Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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INIZIO CONTENUTO

Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

09/10/2010

Aosta, Lectio magistralis del Presidente della Camera dei deputati alla Scuola per la democrazia dal titolo "Democrazia rappresentativa e processi di integrazione"

Autorità, Signore e Signori!

Iniziative come la "Scuola per la democrazia", il corso di alta formazione dedicato ai giovani amministratori italiani organizzato da "Italiadecide" e dalla Presidenza del Consiglio Regionale della Valle d'Aosta in collaborazione con "Ancigiovane", sono meritevoli della massima considerazione.

Sono lieto di parteciparvi perché sono convinto che di queste iniziative vi sia estremo bisogno nel nostro Paese, dove sono purtroppo rare le sedi in cui chi è investito di responsabilità politiche può dialogare sulle grandi questioni nazionali in modo libero ed indipendente dalle logiche delle appartenenze politiche.

Va, quindi, riconosciuto a "Italiadecide" - l'associazione per la qualità delle politiche pubbliche che riunisce personalità di diverso orientamento politico culturale - il merito di creare occasioni di confronto nelle quali la classe dirigente italiana è chiamata a misurarsi con i problemi concreti che riguardano il governo di questo Paese. In questo quadro, il prossimo 15 novembre sarà presentato alla Camera dei deputati un importante Rapporto sulle reti territoriali che materialmente "fanno" ogni giorno l'unità d'Italia.

L'attenzione verso gli amministratori degli enti locali è una ulteriore conferma di questo approccio, concreto e postideologico, e concentrato sul tema di come organizzare oggi una moderna democrazia.

Questa edizione della "Scuola per la democrazia" è dedicata alle "Ragioni dell'altro". Vorrei affrontare la questione riferendola proprio alle responsabilità politiche che avete assunto in ambito locale. E' a questo livello, infatti, che i grandi principi della democrazia rappresentativa sono messi più direttamente alla prova.

Nelle vostre comunità si vive davvero la democrazia faccia a faccia: la rappresentanza non è, infatti, un concetto astratto, ma una pratica di tutti i giorni che pone gli eletti di fronte a persone con i loro bisogni, le loro paure, i loro desideri.

Tradurre le esigenze dei cittadini in concreta azione politica è un compito difficile, ma esaltante. Penso che voi tutti sappiate quanto possa essere gratificante sentirsi investiti della fiducia degli elettori: chi non condivide la passione per la politica non sa quanto questa spinta possa aiutare a superare ogni difficoltà e a dare il meglio di sé nel governo della comunità.

Ma voi sapete anche che operare per il bene comune non può significare accontentare tutti. Anzi, le decisioni più sagge e lungimiranti sono spesso proprio quelle con cui, nell'immediato, si creano più incomprensioni e ostacoli. Così il vero politico è anche chi, dopo avere ascoltato tante opinioni, sa decidere da solo.

E' colui, in altre parole, che, assumendosi in pieno la responsabilità delle proprie azioni, sa affrontare il conflitto come una dimensione costitutiva della politica democratica. Anche il governo più illuminato non può e non deve far venir meno il dissenso e, a questo riguardo, la decisione finale potrà dirsi pienamente democratica solo se vi è la certezza che chi non è d'accordo ha avuto modo di fare valere pienamente le proprie ragioni.

Del resto, la rappresentanza politica moderna è nata dal conflitto. I sistemi politici nazionali si sono formati sulle grandi fratture che hanno attraversato i diversi paesi; penso, in particolare, a seconda dei casi e delle situazioni storiche, al contrasto fra capitale e lavoro, al rapporto fra città e campagna, ai conflitti di carattere religioso o etnico.

Il contributo dato dalle forme della rappresentanza moderna all'istituzione governo è ovunque consistito nel far convivere nel processo democratico gruppi e partiti con interessi, programmi e, a volte, visioni del mondo contrastanti; e ciò è avvenuto, rifiutando la logica della sopraffazione reciproca, potenzialmente distruttiva per la comunità civile.

Rispetto alla visione di Carl Schmitt, che vede il "nemico" come elemento costituivo della sfera politica, come "hostis" da tenere fuori dalle mura della città, la concezione democratica della rappresentanza accetta il conflitto come una componente fisiologica della politica interna di una comunità.

Sotto questo profilo, anche lo "scontro" parlamentare fra maggioranza e opposizione ha il principale compito di "scongiurare" la possibile deflagrazione della società, il dissolversi delle ragioni dello stare insieme, il venir meno del senso di appartenenza e di una comunità. Attraverso l'incorporazione degli elementi di conflitto e di protesta nel sistema istituzionale, le forme della democrazia rappresentativa costituiscono la garanzia più avanzata per mantenere aperto quel continuo processo di ridiscussione dei confini fra società civile e istituzioni in cui consiste l'essenza dell'assetto pluralista rispetto alle concezioni giacobine o, comunque, totalizzanti.

