Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

29/06/2009

Madrid - Intervento in occasione dell'incontro organizzato da "Nueva Economia Forum"

La tempesta finanziaria originata negli Stati Uniti si è rapidamente propagata a livello internazionale con caratteristiche di intensità e virulenza che testimoniano come, in contesti ormai globalizzati e ad elevato grado di interdipendenza, i singoli fenomeni patologici possano amplificarsi e degenerare, anche in campo economico, in vere e proprie "pandemie".

Con analoga rapidità il "contagio", che ha investito insieme a tutti i Paesi sviluppati, anche quelli con economie più deboli, si è esteso all'economia reale, alimentato anche dallo strutturale deficit di conoscenza e di informazioni sulla situazione patrimoniale di banche ed operatori finanziari, nonché dalla difficoltà di formulare previsioni ragionevolmente affidabili sulla durata e sui possibili esiti della crisi.

Pur tra errori e sbandamenti iniziali, le iniziative dei governi e delle istituzioni internazionali sembrano aver quanto meno esorcizzato lo spettro di un'epocale collasso del sistema bancario e creato le condizioni minime indispensabili per una stabilizzazione dei mercati finanziari e una ripresa economica.

In particolare, l'Europa si è fatta carico, nel Consiglio europeo del 18 giugno scorso, di delineare una nuova configurazione dei poteri di vigilanza che richiede, oltre alla necessaria attuazione di un più stretto coordinamento tra le autorità nazionali, l'individuazione di un organismo europeo cui spetterebbe di esercitare tali poteri in chiave macro-prudenziale, in relazione a tutti i profili problematici suscettibili di determinare rischi sistemici.

Allo stesso tempo, l'Europa si è fatta promotrice, nell'ambito dell'ultimo G-20 a Londra, di una serie di iniziative da coordinare con i maggiori partners, a cominciare dagli Stati Uniti, per il potenziamento degli strumenti e delle istituzioni per la governance dell'economia mondiale, con particolare riguardo al rafforzamento della capicità di intervento del Fondo monetario internazionale.


E' stato già detto che le crisi, specie se particolarmente gravi, possono essere anche un'opportunità per chi abbia l'ambizione di cogliere, al di là degli aspetti negativi, anche i segnali di quello che verrà dopo, vale a dire i possibili cambiamenti che si prefigurano e le nuove sfide che saremo chiamati ad affrontare.

Un primo vantaggio, da questo punto di vista, è costituito dal fatto che la crisi ha costretto tutti, a cominciare da alcuni degli economisti più accreditati, a compiere uno sforzo di analisi e di approfondimento rimettendo in discussione paradigmi e chiavi di lettura che, fino a poco tempo fa, sembravano ampiamente consolidate.

In generale, è emerso che non esistono ricette miracolose e che il primo compito di tutti, ivi comprese le istituzioni, è proprio quello di analizzare la situazione con senso di responsabilità e rigore scientifico, evitando soluzioni affrettate e giudizi sommari.

In questo senso, va respinta la tesi semplicistica per cui l'attuale situazione non farebbe che confermare una presunta, ma non dimostrata regola costante della storia del capitalismo moderno per cui anche nelle fasi di crescita sarebbero riscontrabili i sintomi latenti di crisi destinate periodicamente ad esplodere; insomma, saremmo in presenza di difetti strutturali delle economie di mercato.

Questa tesi, quando non è ispirata da pregiudizi ideologici, viene strumentalmente sostenuta per affermare la necessità di massicci e generalizzati interventi pubblici nell'attività economica, sia in termini di incremento stabile e non contingente della spesa statale, sia con riferimento ad una più marcata presenza, diretta o indiretta, dell'azionista pubblico nelle compagini societarie.

E' innegabile che la storia del capitalismo è contrassegnata dall'alternanza di cicli congiunturali e dal periodico riproporsi di crisi.

Tuttavia, è altrettanto vero che le crisi, quando anche hanno segnato un temporaneo arretramento degli andamenti macroeconomici, non hanno pregiudicato la tendenza costante, nel medio e lungo termine, alla crescita, con l'adozione di nuove tecniche e di più avanzati processi produttivi.

