Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

13/05/2010

Pisa, Università degli Studi - Lectio Magistralis "Immigrazione e diritti di libertà nell'era della globalizzazione"

Fin dalla più remota preistoria, intere popolazioni hanno migrato in cerca di nuovi terreni di caccia, di pascoli migliori e di terre più fertili da porre a coltura.

E sono noti i successivi grandi processi di colonizzazione che videro le popolazioni dell'Oriente mediterraneo e della Grecia estendere i loro insediamenti abitativi e le loro civiltà all'Italia e alle coste del mediterraneo occidentale, assimilando o soggiogando i popoli preesistenti.

Il fenomeno delle migrazioni, che si è ripetuto in tempi recenti su scala ben più ampia con la colonizzazione europea delle Americhe e dell'Australia, va nettamente distinto dal fenomeno dell'immigrazione, che consiste nello spostamento, più o meno massiccio, di genti verso il territorio di Stati, abitati da popolazioni quasi sempre più ricche ed evolute.

Non è fenomeno esclusivo della modernità, perché già nel mondo antico sono numerosi gli esempi di gruppi di individui, ma anche di popoli interi, che, stremati dalle carestie o incalzati da nemici, si "auto-consegnavano" ai sovrani degli Stati confinanti per ottenere cibo o protezione, accettando spesso, nell'ambito delle società che li accoglievano, un ruolo del tutto subalterno.

E' il caso biblico degli ebrei emigrati in Egitto, costretti a patire una dura servitù, e quello, particolarmente significativo, dei Goti, che, verso la fine del quarto secolo, chiesero di attraversare in massa il fiume Danubio e di insediarsi nei territori balcanici dell'impero romano.

Lo storico Ammiano Marcellino, testimone dei fatti, ci riferisce del dibattito che si sviluppò tra coloro che vedevano nei Goti un'opportunità per ripopolare le province dell'impero e coloro che, invece, temevano la nascita di forti comunità straniere che avrebbero potuto organizzarsi e mettere così in pericolo la stabilità del dominio romano.

La decisione di consentire l'ingresso dei Goti nel territorio imperiale, disperdendoli però in piccole comunità lontane l'una dall'altra, sembrò, in un primo momento, la via più giusta; tuttavia, in seguito, fu proprio il mancato riconoscimento dei diritti dei Goti da parte dei funzionari dell'impero che diede concretezza alla paventata minaccia di una rivolta di quelle popolazioni ancora "barbare".

Lo ricordo perché, per certi aspetti, si può sostenere che le idee che si confrontano oggi in merito al complesso fenomeno dell'immigrazione furono già messe a fuoco nelle loro linee generali da questo antico e lungimirante dibattito; un dibattito da cui ci viene un primo insegnamento politico ed etico: una società, per quanto prospera ed evoluta, non può svilupparsi ulteriormente ed assicurare la propria crescita se si chiude ermeticamente a qualificati apporti esterni.

Al riguardo, basta ricordare il discorso, anch'esso per molti aspetti di incredibile attualità, che l'Imperatore Claudio pronunciò di fronte al Senato per caldeggiare il conferimento della cittadinanza romana agli abitanti di Lione, in Gallia.

L'imperatore era convinto che la propensione naturale e l'interesse di Roma fossero proprio quelli di inserire tra i propri cittadini gli uomini più meritevoli ed importanti della città e che ciò potesse contribuire al rafforzamento della romanità.

Nonostante la saggia lungimiranza romana, è, tuttavia, noto che la diffidenza nei confronti dello "straniero", cioè delle persone di cui non si accettano le origini e non si conoscono i costumi, e che quasi sempre sono deboli per "censo" economico, ha costantemente caratterizzato l'evoluzione di tutta la nostra storia.

In terra di Toscana, voglio ricordare che Dante Alighieri si espresse con veemenza contro la concessione della cittadinanza fiorentina alla "gens nova", emigrata a Firenze dal vicino contado, e lo fece anche se quella "gente" annoverava Giotto, Arnolfo di Cambio e la stessa famiglia Medici, vale a dire molti tra i principali protagonisti della futura vita culturale ed economica della Firenze dell'Umanesimo e del Rinascimento.

Questa breve premessa di ordine storico dimostra che il movimento di popolazioni, nelle sue varie forme e con diversi esiti, ha sempre accompagnato la formazione di società complesse (siano esse antiche che moderne) in cui, però, l'attenzione per la tutela effettiva dei diritti degli individui è cresciuta soltanto con lo sviluppo, in senso autenticamente democratico, degli ordinamenti giuridici.

E', quindi, proprio il richiamo alla dignità della persona, quale premessa antropologica dello Stato di diritto, a porci di fronte a quello che, da sempre, rappresenta, per tutte le democrazie liberali, un interrogativo filosofico imprescindibile: esistono condizioni sulla base delle quali una società moderna può eticamente e legittimamente decidere di chiudere le proprie frontiere ed il proprio sistema sociale agli stranieri che chiedono di accedervi?