In Italia, nei primi decenni di storia della Repubblica, il dibattito politico è stato incentrato sulla grande contrapposizione ideologica tra i due blocchi mondiali.

In nessuna fra le grandi democrazie occidentali questo antagonismo si è espresso in forme così intense e capillari come nel nostro Paese, tanto da informare quasi ogni aspetto della società civile e persino della vita quotidiana dei cittadini.

I grandi partiti di massa, organizzati principalmente in due schieramenti alternativi, erano comunque portatori di visioni nazionali, proponevano programmi ed interventi che avevano l'ambizione di ricomporre le grandi fratture che dividevano un Paese materialmente e moralmente disarticolato come l'Italia dell'immediato dopoguerra.

Proprio la sostanziale convergenza verso obiettivi di interesse generale consentì a forze politiche così diversificate, ed anche ideologicamente contrapposte, di redigere, con spirito creativo e solido equilibrio, la nostra Carta costituzionale che ancora oggi conserva tutta intatta la sua vitalità, essendo in grado di promuovere lo sviluppo dei diritti di libertà dei cittadini, in un contesto di effettiva uguaglianza delle posizioni di partenza.

Dal proficuo confronto durante i lavori dell'Assemblea costituente scaturirono, infatti, quelle regole e quei principi condivisi che avrebbero guidato l'Italia nella sua rinascita.

La fine degli anni '70 pose poi le basi politiche di quello che veniva allora chiamato "l'arco costituzionale" e che rispondeva alla necessità di garantire, da un lato, la crescita economico-sociale del Paese, in un contesto internazionale fortemente alterato dal nuovo ordine commerciale degli scambi e dalla crisi energetica, e, dall'altro, di impedire che la convivenza civile fosse messa a rischio da una conflittualità sociale esasperata e da schegge anarchiche ed estremiste provenienti dall'esperienza, per certi aspetti certamente non esaltante, del '68.

In questo scenario, l'area di ispirazione cristiana e quella di radice marxista si adoperarono, con senso di responsabilità, per evitare la disgregazione del sistema, attraverso la giusta delegittimazione di quell'habitat ideologico-politico che alimentava in quegli anni, in Italia e all'estero, il terrorismo e, in particolare, il terrorismo rosso.

Oggi, con la caduta di quegli steccati ideologici e la fine dei grandi partiti organizzati, sembra essere venuta meno anche la capacità di esprimere politiche di respiro nazionale. Riemergono così fattori di divisione, vecchi e nuovi, che percorrono in tutta la loro durezza il nostro sistema politico-istituzionale.

In primo luogo, quella che le riassume tutte, l'antico dualismo fra Nord e Sud, che, dopo anni di politiche nazionali volte alla convergenza, torna ad esprimere una crescente forbice relativa a quasi tutti gli indicatori economici e sociali.

Ma a quella frattura se ne aggiungono altre che attengono al fondamentale rapporto che intercorre tra lavoro dipendente e autonomo, tra vecchie e nuove generazioni, tra legalità e illegalità.

La dimensione nella quale queste tensioni si esprimono in forma più diretta e drammatica è spesso proprio quella locale. Le cronache registrano i conflitti talvolta drammatici che investono periodicamente la vita delle comunità di centri grandi e piccoli del nostro Paese.

Basti pensare alle tensioni provocate dalla crisi di alcuni insediamenti produttivi o ai problemi derivanti dalla difficile convivenza con le comunità di immigrati.

Per fortuna, anche se non sempre sottolineate con lo stesso rilievo mediatico, vi sono anche quotidiane esperienze che vedono gli amministratori locali trovare soluzioni innovative e coraggiose per affrontare i difficili problemi di governo, che affliggono comunità sempre più differenziate e conflittuali.

Ciò conferma innanzitutto la validità della scelta in favore delle autonomie territoriali operata dalla Costituzione repubblicana e confermata dalle recenti riforme di rango costituzionale ed ordinario.

Un Paese composito come l'Italia non si può governare solo dal centro. Solo chi è sul territorio ed è in contatto continuo con le comunità locali può trovare le risposte giuste alle domande dei cittadini e cercare un efficace bilanciamento fra i contrastanti interessi in campo.