Così è stato allorché le crisi agrarie hanno contribuito a segnare il passaggio da economie più tradizionali ad economie fondate sulla prevalenza del settore secondario; così è più recentemente avvenuto quando alla caduta del tasso generale di produttività si è risposto con il massiccio ricorso a nuove forme di tecnologia informatica.

Il terreno su cui si è manifestata la crisi in atto sembra doversi individuare nello scarto esistente tra lo sviluppo impetuoso del comparto finanziario e la fragilità dell'assetto della sua regolamentazione, con particolare riferimento alla sottovalutazione dei rischi endemici.

Da più parti è stato acutamente segnalato che anche una più puntuale e coerente attuazione delle regole già in essere avrebbe forse consentito di prevenire alcuni degli episodi più gravi. Sotto questo profilo, non si può escludere che, da parte delle competenti autorità di vigilanza, via sia stato un eccesso di fiducia nella correttezza degli operatori che può aver indotto ad "abbassare la guardia", a scapito della corretta applicazione della disciplina adottata. Si è prodotto uno squilibrio sempre più vistoso, per cui l'assenza di adeguati presìdi a tutela della solidità patrimoniale degli operatori finanziari a fronte dei volumi crescenti delle attività intermediate ha ingenerato in molti l'illusione che si potesse creare ricchezza ponendo in essere operazioni meramente speculative o di spericolata ingegneria finanziaria, senza alcun legame con gli andamenti dell'economia reale.

La divaricazione tra l'andamento dei tassi di crescita dei mercati finanziari e l'economia reale ha prodotto gravi conseguenze sperequative nella fase di distribuzione del reddito per cui, a fronte di repentini e consistenti arricchimenti creati spesso artificialmente dai mercati finanziari, si è registrato una crescita assai contenuta, se non addirittura una vera e propria stagnazione, delle quote di reddito dei produttori (di imprese e di lavoratori).

Le degenerazioni causate da tale squilibrio non possono dunque essere imputate al mercato e alla concorrenza, ma a quell'insieme di fattori distorsivi che hanno seriamente alterato quelle condizioni essenziali ai fini del loro corretto funzionamento. Diversamente, finiremmo per confondere cause e sintomi, rischiando di aggravare ulteriormente una situazione già difficile e densa di incognite.

Avere ben chiaro come stanno le cose appare oggi tanto più rilevante alla luce dei cambiamenti che la crisi stessa ha determinato, in termini di assetto e prospettive, nel sistema di rapporti tra Stato e mercato.

Le necessità dettate dalla fase emergenziale hanno prodotto, infatti, una significativa inversione di tendenza, dilatando ovunque, e in modo assai significativo, la presenza pubblica nell'economia come risposta immediata, e senza alternative, alle esigenze di stabilità dei sistemi bancari, di tutela del risparmio, di protezione sociale e di sostegno alle famiglie e alle imprese.

Non si deve, tuttavia, cadere nell'errore di trarre la conclusione per cui la dilatazione della spesa pubblica costituirebbe un rimedio, se non l'unico, valido in tutte le fasi congiunturali, per assicurare, allo stesso tempo, stabilità e crescita sul piano macroeconomico.

Occorre assolutamente impedire la rinuncia alla politica di risanamento finanziario; l'eccesso di indebitamento pubblico, piuttosto che compensare le carenze del settore privato, di cui la vicenda "sub-prime" costituisce l'esempio più eclatante, ne accentuerebbe gli effetti distorsivi.

In sostanza, le responsabilità della crisi non possono essere attribuite interamente alle dinamiche del mercato; è la politica, infatti, che ha consapevolmente rinunciato a svolgere quel ruolo di contemperamento degli interessi e di ricerca di soluzioni eque e finanziariamente sostenibili che le spettano e che non possono essere demandate all'autoregolamentazione.

L'economia di mercato continua a manifestare la sua capacità, come ci ha insegnato il grande economista austriaco Joseph Schumpeter, di costruire il nuovo e di creare le condizioni per un vero progresso civile ed economico. Questa forza creatrice non si è persa e non verrà meno neanche con la crisi in corso.

