Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

18/09/2009

Cento - Convegno "Come muoversi tra etica e banche" organizzato dalla fondazione Cassa di Risparmio di Cento

La storia insegna che il rapporto tra l'economia, la finanza e l'etica è stato sempre un rapporto profondamente dialettico e, a volte, conflittuale. Da una parte, infatti, il termine "etica" è polimorfo, vasto, cambia significato nel tempo e in relazione a contesti sociali differenti. Dall'altra parte, di economia e, soprattutto, di finanza si parla male o bene sin da tempi remoti. Da Aristotele a Bertold Brecht, che condannano l'antica attribuzione usuraia di banche e banchieri, fino ad Amartya Kumar Sen, economista indiano dei nostri giorni (Premio Nobel per l'economia nel 1998), che, contrapponendosi a numerosi studi teorici, sostiene il "ruolo sociale altamente positivo che la finanza assolve ... Un ruolo creativo che è stato una leva potente anche per la cultura e la scienza".

Senza fare una digressione storico-teorica, possiamo comunque dire che il ruolo della finanza è positivo o negativo non tanto per la sua essenza, quanto per l'utilizzo che ne fa "l'uomo in quanto soggetto economico".

Dell'uso positivo della finanza si sono occupati diversi studiosi, in particolare dal momento in cui il cosiddetto "Terzo settore" si è affermato come coprotagonista delle politiche sociali e ha visto svilupparsi al suo interno l'esperienza dell'erogazione di servizi attraverso forme imprenditoriali. Servizi rivolti, soprattutto, alle fasce deboli della comunità, sperimentando innovativi modelli di intervento per la promozione dell'inclusione sociale e coinvolgendo le istituzioni locali in strategie operative basate sul principio della sussidiarietà. La finanza "etica", infatti, è concepita come espressione del motore finanziario a supporto del "no profit" e come promotrice nella diffusione dei valori propri dell'economia sociale di mercato.

La finanza etica propone un vero e proprio approccio alternativo all'idea di finanza tradizionalmente intesa. Come è noto, quest'ultima concerne gli scambi di capitali tra operatori in deficit che abbisognano di finanziamenti per la propria attività produttiva. La tendenza in atto negli ultimi anni, tuttavia, evidenzia come l'economia reale si stia sempre più "finanziarizzando", orientandosi, cioè, verso il profitto derivante esclusivamente dal trasferimento di capitali da un luogo all'altro del pianeta, senza curarsi degli effetti che il medesimo determina sull'economia reale, rappresentata dalla produzione e dalla occupazione..

La finanza etica, contrariamente, non rifiuta i meccanismi di base della finanza, quali l'intermediazione, la raccolta, il prestito, l'efficienza nelle sue diverse accezioni; tuttavia, si propone di riformularne la gerarchia dei valori di riferimento: la persona prima del capitale, il progetto prima del patrimonio, l'equa remunerazione prima della speculazione. Quindi, oltre al tradizionale rapporto "rischio/rendimento", la finanza cosiddetta "etica" presta attenzione a un'altra variabile costituita dal riflesso che l'attività finanziaria ha sull'economia reale, modificando in senso socio-ambientale gli stessi comportamenti finanziari e, in particolare, ponendosi come obiettivo il finanziamento di tutte quelle attività che si muovono in una prospettiva di sviluppo sostenibile.

Di fronte a questa visione, c'è da chiedersi quale ruolo debba rivestire la finanza etica in tempi di crisi macro-economiche particolarmente acute, non interamente riconducibili alla fisiologica alternanza di diverse fasi cicliche.

Al riguardo, le dimensioni mondiali della crisi finanziaria e le conseguenze non soltanto economiche, ma soprattutto sociali che essa sta provocando, hanno innescato forti aspettative da parte dell'opinione pubblica affinché si recuperi una dimensione etica nello svolgimento in concreto dell'attività economica.

Le istituzioni politiche hanno cercato, non sempre con la necessaria tempestività, di farsi interpreti della richiesta di una netta inversione di tendenza per ricondurre le dinamiche dell'economia a regole e a principi generali in qualche modo definibili in termini di "morale".

