Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe

INIZIO CONTENUTO

Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

30/05/2011

Montecitorio, Sala della Lupa - Giornata di Studio sul Mezzogiorno promossa dallo SVIMEZ nell'ambito delle iniziative per i 150 anni dell'Unità d'Italia

Autorità, Signore e Signori!

La Camera dei deputati è particolarmente lieta di ospitare la "Giornata di studio sul Mezzogiorno" promossa dallo SVIMEZ nell'ambito delle iniziative organizzate per celebrare i 150 anni dell'Unità d'Italia.

E' un'occasione da affrontare in modo non rituale per lo meno se vogliamo acquisire maggiore consapevolezza sul percorso compiuto in questi decenni, sui progressi realizzati e, soprattutto, sulla strada ancora da fare per ridurre le distanze che si frappongono, a tanti decenni dall'Unità d'Italia.

La disponibilità di informazioni affidabili e di analisi scientificamente corrette, quali sono quelle che da tanti anni lo SVIMEZ ci mette a disposizione, costituisce innanzitutto un ottimo antidoto contro il rischio di polemiche pretestuose e superficiali che spesso hanno afflitto e in alcuni casi ancora affliggono il dibattito pubblico e il confronto politico

Penso, in particolare, a tutto quello che ruota intorno alla cosiddetta "questione meridionale" e, più in generale, ai rapporti che intercorrono tra il Nord e il Sud d'Italia; rapporti in ordine ai quali resta ancora, dal 1861, da verificare se si sia effettivamente realizzato uno spostamento di ingenti risorse dal Mezzogiorno al Centro-Nord d'Italia, per favorirne il decollo, e se il contributo offerto dall'"immigrazione" (in termini di forza lavoro) proveniente dalle regioni meridionali sia stato davvero determinante per la crescita del triangolo industriale a scapito del Sud.

E' certo che la visione di un Meridione fortemente penalizzato dal processo unitario ha perso, nel tempo, e aggiungo per fortuna, gran parte del suo fascino intellettuale e della stessa credibilità, soprattutto a causa di un eccesso di retorica nella rappresentazione degli argomenti sostenuti.

A tale visione è subentrata oggi una sostanziale indifferenza, quasi che il perdurare di un grave ritardo delle regioni del Mezzogiorno debba considerarsi soltanto come un problema quasi esclusivo delle regioni meridionali che può essere rimosso allentando i vincoli tra la parte più virtuosa del Paese e le sue aree maggiormente svantaggiate.

In questo contesto, non a caso è venuta affermandosi, in questi anni, e sempre con grande e crescente vigore, una questione "settentrionale", che si identifica nel crescente disagio dei ceti produttivi del Nord nei confronti dello Stato che non riuscirebbe ad offrire servizi efficienti proprio perché sarebbe "condizionato" da un Meridione che ormai costituisce un peso per il Paese.

Il risultato è che, di fatto, la questione meridionale è scomparsa dall'agenda politica; negli ultimi tempi, solo poche per quanto autorevoli voci hanno sottolineato il problema del mancato sviluppo del Mezzogiorno come problema chiave per il progresso dell'intera Nazione.

La crisi finanziaria del 2008 ha ancor di più evidenziato, nell'ultimo biennio, alcune differenze strutturali tra le aree territoriali del Nord e quelle del Sud, sottolineando la crescente precarietà dell'economia meridionale maggiormente toccata dalla riduzione della spesa pubblica e priva, a causa della limitata capacità di esportazione del tessuto economico meridionale, delle occasioni offerte da una ripresa della domanda estera.

Nello stesso tempo il Mezzogiorno appare sempre più penalizzato, nell'utilizzo dei fondi europei, dall'inefficienza amministrativa e progettuale della quasi totalità degli enti pubblici che non riescono a cogliere l'importanza di tali opportunità.

Inoltre, in alcune aree del Sud, inoltre, la forte presenza della criminalità organizzata crea non poche condizioni di insicurezza, determina costi "occulti", scoraggia i nuovi investimenti produttivi e si insinua con la sua forza finanziaria nella stessa economia "legale". Fenomeno che, risulta anche dall'ultima Relazione della Direzione Nazionale Antimafia, riguarda non solo le regioni meridionali ma anche quelle settentrionali.

Come se non bastasse, molte difficoltà strutturali sono state aggravate da alcune scelte discutibili, a cominciare da quelle relative all'utilizzo di risorse del Fondo per le aree sottosviluppate (il FAS) per necessità del tutto estranee alle esigenze del Mezzogiorno.

Un'attenta lettura dei dati offerti non solo dallo SVIMEZ, ma anche da parte di altri importanti organi e istituzioni, come la Banca d'Italia, consente di svolgere alcune valutazioni più approfondite.

In primo luogo, appare evidente che il problema del perdurante carattere dualistico dell'economia italiana è soltanto parzialmente riconducibile all'insufficiente volume di risorse destinate negli ultimi tempi all'intervento straordinario per il Sud.

E' innegabile che siamo ben lontani dalle percentuali della spesa pubblica e soprattutto della spesa per investimenti, indicati dai documenti di programmazione e, ancora di più, siamo ben lontani dall'incredibile quantità di risorse che il Governo della Germania federale ha saputo garantire, e soprattutto utilizzare dopo il 1989.

Ma al di là della disponibilità delle necessarie risorse, si può affermare che i fattori determinanti del persistente divario di sviluppo tra Mezzogiorno e la restante parte del Paese sono altri e di diverso carattere.