La risposta (se non vogliamo scadere nella propaganda) è ovviamente complessa ed articolata. Ci sono limitazioni di certo giustificabili legate alla qualità e alla quantità di nuovi immigrati che gli Stati-Nazione decidono di ammettere, ma non per questo vi è giustificazione alla chiusura ermetica delle frontiere.

Per di più, molte delle restrizioni che sono oggettivamente giustificate e giustificabili, quali il divieto di ingresso per quegli individui che rappresentano una potenziale minaccia ed un pericolo per la sicurezza o per la tutela sanitaria di un paese, possono essere facilmente utilizzate per ragioni inconfessabili e quindi smarrire la loro iniziale giustificabilità.

Si pensi, ad esempio, a quante volte l'affermazione secondo cui certi individui costituiscono una "minaccia alla sicurezza nazionale" è stata malamente impiegata o strumentalizzata, in ogni epoca storica, per impedire l'ingresso in un paese ad avversari politici od abbia poi condotto alla creazione della categoria di stranieri "indesiderati", perché potenzialmente pericolosi, quindi meritevoli di discriminazioni, vessazioni, espulsioni.

La prerogativa delle democrazie di impronta liberale non consiste quindi solo nella potestà di chiudere le proprie frontiere, bensì nella possibilità di farlo avendo capacità di prestare ascolto alle richieste di coloro che, per motivate ragioni, bussano alle loro porte.

Con altrettanta nettezza va detto però che ascoltare le richieste di coloro che bussano alle porte dei paesi liberali non significa automaticamente esaudirle o riconoscerle in toto, ma significa che la rivendicazione di coloro che chiedono accoglienza ed integrazione impone alle democrazie liberali il dovere di esaminare, individualmente e separatamente, ogni specifico caso.

Esiste, infatti, un diritto umano fondamentale sia a lasciare il proprio territorio di origine, sia a richiedere l'ingresso in un'altra comunità socio-politica; è un diritto che discende dal riconoscimento dell'individuo come essere autonomo legittimato all'esercizio di diritti universali.

Da questo punto di vista, pertanto, non mi convincono le tesi sostenute da autorevoli studiosi, come Michael Walzer (filosofo statunitense vivente), secondo cui "il fatto che gli individui possano lasciare il proprio paese non porta comunque con sé il diritto di entrare in un altro, dal momento che l'immigrazione e l'emigrazione sono fenomeni moralmente asimmetrici".

A mio avviso, infatti, l'asimmetria tra questi due diritti di cui parla Walzer - il "diritto all'uscita" ed il "diritto all'ingresso" - avrebbe senso solo qualora si capovolgessero le prospettive (che invece non vanno capovolte) secondo cui il riconoscimento del diritto a spostarsi comporta necessariamente, per altri, non soltanto l'arrivo di stranieri, ma anche la consapevolezza che, in altre terre, tutti noi siamo, potenzialmente, degli stranieri.

In tal senso, quindi, è solo il mutuo riconoscimento degli obblighi reciproci prodotti dal "diritto all'uscita" a dare piena legittimazione al cosiddetto "diritto di ammissione".

Vi è inoltre un altro punto, semmai, da approfondire: qual è la differenza tra "ammissione" e "appartenenza"? Tutte le democrazie liberali hanno il diritto di fissare le procedure e le prassi di inclusione ed esclusione per disciplinare l'accesso all'appartenenza e, poi, eventualmente, alla cittadinanza.

Tuttavia, l'ammissione non genera un automatico diritto all'appartenenza, ma implica il diritto morale di conoscere come e perché si possa o meno acquisire lo status di cittadini, di rifugiati, oppure di semplici residenti.

Ciò comporta che, mentre esiste un diritto naturale all'accoglienza, esistono legittime doverose procedure per maturare il diritto alla piena partecipazione ai valori e alle garanzie che la comunità ospitante offre ai suoi componenti, cioè il diritto alla cittadinanza.

Da un punto di vista storico, ad esempio, le regole per l'attribuzione della cittadinanza, che variano da Stato a Stato in relazione ai valori fondanti l'identità nazionale, non hanno mai risposto ad astratte teorie giuridiche sull'universalità dei diritti, ma ad esigenze politiche e a visioni ideologiche e culturali che ovviamente variano nel tempo.

In definitiva, esse - le regole per l'attribuzione della cittadinanza - continuano a rispondere agli interessi concreti degli Stati nazionali e ai valori fondanti dei medesimi.

