Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe

INIZIO CONTENUTO

Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

29/10/2010

Bari, Teatro Piccinni – Convegno sul tema “Organizzare la giustizia – il ruolo del nuovo CSM: fra nuove regole da scrivere e vecchi ruoli”

Autorità, Signore e Signori!

L'Italia è considerata dagli studiosi e dagli storici del diritto il centro di irradiazione dei principi del diritto penale.

La "cosa" non deve stupire.

Di questa alta tradizione rendono testimonianza, infatti, i primi studi "moderni" e sistematici sul diritto penale elaborati, fra il 500 e il 600, dai "doctores" italiani e, poi, le importanti teorie illuministiche ed umanitarie sul principio della "colpevolezza" che fanno capo a pensatori del calibro di Pietro Verri e Cesare Beccaria.

Fu, in particolare, quest'ultimo, col suo celeberrimo "Dei delitti e delle pene" (1764), ad affermare con forza il principio di legalità e a pervenire alla famosa duplice conclusione secondo cui - cito testualmente - "le pene che oltrepassano la necessità di conservare il deposito della salute pubblica sono ingiuste di loro natura, mentre tanto più giuste sono le pene quanto più sacra ed inviolabile è la sicurezza, e maggiore la libertà che il sovrano conserva ai sudditi".

Sempre sotto la spinta di idee di ispirazione sensistica, mutuate più o meno direttamente da Locke, l'Italia fu antesignana nel decretare l'abolizione della pena di morte mediante il codice "Leopoldino" emanato nel 1786.

"Culla del diritto penale", dunque. L'Italia è anche questo per gli studiosi di tutto il mondo.

Ma noi tutti, che viviamo in questo Paese e che, da avvocati, da giudici, o da semplici cittadini-utenti, entriamo in contatto con la giustizia penale reale, sappiamo che, in quella culla, il nostro diritto penale dorme sonni profondi.

Vi sono paesi che, a questo riguardo, hanno una tradizione scientifica molto inferiore alla nostra, dove, tuttavia, la macchina della giustizia è di gran lunga più efficiente. Si pensi alla Scozia, dove il diritto penale non è mai stato oggetto di studi approfonditi; dove non esiste un codice penale; e dove l'Alta Corte di Edimburgo ha addirittura il potere di creare nuovi reati e dove l'azione penale, come in tanti altri paesi anglosassoni, è discrezionale, e non obbligatoria.

Ebbene, in Scozia un processo penale, di norma, si conclude a pochi mesi dalla scoperta del reato. E i cittadini di quella Nazione si dichiarano decisamente soddisfatti del funzionamento della loro "criminal justice".

Che significa tutto ciò? Significa che il diritto può essere molto evoluto in teoria e, invece, fallimentare o largamente insoddisfacente nella sua attuazione pratica. In altre parole, una raffinatissima "teoria della giustizia" può tradursi in una beffarda "giustizia in teoria"!

In Italia, le leggi penali, sia quelle sostanziali che quelle processuali, non sono certo arretrate. Le garanzie costituzionali vivono attraverso i nostri codici. La tecnica legislativa che caratterizza le nostre norme, d'altronde, non ha nulla da invidiare a quella di altri legislatori.

Il codice di procedura penale del 1989, pur a seguito dei numerosi interventi ad opera del legislatore e della Corte costituzionale, rappresenta un modello di codice accusatorio all'anglosassone attuato in una paese di tradizione continentale.

Certo, il codice penale è ancora quello del 1930. Ma, in questi 80 anni, molte sono state le modifiche legislative; molte le norme ritoccate o eliminate dal "Giudice delle leggi" e numerose le norme reinterpretate in chiave evolutiva dalla giurisprudenza. In sostanza, il codice, come è oggi scritto ed applicato, può ritenersi al passo coi tempi e quasi del tutto accettabile.

Le leggi approvate di recente hanno poi contribuito a tutelare categorie di vittime che il nostro codice, per arretratezze culturali oggi superate, ignorava. Si pensi, per tutte, alla legge del 1996 sulla violenza sessuale; a quella del 1998 sulla pedo-pornografia. E, da ultimo, all'introduzione, nel nostro ordinamento penale, della fattispecie dello "stalking".