Lo stanziamento di ingenti risorse finanziarie per il salvataggio di alcune delle banche internazionali più importanti ha dimostrato quanto forte sia stato il mutamento di prospettiva registratosi sul terreno economico e che può riassumersi nel drastico cambiamento nell'equilibrio tra mercato e sfera pubblica.

Negli anni scorsi si è verificata una generalizzata elusione, quando non si è trattato di un vero e proprio rifiuto, delle regole e dei vincoli esistenti; in larghi comparti del sistema economico e finanziario, era maturata la pretesa di poter fare da sé e di dover rispondere solo alle logiche proprie del mercato.

Ciò che preoccupa di più è che questa convinzione ha accomunato, oltre che tanti (troppi) operatori economici, le stesse autorità chiamate istituzionalmente a svolgere funzioni di vigilanza.

E' bene ricordare che queste funzioni non si limitano ai soli poteri sanzionatori, ma implicano la capacità di monitorare attentamente i comportamenti tenuti dai soggetti vigilati e prevenire le violazioni più gravi, nonché la capacità di promuovere l'aggiornamento del quadro normativo alla luce dell'evoluzione delle dinamiche di mercati.

Negli ultimi anni si è adottato, fortunatamente non da tutti gli organismi competenti a livello internazionale, ma purtroppo da alcuni dei più autorevoli, un approccio completamente opposto.

In sostanza, proprio l'accelerazione dei processi evolutivi è stata addotta a pretesto per attenuare i controlli ed allentare le regole, nella fallace convinzione che l'allargamento dei mercati fosse di per sé sufficiente a distribuire in maniera più efficace i rischi.

Ad una parziale deregolamentazione si è poi aggiunta la propensione sempre più forte di alcuni operatori economici ad inventare continuamente attività ed iniziative che sfuggissero a qualunque disciplina, che si muovessero in una sorta di limbo, al di fuori da vincoli e limitazioni.

A sostenere culturalmente questi atteggiamenti è stata la tesi, nettamente predominante nella dottrina economica, per cui la maturità ormai raggiunta dalla scienza economica giustificava la rivendicazione della piena autonomia delle sue logiche non riconducibili, neanche indirettamente, a principi e criteri più generali, men che mai di carattere morale.

La scienza economica è così diventata una disciplina troppo autoreferenziale, tutta compresa in tecnicismi esasperati e del tutto avulsi dalla realtà concreta.

Ciò ha indotto ad esaltare il ruolo della autoregolamentazione come forma particolarmente evoluta di disciplina ispirata alle logiche proprie di un mondo, quello dell'economia finanziaria, sempre più sofisticato.

E' di tutta evidenza che il rafforzamento dell'autoregolamentazione non è di per sé un elemento negativo a condizione, tuttavia, che negli operatori vi sia la capacità di assumere pienamente le proprie responsabilità e di adottare comportamenti che non siano ispirati a logiche esasperatamente egoistiche ed opportunistiche.

Quando ciò non avviene, come l'esperienza recente ha dimostrato, l'attenuazione dei vincoli e dei poteri di regolamentazione e di vigilanza da parte delle autorità pubbliche e l'ampliamento dello spazio di discrezionalità demandato agli operatori economici finisce per ampliare le occasioni per abusi e scorrettezze. Cosa che è puntualmente avvenuta.

Prova ne sia il fatto che anche istituzioni finanziarie prestigiose hanno continuato, contro ogni logica aritmetica, a promettere ai propri clienti rendimenti sempre superiori alla media. E' stata solo incompetenza? O, invece, alla radice del deficit etico del capitalismo contemporaneo c'è l'inversione della gerarchia tra politica ed economia, che spesso diviene pura e semplice subordinazione della prima alla seconda?

La crescita impetuosa dell'economia finanziaria e, più in generale, la progressiva integrazione dei mercati attraverso la globalizzazione hanno accentuato le asimmetrie, generando posizioni di vantaggio e provocando così nuovi squilibri che i regolatori pubblici non hanno saputo o potuto prevedere e regolare adeguatamente.

