Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

09/06/2010

Montecitorio, Sala della Lupa - Presentazione del volume "100 anni di imprese. Storia di Confindustria 1910-2010"

La Camera dei deputati è lieta di ospitare la presentazione del saggio '100 anni di imprese: storia di Confindustria', scritto dal professore Valerio Castronovo, che saluto. Un cordiale benvenuto alla presidente di Confindustria, dott.ssa Emma Marcegaglia e all'editore, dott. Alessandro Laterza.

La pubblicazione del volume s'inserisce nell'ambito delle iniziative per celebrare i cento anni di fondazione e di attività della Confindustria. Un anniversario che, come ricordato dalla presidente Marcegaglia nel suo editoriale di presentazione dello speciale 'Imprese d'Italia'coincide con l'inizio delle celebrazioni per i 150 anni dell'Unità d'Italia.

La concomitanza dei due eventi assume dunque un valore doppiamente simbolico. Non solo perché c'induce a riflettere sui rapporti tra impresa e Stato, sulle relazioni tra imprenditoria e politica, ma anche perché dal loro corretto e trasparente sviluppo dipende il rafforzamento della coesione nazionale, elemento determinante per affrontare un momento storico caratterizzato da incertezze e grandi sfide che incidono in varia misura su tutta la società.

Si tratta di un obiettivo strategico per le Istituzioni, per le forze politiche e per il sistema delle imprese.

Un impegno per il quale le imprese italiane si sono profuse in questi 100 anni contribuendo in misura notevole a trasformare l'Italia da Paese eminentemente agricolo a Paese tra le prime dieci potenze del mondo.

Emerge, in questa opera, il carattere della parte più dinamica dell'imprenditoria italiana che ha sempre avuto a cuore il processo d'integrazione comunitaria. Questa vocazione europeista dell'imprenditoria italiana è stata rafforzata dalla consapevolezza che l'apertura del mercato interno e il rafforzamento dei processi decisionali della Comunità avrebbero potuto rappresentare un potente fattore di modernizzazione del Paese, di razionalizzazione dello Stato, di responsabilizzazione delle dinamiche politiche nel senso di una maggiore attenzione agli equilibri finanziari. Riprendendo le parole di un intervento del 1988 dell'allora presidente di Confindustria, Sergio Pininfarina: «Ci aspetta un mercato di oltre 300 milioni di consumatori», ma anche nuovi «gradi di libertà».

Come sottolineato nel libro, i rapporti tra le imprese italiane e la classe politica del Paese non sono sempre stati caratterizzati dalla reciproca fiducia. Tra i temi ricorrenti le questioni della semplificazione delle decisioni, del potenziamento degli investimenti per formazione, scuola e ricerca, della necessità di rendere più efficiente e celere la giustizia e di rafforzare la sicurezza e l'ordine pubblico, specie in aree a rischio. Sinteticamente, l'imprenditoria italiana si è riconosciuta nel principio «più managerialità e meno burocrazia», come disse Vittorio Merloni nel 1980.

Nella ricerca, il professor Castronovo documenta, con scrupolo puntiglioso, anche attraverso l'indagine di fonti inedite, gli affanni e le rivendicazioni di imprenditori, di buoni italiani che lavoravano per lo sviluppo del Paese, consapevoli di portare sulle proprie spalle la responsabilità di un'attività economica che dava dignità ai lavoratori contribuendo alla ricchezza collettiva.

Non a caso, il 5 maggio 1910, Luigi Einaudi salutò la nascita a Torino, della Confederazione Italiana dell'Industria (Cidi), sottolineando il ruolo di quell'«Italia che lavora e produce». E che rivendica il diritto-dovere, come avrebbe più volte affermato negli anni della ricostruzione, Angelo Costa, di fornire il proprio contributo alle grandi scelte sul futuro del Paese: «Noi industriali più di ogni altra categoria - dichiarò l'allora presidente di Confindustria nel 1949- abbiamo il diritto di essere classe dirigente del Paese, ma di questo diritto dobbiamo essere degni. Rappresentare la classe dirigente non significa sovrapporsi agli altri per imporre il proprio pensiero e far prevalere il proprio interesse, ma significa contribuire più di tutti al bene sociale, significa dare con maggiore generosità se stessi agli altri».

Il nucleo originario della Cidi raggruppava le più importanti imprese del Nord Ovest. Nonostante la forte connotazione territoriale, la Confederazione, secondo Castronovo, ha sempre creduto nel valore nazionale della propria iniziativa.

Una funzione nazionale caratterizzata da senso di responsabilità nei confronti delle maestranze operaie e dell'intera società. A tale riguardo, desidero ricordare quanto scrisse Gino Olivetti, il primo direttore della Cidi: «L'organizzazione della classe industriale intende perseguire non solo la tutela dei diritti e degli interessi del fattore primo della ricchezza nazionale, ma realizzare attraverso la concezione serena dei propri doveri, l' obiettività della propria funzione, la moderna e completa conoscenza dei problemi e delle necessità del lavoro, quella vera, leale, piena intesa fra industriali e operai, che è base prima di ogni azione sociale».