Dunque, il quadro del nostro sistema normativo "scritto" è certamente di tutto rispetto.

Ciò che, in Italia, è veramente deficitario è piuttosto il diritto "in azione", quello dell'applicazione pratica delle leggi da parte della nostra giustizia penale; una giustizia penale troppo spesso inefficiente.

Come ho detto in un'altra occasione, "la stella polare di una riforma [della giustizia] per il cittadino dev'essere quella di restituire efficienza al sistema".

La giustizia penale è, comunque, macchina decisamente complessa da far funzionare. E' fatta di uomini, di mezzi, di edifici, e soprattutto di organizzazione.

Non è possibile ovviamente in questa sede trattare tutti i mali della nostra giustizia penale.

Si può peraltro partire da un rilievo indiscutibile.

La nostra giustizia, in linea generale, non è "ingiusta". Le garanzie costituzionali sono assicurate anche nel diritto vivente e, come già ho accennato, le nostre leggi sono apprezzabili e "giuste".

Piuttosto, il peggior male della nostra giustizia è la sua lentezza. Una lentezza paradigmatica, anacronistica, ormai proverbiale, che ci colloca agli ultimi posti delle classifiche europee, se non mondiali, e che ci procura continue condanne da parte della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

L'applicazione delle leggi penali non sopporta la lentezza. Lentezza vuol dire poca tutela delle vittime, che devono attendere anni per veder fatta giustizia. Vuol dire scarsa tutela degli imputati, che devono attendere anni per conoscere l'esito del giudizio penale cui sono sottoposti. Da questi punti di vista, la lentezza dei processi è indirettamente causa di perdita di garanzie.

Ma lentezza della giustizia vuol dire anche inefficacia del sistema delle pene: la pena per essere efficace deve essere pronta e certa. Ebbene, se il processo è troppo lungo, la pena non sarà mai pronta. Ed è la pena definitiva che deve essere pronta. Non si possono riempire le nostre carceri di detenuti in attesa di giudizio, perché questo si ripercuote ancora una volta sulla questione delle garanzie.

D'altronde, se il processo è lento, anche la certezza della pena è minata alla radice. Non raramente, infatti, la lentezza del processo determina prescrizioni, per non parlare di provvedimenti vari di clemenza sempre in agguato.

Al fine di velocizzare la nostra giustizia penale, la strada migliore non è certo quella di attuare modifiche che determinino l'abdicazione al principale obiettivo di un ordinamento penale: quello della protezione dei cittadini dal crimine.

Alcuni ragionevoli limiti alla durata dei processi, che saranno incardinati nel futuro, sia pur con la dovuta flessibilità, possono anche essere stabiliti e si potrebbe riflettere sulla semplificazione del processo penale. Ad esempio, siamo sicuri che l'udienza preliminare, così come è attuata oggi, sia davvero indispensabile? Ancora: ci possiamo permettere tre gradi di giudizio così come sono impostati e messi in pratica attualmente? Si tratta di temi che devono essere affrontati non perdendo di vista le garanzie, ma nemmeno il cruciale obiettivo dell'efficienza.

Ma ciò che conta davvero al fine di velocizzare la giustizia è ben altro.

In primo luogo, la priorità è quella di stanziare maggiori risorse fiinanziarie. Risparmiare sulla giustizia non è certo un lusso che si può permettere un paese civile. E' vero che attraversiamo un periodo di crisi e che lo Stato deve stare particolarmente attento nelle spese. Ma il risparmio in tema di giustizia ha costi troppo alti, che si traducono, oltre che in sofferenze e in disagi sociali per i cittadini, anche in ingenti perdite economiche.

Si pensi all'importanza della lotta alla criminalità organizzata o contro l'evasione fiscale, fondamentali al fine di ridurre gli enormi danni che questi fenomeni criminosi, particolarmente diffusi in Italia, arrecano all'economia nazionale.

Sul piano della giustizia civile, poi, il malfunzionamento, i ritardi biblici del sistema provocano una fuga degli imprenditori e delle imprese dal nostro Paese, perché non in grado di assicurare la certezza del diritto e, soprattutto, la celerità della risoluzione delle controversie.

