Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

21/01/2009

Università degli Studi di Roma La Sapienza - Lectio magistralis sul tema "Parlamenti nazionali e istituzioni europee" pronunciata in occasione dell'inaugurazione dei corsi del Master della Facoltà di Scienze Politiche in Istituzioni europee

Magnifico Rettore, Signor Preside della Facoltà di Scienze Politiche, Illustri Professori, Signore e Signori, Cari studenti!

Nell'ambito delle complesse vicende che hanno caratterizzato l'evoluzione dei rapporti tra la Comunità Europea e gli Stati che, nel tempo, vi hanno aderito, la questione del ruolo da assegnare ai Parlamenti nazionali ha assunto, progressivamente, connotati di indubbia problematicità.

Se, infatti, il processo di costruzione europea ha riservato, inizialmente, ai Parlamenti nazionali un ruolo in apparenza fondante e centrale, giacché gli stessi sono stati chiamati ad autorizzare la ratifica e a portare ad esecuzione gli originari Trattati di Roma, successivamente, l'affermarsi di un metodo funzionalistico e tecnico-burocratico delle istituzioni europee ha determinato una generale penalizzazione della dimensione democratico-rappresentativa, concentrando i poteri nelle mani dei Governi nazionali e della burocrazia comunitaria. In altri termini, il ruolo dei Parlamenti nazionali è apparso, fin da subito, e nonostante le buone intenzioni, scarsamente incisivo.

Agli arbori della Comunità Europea, nel panorama degli Stati europei, facevano eccezione soltanto la Danimarca e il Regno Unito, dove vigeva, per ragioni assai diverse fra loro, una cultura costituzionale molto sensibile alle funzioni di controllo e di indirizzo del parlamento nazionale.

Il Folketing danese, incline a svolgere in ambito nazionale una penetrante attività di controllo e di indirizzo politico nei confronti del governo, mal sopportava il potenziamento del ruolo dell'esecutivo determinato dalla devoluzione di competenze alle istituzioni europee, cui non si accompagnavano adeguati meccanismi compensativi.

Il Parlamento britannico ostentava diffidenza nei confronti del processo di integrazione europea che, già a partire dagli anni '70, veniva "accusato" di ledere gravemente le funzioni dei parlamenti nazionali, privandoli, in sostanza, della funzione legislativa nell'ambito delle competenze attribuite alle istituzioni europee.

Per molto tempo, tuttavia, il diritto comunitario ignorò le scelte compiute dai parlamenti danese e britannico: i Trattati europei non si occuparono del problema, lasciando alla sensibilità di ciascun ordinamento nazionale la libertà di istituire procedure capaci di coinvolgere i parlamenti nazionali nella fase di elaborazione delle politiche europee.

I primi segnali di risveglio dei parlamenti nazionali si manifestarono sul finire degli anni '80 in concomitanza con la ripresa del processo di integrazione e con l'approvazione dell'Atto unico europeo, entrato in vigore nel luglio del 1987.

In quegli anni, molte assemblee nazionali si dotarono di appositi organismi specializzati nelle questioni comunitarie. Nel 1989 fu convocata la prima Conferenza delle commissioni parlamentari per gli affari europei (COSAC), con poteri di osservazione e di proposta nei confronti delle istituzioni comunitarie.

Nello stesso anno, l'Italia portava a compimento, con la legge "La Pergola", il primo tentativo organico di disciplinare la fase ascendente e discendente del processo decisionale comunitario, con particolare attenzione al ruolo del Parlamento.

Successivamente, la "comunitarizzazione" del ruolo dei Parlamenti nazionali - per usare una espressione cara alla più attenta dottrina pubblicistica - si realizza con l'entrata in vigore dello storico Trattato di Maastricht, che, con la dichiarazione allegata n. 13, "ritiene importante - cito testualmente - incoraggiare una maggiore partecipazione dei Parlamenti nazionali alle attività dell'Unione Europea attraverso il potenziamento della loro capacità ad esprimere i pareri sui problemi che rivestano per loro un particolare interesse".

Il crescendo di attenzione, in sede comunitaria, nei confronti del ruolo delle Assemblee nazionali trova poi un significativo suggello dapprima, nel 2000, nella "Dichiarazione sul futuro dell'Unione", allegata al Trattato di Nizza, poi, nel 2001, nella "Dichiarazione di Laeken". In entrambi i casi, si afferma che i parlamenti nazionali "costituiscono la riserva strategica della democrazia e della politica nell'Unione Europea".