In questo quadro, la prevalenza del criterio del cosiddetto "jus sanguinis" o del cosiddetto "jus soli" serve a definire la concezione che si ha della cittadinanza: il primo lega il conferimento della cittadinanza all'appartenenza alla medesima etnia, nella visione secondo cui gli individui non sono che il prodotto della nazione; il secondo, sulla base del presupposto che la nazione esiste per l'adesione ad essa dei suoi membri, esalta il momento volontaristico, di accettazione del contratto sociale connesso allo status di cittadino (Ernest Renan scrisse: "La nazione è un plebiscito che si rinnova ogni giorno").

Lo status di cittadino, ovviamente, non comporta soltanto l'attribuzione di diritti, ma anche di doveri, in un'ottica che è diametralmente opposta a quella di chi, come Habermas, ritiene che l'erosione dei contenuti propri della cittadinanza e la svalutazione dell'istituto si sia sviluppata con il diffondersi delle teorie sulla fine dello Stato-nazione.

Il filosofo tedesco, giungendo ad evocare l'idea di "cittadinanza cosmopolita", identifica, infatti, la cittadinanza come uno statuto dei diritti svincolato da qualsiasi obbligo nei confronti di una determinata comunità politica e nazionale: in pratica, una cittadinanza senza appartenenza civica, cioè, la negazione del concetto di cittadinanza inteso come partecipazione ad un destino comune, così come teorizzato da Thomas Marshall e da Raymond Aron nella seconda metà del Novecento.

A mio avviso, la giustificazione teorico-giuridica più appropriata dell'erosione del concetto di cittadinanza poggia, oggigiorno, sulle Carte internazionali dei diritti dell'uomo.

Se si pensa, infatti, alla Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo, alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e al Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, in cui sono affermate la libertà di emigrazione e il diritto di avere una cittadinanza e di mutarla, emerge chiaramente come l'obiettivo sia quello di individuare una base giuridica al diritto di entrare nel territorio di uno Stato e di ottenerne la cittadinanza.

Il coronamento di questa impostazione, però, se portata alle estreme conseguenze, è la completa assimilazione tra popolo e popolazione, per cui sarebbe democratico solo lo Stato che riconosce i diritti politici non soltanto ai propri cittadini, ma anche a tutti coloro che regolarmente risiedono sul suo territorio.

Anche questa mi pare una costruzione teorica che non ha pieno fondamento, sebbene i profondi mutamenti intervenuti nella società contemporanea a seguito dell'accrescersi dei fenomeni dell'immigrazione e della internazionalizzazione dei rapporti (la cosiddetta "globalizzazione") hanno riproposto ovunque il tema dell'aggiornamento della disciplina della cittadinanza.

Sotto questo profilo, in Italia, la legge sulla cittadinanza (la n. 91 del 1992), che ha il suo cardine nello "jus sanguinis", integrato da residuali ipotesi di "jus soli", e che attribuisce una preminenza alla volontà della persona rispetto alle situazioni di fatto, necessita, a mio avviso, di essere rivista per favorire pienamente un percorso di integrazione che, al di là di elementi solo formali, come il mero trascorrere di un certo periodo di tempo, testimoni la volontà concreta dell'immigrato di partecipare al destino comune che lega tutti i componenti della società politica di cui entra a far parte.

In questa prospettiva, pertanto, anche l'applicazione dello "jus soli" al figlio di stranieri nato sul territorio nazionale, e ivi residente in modo stabile, non appare eccessiva, se si considera che la "patria" oggi non può più essere concepita solo come "terra dei padri", ma come identità collegata ai valori di fondo che discendono dai precetti costituzionali e che si indirizzano anche ai non cittadini e ciò perché la cittadinanza democratica si sforza di partire non da una nozione escludente, ma da un punto di apertura, da uno sforzo di integrazione.

Gli immigrati di seconda generazione non possono, quindi, suscitare interrogativi inquietanti per la stabilità del nostro sistema sociale, se si parte dalla constatazione che essi sono nati e cresciuti in Italia, che molto spesso non hanno un paese di origine nel quale tornare e che hanno sviluppato esperienze di vita, legami sociali e orientamenti culturali all'interno del contesto in cui sono stati allevati, cioè nella nostra società.

E' evidente, a questo proposito, che la posta in gioco riguarda la qualità della convivenza futura, con i rischi della segmentazione della società sulla base dell'appartenenza etnica e della formazione di sacche durature di emarginazione che possono agevolmente divenire aree di reclutamento per i cattivi maestri dell'integralismo religioso e del fanatismo.

Già durante i primi anni '70 Michel Joseph Piore (economista americano vivente, studioso del fenomeno dell'immigrazione) parlava del rischio di "ribellione della seconda generazione", contrapponendolo al fenomeno sociale precedente caratterizzato dall'accettazione piena, da parte dei padri degli immigrati di seconda generazione, anche dei lavori più umili e precari pur di coronare il sogno di vedersi accettati dalla società che li aveva accolti.