Con maggiori risorse finanziarie, perché questa è la priorità, si potrebbe, in primo luogo, incrementare il numero dei magistrati, perché non è vero che il loro numero attuale è sufficiente. Si pensi solo alla situazione di emergenza della Procura di Bari, come ha dimostrato in modo ineccepibile il Procuratore della Repubblica, dottor Antonio Laudati, con dovizia di dati statistici decisamente impressionanti. E Bari non è che un esempio: molti altri uffici giudiziari, in Italia, soffrono di intollerabili carenze di organico.

In secondo luogo, si potrebbero migliorare le dotazioni, i mezzi e gli edifici a disposizione dei magistrati per svolgere meglio il loro lavoro.

L'informatizzazione potrebbe essere realizzata appieno ed incentivata laddove carente. In alcune sedi giudiziarie, si sono avviate, come è noto, interessanti e promettenti sperimentazioni. Ma le maggiori risorse dovrebbero anche servire a costruire nuove carceri, visto che il problema del sovraffollamento dei nostri istituti di pena non può certo essere risolto, ricorrendo ad indulti.

Poi, ma solo poi, per migliorare la fiducia da parte dei cittadini nei confronti dei magistrati e per dare effettiva ed ulteriore attuazione al "giusto processo", sarebbe opportuno realizzare una chiara separazione delle carriere fra magistrati requirenti e giudicanti.

L'importante, però, è non rinunciare all'indipendenza della magistratura, anche relativamente ai pubblici ministeri. Sarebbe un grave errore ritornare alla soggezione del pubblico ministero all'esecutivo come ai tempi del regime fascista, un assetto ordinamentale che fu immediatamente superato dalla Costituzione del 1947.

Dunque, carriere separate sì, ma mai assoggettamento dei pubblici ministeri all'Esecutivo!

La netta separazione delle carriere porta con sé quasi inevitabilmente una riforma del C.SM. e prevedere due C.S.M. o, più precisamente, due sezioni specializzate è, probabilmente, la via da percorrere.

Sul punto, non si possono peraltro accogliere quelle proposte che mirano a rendere preponderanti, nella composizione del C.S.M., i componenti non togati, di nomina politica. E ne spiegherò subito i motivi.

Come tutti sappiamo, l'articolo 104 della Costituzione dispone, al primo comma, che "la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere".

E' chiaro che questa disposizione deriva direttamente dalla teoria della "separazione dei poteri", legislativo, esecutivo, giudiziario, risalente a Montesquieu.

L'autonomia della magistratura viene, quindi, ad essere un presupposto della stessa indipendenza e costituisce il fondamento stesso dell'indipendenza. Se la magistratura non fosse autonoma, vale a dire non si desse essa stessa, nell'ambito delle leggi che ne disciplinano l'attività, le regole per il funzionamento organizzativo del "servizio giustizia", ne discenderebbe un vulnus per la sua stessa indipendenza.

Da ciò il rischio del venir meno dell'indipendenza del giudice che è, a sua volta, prerequisito fondamentale per l'imparzialità nell'applicazione della legge, e, dunque, per la realizzazione del principio sancito dall'articolo 101 della Costituzione, secondo cui i giudici "sono soggetti soltanto alla legge".

Proprio al fine di assicurare l'autonomia della magistratura dagli altri poteri, la Costituzione ha previsto un organo di autogoverno. Non a caso, è lo stesso articolo 104 della Costituzione che si occupa, nei commi immediatamente successivi al primo, del C.S.M.

La composizione del C.S.M. è, ovviamente, questione cruciale ed è in strettissimo rapporto con la funzione che al C.S.M. si vuole attribuire. Esaminando gli atti dell'Assemblea Costituente, si ravvisano in proposito due tendenze: la prima, sull'onda della reazione al ventennio fascista, sottolineava l'esigenza di accentuare i caratteri di assoluta autonomia ed indipendenza della magistratura; la seconda, prospettava le ragioni dell'unità dell'ordinamento statuale.

