburgica, per la produzione industriale, per la vivacità intellettuale.
Con il '68 cecoslovacco, ancor più chiaramente che con il ?56 ungherese, si ebbe la prova definitiva che il sistema sovietico non avrebbe in alcun modo acconsentito alla pur minima riforma in senso liberale e democratico.
Non a caso, mentre i carri armati sovietici presidiavano Piazza San Venceslao ("mostruosa ferraglia" li avrebbe chiamati Angelo Maria Ripellino, l'intellettuale italiano del XX secolo che più è stato vicino alla cultura praghese) sulla Piazza Rossa, i dissidenti russi issavano un cartello che recava la scritta "Per la vostra e la nostra libertà".
Nessun europeo democratico da allora avrebbe più potuto nutrire illusioni sulla reale natura del comunismo sovietico.
L'altra grande lezione storica che si irradiava per l'Europa dalla Cecoslovacchia quarant'anni fa era il peso intollerabile dell'equilibrio di Yalta, cui alludeva Almirante. Ancora una volta l'URSS era riuscita a riaffermarne l'intangibilità: nel 1956, aveva approfittato della divisione del blocco occidentale per la crisi di Suez, nel 1968 fu il turno del Vietnam.
Ma, ormai, la lacerazione del vecchio continente e la subordinazione di metà dei suoi popoli ad un regime totalitario mostravano inequivocabilmente i tratti di una tragedia storica.
Nessun europeo democratico da allora avrebbe più potuto accettare l'ineluttabilità e l'irreversibilità della cortina di ferro.
La Camera dei deputati patrocina l'odierno incontro anche per far sì che quella cecoslovacca non sia più una "rivoluzione dimenticata". Così l'ha provocatoriamente definita Enzo Bettiza, nel libro che raccoglie le sue corrispondenze giornalistiche dell'epoca, in polemica contrapposizione con il ?68 occidentale. Personalmente gli sono molto grato per aver accettato di portare oggi la testimonianza di un intellettuale la cui fede nella libertà ha anticipato le smentite della storia.
Oggi è certamente corretto affermare che Il crollo del sistema sovietico, il ritorno alla libertà e la ritrovata unità europea sono il frutto, in questo senso, della maturazione dell'esperienza storica dei fatti di Praga, così come di tutte le altre repressioni subite dai popoli dell'Europa centro-orientale a causa dei totalitarismi del ventesimo secolo. Finalmente, come italiani ed europei occidentali, possiamo sentirci a nostra volta liberi da una sorta di senso di colpa maturato per il fatto che il nostro progresso civile fosse avvenuto dal 1945 al 1968 a spese degli europei di "oltre-cortina".
Il presente e soprattutto il futuro comune che oggi abbraccia i cittadini europei dell'Est e dell'Ovest (i "due polmoni" dell'Europa cari a Papa Giovanni Paolo II) ha, quindi, bisogno di non dimenticare il passato.
Credo che le difficoltà del presente, e anche le ragioni di divisione che talora sembrano prevalere su quelle dell'integrazione, sarebbero superate più facilmente se ci si volgesse indietro a guardare la strada compiuta insieme e soprattutto se si ricordassero le drammatiche condizioni che abbiamo lasciato alle nostre spalle. In un continente senza più confini, in cui i giovani non si sentono più stranieri - sia che si trovino nelle isole del Mediterraneo oppure sulle coste del Baltico -, la Primavera di Praga sarà sempre più impressa nella coscienza europea come un formidabile monito di fede nella libertà e di coraggio nel sacrificio.
La rivoluzione cecoslovacca durò ben più di una primavera. Fu preceduta dal fermento culturale che, nel 1963, aveva condotto alla riabilitazione di Kafka e, nel 1967, all'appello del Congresso degli Scrittori. Proseguì in tutti gli anni di una dura e spietata repressione che mai riuscì a domare quello "spirito critico" che anche recentemente Milan Kundera ha rivendicato come cifra del suo popolo.
Il volontario rogo di Jan Palach, l'immagine tragica destinata a simboleggiare la tragedia praghese, non fu, perciò, soltanto il gesto individuale di un'eroica disperazione, ma un consapevole atto di eroismo politico rivolto al suo popolo e a tutto il mondo libero.
Con il sacrificio della sua giovane vita, Jan Palach volle dimostrare che i cechi e gli slovacchi erano consapevoli del rischio cui andavano incontro e pronti a pagarne il prezzo. Ma soprattutto volle significare che senza la libertà la vita di un popolo e di un uomo non era davvero tale.
Il debito che gli uomini liberi di tutto il mondo hanno nei confronti di Jan Palach e dei giovani di Praga e di Bratislava è, perciò, inestinguibile.
L'entusiasmo di quella stagione, ma anche la forza necessaria per affrontarne le conseguenze sono racchiusi in una frase del grande scrittore e poi primo Presidente democratico dell'ancora unita Cecoslovacchia, Vaclav Havel, cui voglio affidare la conclusione del mio intervento: "Improvvisamente ognuno si sentiva libero, ognuno sentiva di poter afferrare il proprio destino".
E' un monito morale valido oggi e domani, esattamente come ieri.