Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

08/06/2010

Montecitorio, Sala della Lupa - Convegno di studi sul tema "Nazione e Stato. L'Italia di Ricasoli e di De Gasperi"

Autorità, signore, signori!

Sono davvero lieto di inaugurare i lavori di questo importante convegno organizzato dal Comitato Nazionale per le celebrazioni del bicentenario della nascita di Bettino Ricasoli, dalla Fondazione Alcide De Gasperi, dalla Fondazione Spadolini-Nuova Antologia.

Il mio più cordiale benvenuto va al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, che ci onora con la sua presenza.

Saluto i relatori del convegno: Giulio Andreotti, Pier Luigi Ballini, Cosimo Ceccuti, Francesco Paolo Casavola, Simona Colarizi, Maria Romana De Gasperi, Agostino Giovagnoli, Sandro Rogari, Angelo Varni.

Li saluto unitamente al Vicepresidente del Senato Emma Bonino e a tutti i presenti.

Un pensiero commosso alla memoria di Giuseppe Talamo, recentemente scomparso e che doveva essere oggi tra noi. La cultura del nostro Paese deve essergli grata per i suoi autorevoli e approfonditi studi sulla storia del Risorgimento.

Entrando nel tema del convegno, vorrei innanzi tutto rilevare che questa giornata di studi dedicata all'idea di nazione e di Stato, così come essa si è affermata nella visione di Bettino Ricasoli e in quella di Alcide De Gasperi, rappresenta un significativo contributo al dibattito sull'identità nazionale in questi mesi che precedono lo storico appuntamento del 150° anniversario della nascita dello Stato unitario.

Se infatti una ricorrenza così importante deve essere vissuta, non solo come necessaria celebrazione, ma come momento di riflessione sul senso profondo e intangibile del nostro stare insieme, del nostro essere nazione, diventa allora necessario attingere all'insegnamento dei grandi protagonisti della nostra storia, e occorre farlo nella prospettiva di valori fondamentali per un futuro di coesione, di libertà e di progresso.

I valori fecondi che la generazione di Bettino Ricasoli trasmise alle successive generazioni di italiani sono i valori dello stretto binomio tra unità nazionale e libertà civile, tra progresso economico e rigore morale, tra identità culturale e laicità dello Stato. Sono i valori di una sovranità nazionale che persegue una via di affermazione non contro ma in armonia con la civiltà dell'Europa liberale.

Momento cruciale nel processo di trasmissione dei valori del Risorgimento nell'odierna Italia democratica e repubblicana è certamente stata la fase dell'Assemblea Costituente e della ricostruzione economica e civile nel dopoguerra.

L'Italia che rinasce nella democrazia dopo le drammatiche esperienze della dittatura, della sconfitta militare e della guerra civile è certamente un Paese assai diverso da quello del 1861. L'allargamento dei diritti sociali, la tutela del lavoro e l'elevazione delle condizioni di vita dei ceti meno abbienti diventano fattori costitutivi di una rinnovata identità nazionale.

La classe dirigente della ricostruzione avverte comunque il bisogno di riannodare i fili con l'Italia del Risorgimento. Il richiamo alla stagione fondativa dello Stato unitario era avvertito, in vario modo, in tutte le culture politiche che concorsero alla scrittura della Carta costituzionale.

Questo richiamo ideale e morale fu interpretato da De Gasperi sia nella sua opera di statista sia nella sua azione di leader politico. Così, ad esempio, egli affermò alla Direzione della Democrazia cristiana il 21 aprile del 1948: «La libertà difesa dai cattolici, nella dignità della persona umana contro i pericoli del totalitarismo statale o di razza, ha integrato e sostanziato il pensiero della libertà politica che fu propria dei cattolici del 1848».

«E' per questo -proseguiva lo statista trentino- che possiamo dire che questo secondo Risorgimento della patria si può riallacciare al Risorgimento nazionale».

La promozione dei valori sociali è strettamente connessa al valore nazionale. «La nostra battaglia - cito ancora De Gasperi - è valsa, soprattutto, a creare le premesse di una politica innovatrice e costruttiva, cioè lo spazio politico vitale che è costituito di libertà, di ordine, di indipendenza nazionale e, soprattutto, di un costume morale che renda attuabile, nell'ambiente economico, la giustizia sociale».

Molto è stato fatto, nel corso del primo sessantennio repubblicano, per affermare l'idea della nazione come progetto di inclusione sociale, estensione dei diritti, solidarismo civico. Grandi traguardi sono stati raggiunti.

Ma molto resta ancora da fare e tanti altri traguardi attendono di essere conquistati. Penso alla necessità di superare il perdurante divario tra Nord e Sud, di rilanciare l'etica pubblica, di rafforzare il senso della legalità, di combattere la disaffezione verso la politica nutrita da una parte dell'opinione pubblica, di colmare i ritardi nella modernizzazione del sistema-Paese.

Tali questioni ci riportano, per molti aspetti, ai nodi ancora irrisolti della nostra storia.

E' bene però chiarire che la consapevolezza dei problemi storici del nostro Paese non deve in alcun modo fornire il pretesto per revisionismi antirisorgimentali fuorvianti e anacronistici. Perché deve rimanere chiara l'idea che l'impresa compiuta dalla generazione dei Cavour, dei Ricasoli e di tutti coloro che realizzarono l'unità d'Italia fu un'impresa grandiosa nella storia italiana ed europea.

