Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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INIZIO CONTENUTO

Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

15/11/2010

Montecitorio, Sala della Lupa - Presentazione del Rapporto 2010 dell'Associazione Italiadecide "L'Italia che c'è"

Signor Presidente della Repubblica, Autorità, Signore e Signori!

La Camera dei deputati è lieta di ospitare la presentazione del "Rapporto sull'Italia che c'è: le reti territoriali per l'Unità e la crescita", realizzato dall'Associazione "Italiadecide".

Ringrazio il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, per la presenza che testimonia l'importanza dell'iniziativa.

Saluto il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Gianni Letta, il mio predecessore alla Presidenza della Camera, Luciano Violante, che è il presidente di Italiadecide, il Presidente dell'Istituto dell'Enciclopedia italiana Giuliano Amato, il professor Walter Barberis dell'Università di Torino.

Desidero, infine, rivolgere un particolare saluto al Presidente della Repubblica Emerito, Carlo Azeglio Ciampi, Presidente onorario di Italiadecide, che oggi non ha potuto partecipare a questa cerimonia.

Come è noto, Italiadecide riunisce personalità di diverso orientamento politico-culturale, che si sono date come compito quello di elaborare, attraverso ricerche dedicate alle politiche pubbliche e al sistema decisionale italiano nelle sue diverse articolazioni, una base condivisa di conoscenza sulle questioni strategiche per il futuro del Paese, da offrire all'attenzione della sua classe dirigente con uno spirito che prescinde totalmente dalle appartenenze politiche dei singoli.

Oggetto del Rapporto di quest'anno sono le reti territoriali di carattere istituzionale, logistico, economico e culturale che operano in Italia. E' un modo diverso e originale, rispetto al dibattito corrente, di guardare all'unità nazionale: non sul piano storico o dell'identità culturale e linguistica collettiva, ma dal punto di vista delle politiche, delle infrastrutture e dei grandi servizi che concretamente tengono unita la comunità nazionale e ne garantiscano la solidità sul piano civile, sociale ed economico.

Nel momento in cui ci accingiamo a celebrare il 150° anniversario dell'Unità, è questa una prospettiva feconda per guardare, lontani da ogni retorica, sulla base di un'analisi oggettiva e realistica dei nostri problemi, all'indispensabile esigenza di assicurare a tutte le aree del nostro territorio, senza distinzione alcuna, sviluppo e coesione.

Investimenti nei settori delle infrastrutture, della ricerca e dell'istruzione e ammodernamento del sistema politico-istituzionale sono priorità assolute su cui si gioca la possibilità di rinnovare, in termini reali, l'unità del Paese.

Da questo punto di vista, il Rapporto non nasconde le perduranti e strutturali carenze del "sistema Italia", che rischiano non solo di compromettere la funzionalità di alcuni servizi essenziali come appunto la scuola, la sanità, il finanziamento alla ricerca e all'innovazione tecnologica, ma anche di indebolire il sentimento di appartenenza dei cittadini.

Uno dei risultati più interessanti della ricerca, sul quale sarebbe interessante riflettere sul piano politico, è infatti che la disaffezione degli italiani verso il loro Paese non nasce, come talvolta si sostiene, dall'assenza di fattori identitari comuni o dalla mancanza di riferimenti ideali, che invece rappresentano ancora oggi un dato socialmente e culturalmente assai forte, ma dalla legittima reazione dei nostri connazionali allo scarso funzionamento dei servizi pubblici, dal loro malcontento per la cattiva distribuzione o la mancata razionalizzazione delle risorse destinate alle funzioni primarie che lo Stato dovrebbe garantire ai suoi cittadini.

In altre parole, la crisi odierna del sentimento di unità nazionale, sulla quale ci interroghiamo con preoccupazione ormai da anni, dipende in gran parte dal giudizio negativo che gli italiani danno sulla qualità e il funzionamento delle politiche pubbliche sul territorio e sull'incapacità delle classi dirigenti, quella nazionale e quelle periferiche, di decidere in funzione degli interessi generali delle comunità che rappresentano.

Naturalmente, la fase che sta attraversando il Paese non dipende solo da un deficit di capacità decisionale e da un sistema di relazioni organizzative e funzionali che non sempre risponde alle esigenze primarie dei cittadini.