In particolare, per quanto concerne specificamente il settore finanziario, la centralità assunta dall'obiettivo della massimizzazione dei profitti e dalla crescita della redditività ha indotto gli operatori a una spasmodica propensione al rischio e alla creazione incessante di prodotti innovativi sostenuta, in particolare, negli Stati Uniti, da politiche monetarie fortemente espansive.

Solo la gravità dell'ultima crisi ha indotto ad avviare una fase di drastico ripensamento delle logiche adottate in precedenza e in parte anche un'autocritica delle tesi sostenute per troppo tempo.

In particolare, è stata rimessa in discussione la sicurezza - diventata una forma di vero e proprio fondamentalismo di mercato - di una crescita continua e apparentemente ininterrotta e sono emerse le preoccupazioni sugli effetti distorsivi che una crescita di quel tipo può produrre soprattutto in termini di equità e di distribuzione del reddito.

Colpiscono, a questo riguardo, le profonde e da tutti condivisibili riflessioni svolte dal Papa nella sua recente Enciclica, "Caritas in veritate", in cui, nell'affrontare "a 360 gradi" il tema del rapporto tra etica ed economia, si afferma che "l'attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali medianti la semplice estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica. Pertanto, va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l'agire economico, a cui spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello politico, a cui spetterebbe di perseguire la giustizia mediante la ridistribuzione" (pag. 63 ss.). E ancora: "L'economia e la finanza, in quanto strumenti, possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa, ma l'uomo, la coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale. La sfera economica appartiene all'attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata eticamente. Uno dei rischi maggiori è senz'altro che l'impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per ridurre la sua valenza sociale. Bisogna evitare che il motivo per l'impiego di risorse finanziarie sia speculativo e ceda alla tentazione di ricercare solo il profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità dell'impresa a lungo termine, il suo puntuale servizio all'economia reale e l'attenzione alla promozione, in modo adeguato ed opportuno, di iniziative economiche anche in Paesi bisognosi di sviluppo" (pag. 69 ss.).

Le economie europee, e in particolare quella italiana, offrono alcuni elementi confortanti per un'attenta riflessione su questi temi.

Va, in primo luogo, ricordato che, in linea generale, i sistemi economici europei, con alcune eccezioni, tra cui la Gran Bretagna, hanno saputo salvaguardare le ragioni che avevano giustificato l'adozione di modelli ad economia mista in cui l'intervento pubblico non costituisce una eccezione tollerata, bensì un dato strutturale.

L'intervento pubblico non è costituito soltanto, come maliziosamente si è fatto credere dal costo imposto dalla classe politica per la sua "legittimazione", ma anche, e soprattutto, dallo strumento attraverso il quale si cerca di controllare alcune delle dinamiche spontanee del mercato sanzionandone i difetti e le potenziali anomalie, ma anche correggendone sistematicamente talune carenze.

L'intervento pubblico non significa necessariamente partecipazioni statali, ma anche capacità di verificare i comportamenti tenuti dai privati e la loro riconducibilità alle regole che intendono garantire la correttezza e la trasparenza, oltre che l'equo contemperamento dei diversi interessi coinvolti.

Qui si ripropone il valore di quel modello di economia sociale di mercato che rappresenta il frutto più maturo e proficuo dell'evoluzione delle democrazie europee nelle quali il riconoscimento dell'importanza della libera espressione delle potenzialità di innovazione e di crescita dello spirito imprenditoriale si coniuga con l'attenzione alla tutela dei soggetti più deboli, siano essi lavoratori, risparmiatori o consumatori.

Nella realtà, etica e profitto non sono in contrasto. Dal punto di vista teorico, l'approccio etico al capitalismo può rappresentare la via di soluzione della contrapposizione tra la dottrina del salario "come variabile indipendente" e la dottrina liberista di "salario come livello minimo di sussistenza stabilita dal mercato".

La visione di un capitalismo sorretto da principi etici sembra attualmente la più funzionale al raggiungimento del massimo profitto con il contemporaneo rispetto dei valori umani, e determina la possibilità di realizzare quello che Michael Novak (1933, vivente, filosofo statunitense, teorico dell'economia e studioso di scienze sociali) chiama "capitalismo democratico".

