Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

13/11/2009

Genova, Assemblea Legislativa della Liguria - Seduta solenne del Consiglio regionale in occasione del 40° anniversario della nascita delle Regioni

Signor Presidente dell'Assemblea regionale della Liguria, Signori deputati regionali, Autorità, Signore e Signori!

Fin dai tempi dell'unificazione del Regno d'Italia, l'idea regionalista ha rappresentato una "costante" storica del dibattito sulle riforme istituzionali dello Stato che è andato snodandosi su molteplici versanti, facendo emergere di volta in volta priorità diverse a seconda dei periodi e delle sensibilità politiche.

Sebbene, infatti, la nascita delle Regioni coincida, almeno sotto il profilo formale, con l'approvazione della Costituzione Repubblicana del 1948, la discussione sull'autonomia regionale ha radici lontane come dimostrano le tesi sostenute anche da importanti figure risorgimentali. Penso, ad esempio, a Carlo Cattaneo, a Giuseppe Ferrari, a Vincenzo Gioberti che videro nel decentramento delle funzioni statali lo strumento più idoneo per preservare l'unità politica faticosamente raggiunta e per affrontare, fin da subito, quello che poi sarebbe diventato "il lungo dualismo della storia d'Italia" caratterizzato dalla persistente arretratezza di una vasta area del Paese, da sempre identificata con quella meridionale ed insulare.

Fu il partito popolare di Luigi Sturzo a rilanciare, prima dell'avvento del fascismo, la proposta di un ordinamento giuridico in cui unità e differenziazione potessero coesistere ed in cui il principio dell'autonomia territoriale potesse trovare pieno riconoscimento.

In un Paese sconvolto sia materialmente che spiritualmente dalle conseguenze della seconda guerra mondiale, la questione del regionalismo riaffiorò durante i lavori dell'Assemblea costituente sia con riferimento alla definizione della forma di Stato, sia perché venne collegata all'ideale repubblicano della rivendicazione della libertà dei cittadini.

Come scrisse Meuccio Ruini all'indomani dell'entrata in vigore della Costituzione, cito testualmente, "il principio dell'autonomia non fu affrontato dai Costituenti al solo fine di assicurare agli amministrati il necessario decentramento burocratico ed amministrativo, quanto piuttosto al fine di porre gli stessi amministrati nel governo di sé medesimi".

Questa, probabilmente, fu la ragione politica che spinse i partiti antifascisti ad accogliere l'idea dell'autonomia territoriale che, in questa prospettiva più ampia, fu considerata dai Costituenti come una forma di garanzia contro il ripetersi di drammatiche esperienze autoritarie.

Queste, in altre parole ancora, furono le profonde motivazioni che permisero ai Costituenti di approvare, nella seduta del 1° agosto 1946, l'ordine del giorno dell'onorevole Piccioni che definiva le Regioni come enti autarchici, autonomi, rappresentativi di interessi locali e muniti di sufficiente autonomia finanziaria.

Una volta, però, che si decise di "costituzionalizzare" l'ente regione, la scelta finale sul modello da adottare fu pesantemente condizionata dall'esigenza di mantenere un assetto istituzionale fortemente centralizzato, in cui gli organi burocratici ed amministrativi dello Stato dovevano quasi necessariamente esercitare un potere forte e compatto.

Rifiutando, pertanto, l'opzione federalista, che avrebbe rappresentato una potenziale minaccia alla nascente forma di governo centrista, la Costituzione riconobbe le Regioni come "soggetti politici" dotati di potere legislativo, limitato però ad un elenco di materie predefinito ed assoggettato al controllo centrale.

Oltre ai forti limiti previsti alla potestà legislativa, non si prevedeva alcuna forma di rappresentanza regionale nel Senato, per la cui elezione la Costituzione stabiliva soltanto che fosse eletto su base regionale. Il sistema elettorale era solo formalmente maggioritario, viste le elevatissime soglie di consenso necessarie per evitare il ricorso alla distribuzione proporzionale dei seggi.

Anche per un secondo aspetto fondamentale, quello della presenza di un "tribunale" arbitro delle controversie regionali con il governo centrale, il dettato costituzionale non previde alcuna partecipazione delle regioni nella nomina dei giudici della Corte costituzionale.

Infine, sotto il profilo fiscale, il principio di autonomia finanziaria regionale (articolo 119) trovò scarsa applicazione, dovendosi arrestare di fronte ai forti limiti statali e ad una continua ridefinizione dei tributi tra livello locale e regionale.

In estrema sintesi, nei primi vent'anni di esperienza repubblicana, si consolidò un debole regionalismo asimmetrico, con le cinque regioni a statuto speciale che, per competenza ed autonomia, seguivano un percorso innovativo rispetto al passato e le restanti quindici che rimasero di fatto prigioniere della mancata applicazione della relativa disciplina costituzionale.

