Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

26/05/2010

Montecitorio, Sala del Mappamondo - Presentazione del libro di Alina Harja e Guido Melis “Romeni. La minoranza decisiva per l’Italia di domani”

La conoscenza vince il pregiudizio. Questa massima dettata dal buon senso comune è più che mai valida se applicata ai processi di integrazione dei nuovi italiani nel tessuto civile del nostro Paese.

Le Istituzioni possono e debbono fare molto in tale direzione. Ma un apporto fondamentale deve venire anche dall'informazione e dalle forze culturali. E' necessario che l'opinione pubblica conosca la vita concreta delle comunità di stranieri al di là di ogni stereotipo e di ogni fuorviante luogo comune.

Il bel libro di Alina Harja e Guido Melis dedicato ai romeni che vivono e lavorano in Italia offre un significativo contributo alla rottura delle barriere della diffidenza e dell'indifferenza.

Saluto gli autori unitamente ai relatori - Giuliano Amato, Aldo Di Biagio, Luigi Manconi - e a tutti i presenti.

E' un volume di indubbio valore culturale, per l'approfondimento e la serietà con il quale è stato realizzato.

Ma è anche un volume di notevole valenza civile, perché afferma il valore della cittadinanza come fattore indispensabile per costruire il futuro del nostro Paese.

Gli autori ritengono che l'inserimento dei romeni nella vita italiana sia fondamentale per la riuscita del più ampio processo di integrazione che riguarda anche le altre comunità di stranieri residenti nel nostro Paese. «Se l'Italia - scrivono gli autori - fallisce oggi sul banco di prova dell'integrazione della comunità romena, la più simile a noi tra le varie etnie che vivono nella penisola per le evidenti affinità storiche e culturali che reciprocamente ci avvicinano, allora sarà molto più complicato, forse impossibile, integrare domani qualunque altra comunità più estranea alla nostra cultura».

Parole difficilmente contestabili, è' un quesito serio e che deve far seriamente riflettere. Vale solo la pena di sottolineare che la politica di integrazione va sempre e comunque vista nella sua unitarietà. Perché, indipendentemente dalla provenienza delle varie comunità di stranieri, la società da costruire insieme deve fondarsi su solidi valori comuni, a partire dalla libertà e dignità della persona, qualsiasi possa essere il suo credo religioso e il colore della sua pelle.

Quanto più forte ed estesa sarà l'affermazione di questi valori in tutti i gruppi etnici che vivono nel nostro Paese tanto più sicura e solida sarà la condivisione di un comune obiettivo di crescita della comunità politica nazionale.

Non c'è dubbio comunque che la riuscita della politica d'integrazione dipende anche dalla conoscenza dello specifico profilo culturale e civile delle varie comunità di immigrati.

Nel caso dei romeni, è lecito chiedersi come mai l'opinione pubblica italiana tenda talvolta dimenticare che parliamo di cittadini che già fanno parte dell'Unione Europea e che quindi provengono da un Paese che condivide con il nostro una grande prospettiva di costruzione politica, economica e civile.

E viene inoltre da domandarsi come mai, questa stessa opinione, e - mi dispiace dirlo - soprattutto nella sue fasce più alte, raramente ricordi l'apporto che la cultura romena ha fornito alla più vasta cultura europea. Pensiamo soltanto, per rimanere al Novecento, a Mircea Eliade e a Eugene Ionesco, grandi intellettuali romeni che hanno vissuto in esilio per non sottostare alla dittatura comunista.

E, andando alle radici culturali più antiche, noi italiani dovremmo anche ricordare quella sottile parentela che richiama le comuni origini latine dei due popoli. Non per niente la Romania è stata definita anche «l'ultima figlia di Roma». Figure come l'imperatore Traiano o il poeta Ovidio fanno parte integrante della cultura nazionale romena.

E a tale proposito mi piace rammentare -pescando tra i ricordi giovanili della mia generazione- un altro intellettuale romeno in esilio, Vintila Hòria, che i giovani di destra italiani degli anni Settanta e Ottanta ebbero modo di incontrare direttamente perché partecipava ai convegni della Fondazione Gioacchino Volpe, e indirettamente perché pubblicava articoli sul "Secolo d'Italia" che allora non era particolarmente agevole avere come oggi . Hòria scrisse il suo libro più bello, "Dio è nato in esilio" , traendo spunto proprio dalla figura di Ovidio. E' un libro - oggi purtroppo introvabile - che racconta il senso struggente per la lontananza dalla propria terra. Un sentimento oggi vissuto dai romeni che vivono in Italia, mentre ieri era vissuto dai tantissimi italiani che andavano a cercare lavoro all'estero.