L'etica, infatti, non solo contrasta efficacemente gli aspetti negativi del capitalismo, ma consente uno sviluppo più armonico dell'economia, combattendo la dissipazione di risorse dovuta a fenomeni di corruzione e consentendo una giusta competizione globale.

Per quanto riguarda l'Italia, costituisce un elemento confortante il fatto che il nostro sistema bancario sia risultato comparativamente meno esposto ai rischi sistemici che, invece, hanno travolto alcune delle banche più importanti a livello internazionale.

Tale condizione è stata da alcuni attribuita a una presunta maggiore arretratezza del sistema creditizio nazionale, meno propenso alla sperimentazione delle forme più ardite di innovazione.

In realtà, nel caso italiano, sembrano aver giocato un ruolo importante due fattori, entrambi assai positivi e, quindi, da preservare anche nel prossimo futuro.

Il primo è costituito dalla maggiore capacità di valutare la solvibilità della clientela; il secondo, strettamente correlato al precedente, dalla persistenza di un rapporto stretto fra attività bancaria e sistema produttivo che investe i territori in cui le stesse imprese di credito si trovano ad operare.

Le banche italiane hanno conosciuto negli scorsi decenni un fortissimo processo evolutivo che ha portato fuori dalla sfera pubblica la stragrande maggioranza delle aziende di credito.

Il legislatore ha favorito questo processo che non si è limitato alla mera privatizzazione degli assetti proprietari, ma ha consentito di valorizzare la peculiarità dell'azienda bancaria attraverso la distinzione, operata con la cosiddetta legge "Amato-Carli" (la legge n. 218 del 1990), tra ente conferente e società conferitaria.

Il riconoscimento giuridico di distinti spazi di intervento delle aziende bancarie propriamente intese, da un lato, e delle cosiddette fondazioni, dall'altro, ha consentito al sistema nel suo complesso di compiere un importantissimo percorso di crescita non solo dimensionale, ma anche qualitativa.

Le banche hanno potuto recuperare notevoli margini dal punto di vista dell'efficienza operativa senza rinunciare, tuttavia, anche attraverso il ruolo svolto dalle fondazioni, ad una connessione con i territori di riferimento e con le esigenze dell'economia reale.

Anch'io sono della opinione che il riconoscimento del carattere imprenditoriale dell'attività creditizia non esclude la consapevolezza della funzione sociale che le imprese bancarie sono chiamate a svolgere.

Vi sono, infatti, talune peculiarità dell'attività creditizia che non smentiscono la sua natura di attività imprenditoriale, ma ne costituiscono un arricchimento.

Per le banche, più ancora che per tutte le altre attività economiche e produttive, deve valere la regola per cui occorre tutelare i diversi interessi e contemperarli con princìpi e obiettivi di carattere generale che non possono esaurirsi nel mero perseguimento della massimizzazione dei profitti.

Come si può ignorare il fatto che la prima ed essenziale funzione che le banche sono chiamate a svolgere in un sistema economico che operi secondo una proficua fisiologia è quella di garantire la migliore allocazione delle risorse raccolte tra i risparmiatori per il sostegno delle attività produttive? Questa funzione implica una duplice attività: quella di garantire adeguatamente gli interessi dei risparmiatori i quali si affidano alle banche confidando che esse non li espongano a rischi eccessivi e quella, non meno rilevante, della capacità che è richiesta alle stesse banche nella erogazione del credito, della valutazione della solvibilità del debitore.

Se la tutela del risparmio costituisce un principio fondamentale ed irrinunciabile che il nostro Costituente ha voluto esplicitamente annunciare nell'articolo 47 della Costituzione, non meno significativa è la funzione che le banche sono chiamate a svolgere nella valutazione del merito di credito.

Attraverso questa valutazione, che implica una conoscenza reale del debitore, che non si esaurisce nei dati contabili e che appare particolarmente delicata nel caso dell'Italia il cui sistema produttivo è costituito prevalentemente da piccole e medie imprese in cui l'elemento personale è decisivo, le banche devono svolgere un ruolo che non si esaurisce nella dimensione economica, ma risulta utile al sistema nel suo complesso.

