Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

18/11/2008

Montecitorio, Sala del Mappamondo - Conferenza "L'Europa dai trattati di Roma ad oggi"

GIANFRANCO FINI, Presidente della Camera dei deputati. Desidero innanzitutto dare il benvenuto, non soltanto a titolo personale, ma a nome di tutta la Camera dei deputati, al Presidente Wilfried Martens, che non ha certamente bisogno di essere presentato.
Ringrazio l'onorevole Dario Antoniozzi per aver voluto promuovere questo convegno. La Camera dei deputati è particolarmente lieta di ospitarne i partecipanti, che saluto tutti, indistintamente, per non correre il rischio di fare una sola grave omissione.
Desidero svolgere qualche brevissima considerazione introduttiva, partendo da un dato che credo sia difficilmente contestabile. Sono trascorsi 51 anni dalla firma dei Trattati a Roma e, se ci volgiamo per un attimo indietro, è indubbio che l'ideale europeista, l'ideale di un'Europa unita ha fatto enormi passi avanti.
Sicuramente è stata percorsa molta, molta strada. Lungo questa strada, seppur con difficoltà e con fasi alterne, si sono registrati successi che non possono essere mai dimenticati, che hanno segnato la vita dei nostri popoli e che certamente segneranno la vita degli europei del futuro. Penso, in particolar modo, alla libertà di circolazione che oggi è un diritto acquisito per tutti i popoli europei; penso - anche in ragione della crisi economica in cui si trova oggi il mondo intero - alla grande e positiva novità rappresentata dalla nascita (per l'Italia esattamente dieci anni or sono) della moneta più apprezzata sul mercato internazionale; penso anche a primi importanti segnali di quel protagonismo politico dell'Europa che i Padri costituenti sognavano come l'obiettivo più lontano e, al tempo stesso, più impegnativo, più bello.
Chissà se Henry Kissinger - il quale amava dire: "Se devo parlare con Mr. Europa non conosco il numero di telefono" - ha preso atto che, seppur con tante difficoltà, un protagonismo europeo nell'ambito della politica internazionale c'è stato: basti pensare al ruolo che l'Unione ha avuto in occasione della recente grave crisi tra la Russia e la Georgia.
Eppure, fatta questa premessa, terremmo gli occhi chiusi di fronte alla realtà se negassimo che ci sono segnali di un certo affanno dell'europeismo, dell'ideale europeo; un affanno che si registra purtroppo anche tra la gente, nei popoli. Non è soltanto un vezzo delle classi dirigenti, che anche nel passato amavano dire che l'Europa si presentava più come un'Europa delle burocrazie che dei popoli: oggi ci sono segnali di una certa difficoltà dell'ideale europeo nel penetrare nell'animo dei popoli.
A una platea avveduta come questa basta qualche semplice riferimento, anche di attualità. Il fatto che il Trattato di Lisbona non sia ancora ratificato dalla totalità dei 27 Paesi, il fatto che laddove si ricorre al referendum popolare cresca la percentuale di coloro che si oppongono a un'ulteriore integrazione dell'Unione, sono di per sé segnali di un certo grado di difficoltà che abbiamo dinanzi nel momento in cui cerchiamo di sottoporre alle popolazioni europee l'opportunità di una ulteriore e sempre più efficace integrazione.
Quale può essere la causa? La mia personale opinione è che, dopo una lunga fase in cui l'ideale europeo era animato non solo dalla passione e dall'impegno di uomini come Martens, come Andreotti, come Colombo, ma anche da un mito, da un'"idea-forza", oggi ci troviamo in presenza di una classe dirigente altrettanto impegnata, ma in assenza di un mito.
Mi spiego meglio. Per una prima fase, credo che il mito europeo sia stato avvertito innanzi tutto come garanzia di pace fra francesi e tedeschi. Se si pensa che per due volte la guerra fratricida in Europa ha incendiato il mondo, la grande intuizione dei padri fondatori dell'Europa e del Trattato di Roma è: "mai più la guerra all'interno dei confini europei".
Questa prima fase certamente ha rappresentato un mito, un'"idea-forza", perlomeno fino al 1989, quando, per una sorta di destino storico, è apparso altrettanto forte l'altro mito, quello dell'unità. Si è usato spesso impropriamente il termine "riunificazione". Credo che il termine più corretto fosse "unità": l'unità dell'Europa. Prima la pace nell'Europa occidentale, poi l'unità dell'Europa.
La caduta del muro di Berlino, la fine della guerra fredda, la dissoluzione dell'Unione Sovietica hanno finalmente reso possibile - ecco l'altro mito, l'altra "idea-forza" - l'unità di un continente che era stato diviso dalle guerre e dalla storia.
Pensare che Praga o Budapest non fossero città pienamente europee, al pari di Roma e Parigi, significava in qualche modo non conoscere la storia dell'Europa.
Oggi, qual è il mito dell'Europa? La pace c'è - anche se abbiamo avuto il dramma dei Balcani, quella ferita che ci ha riportati indietro e ci ha costretti a fare i conti con la nostra storia - e l'unità sostanzialmente c'è. È difficile individuare un mito forte, capace di parlare ai giovani. Voglio richiamare la presenza di Geremek a Roma, l'anno scorso, e credo che questa sia l'occasione per ricordarne la prematura scomparsa. In quell'occasione dissi "dobbiamo porre l'accento su ciò che genera la speranza tra i popoli".