Nel più recente passato, vi sono state esperienze che, sia pure con esiti alterni, forniscono ulteriori tracce e direzioni di ricerca. Si pensi all'attivissimo ruolo dei rappresentanti dei parlamenti nazionali nella Convenzione per la Carta dei diritti fondamentali e in quella per il futuro dell'Europa che ha redatto la Costituzione Europea, di cui è nota l'infelice sorte. Un'esperienza, quest'ultima, che, anche se non ha ottenuto il successo che meritava, resta il tentativo più coraggioso compiuto per la valorizzazione del ruolo dei parlamenti nazionali concepiti, nella loro interezza, come parti attive di una dimensione costituzionale dell'Unione, entro cui le politiche pubbliche comuni possano svilupparsi in modo più equilibrato tra livello nazionale e comunitario, nel rispetto del ruolo che spetta a ciascuna istituzione nell'ambito di ciascun livello.

A prescindere, comunque, dagli esiti diversi di queste esperienze, i parlamenti nazionali, in unione con il Parlamento europeo, sono sempre stati chiamati ad allargare gli spazi di rappresentanza e di dibattito nella fase preliminare di elaborazione di progetti sui massimi temi politico-costituzionali dell'Unione Europea. Su questioni di questa portata è risultata fin troppo evidente la insufficienza del metodo intergovernativo classico.

In tale scenario, i parlamenti hanno potuto esprimere la loro politicità nella formazione delle idee, nel dispiegamento del ventaglio delle soluzioni e nella elaborazione delle proposte.

Da queste esperienze si può, dunque, ricavare l'indicazione a favore di un maggiore impegno dei parlamenti nazionali, in collegamento con il Parlamento europeo, nel dibattito preliminare sui più rilevanti indirizzi politici dell'Unione. Questo nuovo ruolo delle assemblee nazionali affiora già nella procedura di esame del programma legislativo annuale della Commissione europea, nonché degli altri strumenti di programmazione politica e legislativa dell'Unione Europea.

In questo contesto, la platea dei parlamenti nazionali può offrire, anche al dibattito in seno al Parlamento europeo, un valore aggiunto derivante dall'altissima politicità dovuta alla sua articolazione nelle maggioranze e nelle opposizioni di ciascun paese e al maggiore radicamento nelle vicende nazionali.

Collegare le arene politiche nazionali a quella europea giova alla causa stessa del Parlamento europeo: significa favorire il rapporto con quest'ultimo, diversamente dalla creazione di una "seconda camera" rappresentativa delle assemblee, che lo indebolirebbe molto, rinchiudendo anche le assemblee nazionali nella logica assai limitativa delle delegazioni specializzate.

E' in questa più ampia prospettiva che si possono sciogliere, nel modo più positivo ed innovativo, le antinomie di cui ancora oggi è lastricata la vita dei parlamenti nazionali.

Se è vero, infatti, che il processo di integrazione europea sottrae ai parlamenti nazionali cospicue quote della loro tipica funzione legislativa, è altrettanto vero, come più volte ha ben evidenziato la Corte costituzionale italiana a partire dalla sentenza n. 183 del 1973, che "l'azione delle istituzioni comunitarie si svolge con la costante e diretta partecipazione del nostro governo e, quindi, anche sotto il controllo indiretto, ma non perciò meno vigile ed attento, del Parlamento italiano".

Più in generale, quindi, anche se i meccanismi di elaborazione degli atti normativi e dell'indirizzo politico dell'Unione Europea privilegiano gli esecutivi nazionali, resta costantemente aperto un canale di comunicazione tra i parlamenti degli Stati membri e le istituzioni comunitarie. Ciò avviene tramite il controllo dei parlamenti sui governi nazionali, originariamente "signori" non solo dei Trattati, ma anche, grazie alla centralità del Consiglio dei ministri europeo nella struttura istituzionale comune, di tutto il diritto comunitario derivato.

Ovviamente, diverso è il peso e il ruolo che ciascuna assemblea nazionale ha saputo svolgere, nell'ambito dei propri poteri di controllo, sulle politiche europee.

Al riguardo, la prima riflessione da sviluppare è che non si può parlare di un unico modello di partecipazione dei parlamenti nazionali alla vita istituzionale dell'Unione europea.

La posizione dei parlamenti degli Stati membri è caratterizzata, infatti, da una pluralità di situazioni, assai diverse fra loro, con una gamma di sfumature che vanno dalla assoluta marginalità delle assemblee parlamentari francesi fino, come già detto, al ruolo dominante dei parlamenti danese e britannico, passando per un'ampia varietà di situazioni intermedie.

Questa pluralità di modelli dipende, essenzialmente, da due concomitanti fattori giuridico-costituzionali.