Il problema è piuttosto di definire un quadro di regole effettivamente applicabili volte ad evitare che soltanto alcuni approfittino dei benefici derivanti da un sistema di libero mercato e che gli abusi di pochi si traducano in un danno per molti.

In questa prospettiva, si deve inquadrare il rapporto tra Stato ed economia privata e, più in generale, tra sfera pubblica e mercato.

Affinché le regole funzionino davvero è indispensabile che si applichino senza eccezioni e che abbiano una valenza generale.

Tra le regole, carattere prioritario deve essere attribuito alla composizione dei diversi interessi e alla tutela dei più deboli. Sotto questo profilo, ci assiste proprio quel modello di economia sociale di mercato che rappresenta l'architrave portante dell'evoluzione dei sistemi democratici a fondamento dei quali risiede la stessa concezione di sviluppo economico.

Qui non si tratta di scegliere tra individualismo di matrice utilitarista e una prospettiva di stampo funzionalista. Piuttosto, si tratta di affermare che la dimensione pubblica, in primo luogo attraverso un sistema di regole efficaci, non può fare a meno di prevenire o, comunque, di offrire gli strumenti per regolare in termini equi i potenziali conflitti di interesse e sociali che l'esercizio dell'attività economica può ingenerare.

L'economia sociale di mercato rappresenta anche una delle forme più concrete e, al contempo, più complesse di traduzione del principio di sussidiarietà che altro non è che la ricerca di un maggiore equilibrio tra ruolo che sono chiamati a svolgere, rispettivamente, la sfera pubblica, il mercato e il cosiddetto "terzo settore".

Il secondo requisito di un sistema efficace è che, quando si tratti di fenomeni che eccedono i confini delle singole entità nazionali, esso sia il più possibile condiviso a livello internazionale.

Troppo spesso i movimenti di capitale a livello internazionale prescindono dalla valutazione delle prospettive di redditività nell'investimento produttivo per essere interamente dettati dalla comparazione dei possibili vantaggi assicurati da tassazioni più favorevoli o da più blandi sistemi di controllo.

Dobbiamo sempre ricordare che nessuno Stato oggi è in grado di fronteggiare da solo fenomeni di portata globale come i flussi dell'economia finanziaria.

La tentazione di fare da sé è, in realtà, molto forte. La più evidente dimostrazione è la tendenza di alcuni paesi di ricorrere massicciamente agli aiuti di Stato, al di fuori del rispetto delle regole comuni definite a livello europeo, per sostenere specifici comparti produttivi o direttamente singole imprese nazionali.

In questo modo, tuttavia, si finisce per alimentare una concorrenza sleale che non arreca alcun contributo duraturo alla solidità e alla competitività dei sistemi produttivi.

E' innegabile che la crisi assume caratteristiche parzialmente differenti in ciascun Paese.

Il caso dell'Italia presenta alcune particolarità in quanto nel mio Paese il sistema bancario è stato meno pesantemente investito dalla crisi finanziaria.

Recenti statistiche e previsioni economiche indicano l'Italia tra i Paesi meno duramente colpiti dallo tsunami finanziario e dalle sue ricadute sull'economia reale.

Un minore grado di internazionalizzazione del nostro sistema bancario, la persistenza di un'elevata propensione media al risparmio e uno sviluppo relativamente contenuto del credito al consumo, hanno certamente contribuito a limitare i danni e ad evitare il ricorso a massicce misure emergenziali di intervento pubblico.

L'OCSE ci colloca, insieme a Francia e Cina, tra i Paesi che per primi potrebbero tornare a crescere e dati incoraggianti emergono anche da alcuni rapporti ufficiali (ad es., Istat) che segnalano come, nei primi mesi del 2009, circa un terzo delle imprese italiane, prevalentemente di piccola e media dimensione, abbia addirittura aumentato le proprie esportazioni rispetto allo stesso periodo dell'anno precedente. Un dato, questo, in controtendenza rispetto agli altri paesi dell'Unione.