Qual è la speranza che oggi può dare l'Unione europea? È certamente un quesito che credo meriti di essere approfondito. È peraltro evidente che, per spiegare l'affanno dell'Unione europea, del mito europeo, ci sono anche ragioni pratiche, molto più contingenti. In un momento di stagnazione economica, di difficoltà, da più parti si tende a indicare nell'Unione europea la corresponsabile o la responsabile di ciò che, al contrario, non è minimamente imputabile a Bruxelles.
Sappiamo perfettamente che nelle motivazioni che hanno indotto gli irlandesi, e ancor prima i francesi, a votare contro il Trattato di Lisbona non c'era alcun tipo di responsabilità diretta dell'Unione europea e men che meno di quel Trattato: si trattava in qualche modo di un capro espiatorio, su cui scaricare responsabilità che non erano certo proprie dell'Europa.
Se è giusto chiedersi "perché", credo sia altrettanto doveroso chiedersi "che fare". Senza alcuna presunzione, vorrei dare qualche suggerimento, partendo da una considerazione che in qualche modo è pre-politica o, se volete, è di carattere più culturale che politico.
In questi anni non c'è dubbio che l'ideale dell'Europa abbia fatto grandi passi avanti perché sempre più è forte la coscienza che l'Europa è unita se riesce a essere garante delle differenze nazionali. Insomma, l'idea di un'armonia europea. Quel demos europeo che fu cercato all'inizio - sul quale soprattutto Duverger amava dire "non può esistere un'Europa unita perché non c'è un popolo europeo" - si sta formando. Sempre di più i popoli europei sanno di essere diversi tra di loro, ma uniti nel nome di comuni valori.
Un'Europa che non sia unita (ecco l'azione culturale, pre-politica) attorno a determinati valori - e certamente i valori che vengono posti dal Partito popolare europeo come punto di partenza di un'azione politica sono valori unificanti - rischia di essere soltanto una somma non armonica di differenze.
Contemporaneamente, accanto a questa azione di tipo culturale, va ripresa, anche se ebbe scarsa fortuna nella Convenzione europea, la discussione sull'identità del vecchio continente. Io ebbi il privilegio - lo dico senza alcuna modestia - di rappresentare il Governo italiano in occasione dei lavori della Convenzione: in quella circostanza, la delegazione italiana, senza alcuna eccezione, sostenne la necessità di inserire nella carta valoriale dell'Europa un riferimento all'identità. So bene che quando si affronta questa questione scattano riflessi condizionati, che non fanno comunque onore alla qualità del dibattito. Riconoscere un'identità all'Europa - lo dico da laico - significa in qualche modo avere ben chiaro che, se c'è un luogo che può far sentire figli della medesima storia e della medesima comunità culturale un pescatore dell'Algarve e un contadino lituano, quel luogo è la cattedrale. Quella immagine di un'"Europa delle cattedrali", e quindi il riconoscimento di un'identità religiosa nella tradizione ebraica e cristiana, è la fotografia di un dato storico, non è una scelta di campo politica.
Credo che questo lavoro di tipo culturale, se si vuole oggi rilanciare un mito europeo, debba necessariamente essere ripreso.
Questa azione culturale deve essere svolta in particolar modo tra i più giovani, nei quali in alcune occasioni si confrontano sia ideali di fratellanza europea sia regressioni di tipo nazionalistico. Sarebbe, peraltro, interessante discutere oggi del mito delle piccole patrie e di come il bisogno di un'identità rischi di essere visto in una logica di antagonismo piuttosto che di collaborazione.
Accanto a questa azione culturale, se vogliamo ridare all'Europa un mito, credo che si debba premere l'acceleratore per una riforma di tipo politico. Quale può essere il terzo grande elemento unificante, quella speranza da dare ai popoli, dopo la pace e l'unità? Ritengo che sia il protagonismo nella politica estera e, se necessario, l'assunzione di responsabilità di tipo militare.
Non può esistere un protagonismo di politica estera se non si è pronti anche all'assunzione di responsabilità di tipo militare. Credo che sarebbe un giorno molto positivo per chi ha creduto e crede nell'Europa quello in cui non si dovesse necessariamente riflettere soltanto su ciò che fa o può fare per la pace e per la sicurezza nel mondo il côté statunitense dell'Occidente, ma anche su quello che può fare e fa per la pace e per la sicurezza nel mondo il côté europeo.
Un'Unione europea capace di essere protagonista non solo nel campo economico, non solo nel campo dei diritti civili - due risultati raggiunti - ma anche nel campo della politica internazionale e in quello della sicurezza: credo che un obiettivo di questo genere sia indispensabile per un europeismo che non si limiti ad essere declamato e contenuto nei trattati, ma sia soprattutto avvertito come necessità vitale da parte dei popoli.