Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

28/04/2010

Montecitorio, Sala del Mappamondo - Presentazione del libro di Antonio Del Pennino e Daniele Merlo "Di che vita morire"

Sono lieto di presentare, presso la Camera dei deputati, il bel libro 'Di che vita morire', scritto dal sen. Antonio Del Pennino e dal dott. Daniele Merlo, insieme con Giancarlo Giojelli, ai quali do il benvenuto. Un saluto a Stefano Folli che approfondirà i temi affrontati nel libro e agli illustri ospiti convenuti.

Dico subito che ho apprezzato l'impostazione del saggio sia da un punto di vista metodologico sia da un punto di vista culturale. Il libro, infatti, lungi dal voler stabilire verità dogmatiche, offre un quadro completo del dibattito sul cosiddetto fine vita con un pluralismo di valori e con un approccio improntato alla libertà di coscienza che, mi auguro, siano di esempio anche per il Parlamento.

Il tema viene affrontato secondo diverse angolature: il confronto politico-parlamentare, gli approfondimenti medico-sanitari, l'excursus filosofico di tanti pensatori che si sono interrogati sul doppio valore della vita e della libertà quando esse s'incrociano nel momento fatale di una malattia incurabile; l'interessante intervista al Cardinale Carlo Maria Martini; le testimonianze di Pontefici e uomini di Chiesa, il confronto tra varie legislazioni non solo europee.

Si tratta dunque di un libro che, per dirla giornalisticamente, per la completezza con cui affronta il tema oserei definire di 'pubblica utilità'.

Gli autori provengono da formazioni culturali diverse, eppure convergono su alcuni principi di fondo.

Antonio Del Pennino, parlamentare di lungo corso e uomo impegnato a interrogarsi sul rapporto tra scienza, medicina ed etica, si dichiara non credente. Viceversa, Daniele Merlo, è un medico convintamente cattolico. Entrambi, sollecitati dalle domande del giornalista Giancarlo Giojelli, s'interrogano senza pregiudizi sul dramma del fine vita attraverso un serrato confronto sulla differenza che passa tra l'accanimento terapeutico e la necessità di fare tutto il possibile per salvare la vita del malato, anche appoggiandosi alla speranza apparentemente più flebile.

Sono le medesime domande alle quali il legislatore è chiamato a rispondere nel caso del testamento biologico, cioè le modalità attraverso le quali la persona può disporre della propria vita nei casi estremi dello stato vegetativo irreversibile.

Un libro consente di approfondire e comprendere i confini della politica e i limiti della scienza: una vita che appartiene, è bene sottolinearlo, al malato, un malato che è in primo luogo una persona, unica nella sua individualità e dignità.

La condizione del malato morente costringe tutti, la società civile, le Istituzioni, il mondo scientifico e religioso a indagare nel modo più profondo una condizione che assume implicazioni filosofiche e culturali: indagare e decidere sulla vita che non è più vita e sulla morte che non è ancora sopraggiunta.

Aspetti talmente delicati, privati e intimi verso i quali sono dell'avviso che uno Stato autenticamente liberale abbia un unico obbligo: legiferare nell'assoluto rispetto delle libertà individuali e della dignità della persona.

Il rovente dibattito scaturito dal caso Welby e dal caso Englaro, pur nella loro diversità, ci ha consentito- direi drammaticamente consentito- di comprendere fino in fondo la sensibilità degli italiani su questi temi, smentendo il luogo comune di un Paese eticamente insensibile ma anzi confermando la necessità di un intervento legislativo il più possibile scevro da pregiudiziali ideologiche.

Su questi temi è doveroso tenere sempre vivo il princìpio che ha ispirato i Costituenti, quando con l'art. 32 della Costituzione, stabilirono che «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».

È un principio che devono rispettare tutti e che vale a maggior ragione per il legislatore il quale deve tenere sempre presente che questi temi non possono essere affrontati con l'accetta ideologica di verità rivelate.

