Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

09/03/2010

Montecitorio, Sala della Lupa – Convegno su “Mario Pannunzio cent’anni dopo”, alla presenza del Capo dello Stato

La Camera dei deputati rende oggi doverosamente omaggio alla figura di Mario Pannunzio, un intellettuale che ha legato il suo nome a una delle stagioni più intense e feconde della cultura politica italiana.


Desidero rivolgere il mio più cordiale benvenuto al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ci onora con la sua presenza.

Saluto e ringrazio Nello Ajello, Antonio Maccanico e Massimo Teodori per gli autorevoli contributi che si apprestano a fornire al convegno.


Mario Pannunzio fu maestro di libertà e campione di etica pubblica e la sua lezione ideale e morale si rivela quanto mai preziosa nel centenario della nascita.


Essa contribuisce a mantenere vivo l'ideale di quell' "Italia civile" che ispirò tante intelligenze della sua generazione e che deve rimanere una forte aspirazione anche per le generazioni odierne, pur nella necessaria valutazione dei tanti cambiamenti storici avvenuti nei decenni passati e pur nella doverosa considerazione dei grandi traguardi raggiunti dal nostro Paese dal dopoguerra a oggi.


L'ideale pannunziano dell'Italia civile è il sogno di un'Italia moderna, profondamente inserita nell'Occidente liberale. Non solo nell'Occidente delle Istituzioni, della politica e dell'economia, realtà ampiamente consolidata da molti decenni. E' il sogno di un'Italia moderna inserita, soprattutto, nell'Occidente della curiosità culturale, della apertura mentale, degli stili e dei comportamenti virtuosi comunemente seguiti tanto dalle classi dirigenti quanto dai ceti più umili della società; e ciò, diciamolo, in Italia non appare ancora come una realtà totalmente acquisita e sufficientemente interiorizzata.


Dunque Pannunzio maestro di libertà e di moralità. Prima di soffermarmi brevemente sulla sua figura e sui motivi che rendono vivo e attuale il suo insegnamento, voglio esprimere il mio apprezzamento per l'iniziativa delle Poste italiane che il 5 marzo scorso hanno emesso un francobollo in onore del direttore del "Mondo". E circostanza da rimarcare è anche che l'emissione è avvenuta in contemporanea con l'analogo omaggio filatelico tributato a un altro illustre personaggio della cultura italiana, di cui ricorre, sempre quest'anno, il centenario della nascita: Ennio Flaiano, una delle intelligenze più vivaci della seconda metà del Novecento italiano, che di Pannunzio fu amico e che, con Pannunzio, condivise la battaglia per la libertà intellettuale.


L'Italia odierna è in debito verso questa generazione di intellettuali nemici di ogni massificazione e di ogni conformismo. E' in debito con Pannunzio e con Flaiano. Allo stesso modo lo è con uomini come Panfilo Gentile, Indro Montanelli, Giuseppe Prezzolini, Leo Longanesi, Ignazio Silone, Bruno Leoni, Elio Vittorini e con le tante altre voci scomode e fuori dal coro che hanno scritto pagine importanti nella storia culturale del nostro Paese.


Erano scrittori, giornalisti, economisti, giuristi che furono animati da potenti passioni civili e che, purtuttavia, mantennero sempre un rapporto variamente critico con la politica e con i partiti. Un atteggiamento che non discendeva da superbia intellettuale o da snobismo - come a molti di essi peraltro fu rimproverato - ma che veniva dalla loro forte rivendicazione di laicità, rispetto non solo al confessionalismo, ma anche - e direi soprattutto - ai canoni dettati dai partiti di massa negli anni caldi delle ideologie imperanti.


Non intendo con queste parole sminuire la funzione positiva, anche di pedagogia civile, assolta da altri intellettuali che fecero scelte diverse e che, in ossequio ai propri ideali, stabilirono un rapporto più o meno organico con le principali forze politiche italiane.


Ma non c'è dubbio che, nella vicenda delle figure più compiutamente laiche come Pannunzio, si specchiassero tutte le difficoltà incontrate dalla cultura della modernità per farsi largo nel nostro Paese, e non tanto nelle élites intellettuali, quanto piuttosto nella società e nelle classi dirigenti.


Non era facile essere laici e liberali (nel senso più ampio del termine) nell'Italia dei primi 2 decenni del dopoguerra. Riesce bene a rendere il senso di tale difficoltà questa testimonianza su Pannunzio resa da Montanelli. «Il Pannunzio degli ultimi tempi - disse Montanelli - era un uomo amareggiato e deluso. Eravamo delusi entrambi perché in fondo le sue battaglie erano state un po' anche le mie e i risultati non erano certo esaltanti. Mi ricordo che un giorno mi disse: "Vedi, al tempo del fascismo eravamo in pochi, e diventavamo sempre di più, oggi siamo in pochi e diventiamo sempre di meno"».


Non era soltanto responsabilità del ceto politico. Era anche il frutto di alcuni limiti storicamente presenti nella cultura della stessa borghesia italiana. E proprio il superamento di quei limiti costituiva uno dei grandi obiettivi che animavano le battaglie giornalistiche e culturali del "Mondo".


Nei diciassette anni in cui diresse la rivista, Pannunzio riuscì comunque ad esprimere un magistero intellettuale e morale il cui prestigio è sopravvissuto alla sua morte, segno della profondità delle sue analisi e della capacità anticipatrice delle sue intuizioni.


Non intendo entrare nelle questioni più specificamente politiche delle battaglie condotte da Pannunzio attraverso la rivista e attraverso i "Convegni degli amici del Mondo", da cui emergeva l'obiettivo di costituire una forza antiegemonica, di ispirazione laica e liberale, rispetto alla Democrazia cristiana, da una parte, e al più forte partito comunista dell'Occidente, dall'altra. Sono profili sicuramente rilevanti, ma che devono essere valutati in sede storiografica.