Il primo è rappresentato dalla constatazione che, prima dell'avvio del processo di riforma dei Trattati europei, il problema della partecipazione del parlamento nazionale alle decisioni politiche assunte in ambito comunitario è stato percepito come un problema di diritto costituzionale interno.

Il diritto europeo si è limitato ad un intervento minimalista diretto a favorire e sostenere le scelte che ciascuno Stato membro liberamente intendeva sviluppare, soprattutto attraverso gli obblighi di informazione. Ne è prova il fatto che nelle stesse dichiarazioni del Trattato di Maastricht e nei Protocolli del Trattato di Amsterdam non si riscontra alcuna traccia di poteri di risoluzione, di riserva d'esame o di mandato vincolante nei confronti dei governi nazionali. L'ordinamento europeo, all'epoca, si preoccupò solo di stabilire il principio secondo cui i parlamenti nazionali devono essere adeguatamente informati in ordine a quanto accade in Europa.

Il secondo fattore è sicuramente da ricollegarsi alle diverse forme di governo che caratterizzano i singoli ordinamenti costituzionali nazionali. Anche se la maggioranza degli studiosi del diritto costituzionale comparato tende ad assimilare tutte le forme di governo degli Stati europei, riconducendole alla comune matrice parlamentare, distinguendo, semmai, solo le più vistose varianti del semipresidenzialismo, a mio avviso, è, in verità, improprio accomunare il sistema delle istituzioni politiche in un unico modello europeo: cosa hanno davvero in comune, infatti, il sistema dei paesi nordici e quello spagnolo? E ancora: come è possibile ricondurre in un unico modello il parlamentarismo tedesco, quello britannico e quello italiano?

Secondo lo storico insegnamento di George Burdeau, le forme di governo, ed in particolare quella parlamentare, essendo fortemente caratterizzate dal sistema dei partiti e dal sistema elettorale, sono connotate da quelle virtù di "souplesse et adaptation" che le rendono estremamente permeabili all'ambiente politico in cui operano. Da qui, l'ampia varietà dei rapporti di dipendenza politica tra governi e parlamenti nazionali che, inevitabilmente, si riverberano sull'ampiezza dei poteri di indirizzo e di controllo riconosciuti ai parlamenti nazionali in relazione alle politiche europee.

Tuttavia, è possibile individuare un comune denominatore tra i diversi modelli di partecipazione parlamentare agli affari europei.

Infatti, strumenti come i poteri di osservazione e di risoluzione, così come sono stati configurati all'interno dei vari ordinamenti nazionali, tendono tutti ad operare sul piano della funzione legislativa, erosa dal processo di integrazione europea.
Nel tentativo di restituire ai parlamenti nazionali le funzioni originarie, ogni ordinamento ha preferito incidere sulla fase ascendente del processo di produzione normativa europea così da ritagliare, per gli stessi parlamenti, tempi e spazi di intervento.

Tuttavia, in questa scelta sono racchiusi tutti i limiti delle Costituzioni e degli ordinamenti nazionali che, non potendo più attribuire la potestà di produzione legislativa europea ai propri parlamenti, possono solo far svolgere a quest'ultimi, per utilizzare un'efficace definizione di Philip Norton, una funzione di "law influencing legislature", tramite l'azione sui propri governi nazionali, piuttosto che una funzione di "law making legislature".

In ogni caso, lo spazio politico europeo continua a rappresentare un'arena polidimensionale, altamente competitiva e soggetta a rapidi mutamenti negli equilibri interistituzionali. Per mantenere rilevanza nei processi decisionali europei i parlamenti nazionali debbono giocare contemporaneamente su tutte le dimensioni di questo campo d'azione, senza trascurarne alcuna. Ad esempio, debbono assumere l'iniziativa nei confronti dei governi nazionali attraverso l'esercizio di nuovi strumenti di indirizzo e di controllo rivolti alla formazione delle politiche e alla misurazione dei loro risultati.

Inevitabilmente, la necessità di rendere più democratica ed incisiva l'architettura costituzionale europea richiede che i parlamenti nazionali siano maggiormente coinvolti, all'interno dell'Unione Europea, nel processo di attuazione del principio di sussidiarietà.

In ogni caso, sull'annosa questione del deficit democratico, anche il maggiore coinvolgimento delle assemblee legislative nazionali rischia, di fatto, di non produrre un diretto e più sicuro giovamento agli interessi dell'Unione, ed ai modi della loro regolazione in ambito sovranazionale, se è vero che le stesse assemblee, tanto isolatamente quanto nel loro insieme, non sono ancora in grado di soddisfare pienamente gli interessi sovranazionali, ma soltanto quelli che sono quotidianamente chiamate ad incarnare.