Alla base dei pregiudizi che circondano oggi i romeni e in generale tutti gli immigrati c'è dunque innanzi tutto un vuoto di memoria culturale che riguarda la politica e l'informazione non meno che la società.

I pregiudizi - come è molto ben documentato nel libro - sono il prodotto di stereotipi mediatici: da quello che vuole confinati i romeni nelle mansioni di colf, badanti e lavoratori edili a quello, di natura in qualche caso decisamente xenofoba, che li associa ai fatti di violenza che rimbalzano, spesso con notevole enfasi, sui giornali.

Gli autori affermano che i romeni rappresentano una sorta di «popolo in nero, sottotraccia, invisibile».

«Ci siamo posti una domanda», scrivono Melis e Harja chiamando polemicamente in causa il sistema d'informazione italiano. «C'è stata, negli ultimi anni, una grande inchiesta giornalistica e televisiva che abbia raccontato al pubblico italiano chi sono veramente i romeni? C'è stato un libro che ne abbia illustrato l'esperienza nella penisola? Francamente non ce ne viene in mente nessuno».

Eppure - concludono gli autori- i romeni residenti in Italia sono quasi un milione. Basterebbe solo questo dato per stimolare più di qualche curiosità. Curiosità non solo intellettuali ma anche economiche e politiche. Una minoranza così consistente non può che rappresentare una risorsa per la crescita del nostro Paese.

Dal libro emerge una realtà decisamente diversa dagli stereotipi. Innanzi tutto il fatto che in Italia operano ben ventimila aziende romene «e con esiti talvolta brillanti». E poi che la richiesta di lavoratori romeni tende a includere sempre più mansioni specializzate.

Ma, al di là delle cifre riferite, quello che colpisce nel volume è l'intensità delle storie umane e professionali raccontate. Spesso una testimonianza diretta può aprire un varco conoscitivo migliore delle cifre riportate su un grafico. E questo lo dico senza nulla togliere all'ottimo e prezioso lavoro che svolgono quotidianamente gli esperti di statistica.

Impossibile ricordare tutte le vicende umane narrate nel libro. Mi ha colpito, tra le tante, la storia di un imprenditore. Arrivò in Italia nel 1996 per fare il manovale. Nel corso degli anni riuscì , come egli racconta, «giorno dopo giorno, col lavoro e la fatica», a creare un'azienda che oggi dà lavoro a oltre venti operai. E' un imprenditore che parla come un qualsiasi operatore economico italiano e ricorda quanto sia duro andare avanti perché «le tasse sono sempre più alte» e tante aziende romene in Italia rischiano di chiudere.

Un'altra storia che merita di essere citata è quella di un ragazzo venuto in Italia nel 1990 insieme con il padre. Faceva l'imbianchino e il verniciatore per mantenersi all'Università. Oggi è un ricercatore esperto in orientalistica. Ha tradotto in italiano diversi testi di Mircea Elide.

Queste due emblematiche storie ci dicono in modo chiaro che il nostro Paese può essere una terra di opportunità e di crescita, sia per chi è accolto sia per la comunità che accoglie. In questi casi ha accolto due persone che si sono dimostrate capaci di creare nuova ricchezza. Economica in un caso, culturale nell'altro.

Condizioni essenziali sono l'assenza di pregiudizi e la presenza di un tessuto sociale dinamico e inclusivo quanto libero dal ricatto dell'illegalità.

Poi purtroppo troviamo nel volume anche tante drammatiche vicende di sfruttamento e prevaricazione. Come quella che ha per protagonista una colf tenuta pressoché segregata in una famiglia che si rifiutava di regolarizzarne la posizione (ovviamente il riferimento è ad una famiglia italiana). E' una vicenda comune a quella di tanti lavoratori in nero, che alimentano loro malgrado il circuito dell'economia sommersa e che si trovano a prestare la loro opera in luoghi di lavoro spesso privi delle necessarie condizioni di sicurezza.