Va detto con chiarezza che tra le responsabilità della classe dirigente c'è anche quella di aver smarrito quel senso della dignità, della responsabilità e del dovere che dovrebbe essere proprio di chi è chiamato a ricoprire cariche pubbliche.

I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore, come prevede un articolo della nostra Costituzione che è tra i meno citati e conosciuti. Solo riscoprendo il carattere vincolante di queste parole "dal sapore antico", ma sempre straordinariamente attuali, sarà possibile far riacquistare alla politica una piena "credibilità", requisito imprescindibile per affrontare le complesse, e per molti aspetti del tutto nuove, domande di governo poste dalla collettività.

Partendo da questo presupposto, etico prima che politico, occorre dunque chiedersi come si possa ricostruire una strategia politica nazionale che ridia speranza e futuro all'Italia.

Il Rapporto che oggi presentiamo dà una risposta semplice, ma persuasiva, a questo fondamentale quesito. Dobbiamo ripartire dall'Italia che c'è. Non siamo all'anno zero, con un Paese allo sbando interamente da ricostruire! Abbiamo, invece, di fronte a noi una Nazione capace di esprimere straordinarie potenzialità attraverso la vitalità, sul piano sociale e culturale, dei suoi territori, la forza competitiva dei suoi distretti produttivi e la vivacità del suo tessuto civile e associativo.

Un Paese che, anche in questi anni, ha continuato a progredire in termini di modernità in alcuni settori cruciali non solo dell'economia, ma anche delle pubbliche amministrazioni e dell'innovazione istituzionale facendo dell'Italia, per molti aspetti, un vero e proprio laboratorio.

Questa realtà complessa, e in continua evoluzione, non può, però, essere governata per intero dal centro! Sarebbe un grave errore reagire ai tanti sintomi di crisi che caratterizzano il rapporto fra Paese e poteri pubblici, riproponendo vecchie formule "centralistiche" che, anche in passato, hanno dato una prova di sé tutt'altro che esaltante.

Non a caso oggi il governo del Paese poggia sul sistema istituzionale multilivello delineato dall'articolo 114 della Costituzione.

Il concorso fra Stato e governi territoriali non può, tuttavia, ingenerare confusione di competenze e di responsabilità, ma, al contrario, deve risolversi in una precisa distribuzione di funzioni, che tenga conto del ruolo svolto da ciascun livello di governance nell'ambito della comune cornice nazionale ed europea.

Per raggiungere questo obiettivo sono probabilmente necessarie alcune riforme di carattere costituzionale in grado di risolvere alcuni problemi relativi all'applicazione delle disposizioni contenute nel nuovo Titolo V della Costituzione.

Penso, in particolare, alla distribuzione delle competenze legislative prevista dall'articolo 117, che ha reso necessaria l'elaborazione, da parte della Corte costituzionale, del principio giurisprudenziale della "leale collaborazione", per preservare, in forme ancora più efficaci ed esplicite che in passato, i valori dell'unità nazionale.

Valori che non vanno declinati in senso puramente simbolico, ma concretamente attuati in politiche capaci di offrire a tutti i nostri concittadini pari opportunità di fruizione dei diritti civili e sociali garantiti dalla prima parte della Costituzione.

In questo senso, le assemblee elettive - dal Parlamento nazionale ai Consigli delle regioni e degli enti locali - hanno un ruolo fondamentale da svolgere, dal momento che esse sono il luogo del pluralismo e del confronto tra maggioranza ed opposizione e, nel contempo, sono la sede in cui si realizza la sintesi degli interessi di ciascuna comunità e il massimo coordinamento interistituzionale.

Da questo punto di vista, sono convinto che la nascita di un'apposita "Camera delle Regioni" o "Senato delle Autonomie", in un'ottica di superamento del nostro bicameralismo perfetto, può costituire l'occasione storica per conferire agli interessi territoriali la più alta rappresentanza politica e per assicurare agli enti locali la partecipazione alle grandi scelte che riguardano l'organizzazione della Repubblica.

Ma, per certi aspetti, ancor prima delle riforme legislative, è indispensabile garantire la piena efficienza del "sistema Italia": il nostro Paese, infatti, viene quotidianamente "pesato" in Europa e nel mondo per la sua capacità complessiva di fare sistema e di offrire un ambiente istituzionale concretamente favorevole alla coesione e alla crescita.

