Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

15/11/2010

Montecitorio, Sala del Mappamondo - Presentazione del libro "Vorrei dirti che non eri solo" di Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi

Autorità, Signore e Signori!

La Camera dei deputati è lieta di ospitare la presentazione del libro 'Vorrei dirti che non eri solo' scritto da Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi, che saluto.

Un cordiale benvenuto agli autorevoli ospiti che interverranno: il sen. Luigi Manconi, presidente dell'associazione 'A Buon Diritto', ed Ezio Mauro, direttore del quotidiano ' La Repubblica '.

Prima di entrare nel merito della dolorosa vicenda di Stefano, voglio esprimere innanzitutto la mia umana vicinanza ai genitori - la signora Rita e il signor Giovanni - così profondamente colpiti da una tragedia che ha distrutto le loro vite e che ha scosso e commosso l'Italia intera.

Ed è proprio questo complesso insieme di fatti, sentimenti e sensazioni - nel quale la vicenda famigliare si è intrecciata a quella pubblica coinvolgendo uomini e Istituzioni - è proprio questa complessità, dicevo, che rende difficile parlare del 'caso Cucchi' senza rischiare di ferire ancora una volta la sua memoria e la sua famiglia, la fiducia dei cittadini verso le strutture dello Stato.

Quello di Stefano Cucchi, infatti, è un caso che, nel suo svilupparsi, passa da una dimensione privata a una dimensione pubblica, sociale. La sua storia, tra l'altro, ha messo in luce anche l'irrisolta questione del sovraffollamento del sistema carcerario italiano e delle drammatiche condizioni in cui vivono i detenuti: argomento sul quale il Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, è intervenuto con forza. Né si può sottacere, con amara constatazione, che, quello relativo ai diritti dei detenuti, è un problema che riguarda non soltanto l'Italia, che sconta peraltro una pesante penuria di organico impegnato nelle carceri.

Quella di Stefano è innanzitutto una storia di diritti negati che si è consumata in appena una settimana.

Stefano è morto perché chi avrebbe potuto e dovuto garantire l'assistenza sanitaria evidentemente non lo ha fatto, come emerge dalla lettura della relazione svolta dalla Commissione parlamentare d'inchiesta sul sistema sanitario nazionale, presieduta dal sen. Ignazio Marino.

Leggendo le pagine del libro ripercorriamo la vicenda di Stefano, che soffriva e si debilitava in completa solitudine. Nessuno infatti ha provveduto ad avvisare il suo avvocato - come pure lui aveva richiesto - né ad avvisare i suoi genitori di cui riviviamo l'angoscia mentre si scontravano contro il muro di gomma di risposte negative, dilatorie ed evasive. Il dubbio terribile che agita le nostre coscienze è che, talvolta, chi rappresenta lo Stato non metta in atto nei confronti dei detenuti quei sistemi di garanzia che costituiscono un elemento fondamentale di ogni democrazia. Dobbiamo ricordare che il detenuto è per prima cosa un uomo.

Concordo con il Ministro della Giustizia, Angelino Alfano, che a suo tempo affermò: «Si doveva evitare che Stefano Cucchi morisse. Uno Stato democratico assicura alla giustizia e può privare della libertà chi delinque. Ma nessuno può essere privato del diritto alla salute».

Personalmente ritengo che chiunque, italiano o straniero, si trovi a essere in custodia dello Stato debba poter contare con certezza che i suoi diritti siano pienamente tutelati. Per questo, le fotografie di Stefano, diffuse dalla famiglia non senza molti travagli interiori, ci devono indurre a una dolorosa riflessione.

È bene precisare che Stefano non è morto perché era tossicodipendente. Il processo in corso stabilirà come sono andati i fatti e accerterà le responsabilità e dobbiamo confidare nella magistratura per ristabilire la giustizia e per evitare che vi possano essere delle macchie che infanghino i leali servitori dello Stato - la stragrande maggioranza - ai quali deve andare tutta la nostra gratitudine per il quotidiano impegno nella lotta alla criminalità, nella tutela dell'ordine pubblico e per la custodia, la cura e l'assistenza ai detenuti.

Ma ci sono anche altri aspetti che desidero sottolineare. Credo che le Istituzioni democratiche debbano essere sempre permeate da un forte senso di umanità che non può, in nessuna circostanza, venir meno. Da questo punto di vista, reputo inaccettabile, indegno di un Paese civile, che nessuno abbia ancora fatto ammenda per quella tragica notifica con la quale la mamma di Stefano apprese, solo incidentalmente, della morte del figlio mentre la stavano informando della volontà di procedere all'autopsia. È agghiacciante pensare che nessuno avvisò i famigliari dell'avvenuto decesso del giovane in modo adeguato, rispettoso del dramma dei genitori e della dignità di Stefano.

on è questa l'unica parte del libro che mi ha dato la sensazione che un pericoloso processo di estraniazione emotiva stia minando la società, distruggendo un comune senso di appartenenza.

Un'atonia morale che si trasforma in egoismo e indifferenza verso gli altri, la loro dignità, la loro stessa esistenza.

È forse per questo che Ilaria Cucchi e Giovanni Bianconi non hanno raccontato 'solo' la via crucis di Stefano in carcere - di via crucis parlò in occasione del trigesimo il vescovo ausiliario di Roma monsignor Giuseppe Marciante - ma hanno voluto ripercorrere la storia della famiglia Cucchi, la storia di questi due fratelli - Ilaria e Stefano - seguendo anche le gioie della loro infanzia, i turbamenti dell'adolescenza, le scelte dell'età adulta.

Una sequenza di ritratti famigliari che non è casuale, né risponde a esigenze editoriali. Intervallare le vicende drammatiche con i flashback della normale vita famigliare significa umanizzare una tragedia che nel suo inizio, nel suo svolgimento e nel suo epilogo di umano ha avuto davvero ben poco, offendendo in noi quel sentimento di pietas che deve appartenere all'uomo ed è uno dei fondamenti indispensabili del vivere civile.

Il libro, tuttavia, è un libro che trasmette una speranza. Ilaria ha sin dall'inizio capito che per recuperare e restituire fiducia nelle Istituzioni era necessario ingaggiare una battaglia di verità. Affiancata dall'avv. Fabio Anselmo, che ha seguito anche i casi Aldrovandi e Uva, Ilaria ha compreso che soltanto superando quella iniziale ritrosia di fronte alle telecamere tipica delle persone normali avrebbe potuto combattere la guerra di 'Davide contro Golia'.

Ci è riuscita anche in virtù della sensibilità di alcuni parlamentari di tutte le forze politiche che le sono stati vicino sin dall'inizio. Soltanto grazie a questo impegno di Ilaria la battaglia per avere pace e restituire pace alla memoria di Stefano si è trasformata in un atto di fiducia nella giustizia e nella verità.

Perché senza giustizia non c'è libertà, né democrazia, la cui forza sta proprio nella capacità di riconoscere le proprie zone d'ombra e di illuminarle.

Ilaria, subito dopo la tragedia, fu anche tentata dall'idea di lasciare l'Italia: «Se questo è il Paese dove dovranno crescere i miei figli - diceva - meglio partire e costruire un futuro altrove».

Ma oggi Ilaria è qui con noi perché ha deciso di rimanere, non per cercare vendette ma risposte e decisioni che restituiscano dignità a Stefano e con lui a tutti noi.

Per questo le diciamo: grazie Ilaria per aver deciso di restare.