Mi affido, in questo caso, alle illuminanti parole di Paolo VI che, nella lettera pontificale indirizzata ai medici cattolici nel 1970, scrive: «Il carattere sacro della vita è ciò che impedisce al medico di uccidere e che lo obbliga nello stesso tempo a dedicarsi con tutte le sue risorse della sua arte a lottare contro la morte. Questo non significa tuttavia obbligarlo a utilizzare tutte le tecniche di sopravvivenza che gli offre una scienza instancabilmente creatrice. In molti casi non sarebbe forse un'inutile tortura imporre la rianimazione vegetativa nella fase terminale di una malattia incurabile? In quel caso, il dovere del medico è piuttosto di impegnarsi ad alleviare la sofferenza, invece di voler prolungare il più a lungo possibile, con qualsiasi mezzo e con qualsiasi condizione, una vita che non è più pienamente umana e che va naturalmente verso il suo epilogo».

Tutti noi abbiamo ancora vivo nel cuore e nella mente il ricordo di Giovanni Paolo II: la malattia, anche nelle fasi più acute, non lo ha mai fermato. Egli riuscì ad essere l'esempio del coraggio e della dignità del malato non solo incarnando emblematicamente la passione di Cristo per quanti credono, ma anche rappresentando l'angoscia dell'Uomo contemporaneo che si affida alla scienza per essere curato ma chiede alla scienza di fermarsi laddove le terapie mediche intraprese, lungi dal restituirlo alla vita, sortiscono l'unico effetto di prolungare immani sofferenze e allontanarlo dal momento fatale.

Quel suo «lasciatemi andare» fu una preghiera, o forse un monito, per restituire alla scienza la sua funzione primaria: essere a servizio dell'uomo. Non può essere l'uomo al servizio della scienza.

Questo principio credo debba estendersi alle sedi istituzionali: quanto più la politica sarà a misura d'uomo, tanto più essa risulterà autorevole. Comprendo bene l'esigenza di dare speranza a tanti malati e favorire il progresso della medicina; tuttavia questa necessità non può prevalere su quella, altrettanto sacrosanta, di permettere alla società di mantenere i suoi caratteri di umanità, salvaguardandola da manipolazioni e abusi che confliggono con i valori fondamentali della nostra civiltà, il rispetto della dignità della persona umana.

Di biopolitica parla Oscar Giannino, che al saggio offre una sua testimonianza, attualizzando il termine coniato da Michel Foucault trent'anni fa: «La preoccupazione centrale dell'uomo moderno - scrive Giannino- diventa il processo vitale della specie e la politica viene pensata in funzione della protezione e garanzia della vita. Il biopotere è una rottura rispetto alla teoria classica della sovranità. Non più potere di far morire e lasciar vivere. Ma potere di far vivere e lasciar morire» (p.133).

I progressi scientifici, come ha osservato il Cardinale Carlo Maria Martini, intervistato nel volume, pongono l'uomo di fronte a tante questioni: «La medicina ha avuto uno sviluppo tecnologico immenso: può fare quasi tutto, la gente pensa che possa fare miracoli. Quindi ci si trova di fronte a una nuova coscienza del malato, del morente e della morte».

Religione e scienza sono tuttavia concordi nel riconoscere il primato alla dignità della vita fisica e la sua primarietà. Ed è per questo che condivido l'opinione del Cardinale Martini quando sottolinea la difficoltà a fare una legge sul fine vita: «È un punto in cui ogni persona è diversa dalle altre, perché la sua storia, le sue amicizie, le persone che la circondano sono diverse. Ed è impossibile giudicare».

Mi sento di sottoscrivere pienamente: è impossibile giudicare. Per questo sono del parere che il disegno di legge sul testamento biologico debba evitare l'intromissione del pubblico giudizio nelle vite morenti.

Se accadrà si scriverà una pagina di grande civiltà giuridica.