Malgrado, infatti, i complicati e tortuosi passaggi procedimentali cui gli atti dell'Unione (specie legislativi) sono obbligati a sottostare prima di venire alla luce, in seno ai quali la "partecipazione" degli operatori istituzionali sia interni che esterni all'Unione è ampiamente assicurata, l'elaborazione degli atti stessi non ha luogo nei modi adeguati e congeniali agli interessi sovranazionali.

La verità, allora, se vogliamo essere intellettualmente onesti, è che solo l'inserimento stabile nei circuiti decisionali di soggetti rappresentativi della società potrebbe giovare allo scopo.

Ma, a tale riguardo, le carenze denunziate, in Europa, da partiti, sindacati e formazioni sociali in genere ci dicono giustamente, e ancora una volta, che è il demos europeo che va costruito e che, pertanto, è nel tessuto sociale, prima ancora che nelle istituzioni, che vanno apportate le più incisive innovazioni in vista del conseguimento dello scopo. Altrimenti, come osserva acutamente Giuliano Amato, "rischiamo di edificare o restaurare le chiese, ma di non poter dare la fede a chi non ce l'ha; ed una chiesa senza Christi fideles è condannata a restare vuota".

Sotto questo profilo, pertanto, occorre smascherare l'alibi di quanti, a più voce, hanno dichiarato che, fino a quando non prenderà forma la necessaria maturazione, in seno agli strati sociali più profondi, dell'idea di Europa unita e, conformemente a questa, non si costituiranno in modo spontaneo le forme associative adeguate alla sua realizzazione, non ha senso battersi per l'avvio di un ulteriore processo di cambiamento nelle istituzioni e di avanzamento nell'integrazione.

E' questa, in altri termini, la stessa obiezione di coloro che si oppongono ad una "costituzionalizzazione", optimo iure, dell'Unione, facendo notare che, in un'Europa unita fondata sulla logica del mercato e dominata in modo ossessivo dai governi, essa (vale a dire la "costituzionalizzazione" dell'Unione) non giova alla causa né delle Costituzioni nazionali, né dei cittadini.

A mio avviso, occorre non farsi troppo condizionare da questo tipo di ragionamento vizioso, nella profonda consapevolezza che istituzioni adeguatamente rigenerate possono far maturare e radicare nella società il demos europeo, così come la crescita di quest'ultimo può, per parte sua, dare una spinta vigorosa e decisiva per i cambiamenti istituzionali.

Del resto, come ci insegna Ralf Dahrendorf, nella relazione tra il "demos" e la democrazia tutto sta cambiando. E non solo nelle strutture politiche sovranazionali, ma anche all'interno degli Stati-Nazione, nei nostri sistemi politici.

"Siamo entrati - per usare le sue stesse parole - in un territorio sicuramente nuovo, che potremmo definire, usando il titolo di un pamphlet di Colin Crouch, la ?post-democrazia'. E' evidente che i metodi tradizionali, dai comizi ai Parlamenti, dai partiti ai giornali, non soddisfano più i bisogni della decisione democratica. Ma il problema del futuro della democrazia resta la democrazia, e cioè come dare più voce al popolo".

Da questo punto di vista, il nuovo Trattato di Lisbona, ratificato all'unanimità dal Parlamento italiano, e da altri 24 Parlamenti degli Stati membri, compie un apprezzabile salto di qualità nella direzione auspicata. Ne è prova il fatto che il Trattato, pur con i suoi limiti, introduce significative novità per le prospettive dell'Unione stessa.

Oltre ad operare, infatti, una forte semplificazione della struttura istituzionale e delle procedure decisionali, attraverso una più chiara ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri, il Trattato introduce alcune disposizioni riguardanti la partecipazione popolare, specie per il tramite delle formazioni sociali, che costituiscono il vero "banco di prova" per il consolidamento di un idem sentire de re pubblica autenticamente sovranazionale.

Queste disposizioni, come quelle che attengono alle ampie consultazioni che la Commissione è chiamata a svolgere in occasione dell'esercizio dei suoi poteri di proposta, riconoscono, espressamente, per la prima volta, un ruolo dei cittadini e dei corpi intermedi nella formazione delle politiche e della normativa dell'Unione Europea.

Al di là dell'impatto che esse avranno, si tratta di un mutamento oggettivo nella prospettiva stessa del processo di integrazione europea, coerente con la ridefinizione di valori ed obiettivi condivisi da tutti i Paesi che hanno ratificato il nuovo Trattato.

