Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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INIZIO CONTENUTO

Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

05/12/2008

Palazzo Montecitorio, Sala della Lupa - Cerimonia commemorativa per i cento anni dalla scomparsa del Presidente della Camera, on.Giuseppe Biancheri

Gentile ambasciatore Biancheri, illustri relatori,
sono particolarmente lieto di aprire i lavori di questa iniziativa che intende ricordare il centesimo anniversario della scomparsa di Giuseppe Biancheri, per quasi vent'anni, a più riprese, presidente della Camera dei Deputati del Regno d'Italia.
In un certo senso possiamo dire che questo incontro rappresenta, da parte dell'Assemblea che ho l'onore di presiedere, un "atto dovuto", un gesto di riconoscenza nei riguardi di questa alta personalità istituzionale che, all'indomani del 20 settembre 1870, scelse questo meraviglioso palazzo del Rinascimento romano come sede della Camera dei Deputati della nuova Italia unita.
Biancheri non fu soltanto il Presidente che guidò il difficile trasferimento della Camera elettiva da Firenze a Roma: durante la sua presidenza venne definitivamente confermata un'opzione architettonica ricca di valenze politiche, quale quella della configurazione ad emiciclo dell'Assemblea, ereditata dal Parlamento subalpino, ma contestata dai sostenitori del modello parlamentare britannico, che avrebbero preferito un'aula quadrangolare.
Cresciuto in una famiglia di orientamento democratico, il padre era stato affiliato alla Giovane Italia, Bianchieri, dopo essersi addottorato in giurisprudenza a Torino, viene eletto alla Camera subalpina per la prima volta nel 1853 per il collegio di Ventimiglia, in rappresentanza della sinistra. Si segnala subito per un primo appassionato discorso sul trattato internazionale per l'intervento del Regno di Sardegna nella guerra di Crimea, che egli osteggiava, al pari di altri deputati del suo gruppo, poiché riteneva che la partecipazione ad una guerra estranea agli interessi nazionali potesse compromettere la strategia di unificazione, in chiave anti-austriaca, avviata dal conte di Cavour.
Appassionatamente legato alla sua città ed alla sua Liguria, seppe difenderne intelligentemente l'identità e gli interessi, opponendosi con forza, nel 1860, alla cessione del Nizzardo e della Savoia alla Francia di Napoleone III e cercando di salvaguardare, attraverso contatti diretti con Cavour, l'italianità della valle del Roja di cui conosceva la valenza economica e strategica. Pochi anni dopo, nel 1864, Biancheri, sempre scrupolosamente attento alle regole della correttezza parlamentare, contrastò vivacemente il conterraneo Nino Bixio che nel corso di un dibattito in Aula, si era detto pronto a cedere la sua terra in cambio del completamento dell'unità nazionale.
Negli "anni di ferro", seguiti alla proclamazione dello Stato unitario, Biancheri seppe svolgere con serietà ed equilibrio il suo mandato parlamentare, sostenendo le posizioni di Rattazzi ed entrando a far parte di importanti commissioni parlamentari d'inchiesta, chiamate ad indagare sulle più delicate vicende di quel periodo: da quella sulle Ferrovie meridionali, a quella sugli eccidi di Torino, all'indomani dell'annuncio del trasferimento della capitale. "Il suo tatto ed il suo spirito di conciliazione - ha scritto uno dei suoi più attenti biografi - lo inducevano a svolgere una accorta opera di mediazione tra le opposte opinioni sì da affievolire progressivamente i suoi contrasti con la Destra e l'intransigenza sua a tutela delle tradizionali posizioni di Sinistra" (S. Furlani).
Una volta designato al vertice dell'Assemblea elettiva, il 12 marzo 1870, Biancheri, da autorevole esponente del liberalismo italiano, dimostrò di essere un "uomo del Parlamento", ma non un "perfetto leader parlamentare", per riprendere le parole di un acuto - e critico - interprete del sistema politico liberale, Gaetano Mosca. Il deputato di Ventimiglia, infatti, fu sempre coerente nella sua scelta di porsi a servizio dell'Istituzione parlamentare, rinunciando anche a prestigiosi riconoscimenti ministeriali - fu Ministro della Marina soltanto per poche settimane nel secondo Gabinetto Ricasoli - per attenuare progressivamente il suo "colore politico": questo suo "stile" presidenziale gli permise di guidare i lavori dell'Assemblea di Montecitorio in tre fasi cruciali del periodo liberale: gli anni della Destra storica, la stagione della sinistra e, quindi, gli esordi dell'esperienza giolittiana.
Uomo di matrice moderata seppe, infatti, tenersi al di sopra dei partiti, raccogliendo progressivamente i consensi dei gruppi della Destra e della Sinistra storica.
E' durante le sue presidenze che si delinea e si consolida un rapporto peculiare, ancora oggi vivo e vitale, tra quanti vivono l'Aula di Montecitorio e la stampa. In quegli anni nascono e si perfezionano alcune figure-chiave del giornalismo politico italiano, che fanno parte ancora oggi delle nostre redazioni, quali il resocontista dei lavori parlamentari ed il disegnatore satirico: la silhouette di Biancheri non poteva sfuggire all'ironia dei vignettisti dell'epoca, inevitabilmente attratti dalle fedine bianche - già all?epoca un po? démodé - e dalla marsina nera del "Presidente".
Mi piace ricordare, a questo proposito, da ex giornalista politico, che proprio una delle più peculiari consuetudini in uso in questo Palazzo, quella del Ventaglio, sorta nel 1893, si sviluppò negli anni delle presidenze di Giuseppe Biancheri, a testimonianza dei legami speciali che legano il popolo della tribuna stampa a quello che vive nell'emiciclo di Montecitorio.