Dal contemperamento fra queste due tendenze, si giunse a strutturare il C.S.M. non limitandone la composizione ai membri togati, ma riservando la nomina di un terzo dei suoi componenti al Parlamento in seduta comune, assegnando la presidenza al Capo dello Stato e la vice-presidenza ad uno dei membri non togati.

Ora, questa composizione a me pare ancor oggi adeguatamente bilanciata. Un eccessivo peso attribuito alla parte "non togata" del C.S.M. esporrebbe inevitabilmente questo organo a forti interferenze da parte del potere politico. In questo modo, si minerebbero proprio i principi basilari che l'articolo 104, primo comma, della Costituzione vuole assicurare, ovvero quelli della autonomia e della indipendenza della magistratura. Le conseguenze, quasi inevitabili, di un simile ribaltamento sarebbero rappresentate dai gravi rischi per l'imparzialità del giudice nell'applicazione della legge e per il rispetto, in materia penale, dello stesso principio di legalità. Di più - come si è autorevolmente osservato in relazione ad una simile riforma proposta nel 1975 - "ove codesta riforma fosse attuata, non ne risulterebbe modificato soltanto un aspetto meramente strutturale dell'assetto della magistratura, ma si determinerebbe un'alterazione radicale del sistema di equilibrio tra i poteri dello Stato, che finirebbe per modificare l'intero disegno costituzionale" (Bonifacio-Giacobbe).

Se le ragioni delle modifiche proposte sono giustificate col clima di tensione che vede contrapposti, da un lato, la magistratura o parti di essa e, dall'altro, frange pur rilevanti del potere politico, simili soluzioni appaiono ancor più rischiose.

In un clima così già oggi poco disteso, le interferenze fra potere politico e funzione giurisdizionale sarebbero destinate ad intensificarsi e ciò porterebbe inevitabilmente al determinarsi di una spirale di intrecci e cortocircuiti fra politica e giustizia sempre più forti e pericolosi, in particolare per la credibilità delle nostre istituzioni.

Altre proposte di riforma sono relative alla ipotesi di attribuire maggiori poteri al Ministro della Giustizia.

L'articolo 105 della Costituzione recita: "Spettano al C.S.M., secondo le norme dell'ordinamento giudiziario, le assunzioni, le assegnazioni ed i trasferimenti, le promozioni e i provvedimenti disciplinari nei riguardi dei magistrati".

I poteri di nominare, di assegnare, di trasferire e di promuovere i magistrati sono attribuiti dalla Costituzione al C.S.M. proprio al fine di garantire quell'autonomia dell'ordine giudiziario di cui si è detto, premessa indispensabile della indipendenza dei magistrati. Il trasferire questo potere al Ministro della Giustizia determinerebbe un'intromissione dell'esecutivo nel "governo" della magistratura.

Se appare non accettabile la ricomposizione del C.S.M. con una prevalenza di membri laici, ancor più lo sarebbe l'attribuzione al Ministro della Giustizia dei poteri più classici spettanti in esclusiva al C.S.M..

Infine, si è proposto, di recente, di modificare l'articolo 109 della Costituzione, secondo cui "L'autorità giudiziaria dispone direttamente della polizia giudiziaria".

Non è ancora ben chiara la portata dell'innovazione che si progetta su questo tema. Comunque, è noto che il codice di procedura penale del 1989 ha dato piena esecuzione a questa norma costituzionale. Dobbiamo chiederci se il rafforzamento dell'autonomia della polizia giudiziaria avrebbe ripercussioni, e quali, in materia di garanzie per i cittadini.

Quel che mi sembra evidente è che diminuire, comunque, le prerogative attuali del pubblico ministero nei confronti della polizia giudiziaria sarebbe un modo per intaccare la rilevanza della figura del magistrato nel nostro sistema e per ridurne il ruolo di perno centrale dell'esercizio dell'azione penale.

A questo proposito, si è proposto anche di abolire l'obbligatorietà dell'azione penale.