Tutto questo, però, evidentemente non basta!

Lo stesso Parlamento europeo, che ha acquisito spazi importanti di codecisione, nonché di dibattito, condizionando anche la formazione e persino la durata in carica della Commissione europea, non riesce a compensare il deficit democratico dell'Unione, ormai ufficialmente sanzionato dall'alea di ogni referendum sui temi europei.

E né, allo stato attuale, convincono fino in fondo le interessanti tesi, sostenute anche in Italia da alcuni autorevoli studiosi soprattutto del diritto internazionale (come Gian Luigi Tosato), secondo cui per rilanciare l'Europa in crisi occorre valorizzare ulteriormente la flessibilità, vale a dire un modello di Unione in cui non tutti i membri sono coinvolti sempre e in egual misura nel processo di integrazione.

La flessibilità, infatti, in quanto tale, a prescindere dal modo in cui si realizza, incontra alcune ragionevoli obiezioni di principio. Le si imputa, in primo luogo, di essere incompatibile con l'ordine costituzionale dell'Unione, fondato sui princìpi di unità e di uniformità e su quelli connessi di uguaglianza, solidarietà, democrazia e legalità.

Essa, in quanto apportatrice di regimi differenziati, si porrebbe, quindi, in irrimediabile contrasto con tali princìpi ed assumerebbe una carica disgregatrice nei confronti dei valori fondanti dell'Unione.

Sul piano poi più squisitamente politico, la flessibilità nasconderebbe un disegno egemonico degli Stati più grandi, che se ne vogliono servire per riappropriarsi del potere perduto a seguito dei vari allargamenti dell'Unione. In tal modo, costituirebbe strumento di discriminazione fra gli Stati membri, fra quelli che prendono le decisioni ("decision makers") e quelli che le subiscono ("decision takers").

In ragione di ciò, continuo a ritenere che, per uscire dalla fase acuta di crisi che stiamo attraversando, occorra, in primo luogo, comprendere che la vera e grande "emergenza" di cui soffre l'Europa è rappresentata dalla mancanza di un'idea forte in grado di sedimentare, nella cultura dei popoli, lo "spirito costituente" alla base del processo di integrazione europea.

Nell'Europa dei "Padri fondatori", l'ideale comune coincideva con la necessità di garantire il mantenimento della pace. Successivamente, a partire dagli anni '80, l'"idea forte" ruotava, invece, intorno alla prospettiva della riunificazione o, meglio, del ritorno all'unità del continente europeo.

Nella fase che viviamo oggi cresce la richiesta di Europa che proviene dal mondo. Cresce, soprattutto, nella misura in cui aumentano le sfide che stanno dinanzi a noi. Da quelle che investono i nostri sistemi economici e sociali per effetto della globalizzazione e di un radicale mutamento negli equilibri mondiali a quelle che attengono alle emergenze ambientali ed energetiche, cui non è possibile sfuggire. Dalle sfide che impongono una lotta serrata alle disuguaglianze a quelle, infine, che discendono dalle varie aree di crisi e dai focolai di guerra, così come dalle minacce di un terrorismo internazionale sempre più aggressivo.

Orbene, le dimensioni di questi ed altri problemi sono forse tali che ad essi si possa far fronte solo sul piano nazionale? Solo con l'attuazione di politiche nazionali? Ciascun Paese d'Europa per proprio conto, con le proprie forze? Credo che nessuno possa seriamente sostenerlo!

E allora bisogna trarne le conseguenze: occorre agire secondo il lungimirante insegnamento di Jean Monnet che, concludendo nel 1976 le sue memorie, scrisse:

"Non possiamo fermarci quando attorno a noi tutto è in movimento. Come ieri le nostre province, oggi i nostri popoli debbono imparare a vivere insieme sotto regole e istituzioni liberamente consentite se essi vogliono attingere le dimensioni necessarie al loro progresso e conservare la padronanza del loro destino. Le nazioni sovrane del passato non sono più il quadro in cui possano risolversi i problemi del presente".

Parole che, già all'epoca, alludevano all'esigenza di realizzare non una semplice collaborazione o una tradizionale alleanza tra Stati sovrani, bensì una vera integrazione che desse luogo a forme di sovranità condivisa attraverso poteri conferiti dagli Stati nazionali a istituzioni sovranazionali.

Solo così si potrà incidere sulle relazioni internazionali e sullo sviluppo globale.

Solo così sarà possibile evitare il declino del ruolo storico del nostro continente e delle nostre istituzioni democratiche, siano esse quelle nazionali o quelle dell'Unione Europea!