Ma l'autonomia territoriale non può mai tradursi in un fai da te, che magari può risultare gratificante per qualche "sindaco sceriffo", ma lascia la grande maggioranza degli amministratori capaci e responsabili in una condizione di profondo disagio, vittime di una sorta di sindrome da abbandono da parte delle istituzioni nazionali.

Le politiche locali, per essere veramente efficaci, non possono iscriversi che nell'ambito di politiche nazionali. Nessuna delle grandi questioni che toccano i nostri territori può essere risolta senza un impegno diretto, sul piano delle risorse e degli indirizzi generali, anche da parte dello Stato.

In questo senso, le politiche devono essere tutte nazionali, come sancito dall'articolo 114 della Costituzione che definisce la Repubblica composta da comuni, province, regioni e Stato.

Solo in questa visione integrata può avere una ricaduta effettiva, e non solo ideologico, il principio europeo della sussidiarietà proclamato dal nuovo articolo 118 della nostra Carta costituzionale, che vede le funzioni amministrative attribuite, in via preferenziale, ai livelli di governo più vicini al territorio.

Non sono, pertanto, d'accordo con chi è convinto che l'Italia possa reggere alla competizione internazionale e conservare la propria prosperità solo confidando nella forza dei suoi sistemi territoriali.

Il notevole spostamento di poteri verso le regioni e le autonomie locali non deve, infatti, determinare l'affievolimento, soprattutto nei consessi istituzionali dell'Unione europea, della capacità di affrontare, con spirito unitario e con rinnovata forza interna, i problemi che scaturiscono dalla difficile fase economico-finanziaria che anche l'Italia sta attraversando in un quadro di economia globalizzata certamente non esaltante.

Al riguardo, gli indici più importanti che delineano il profilo di competitività di un Paese - come confermato da un ampio studio pubblicato qualche settimana fa dalla Commissione europea - fanno riferimento alla presenza di beni come il grado di istruzione di base, la qualità del sistema istituzionale, la funzionalità delle infrastrutture.

Si tratta di beni e servizi che i sistemi territoriali non possono produrre da soli: i distretti produttivi vanno collegati, le imprese vanno aiutate a crescere offrendo ai cittadini una buona formazione ed incentivando la ricerca e l'innovazione.

Competitività del "sistema-Paese" e coesione sociale non sono, pertanto, obiettivi contrastanti, ma, in questa fase della modernità, finiscono per coincidere.

Lo dimostra concretamente quanto ha fatto un nostro partner in Europa, la Germania, la cui struttura federale non ha impedito la messa in campo di azioni di orizzonte nazionale di sostegno alla ricerca e allo sviluppo che oggi permettono a quel Paese di mettere a segno prestazioni comparativamente molto migliori della nostra.

La classe politica italiana, ai diversi livelli di governo, deve tornare ad esprimere politiche di ampio respiro nazionale, in grado di mobilitare, a favore dell'intero Paese, la straordinaria vitalità e diversità di risorse civili, economiche e di capitale sociale dei nostri sistemi territoriali.

Senza questo comune riferimento, quelle risorse rischiano di disperdersi sotto forma di frammentazione o di agire addirittura come fattore di disgregazione dell'unità nazionale, contrapponendo un territorio all'altro.

Per tale motivo, c'è bisogno di sedi di discussione e di confronto come questa, affrancate dall'urgenza della polemica politica.

Sedi dove chi ha responsabilità politiche possa verificare e rafforzare la presenza di quello che un grande pensatore liberale, Ronald Dworkin, ha chiamato il "terreno comune" valoriale a partire dal quale si possono aprire quelle necessarie "controversie" sui molteplici modi cui dare attuazione ai principi condivisi che nutrono ogni dialettica democratica.

Vi è, però, anche la necessità di articolare in forma più robusta dell'attuale le forme istituzionali di collegamento fra i diversi livelli della rappresentanza politica.

Il sistema della Conferenza fra Stato ed autonomie è uno strumento utile a questo fine, ma ormai insufficiente a governare in forma efficiente e trasparente un sistema di relazioni fra centro ed autonomie territoriali estremamente complesso e attraverso il quale passano ormai pressoché tutte le maggiori politiche pubbliche.

A questo riguardo, si avverte sempre di più la mancanza di un'adeguata discussione pubblica sulle grandi questioni che riguardano l'organizzazione della Repubblica, soprattutto in questa fase di profonda redistribuzione degli equilibri fra le sue diverse componenti.

L'approvazione, con ampia maggioranza, della legge n. 42 del 2009 di attuazione del federalismo fiscale offre un primo esempio di un percorso deliberativo condiviso fra Stato ed autonomie, fra esecutivi ed assemblee rappresentative.