Mi rendo conto che si tratta di un principio ben saldo sulla carta, ma non attuato integralmente nella prassi, non tanto per cattiva volontà, bensì per mancanza di personale e di mezzi. Tuttavia, questo vale per molti dei pincìpi sanciti dalla Costituzione. Si tratta di principi sacrosanti che sottolineano obiettivi cui il sistema deve tendere, ma naturalmente la loro piena attuazione è difficile da realizzarsi completamente nella pratica quotidiana.

Non per questo dobbiamo, però, rinunciare a questi principi. Dovremmo, ad esempio, cancellare dalla Costituzione il principio di legalità (art. 25 Cost.), solo perché abbiamo scoperto che il giudice non è, nei fatti, una mera "bocca della legge" come l'avrebbe ingenuamente voluto Montesquieu?

Credo che il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, fondamentale presidio del principio di uguaglianza e della stessa indipendenza della magistratura, debba restare fermo nella nostra Costituzione.

Si possono trovare soluzioni per disciplinare in qualche modo le priorità nell'esercizio dell'azione penale, magari attraverso indicazioni approvate di anno in anno da parte del Parlamento. Si tratta, comunque, di una questione tutta da discutere, anche e soprattutto con i magistrati, prima di adottare precipitose riforme che potrebbero avere pesanti effetti collaterali che avverrebbero di certo seguendo quel mal vezzo di pensare di poter dar vita a riforme a costi zero, in termini di oneri finanziari.

Un ultimo punto merita di essere affrontato.

L'altro grande male della giustizia italiana, oltre ad essere rappresentato dalla lentezza dei processi, è proprio quello che nasce dai numerosissimi contrasti giurisprudenziali che rendono spesso impossibile al cittadino, e allo stesso operatore del diritto, conoscere l'esatta fisionomia della legge.

Per uscire da questa situazione di "impasse", si potrebbe prevedere una qualche forma di vincolo che scaturisca, ad esempio, dal rispetto del "precedente giurisprudenziale", soprattutto di quello di provenienza della Corte di Cassazione, specie se a Sezioni Unite.

A tale proposito, ricordo che già oggi, in materia civile, a seguito dell'entrata in vigore del decreto legislativo n. 40 del 2006, l'articolo 374 del codice di procedura civile dispone che "Se la sezione semplice (della Cassazione) ritiene di non condividere il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite, rimette a quest'ultime, con ordinanza motivata, la decisione del ricorso".

Qualcosa di simile si può prevedere per il processo penale, benché il progetto definitivo del codice di procedura penale del 1998 (in anticipo rispetto alla procedura civile) prevedesse un'analoga disposizione, caduta all'ultimo momento nella redazione finale del codice, proprio per la preoccupazione di contraddire l'articolo 101 della Costituzione. Forse, sarebbe necessario adottare oggi una soluzione di questo tipo, come primo passo di una riforma del sistema penale e alla ricerca di una maggiore certezza del diritto.

Quella "certezza del diritto" che necessita di essere garantita a tutti i costi per assicurare al Paese una giustizia che sia in grado non solo di offrire una risposta concreta, in termini di tutela, alle aspettative dei cittadini, ma anche di perseguire gli obiettivi di "crescita morale e civile" senza i quali non c'è alcun progresso di libertà e di giustizia!

Il mestiere del magistrato è un mestiere difficile: la collocazione centrale della magistratura, non solo di quella ordinaria, nell'attuale contesto istituzionale, economico e sociale rende i magistrati più esposti che in passato ai giudizi e alle critiche e, talvolta, anche ad attacchi del tutto privi di fondamento.

A ciò i magistrati devono rispondere con il loro lavoro, con la loro devozione alle istituzioni repubblicane, con il loro comportamento lontano da "manie" di protagonismo, nella profonda consapevolezza, come ha affermato di recente il Capo dello Stato, "di rendere un servizio fondamentale ai diritti e alla sicurezza dei cittadini".

Un servizio che consente a tutti i magistrati di vivere momenti straordinari non soltanto sul piano giuridico e professionale, ma anche su quello umano. Momenti per i quali, come scrisse nel secolo scorso Vittorio Emanuele Orlando, "vale la pena dedicare la vita a questo lavoro, perché la giustizia nei confronti dell'individuo, fosse anche il più umile, è tutto. Il resto viene dopo".

Grazie.