A mio parere manca una strategia coerente ed organica che sia capace di coordinare e finalizzare le risorse disponibili alle esigenze di crescita delle aree meridionali.

Il contesto internazionale è, del resto, di grande difficoltà: l'Italia è, tra i maggiori paesi europei, quello che, negli ultimi anni, ha registrato un minore sviluppo del PIL e una più lenta ripresa economica.

E' chiaro che con tassi di sviluppo ridotti, di poco superiori all'1 per cento all'anno, non sarà possibile né ridurre strutturalmente l'incidenza del debito pubblico e né trovare gli spazi per politiche attive e dinamiche della spesa pubblica.

In sostanza, assistiamo ad un vero e proprio stallo nella capacità delle istituzioni di elaborare strategie complessive, e con questo aggettivo intendo "nazionali", valide per l'intero Paese, sia pur con i distinguo necessari in relazione alle diverse situazioni geografiche.

Il sistema produttivo italiano soffre di una serie di limiti che l'accentuazione della concorrenza imposta dai cosiddetti Paesi emergenti ha enfatizzato: carenza di innovazione tecnologica, insufficiente attenzione al settore della ricerca scientifica e alla formazione dei lavoratori, dimensioni troppo ridotte delle imprese, la scarsa efficienza delle strutture pubbliche nel promuovere la penetrazione nei mercati esteri.

Più in generale, pesano altri difetti - che scoraggiano l'investimento e l'avvio di nuove iniziative produttive - quali il mal funzionamento di alcuni servizi pubblici essenziali in materia di sicurezza e di ordine pubblico, l'inadeguatezza della dotazione e della gestione di alcune infrastrutture di base, soprattutto in materia di risanamento del territorio e dei trasporti, gli ostacoli allo sviluppo delle imprese derivanti dall'onerosità del prelievo tributario e dalla carenza delle risorse creditizie e finanziarie, i disservizi in alcuni settori della giustizia e della sanità.

In particolare, deve preoccupare il fatto che tutte le maggiori aree urbane del Mezzogiorno, tranne rare eccezioni, soffrono di una insufficiente qualità dei servizi pubblici, di una scarsa attenzione per i problemi della sostenibilità ambientale, di una condizione di congestione che impedisce loro di svolgere quella funzioni dinamiche di traino per lo sviluppo dei territori circostanti che tradizionalmente le città devono svolgere.

L'attuazione della riforma sul federalismo fiscale potrebbe offrire qualche possibilità di progresso per quanto concerne il miglioramento della qualità dei servizi resi ai cittadini da parte degli enti territoriali, se non altro laddove dovesse, com'è fortemente auspicabile (è quella famosa assunzione di responsabilità che si chiede a tutti gli amministratori) impegnare i rispettivi amministratori a fornire informazioni puntuali e comparabili sui dati contabili e sui risultati conseguiti rispetto agli obiettivi dichiarati.

Resta però fermo il fatto che l'attuazione concreta di questa riforma non può costituire l'occasione per sottrarre alle amministrazioni del Mezzogiorno le risorse necessarie per assicurare i servizi essenziali.

È chiaro che non si può coltivare l'illusione che, per incidere significativamente sulla minore efficienza delle amministrazioni meridionali, sia sufficiente cambiare la legislazione a fronte di abitudini e prassi che rimangono sostanzialmente immutate.

In ogni caso, servirà un segnale forte di cambiamento di mentalità. L'indicatore forse più appariscente del limite strutturale delle politiche per lo sviluppo del nostro Paese è rappresentato dai ciclici fallimenti che hanno costellato le politiche di coesione.

Al di là degli affannosi tentativi di recuperare i ritardi accumulati accelerando precipitosamente i pagamenti, in modo da evitare l'obbligo di restituire quota-parte delle risorse stanziate a livello europeo, è chiaro a tutti che l'impostazione del "Quadro strategico nazionale", che doveva individuare le linee strategiche per l'intervento a sostegno delle aree in ritardo di sviluppo, è stata un'ulteriore occasione perduta.

Al riguardo, le analisi dello SVIMEZ offrono una base aggiornata e assai ricca di dati ed informazioni cui è necessario che il Parlamento presti la dovuta attenzione.

Il ritardo di sviluppo del Sud costituisce uno spreco di potenzialità ormai intollerabile, la rappresentazione più eloquente di una palese inadeguatezza della politica ad affrontare i problemi reali del Paese.

Per questo, l'Italia deve porre al centro del confronto politico, tanto nelle Aule parlamentari quanto nelle sedi di discussione che vedono coinvolte le organizzazioni rappresentative del mondo produttivo, l'esigenza di recuperare tassi di crescita accettabili - poiché se l'economia non cresce saremo sempre al punto in cui ci troviamo -, a cominciare da quello relativo all'incremento dell'occupazione giovanile.

Al di là del tono che può apparire pessimistico, nulla, ovviamente, è perduto, ma, a 150 anni dall'Unità, sebbene la storia recente abbia profondamente cambiato i termini economici e tecnici della questione meridionale, "la sua essenza, - per citare una bella espressione di Pasquale Saraceno (economista italiano deceduto nel 1991) - resta quella indicata dai grandi meridionalisti del passato: vale a dire quella di una grande questione etico-politica, che investe le stesse fondamenta morali della società nazionale e dello Stato unitario".

E' evidente che non è quindi solo un problema di risorse, ma di capacità della classe dirigente.