A questa consapevolezza si è costantemente accompagnato un forte richiamo alla libertà d'impresa. Tema sul quale hanno spesso insistito tutti i presidenti dell'Organizzazione.

Un aspetto del libro su cui desidero soffermarmi riguarda la Questione Meridionale. Al tema del divario Nord-Sud, la Confindustria ha mostrato, secondo la ricostruzione di Castronovo, di essere sensibile fin dagli anni Cinquanta, quando i suoi dirigenti avevano segnalato l'esigenza di intervenire non con provvedimenti assistenziali ma attraverso misure strutturali. Ma fu in particolare nel 1970 che la Confederazione degli imprenditori istituì un Comitato per il Mezzogiorno affidato alla guida di Enzo Giustino il quale sosteneva la necessità di agganciare lo sviluppo del Sud «alla politica di programmazione nazionale» in funzione di una crescita complessiva del Paese e di adeguare organismi, metodi e strumenti alle nuove realtà istituzionali: le Regioni. Solo in tal modo, secondo Giustino, si sarebbe posto fine alla polemica tra coloro che «considerano ogni misura di politica economica a favore del Nord una discriminazione o un attentato ai danni del Sud, e coloro che giudicano ogni intervento nel Mezzogiorno una fonte di sperpero». Parole che sembrano scritte oggi.

Il problema era che l'intervento straordinario dello Stato da aggiuntivo, qual era stato concepito originariamente nel 1950 (anno di creazione della Cassa per il Mezzogiorno), si era trasformato in sostitutivo di un processo di sviluppo autoctono, determinando una polverizzazione degli interventi invece che iniziative coordinate a livello intersettoriale e interregionale.

Giustino era convinto che il Sud dovesse e potesse divenire artefice del proprio sviluppo e progresso, avvalendosi, scrive Castronovo «del nuovo ordinamento regionale e in base a una nuova cultura di governo, senza quindi seguitare a fare affidamento unicamente o quasi sulle provvidenze dello Stato. Anche perché solo in tal modo ci si sarebbe affrancati dal giro delle confraternite dei partiti e dalle loro clientele elettorali».

Ancora oggi dobbiamo purtroppo fare i conti con la pesante eredità delle storture e delle anomalie causate da un'asfissiante intermediazione politica nell'impiego delle risorse destinate al Meridione.

Un rilievo che trova una sempre più drammatica attualità alla luce del progressivo depauperamento del Mezzogiorno, a partire dalla spoliazione del capitale umano. Fenomeni causati in gran parte dalla criminalità organizzata, che ha inquinato la politica, che ha taglieggiato le imprese, condizionato gli imprenditori e spesso ucciso chi si opponeva al pizzo. In tal senso, reputo lodevole l'iniziativa della presidente Marcegaglia di allontanare da Confindustria imprese colluse od omertose; e altrettanto lodevole è il protocollo per la legalità firmato a maggio scorso con il ministro Maroni.

L'affermazione della legalità, il superamento del divario Nord-Sud, l'aumento della competitività del sistema economico, sono obiettivi imposti anche dall'Unione Europea e soprattutto resi ineludibili dalle dinamiche del mercato globale. Se l'Italia è un Paese del G8, lo si deve ai sacrifici intrapresi da tanti italiani e da tanti imprenditori per rispettare gli impegni sottoscritti con il Trattato di Maastricht. Come ha detto il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, «non c'è alternativa al crescere insieme». Su questo fronte, sono dell'avviso, che il federalismo fiscale sia una grande opportunità perché impone il principio della responsabilità degli amministratori locali e dell'introduzione di costi standard.

Ma non può essere un destino ineluttabile se per realizzarlo si dovesse mettere a repentaglio la coesione nazionale. È necessario conoscere i costi per avviare questa riforma, che qualche settimana fa il Sole 24 ore ha stimato in 130 miliardi di euro; è necessario stabilire la consistenza del fondo perequativo affinché le Regioni del Sud non siano penalizzate. Ed è soprattutto indispensabile avere certezza sulla effettiva copertura finanziaria dei medesimi.

L'Italia, nel corso di 150 anni di storia unitaria e di oltre 60 anni di storia repubblicana, è stato spesso il Paese delle divisioni e delle contrapposizioni ideologiche e politiche. Ciò ha ostacolato in alcuni casi l'affermazione di valori condivisi, a partire dalla libertà di mercato e dalla libertà d'impresa. La necessità di modernizzare il sistema e di consolidare la posizione dell'Italia tra le grandi democrazie industriali impone una rinnovata assunzione di responsabilità da parte della classe dirigente italiana, nel senso più ampio del termine.

Perché, come diceva, Churchill «la responsabilità è il prezzo della grandezza».