In base allo Statuto albertino, il Presidente della Camera non durava in carica per tutta la legislatura, ma veniva eletto al principio di ogni sessione di lavori: Biancheri venne eletto per la prima volta il 12 marzo 1870 superando il concorrente della Sinistra, Benedetto Cairoli, e rimase alla guida dei lavori di Montecitorio fino alla "rivoluzione parlamentare" del 1876.
Otto anni dopo, nel 1884, in piena stagione depretisiana, Biancheri inizia la serie più lunga - quasi decennale - dei suoi mandati presidenziali: pur criticato da più parti per la sua eccessiva arrendevolezza in talune fasi convulse della vicenda parlamentare, come nel caso dello scandalo della Banca romana, è proprio durante questo periodo, quasi decennale, che il Presidente della Camera perde progressivamente i tratti di "uomo della maggioranza" per configurarsi progressivamente come una "magistratura neutrale" nella quale si concentra "tutta l'autorità del Parlamento". "Bisogna - osservava ancora Crispi - che alla suprema direzione dell'Assemblea ci sia un uomo il quale non appartenga a nessun partito".
Queste parole, che configuravano un nuovo ruolo istituzionale per il Presidente della Camera, destinato ad un grande successo nella nostra vicenda istituzionale, furono pronunciate da Francesco Crispi il 29 marzo 1876, in occasione del dibattito sorto a seguito delle dimissioni presentate da Biancheri, consapevole di non rappresentare l'espressione della nuova maggioranza determinatasi in seno all'Assemblea e respinte, invece, all'unanimità in ragione, come disse Depretis, Capo del nuovo Esecutivo, del "discernimento" e della "saviezza adoperati nel dirigere le nostre discussioni" e la "perfetta imparzialità" che avevano contrassegnato lo stile presidenziale di Biancheri.
Ritornato sullo scranno presidenziale nel gennaio 1898, quando si delineava con chiarezza la prima crisi dello Stato liberale, Biancheri assunse una posizione di netta indipendenza nei riguardi del governo Di Rudinì, erigendosi a difensore delle prerogative parlamentari. E' rimasta giustamente celebre, a tale proposito, la vicenda del deputato socialista fiorentino Giuseppe Pescetti che, per sottrarsi al mandato di arresto, fu autorizzato a risiedere per più giorni all'interno di Montecitorio.
Se durante l'ostruzionismo e la fase più acuta della crisi di fine secolo, Biancheri restò lontano dalla presidenza dell?Assemblea, emarginato da quasi tutte le forze politiche, egli seppe ugualmente svolgere - quasi ottuagenario - un ruolo centrale nella commissione incaricata di predisporre, nel 1900, con la ripresa delle istituzioni liberali, il nuovo regolamento della Camera che, destinato ad una singolare longue durée nella storia costituzionale italiana, regolerà il funzionamento di questa Assemblea, pur con alcune successive innovazioni, fino alla grande riforma del 1971.
Credo sia importante ricordare oggi Giuseppe Biancheri perché la sua rivisitazione ci consente di riflettere su un profilo saliente della nostra vicenda istituzionale, quale la continuità della tradizione parlamentare italiana. Un elemento caratterizzante della nostra vicenda nazionale che forse non è stato sempre adeguatamente analizzato e valorizzato e che confido potrà essere oggetto di nuovi studi nel quadro delle iniziative per i centocinquanta anni dell'Unità nazionale.
Nell'esperienza risorgimentale il Parlamento ha rappresentato un ineguagliabile catalizzatore dell'identità nazionale perché furono proprio le istituzioni parlamentari - e segnatamente la Camera elettiva - a dare legittimazione al processo di unificazione, ad orientare in senso liberale il difficile percorso di edificazione dello Stato nazionale. "L'Italia può vantare - affermava a questo proposito Biancheri in un suo discorso d'insediamento del 30 gennaio 1889 - la invidiata fortuna di avere le sue liberali istituzioni interamente sottratte a qualsiasi mutamento inconsulto come ad ogni partigiana inconsideratezza".
Vorrei concludere con un accenno ad un tratto della personalità di Biancheri che sarà sicuramente sviluppato dagli illustri relatori, ma che assume un particolare valore per quanti rivestono oggi un mandato parlamentare. In ragione delle sue ascendenze familiari, egli sentì sempre forte e vitale la "religione del dovere" che si sforzò di seguire in tutti i lunghi anni del suo magistero presidenziale.
Oggi, in una temperie segnata da una forte critica anti-politica ed anti-parlamentare, non sempre immotivata, appaiono di perdurante attualità alcune sue parole, pronunciate nel 1873. Consentitemi di riproporle per intero perché interpellano direttamente, nell'Italia liberale come in quella del nostro tempo, la responsabilità di quanti rivestono un mandato politico:
"Rappresentare la nazione è incontestabilmente una distinzione grandissima; conviene, però non risentirne soltanto l'onore, ma aver la coscienza, ad un tempo dei doveri che impone. Non esercitando un mandato (...) si vien meno ad un impegno ed a un obbligo assunto (...) e inconsciamente si reca anche una gravissima offesa alle nostre parlamentari istituzioni, autorizzando a supporre che la nazione tenga un pochissimo conto codeste istituzioni medesime, che pure racchiudono le più preziose guarentigie, e le costarono tanti sacrifizi e tanti dolori". Dopo più di cento anni queste parole sono sempre meritevoli di considerazione.