Tutto ciò, lo ripeto, è essenzialmente dipeso dalla maggiore oculatezza che ha tradizionalmente contraddistinto il sistema italiano nell'erogazione del credito così come dalla più bassa propensione dei privati a ricorrere all'indebitamento.

Tuttavia, questa peculiarità rischia, paradossalmente, di produrre alla lunga conseguenze incerte sull'andamento dell'economia e sulle prospettive di ripresa.

Infatti, la prassi della rigorosa valutazione del credito sta inducendo le banche a limitare l'erogazione di finanziamenti alle imprese già colpite, in conseguenza della crisi e della riduzione della domanda, dalla contrazione degli ordinativi e, conseguentemente, della liquidità.

L'Italia dovrà anche proseguire i suoi sforzi per consolidare i progressi già in parte realizzati in occasione di una maggiore liberalizzazione ed apertura concorrenziale dei mercati, mettendo al riparo quanto già acquisito da inopportuni tentativi di restaurazione.

Nel nostro Paese si impongono serie ed efficaci politiche di riforma in settori pubblici strategici, come l'istruzione, la ricerca scientifica e la giustizia civile, da cui, in larga misura, dipendono fattori essenziali e determinanti della produttività e della crescita dell'economia nazionale, quali la disponibilità e la qualità del capitale umano, il tasso di partecipazione ai processi produttivi ed il livello di mobilità sociale, l'effettiva tutela dei diritti di proprietà e la certezza ed efficienza delle transazioni economiche.

Allo stesso tempo, ritengo che l'Italia, proprio in ragione delle peculiari caratteristiche del suo sistema economico, contrassegnato da una notevole flessibilità e capacità di adattamento, con particolare riguardo alla diffusione di piccole e medie imprese, oltre che alla ridotta esposizione debitoria del settore privato, potrebbe svolgere un ruolo propulsivo per promuovere interventi più efficaci e coordinati sia a livello europeo che a livello internazionale.

Mi riferisco, in particolare, alla necessità di recuperare un più intenso raccordo tra i maggiori e più vicini partners dell'Unione europea, in particolare con Francia, Germania e Spagna, per individuare soluzioni condivise su cui sollecitare gli altri paesi. Penso in primo luogo, ma non esclusivamente, alla disciplina dei mercati finanziari e dei poteri di vigilanza.

Non meno importante è il lavoro da svolgere per un regime equilibrato per quanto riguarda il commercio internazionale, che impedisca le forme più marcate di competizione sleale, così come l'attenuazione della esasperata concorrenza fiscale che sino ad ora ha prodotto l'effetto assai grave di concentrare la tassazione sul fattore lavoro a vantaggio della rendita e del capitale.

Né può trascurarsi la necessità di un nuovo e più equilibrato ordine monetario che riduca le tentazioni di ricorrere a svalutazioni per sostenere artificiosamente la concorrenzialità di singoli sistemi produttivi.

Tale ultimo aspetto assume particolare interesse per i Paesi europei che, con l'adozione dell'euro, hanno rinunciato a qualunque margine di flessibilità di cui in passato avevano goduto le rispettive monete; va poi considerato che lo stesso euro ha dimostrato di possedere tutti i requisiti per vedere accresciuto il proprio ruolo come moneta di riserva negli scambi internazionali.

L'interesse nazionale non può essere perseguito fino al punto di tradursi in un egoismo irragionevole e alla fine autolesionista. L'impatto positivo che una politica concertata può produrre supera di gran lunga il vantaggio che può essere assicurato da un singolo Paese, a parità di risorse impegnate. Ovviamente, le stesse considerazioni valgano per la definizione di un quadro di regolazione applicabile per tutti.

Il risultato, in termini di recupero della credibilità del sistema finanziario nel suo complesso, e di affidabilità nei confronti dei risparmiatori, sarebbe evidente.

Questo è un patrimonio che non dobbiamo svilire; può, invece, costituire un fattore di orgoglio e di forza che deve indurre l'Europa a rivendicare un ruolo attivo nel disegno di una nuova governance mondiale che ci permetta di uscire dalla crisi in condizioni migliori dal punto di vista delle prospettive di uno sviluppo duraturo ed equilibrato.