Tuttavia, molto rimane da fare per costruire, in forma strutturata, un'architettura di relazioni fra le istituzioni che sia all'altezza della crescente domanda di governo in un sistema che si è fatto inevitabilmente molto più complesso rispetto al passato.

Nasce da qui l'esigenza di realizzare una vera e propria "democrazia governante" che, come ci ha insegnato Leopoldo Elia, si contrappone al concetto di "democrazia governata" e comporta la necessità di individuare, per ciascuna procedura di decisione politica, un punto di equilibrio condiviso fra il suo grado di rappresentatività e quello di efficienza.

Si tratta, come è noto, di un problema solo apparentemente tecnico che, in realtà, sottende tutte le tensioni proprie del confronto fra interessi e schieramenti politici contrapposti e che ha determinato la tendenza a risolvere in chiave decisionista il dilemma fra rappresentatività ed efficienza, attribuendo al Governo una significativa influenza nelle procedure parlamentari e riducendo di conseguenza gli spazi di autonoma iniziativa parlamentare.

Ma, oltre che al sistema istituzionale, dobbiamo guardare ai cittadini.

Lo sviluppo storico dell'idea stessa di rappresentanza ha, del resto, seguito un percorso congiunto con quello della cittadinanza e sarebbe ben strano se questa evoluzione parallela subisse un arresto proprio oggi.

Per questa ragione, sono convinto che, anche in questo campo, dobbiamo fare un coraggioso sforzo di innovazione.

La cittadinanza va oggi concepita non tanto come status, ma come appartenenza ad una comunità dove le persone vivono, lavorano, studiano.

Una comunità che non può rappresentarsi che come comunità aperta, di diritti e doveri, in cui il riconoscimento dei diritti fondamentali si coniughi con il riconoscimento e il rispetto degli inderogabili doveri di solidarietà economica civile e sociale indicati dalla Costituzione repubblicana.

Credo sia davvero innegabile, al di là delle forti divergenze che si registrano tra le forze politiche sul tema, che la convivenza con tutti coloro che sono in Italia e che non sono cittadini italiani appartenga allo scenario che dovremo inevitabilmente affrontare nel nostro futuro.

È in questo quadro che la nostra legislazione è chiamata ad evolversi per rispondere a queste concrete ed odierne dinamiche ed è chiamata a farlo nel quadro saldo dei princìpi che i Costituenti hanno voluto a suo fondamento.

Per gettare la basi di quella che definirei una forma avanzata di patriottismo repubblicano, abbiamo bisogno di nuove regole in grado di sancire diritti e obblighi di coloro che non sono ancora cittadini, ma vi aspirano, e di coloro che risiedono solo temporaneamente nel nostro Paese e non chiedono di diventare cittadini.

Per orientarsi, la stella polare è nella consapevolezza che vi sono diritti e doveri di solidarietà e di rispetto in cui tutti devono riconoscersi in quanto persone, al di là del fatto di essere o meno cittadini.

Solo così si può dare piena attuazione a politiche basate sul "pieno sviluppo della persona umana", secondo quanto sancisce l'articolo 3 della nostra Costituzione.

Solo tenendo vive le radici della Costituzione sarà possibile riconoscere le ragioni degli altri, rispettare le identità e le memorie collettive e favorire così la convivenza tra culture diverse.

E' motivo di conforto il fatto che, rispetto al passato, le nuove generazioni europee lo hanno saputo fare, seppellendo gli odi e le rivalità che, nel '900, hanno avvelenato la convivenza fra i popoli.

A chi ha responsabilità politiche spetta il compito di costruire e rendere possibile ogni giorno questa convivenza, favorendo concretamente la costruzione di quella che Jürgen Habermas chiama la "solidarietà fra estranei", quel legame sociale che si basa non più sulla comune appartenenza a comunità tecniche o religiose, bensì sulla condivisione di una tavola comune di regole e di su cui basare il dialogo e il rispetto reciproco.

E' ovvio che lavorare in questa direzione presuppone un approccio diametralmente opposto a quello di chi concepisce il politico come un "imprenditore del conflitto" impegnato a ricavare, dalle fratture presenti nella società, la massima rendita in termini elettorali.

Come ha recentemente affermato il premio nobel Amartya Sen, la politica va concepita come "pubblico ragionamento", che decide dopo avere ascoltato le ragioni dell'altro, in un confronto ove prevale non chi urla di più, ma chi riesce davanti ai cittadini a dimostrare i migliori argomenti.

Non è facile. Ma è indispensabile esserne coscienti e almeno cercare di riuscirvi.