Bisognerà aspettare gli anni '70, e in particolare l'entrata in vigore del decreto legislativo n. 616 del 1977, per dare impulso all'originario progetto regionalista attraverso un massiccio trasferimento di competenze dallo Stato alle Regioni e per avviare quel dibattito riformatore che si impose poi all'inizio degli anni '90, quando cambiamenti profondi e significativi della realtà politica nazionale e internazionale favorirono un drastico ripensamento del sistema.

Le debolezze originarie, i ritardi attuativi, la limitata autonomia amministrativa, l'eccessivo peso del ceto burocratico furono i principali fattori che contribuirono a far crescere nella popolazione, ma anche nelle istituzioni, il desiderio di un'autentica "svolta storica" nella organizzazione della Repubblica.

In tutta Europa, peraltro, anche in conseguenza dell'introduzione dei principi di sussidiarietà, di adeguatezza e di differenziazione sanciti dal Trattato di Maastricht, pressioni e stimoli per una riforma degli assetti tra centro e periferia portarono alla progressiva erosione della sovranità degli Stati membri, aprendo spazi per il coinvolgimento attivo dei governi regionali chiamati ad attuare le politiche e le direttive comunitarie.

In Italia, furono le riforme legislative volute dal Ministro Bassanini ad intensificare, seppur a Costituzione invariata, il processo di decentramento che attribuisce a regioni e governi locali la titolarità delle funzioni amministrative e di fatto ad anticipare la riforma costituzionale del Titolo V, approvata nel 2001, con la quale, in termini di filosofia istituzionale, si è segnato il netto superamento del modello ideato dall'Assemblea costituente e, in particolar modo, dell'idea che, nonostante il riconoscimento alle Regioni di sfere di autonomia costituzionalmente garantite, allo Stato dovesse pur sempre spettare nei loro confronti, una funzione di tipo tutorio.

Introducendo, infatti, in Costituzione elementi propri dei sistemi federali, come il riconoscimento della formale equiparazione tra enti che compongono la Repubblica, il rovesciamento dell'enumerazione delle competenze, il principio della preferenza dei livelli di governo più vicini ai cittadini, il legislatore ha voluto operare una radicale cesura con il precedente assetto regionale, ovvero con un assetto che appariva ormai inadeguato al contesto sociale ed economico del Paese.

Così, al di là dello specifico modello adottato, che per certi versi può essere definito come un "federalismo attenuato" o come un "regionalismo accentuato", la riforma assume un ruolo determinante per comprendere il processo di federalizzazione del sistema regionale italiano.

In questo contesto, però, non può sfuggire il fatto che una riforma di questa "portata", che interviene su un ordinamento repubblicano assai complesso, avrebbe dovuto caratterizzarsi per la sua massima chiarezza, per la sua graduale entrata in funzione, per la realizzazione di precise procedure partecipate fra gli organi statali, regionali e locali, al fine di giungere alla sua rapida attuazione, così non è stato.

Se, invece, le nuove norme costituzionali difettano di una disciplina davvero completa e puntuale in materia di riparto delle competenze fra Stato e Regioni, se restano indeterminati i tempi entro cui le varie innovazioni devono concretizzarsi e se, contemporaneamente, non si dà rapido impulso ad un'organica politica legislativa di attuazione ed integrazione, tutta la riforma, che certamente oggi necessita di essere corretta, rischia di produrre un cortocircuito istituzionale che finora, diciamolo onestamente, è stato evitato quasi unicamente grazie al ruolo svolto dalla Corte costituzionale sotto la spinta di questioni concrete, dense di grande significato per la funzionalità dell'intero sistema nazionale.

E' infatti successo che, dal 2001 ad oggi, molti problemi applicativi del nuovo Titolo V - penso, in particolare, all'applicazione dell'articolo 117 della Costituzione - sono stati risolti alla luce di importanti princìpi elaborati dalla giurisprudenza costituzionale, primo fra tutti quello della cosiddetta "leale collaborazione" che è diventato, in molte circostanze, una vera e propria modalità operativa che serve a preservare, in forme ancora più efficaci ed esplicite che in passato, i valori dell'unità nazionale. Valori che non vanno declinati in senso puramente simbolico, ma concretamente attuati in politiche capaci di offrire a tutti i nostri concittadini pari opportunità di fruizione dei diritti civili e sociali garantiti dalla prima parte della Costituzione.

Naturalmente, l'unità della Nazione non va concepita unicamente come un valore da attuarsi solo in senso discendente, con lo Stato a fare da garante in ultima istanza dell'unità giuridica ed economica o dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali, ma va concepita anche e soprattutto come costruzione in senso ascendente dell'unità, con tutti gli enti territoriali chiamati a concorrere, per la quota di loro competenza, alla realizzazione di politiche nazionali.