C'è da sottolineare che queste storie non fanno notizia, come al contrario fanno purtroppo notizia le vicende di efferata violenza che vedono per protagonisti cittadini stranieri. Harja e Melis criticano l'abitudine di molti organi di stampa di enfatizzare l'origine etnica degli autori dei crimini e si ribellano giustamente al marchio infamante di stupratori che è stato affibbiato in alcuni casi alla comunità romena. E' uno degli stereotipi più vergognosi partoriti da un sistema di informazione superficiale. Tale stereotipo può produrre fenomeni di violenza razzista, come accaduto nel settembre scorso, quando un pullman con targa romena è stato dato alle fiamme in una località vicino a Roma. L'autista del mezzo si è salvato per miracolo anche se è rimasto seriamente ustionato.

Intendiamoci, si deve sempre guardare in faccia alla realtà ed evitare ogni equivoco buonismo, né si deve in alcun modo trascurare l'allarme per l'ordine pubblico che sale a ondate ricorrenti dalle nostre città specie per episodi di particolare efferatezza. Il disagio esiste e non si può fare finta di non vederlo. Sbaglia una politica che finge di non vedere o, come è accaduto, tende a strumentalizzare vicende della cronaca.

Ma dalla politica e dal mondo dell'informazione devono arrivare messaggi seri e responsabili. C'è in particolare bisogno di combattere l'aberrante associazione tra criminalità e immigrazione che può insinuarsi in alcuni settori della popolazione e dell'opinione pubblica.

La legalità non la si afferma gridando all'untore, creando barriere o fabbricando mostri per la platea dei media.

L'affermazione della legalità passa per vie ben diverse, come il ristabilimento della certezza della pena, la lotta al degrado sociale, il rilancio dell'autorità dello Stato.

E passa anche per la riaffermazione dell'etica pubblica. Lo stile delle classi dirigenti deve tornare ad essere modello di comportamento sociale. Perché, se i cittadini hanno la percezione che esistono varie zone di corruzione anche presso l'élite politica e amministrativa, non dobbiamo poi stupirci se alla base della società si diffondono fenomeni di illegalità.

Ben difficilmente un Paese in cui il senso dello Stato si indebolisce può essere percepito dalle comunità di immigrati come una terra in cui dominano la legge e la giustizia e dove sono garantite reali opportunità di crescita civile. Può anche accadere, nelle fasce più marginali, che si diffonda una rovinosa sensazione di impunità.

Il libro di Harja e Melis sfata gli stereotipi più odiosi. Riferisce ad esempio che la percentuale di cittadini romeni detenuti nelle carceri italiane sull'intera popolazione dei loro connazionali residenti in Italia è appena dello 0,3 per cento, una delle più basse in assoluto.

Un'altra seria questione è quella della cattiva immagine degli italiani che può rimbalzare in Romania a seguito di episodi di intolleranza e di xenofobia. Così gli autori descrivono il problema: «In Romania, dove le cattive notizie dall'Italia godono di una vasta audience quotidiana in tutti i telegiornali e i canali news, l'Italia è vista in generale come un Paese razzista e xenofobo. Infatti, mentre i giornalisti italiani si dedicavano a enfatizzare sino all'inverosimile gli episodi criminali commessi dagli immigrati romeni nella penisola, i loro colleghi romeni, per reazione, sottolineavano in egual misura i casi di discriminazione dei cittadini romeni».

Viene spontaneo rilevare che, se è ingiusto e odioso lo stereotipo che associa gli immigrati romeni alla criminalità, non meno ingiusto e non meno odioso è quello che vuole gli italiani razzisti e xenofobi. Di tutto c'è bisogno meno che di una guerra a mezzo stampa tra le opinioni pubbliche d'Italia e di Romania. Non fa bene all'Europa, non fa bene alle solide e storiche relazioni di amicizia tra i due popoli, non fa bene a quel processo d'integrazione dei cittadini romeni nel tessuto civile del nostro Paese.

Ed è proprio l'integrazione il grande obiettivo strategico che un Paese come l'Italia non può permettersi di fallire. Perché, come ci ricordano Harja e Melis, i «nuovi italiani costituiscono una vera e propria iniezione di giovinezza». E ciò per motivi demografici, per motivi economici, per motivi culturali.

L'aspetto dell'andamento demografico italiano, sottolineato da più parti e soprattutto di recente dalla Conferenza Episcopale Italiana, è una delle questioni che debbono inevitabilmente interessare una buona politica che si ponga il problema dell'integrazione sociale di coloro che sono oggi ospiti e domani cittadini.