Esse, infatti, in questo modo concorrono in misura decisiva a fornire gli elementi necessari per la valutazione della reputazione degli attori economici, della loro capacità di far fronte agli impegni assunti. In altri termini, attraverso questa attività le banche possono contribuire a garantire il rispetto di quelle regole comuni che hanno necessariamente una matrice etica. Correttezza, trasparenza, affidabilità non sono infatti meri requisiti tecnici di un mercato ben funzionante, ma concetti che traducono princìpi più generali.

La capacità delle banche di apprezzare la solvibilità del cliente è un fattore decisivo per la credibilità complessiva del sistema produttivo.

Per questo motivo è auspicabile che le banche utilizzino, per la concessione del credito, tutte le informazioni in loro possesso, superando l'approccio apersonale - basato esclusivamente su automatismi - in favore anche della fiducia e della conoscenza personali.

In quest'ottica acquista particolare importanza il radicamento territoriale del sistema bancario per lo sviluppo dei sistemi produttivi locali, ed anche dell'attività delle fondazioni finalizzata a scopi sociali. L'ultimo rapporto SVIMEZ ha segnalato la fragilità e inadeguatezza della rete creditizia meridionale. È, infatti, innegabile che la carenza della rete creditizia possa favorire - soprattutto in alcune regioni - forme di finanza "informali", se non addirittura illegali.

Gli istituti creditizi - ma in generale gli operatori economici - devono essere consapevoli della responsabilità cui sono chiamati soprattutto in un periodo di crisi. La collaborazione ed il dialogo, in particolare con le associazioni dei consumatori, acquistano oggi fondamentale importanza, rappresentando il consolidamento di un nuovo sistema di governance.

In sostanza, non intendo limitarmi a smentire la tesi per cui l'economia, specie quella finanziaria, può pretendere di operare secondo regole sue proprie, al di fuori da un quadro condiviso di principi e valori comuni. Voglio valorizzare la funzione decisiva che un sistema finanziario efficiente può svolgere nel consolidamento di comportamenti e pratiche ispirate alla correttezza, all'equità e alla trasparenza, intesa non solo quale obbligo di informazione, ma anche - e soprattutto - come diretta controllabilità di quanto dichiarato.

Il rispetto di regole etiche alimenta la fiducia delle controparti e, di conseguenza, favorisce una nuova realtà di mercato nella quale ambizioni imprenditoriali e solidarietà non si contrappongono, ma si integrano a vicenda.
Ma l'etica non può animare profondamente l'attività finanziaria provenendo dal di fuori del sistema, l'etica deve emergere dal suo interno. A tal proposito, si deve ricordare che sono sempre di più gli operatori economici che dichiarano di garantire condizioni di lavoro più umane, di ispirare le loro condotte a standard di comportamento etico-sociale, di contenere l'impatto ambientale, di non utilizzare manodopera minorile, ovvero di porre particolare attenzione alla qualità e alla sicurezza dei prodotti, utilizzando marchi internazionali per certificare la propria attività.

Infine, voglio sottolineare la sostanziale impossibilità di creare un sistema sanzionatorio in grado di garantire l'effettiva cogenza delle regole etiche. In realtà, l'unica forma di sanzione finisce per essere proprio l'insuccesso commerciale, determinato dalla scelta dei consumatori-utenti di non acquistare i beni o i servizi da un operatore economico che non soddisfi determinate aspettative dal punto di vista etico.

Ma questo potere sanzionatorio dei consumatori presuppone non solo la conoscenza dei reali comportamenti posti dall'azienda, e questo è naturalmente strettamente connesso con il principio di trasparenza soprarichiamato, ma, soprattutto, che i consumatori siano anche disposti a spendere un po' di più pur di "spendere meglio" e contribuire così al soddisfacimento di importanti bisogni sociali.

Credo che proprio quest'ultimo aspetto possa chiarire la necessità che le regole etiche non siano solo imposte dall'alto, ma presenti soprattutto all'interno del sistema. Per tale motivo, non è possibile delegare solo ed esclusivamente allo Stato il compito di indirizzare l'economia in chiave etica. Lo Stato deve fare la sua parte, ma tutti gli attori del sistema - le banche, le imprese, gli intermediari, gli utenti finali - devono sentire, anche nella più piccola decisione, il peso di questa responsabilità.