Quello che ritengo ancor oggi particolarmente interessante è la valutazione dei frutti culturali lasciati da Pannunzio e la fecondità della sua idea di un'Italia solidamente fondata sui princìpi liberali.


Un'idea non astratta né dottrinaria, ma tesa sempre a confrontarsi con i problemi reali della società italiana. «Ci siamo sempre battutti - scrisse Pannunzio nell'ultimo editoriale de "Il Mondo" prima della chiusura, nel 1966 - per dare il loro nome a fatti e personaggi. Problemi ideali e problemi concreti non stanno su piani diversi. Gli intellettuali, per noi, non si trovano soltanto tra i poeti e i novellieri. Né tanto meno fanno parte di una corporazione di privilegiati, separata dalle altre. L'intellettuale, per noi, è una figura intera».


"Il Mondo" fu, in questo, una vera fucina di idee, nella quale si incontravano esponenti delle diverse ispirazioni liberali e liberalsocialiste che agivano sulla scena pubblica italiana: da Luigi Einaudi a Ugo La Malfa, da Nicolò Carandini a Leone Cattani, da Leo Valiani a Panfilo Gentile, da Altiero Spinelli a Giuseppe Saragat, a grandi cattolici liberali come Don Luigi Sturzo e Arturo Carlo Jemolo. Sulle colonne del settimanale pannunziano si incontrò una grande e autorevole porzione dell'intellighenzia italiana, tra il dopoguerra e la prima metà degli anni Sessanta.


Particolarmente significativa fu la circostanza che si ritrovarono, grazie al "Mondo", altissimi esponenti del pensiero liberale come Benedetto Croce e Gaetano Salvemini che pure erano stati divisi da vivaci contrapposizioni politico-culturali.


E, a questo proposito, è per me motivo di particolare soddisfazione annunciare che l'Archivio storico della Camera dei deputati ha recentemente pubblicato - ottimamente curato e introdotto da Massimo Teodori - il carteggio inedito tra Salvemini e Pannunzio.


Si tratta di un materiale che risulterà di grande interesse per gli studiosi e che testimonia la corrente di simpatia politica e di fiducia personale che, parallelamente alla collaborazione di Salvemini con "Il Mondo", si instaurò tra i due intellettuali, e che dà ulteriore testimonianza della forte pulsione etica nella vita pubblica che animava entrambi.


L'esperienza del "Mondo" di Pannunzio va quindi valutata oggi al di là del progetto politico che la ispirò; essa rappresenta un lascito più che mai fecondo per la politica e per la società italiane.


E'innanzi tutto l'insegnamento che i processi di modernizzazione non possono essere mai sacrificati a nessuna ideologia e a nessun dogma, ma valutati nella loro effettiva potenzialità di progresso umano e civile. E' anche l'insegnamento che la modernizzazione stessa non può essere separata né dall'etica né dalla razionalità, senza correre il rischio - come purtroppo è accaduto in Italia, in particolare dagli anni Settanta in poi - di assistere a un crescita caratterizzata da vaste zone di inefficienza, sperpero, privilegio, dissipazione delle risorse.


Le inchieste de "Il Mondo" fecero conoscere l'Italia agli italiani, senza veli e senza filtri, denunciando le contraddizioni presenti nello sviluppo del Paese, pur in un periodo di elevata crescita economica e di progresso sociale come quello degli anni Cinquanta e della prima metà dei Sessanta. Denunciavano, quelle inchieste, le pratiche del sottogoverno, il malcostume politico, l'incipiente invadenza degli apparati pubblici.


I "Convegni degli amici del Mondo" affrontavano inoltre, più di cinquant'anni fa, diversi problemi strutturali, con i quali la società italiana fa ancor oggi i conti: dalla necessità di riforma della Pubblica Amministrazione alla speculazione edilizia, dalla tutela del paesaggio alla qualità dell'istruzione.


Mario Pannunzio animava e coordinava quel grande laboratorio culturale e politico con rigorosa dedizione alla causa dell'etica pubblica. La sua rivista non faceva sconti a nessuno. «Non ci piacciono le mezze verità», scrisse con orgoglio. E certo non a caso Vittorio Gorresio definì Pannunzio «intransigente anticomunista in nome della libertà; intransigente antifascista in nome della intelligenza; intransigente anticlericale in nome della ragione».


Il direttore del "Mondo" non cedette comunque mai alla tentazione del sensazionalismo, dello scandalismo e di quella che oggi chiameremmo informazione-spettacolo. La sua era un'intransigenza senza fronzoli e senza ostentazioni, che non cercava popolarità a buon mercato.


Il giornalismo delle idee e la battaglia culturale di Pannunzio, al di là dell'asprezza dei toni con cui talvolta si esprimevano, si ispiravano davveroai valori della grande cultura liberale europea, da Tocqueville a Croce; e tendevano a fare, di quei valori, un lievito morale perennemente in azione all'interno della società.


Spetta agli storici stabilire in che misura, e per quali ragioni, quel progetto culturale e civile risultasse in dissonanza e fortemente minoritario rispetto alle tendenze politiche prevalenti nei primi decenni della storia repubblicana.


Certo è che l'esperienza di Pannunzio non può e non deve essere misurata con il metro dei suoi diretti effetti politici, ma con quello delle idee che mettono radici nella società e che danno frutti nel tempo, al di là di ogni visione o prospettiva di parte.


E certamente le sue furono idee feconde e innovatrici, che ancora oggi appartengono a pieno titolo al patrimonio ideale della Repubblica e alla civiltà politica dell'Italia.