Questa esigenza vale, in primo luogo, per le autonomie territoriali, chiamate ad abbandonare una concezione "proprietaria" delle loro competenze, in favore di un modello di ripartizione delle funzioni più flessibile, espressione dei principi di chiara matrice europea di sussidiarietà, differenziazione ed adeguatezza.

Si tratta di criteri che ripropongono nitidamente la finalità sostanziale delle riforme in senso autonomistico perseguite in questi anni: non la frammentazione del Paese in tante "piccole patrie", ma la riorganizzazione dei poteri pubblici per fornire ai cittadini e alle imprese servizi migliori, minori adempimenti amministrativi, un carico fiscale ragionevole e comparabile a quello degli altri paesi europei.

Considerazioni analoghe valgono per le cosiddette "autonomie funzionali", soprattutto per quelle, come la scuola e l'università, cui è affidato il delicatissimo compito di formare i nostri giovani.

Nella nuova dinamica dei poteri pubblici un cardine fondamentale rimane, infine, la valorizzazione, come prescrive l'articolo 118 della Costituzione, dell'autonoma iniziativa dei cittadini, singoli o associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale.

Una piena attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale è indispensabile per consolidare una cultura civica che definitivamente rinuncia all'idea dello "Stato-provvidenza", dal quale ci si attende la soluzione di problema per la collettività.

Anche i privati, dai singoli cittadini alle grandi imprese, devono sentirsi impegnati nei confronti di quei beni comuni (dal rispetto della legalità, alla correttezza fiscale, alla responsabilità sociale dell'impresa) che concorrono, in misura determinante, alla qualità della convivenza civile.

Nel governo di questo sistema il ruolo dello Stato non è certo in declino, come preconizzato negli scorsi anni da certe affrettate analisi dei fenomeni di devoluzione e piena integrazione europea.

Allo Stato si chiede oggi, forse di più che in passato, di gestire di meno in forma diretta, ma di definire strategie, indirizzi e obiettivi accompagnati dai necessari parametri per i controlli sui risultati, sull'economicità e sull'efficiente utilizzazione delle risorse pubbliche a tutti i livelli di governo.

L'attuazione della delega sul federalismo fiscale, attualmente in corso, ci pone di fronte, da questo punto di vista, a questioni complesse che Governo e Parlamento stanno affrontando attraverso soluzioni spesso innovative.

Il passaggio dal criterio della spesa storica a quello dei fabbisogni standard come base per il finanziamento degli enti territoriali apre una fase impegnativa per la costruzione di un'originale forma di federalismo, che deve essere, al contempo, competitivo e solidale.

La sfida è trovare un giusto equilibrio fra la responsabilizzazione dei governi locali e l'irrinunciabile garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni riguardanti i diritti civili e sociali che devono divenire obiettivi prioritari per l'allocazione della spesa presso gli enti territoriali.

In questa dinamica dobbiamo costruire uno Stato meno interventista, ma più esigente nel richiedere un migliore funzionamento e una più alta qualità della spesa da parte di tutti i poteri pubblici.

Sotto questo profilo, deve rimanere chiara la responsabilità finale dello Stato per la perequazione fra i territori dotati di diverse capacità fiscali: una perequazione che, quindi, non può che configurarsi in senso verticale, in quanto espressione concreta di quel "patto che ci lega" - per richiamare una felice espressione utilizzata dal Capo dello Stato - da declinare necessariamente in senso solidaristico.

Questa deve essere la base di partenza per affrontare la grave frattura che divide il nostro Paese, quella fra Nord e Sud, e che, in questi anni, ha ricominciato ad allargarsi sotto il profilo di quasi tutti gli indicatori economici sociali.

Il federalismo può costituire uno strumento innovativo per intervenire su questo punto: in nessun caso, esso può valere come esonero di una responsabilità che deve rimanere propria della politica nazionale.

La scelta di questo indirizzo impegna lo Stato ad agire nei confronti degli enti territoriali come fa l'Unione Europea verso gli Stati membri, come motore di un processo di liberazione e messa in comune di risorse economiche e umane finalizzato alla migliore tutela dei diritti sociali e al raggiungimento di più elevati tassi di crescita.

Ma per raggiungere questo ambizioso obiettivo, c'è bisogno dell'impulso che può provenire solo da una classe politica consapevole della gravità del momento ed autenticamente intenzionata ad offrire a tutti i cittadini, e soprattutto ai nostri giovani, un progetto di vita proiettato verso il futuro.