E va anche detto che le famiglie immigrate, peraltro, vivono, in molti casi, profonde ambivalenze nei confronti dei figli che crescono nelle società ospitanti: ne auspicano, infatti, da un lato, la piena integrazione e l'avanzamento sociale, ma, dall'altro, ne paventano un'assimilazione culturale che li allontani dall'identità ancestrale e quindi li separi da loro.

Anche per questo i conflitti identitari, di cui le seconde generazioni sono l'oggetto, il pretesto o le apparenti protagoniste, toccano corde emotive profonde e scuotono tanto le società riceventi quanto le minoranze immigrate.

Il passaggio all'adolescenza e poi all'età adulta dei giovani figli di immigrati è, dunque, un terreno cruciale per i processi di costruzione dell'identità personale e di integrazione sociale, in cui i soggetti, come ha ben evidenziato il sociologo Maurizio Ambrosini, "si trovano a comporre riferimenti e stimoli diversi: da quelli tipicamente generazionali a quelli tradizionali mediati dalle famiglie; da quelli derivanti dalla socializzazione formale e informale nelle società ospitanti, ai processi di eterodefinizione ed etichettatura a sfondo razziale, che possono provocare fenomeni reattivi di varia natura".

Al tempo stesso la crescita dei figli di immigrati mette a dura prova i meccanismi di integrazione delle società riceventi, spesso ancora legati a una presunta coesione naturale delle società nazionali; la conseguenza è che il tessuto sociale che si sta formando sotto i nostri occhi non sarà più semplice e più ordinato di quello che abbiamo avuto nel passato; lo si legge anche nel documento della CEI approvato lunedì scorso, in cui si afferma (cito testualmente, pagg. 19-20) che "le trasformazioni che la globalizzazione comporta rischiano di mettere in discussione equilibri sociali consolidati, anche se, però, su un punto è possibile sbilanciarsi senza timore di smentita: nella società italiana di domani i figli degli immigrati giocheranno un ruolo importante. Lo dicono i numeri, imponenti, e l'energia che hanno saputo esprimere nei processi migratori. Già oggi i figli dell'immigrazione sono più di un milione. Di questi, circa seicentomila sono nati e cresciuti in Italia. Di loro sappiamo che sono giovanissimi, essendo nati prevalentemente in questo secolo: pensano in italiano, sognano in italiano, hanno una grande voglia di riscatto e di far meglio dei loro genitori. Per questo a loro vanno, e ancor più andranno, stretti i meccanismi di accettazione sociale basati sulla disponibilità a svolgere i mestieri rifiutati dagli italiani: da grandi vorranno essere scienziati, dottori, ingegneri; di certo non tutti vorranno raccogliere arance o fare la badante, o per lo meno essere destinati a farlo. Li attendono numerose difficoltà in Italia, più una: quella di riuscire a riconciliare la loro quotidianità italiana con un'identità costruita nel dubbio di non vedersi riconosciuta la cittadinanza".

In tutto il mondo, del resto, non esistono più Nazioni che abbiano una popolazione omogenea dal punto di vista etnico: all'etnia maggioritaria si affiancano, ormai, molteplici minoranze e l'aumento dei flussi migratori determina sempre più il diffondersi del carattere multiculturale delle società contemporanee.

E' un fenomeno di recente acquisizione, che presuppone l'idea che i rapporti tra culture diverse, e non solo quelli tra individui e istituzioni, debbano essere ispirati, all'interno di ciascuna società democratica, al principio dell'eguale rispetto.

Naturalmente, l'ammissione che ciascuna cultura debba essere garantita e promossa dai poteri pubblici presupporrebbe l'affermazione di un radicale relativismo culturale, che, però, non è affatto condivisibile, dal momento che lo "Stato", per utilizzare un'espressione felice di Max Weber, non può essere succube del "politeismo dei valori", ma deve farsi carico dell'onere di tutelare e promuovere solo quelle culture che sono in grado di contribuire allo sviluppo della società e, al contempo, di garantire la pacifica convivenza fra le diverse comunità culturali.

Solidarietà e reciprocità costituiscono, pertanto, le "parole chiave" per guidare i processi di democratizzazione delle società multiculturali del nuovo millennio in cui non è lecito chiedere all'immigrato di rinunciare alla propria identità culturale o di rinchiuderla nel ghetto, ma è doveroso, semmai, chiedergli di esprimerla in modo non conflittuale con gli altri, come contributo alla ricerca comune del bene fondamentale della dignità umana e nel totale rispetto della legalità, cioè delle norme e dei princìpi posti alla base della convivenza sociale.

In fondo, la mediazione tra la valorizzazione delle differenze e la salvaguardia delle proprie identità individuali e collettive è la sfida del futuro, ma essa non sarà possibile se lo sviluppo delle culture avverrà attraverso processi di separazione e non nel reciproco rispetto e tramite una feconda comunicazione.

Grazie.