Guardando a questo obiettivo, le autonomie territoriali a tutti i livelli non possono essere autoreferenziali: la loro forza sarà tale se sapranno interagire positivamente con lo Stato, perché solo in questo modo possono contribuire a costruire la comunità nazionale.

Ora che abbiamo di fronte a noi la nuova sfida del federalismo fiscale, su cui si concentrano grandi speranze per realizzare una profonda modernizzazione dello Stato, occorre garantire una piena lealtà istituzionale fra tutti i livelli di governo, recuperando una capacità di coordinamento complessivo che, in questi anni, si è andata progressivamente indebolendo.

Il federalismo fiscale può rappresentare, infatti, un'indubbia opportunità per costruire, con il concorso di tutti, un'amministrazione pubblica più efficiente e per questo più vicina ai cittadini; per eliminare gli sprechi nei programmi di spesa così da conseguire gli obiettivi di finanza pubblica nazionale; per ridimensionare il cosiddetto "big government", vale a dire l'esasperato policentrismo decisionale; per ridurre, infine, il divario esistente, a livello economico-sociale, tra le diverse aree territoriali del Paese.

Sotto quest'ultimo profilo, lasciatemelo dire, è impensabile che il federalismo fiscale, in una democrazia ben funzionante, possa fare a meno del ruolo centrale dello Stato e dei suoi uffici tecnici ed imparziali.

Il rischio sarebbe quello che, soprattutto in materia di ripartizione del fondo perequativo a favore delle regioni con minore capacità fiscale per abitante, si possano aprire scenari di contrapposizione vistosa tra le regioni stesse, tra quelle più "ricche" e quelle storicamente meno sviluppate. In periodi in cui la coesione nazionale è sempre più precaria, simili approdi potrebbero essere gravidi di rischi.

In questo senso, pertanto, le assemblee elettive - dal Parlamento nazionale ai Consigli delle regioni e degli enti locali - hanno un ruolo fondamentale da svolgere, dal momento che esse sono il luogo del pluralismo e del confronto fra maggioranza ed opposizione, e, nel contempo, sono la sede necessaria della sintesi, della visione d'insieme degli interessi di ciascuna comunità e del massimo coordinamento interistituzionale.

Da questo punto di vista, la nascita di una apposita "Camera delle Regioni" o "Senato delle Autonomie", in un'ottica di superamento del nostro bicameralismo perfetto, può costituire l'occasione storica per conferire agli interessi regionali la più alta rappresentanza territoriale.

Il regionalismo, del resto, non è solo un fenomeno istituzionale, ma è anche un indiscusso fenomeno politico e culturale. Soprattutto in Italia molti processi di regionalizzazione, infatti, si sono avviati e consolidati in risposta a movimenti politici, spesso organizzati in partiti, più o meno radicati a seconda dei casi, che hanno rivendicato l'autonomia dei territori in difesa di specifiche identità culturali o, in senso più generale, sulla base del principio democratico che vuole avvicinare la decisione pubblica al cittadino, al fine di consentire maggiore partecipazione e garantire politiche più consone alle istanze e alle particolarità del territorio.

Nel corso degli ultimi vent'anni, le Regioni hanno conosciuto una crescente mobilitazione anche in Europa, un fenomeno, questo, che si riconduce, da un lato, al consolidamento che esse hanno avuto all'interno degli Stati in seguito alle sempre più incisive politiche di decentramento, dall'altro, alle opportunità di partecipazione che il processo di integrazione europea ha offerto loro, soprattutto grazie alla politica di coesione.

Le Regioni sono divenute partner importanti delle istituzioni europee per la definizione e l'implementazione delle politiche comunitarie, hanno sviluppato canali di lobbying e di accesso alla decisione europea ed ottenuto spazi, sebbene ancora limitati, di partecipazione istituzionale.

Tutto ciò ha comportato importanti ricadute in ambito nazionale, dal momento che si è rafforzato il ruolo delle Regioni nei confronti degli Stati di appartenenza e con esso anche quello di coloro che rivestono, in tale ambito, incarichi istituzionali e che sono chiamati, alla stregua di ogni rappresentante della "cosa pubblica", "a produrre - per richiamare alla memoria una bella frase di Benedetto Croce (Cultura e vita morale: intermezzi polemici, Bari 1955, 313) - qualcosa di obiettivo e di universale, a promuovere, cioè, un nuovo e più alto costume, una nuova e più alta disposizione negli animi e nelle volontà, a modificare in meglio la società in mezzo a cui si vive, godendo di quest'opera come un artista della sua pittura o della sua statua, e un poeta della sua poesia".