La prima classe dirigente nazionale realizzò in poco tempo, e confutando lo scetticismo di molti, l'unificazione normativa e amministrativa del Paese. Avviò le prime grandi infrastrutture ferroviarie. Definì un sistema scolastico e universitario comune. Consolidò la presenza dell'Italia nel concerto degli Stati europei. Fu modello di onestà, integrità morale, dedizione alla cosa pubblica.

Il raggiungimento di quei risultati non era né facile né scontato. Solo un ceto politico animato da una grande e convinta visione nazionale poteva, come effettivamente accadde, riuscire nell'impresa.

Tra le principali questioni emerse nel dibattito intorno al Centocinquantenario c'è quella dell'assetto centralistico dello Stato unitario così come fu disegnato e attuato dai successori di Cavour. In questo senso, è da qualche anno ricorrente fare riferimento alla concezione federalista di Carlo Cattaneo, che viene spesso presentata come l'opzione alternativa che non si realizzò.

Non c'è dubbio che si tratti di una seria questione storica, che deve essere affrontata nella sede che le è propria, cioè quella della scienza storiografica. Spetta agli studiosi rispondere alla domanda del perché fu scelta una strada invece che un'altra. Normalmente si tende a osservare che le condizioni sociali e politiche dell'Italia e le minacce all'unità da poco realizzata erano tali da imporre il modello dell'accentramento. E si sottolinea anche che ciò avvenne a dispetto della cultura che ispirava una parte significativa della prima classe dirigente dell'Italia unita, che pur sarebbe stata favorevole all'autonomia e al decentramento, in armonia con un grande filone del liberalismo europeo. Pensiamo a Marco Minghetti, a Stefano Jacini e allo stesso Bettino Ricasoli.

Il dato che ritengo comunque importante è che l'affermazione delle idee di federalismo e di autogoverno dei territori deve essere vista nella sua continuità, non già in una inesistente discontinuità con lo spirito nazionale della generazione che realizzò il Risorgimento.

Oggi federalismo deve significare una visione del futuro del Paese, allo stesso modo in cui fu visione fiduciosa dell'Italia quella dei successori di Cavour e quella, ottant'anni dopo, dei padri costituenti.

Visione fiduciosa, visione attenta alla ricchezza culturale delle regioni, e, per ciò stessa, visione unitaria dell'Italia. Perché la varietà, se correttamente intesa, non indebolisce, ma rafforza, il sentimento di unità. «La varietà e l'accidentalità -scrisse uno storico che mi è caro, Gioacchino Volpe - possono aver concorso a rendere più difficili l'unità politica e il rapido affiatamento degli italiani; ma potevano anche tradursi, come poi si tradussero, in molteplicità di forze e di attitudini della nazione. E poi anche tratti comuni visibilissimi individuavano moralmente questo popolo tra gli altri popoli. Unito nella sua varietà, vario nella sua unità».

Oggi come ieri, la vera differenza, la vera divisione nella coscienza del Paese non è tra spirito nazionale e cultura locale o regionale, ma, al contrario, tra fiducia e scetticismo nel futuro dell'Italia unita.

Anche per questo non possiamo non porre oggi, in cima alle emergenze nazionali, quello dell'avvenire dei nostri giovani. I dati recentemente forniti dall'Istat devono costituire serio motivo di preoccupazione per le Istituzioni, le forze politiche, la società. La disoccupazione giovanile è arrivata al trenta per cento. Gli studiosi ci avvertono che due milioni di giovani, tra i venti e trentaquattro anni di età, sono diventati "invisibili". Sono del tutto inattivi. Hanno abbandonato gli studi e non lavorano. Sta raggiungendo l'età adulta una generazione di italiani per i quali le parole unità, coesione e diritti sociali possono risuonare drammaticamente lontane e astratte.

Il lavoro è la condizione essenziale per la piena conquista del valore della cittadinanza e per la partecipazione attiva alla vita della comunità nazionale.

Non a caso, è un principio posto a fondamento della nostra Carta costituzionale, fin dal primo articolo.

Ed è un valore che ci riporta agli ideali repubblicani e democratici che agirono all'interno del movimento risorgimentale.

In tal senso è opportuno ricordare le parole di Giuseppe Mazzini: «Finché uno solo tra i vostri fratelli - leggiamo nei suoi "Scritti politici"- non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale, finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue per mancanza di lavoro, nella miseria, voi non avrete patria come dovreste averla, la patria di tutti e la patria per tutti».

Ecco, una patria che non sia una patria per tutti non può essere percepita come la patria di tutti. I giovani di oggi hanno diritto ad opportunità simili a quelle di cui hanno goduto il loro genitori e i loro nonni. Essi dovranno poter dire da adulti «grazie Italia» allo stesso modo in cui lo ha detto, in un bell'articolo uscito nei giorni scorsi, uno scrittore come Vittorio Messori, che pure ha più volte espresso con disincanto i suoi giudizi sulla storia del Risorgimento.

Con grande onestà intellettuale oggi egli scrive, cito testualmente: «Il mio bilancio è diverso da quello cupo delineato da molti. Coltivo il realismo e, dunque, guardandomi indietro e giudicando l'oggi, non mi sfuggono ombre, magagne, errori. Eppure, dopo una vita intera, la verità mi impone di abbozzare un sommesso, ma convinto: "Grazie Italia"».

Con questo spirito, rivolgo a tutti i partecipanti a questa giornata di studi il mio più sincero augurio di buon lavoro.