Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

13/09/2011

Senato della Repubblica, Biblioteca - Presentazione del libro di Carlo Pinzani "Il bambino e l'acqua sporca. La guerra fredda rivisitata"

A causa di sopraggiunti impegni istituzionali, il Presidente della Camera dei deputati, Gianfranco Fini, non ha potuto prendere parte alla presentazione del libro. Pertanto il testo del suo discorso è stato letto dal dottor Aldo Di Lello, collaboratore del Presidente per le iniziative culturali.

Sono lieto di partecipare alla presentazione del libro di Carlo Pinzani dedicato alla storia della guerra fredda. Lo ringrazio per l'invito e lo saluto unitamente agli altri relatori: Giuliano Amato, Emanuele Macaluso.

Desidero iniziare con le parole di Vaclav Havel, secondo il quale l'abbattimento del Muro di Berlino e la successiva implosione all'Urss devono condurre l'uomo a "raggiungere una nuova comprensione di se stesso".

E' un invito che assume oggi, a vent'anni dallo scioglimento dell'Unione Sovietica, avvenuto - lo ricordo - il 26 dicembre del 1991, un significato particolare, perché possiamo vedere quell'evento come l'atto conclusivo della lunga e drammatica fase della storia europea e mondiale segnata dal confronto Est Ovest. Le memorie e le riflessioni suscitate due anni fa dal ventennale dalla caduta della barriera che attraversava il cuore della Germania trovano il loro necessario completamento nella ricorrenza della fine dell'Urss.

Di quella stagione di frontiere, filo spinato, corsa agli armamenti, conflitti più o meno eterodiretti su vari scacchieri mondiali occorre non perdere mai la consapevolezza storica, affinché mai più accada che il mondo venga artificialmente diviso dal pregiudizio ideologico e che una parte dell'umanità soffra a causa di un potere totalitario sotto il quale sono soffocati i diritti di libertà e democrazia.

Comprendere a fondo come ciò sia stato possibile è uno dei prerequisiti fondamentali -come appunto ci insegna Havel - per costruire un mondo sempre più libero e sempre più rispettoso della dignità della persona.

Nuove barriere culturali sono purtroppo sempre possibili, come drammaticamente ci ricorda il decennale dell'atroce attacco terroristico dell'11 settembre che abbiamo commemorato in questi giorni. Ogni possibile motivo di tensione geopolitica e geoeconomica tra popoli e Paesi può essere sempre acuito dalla diffusione di paure, integralismi e nuovi ideologismi.

L'interessante libro di Carlo Pinzani offre un valido contributo a questa necessaria opera di approfondimento politico culturale.

Riccamente documentato nei riferimenti storici e bibliografici, il volume ricostruisce in modo rigoroso e puntuale l'evoluzione delle concezioni strategiche all'interno delle due superpotenze dall'immediato dopoguerra al crollo dell'Urss, ripercorrendo tutte le stagioni di quel lungo confronto tra sistemi, concezioni ideologiche, alleanze politico militari.

L'invito dell'autore, esplicitato già nel titolo e argomentato nel corso dell'ampia e densa trattazione, è quello di tentare di ripercorrere quella tormentata stagione al di fuori, per così dire, del mito, riconducendola alla dimensione storica e alle motivazioni politiche e geopolitiche che ispirarono le scelte dei leader mondiali dei decenni passati.

La guerra fredda fu insomma, certamente, un lungo incubo, scaturito innanzi tutto dall'angosciosa consapevolezza della spaventosa distruttività degli armamenti atomici detenuti dalle due superpotenze.

Fu anche e soprattutto, per noi europei, la dolorosa coscienza della divisione, la coscienza della Cortina di Ferro che separava in due ambiti contrapposti i popoli del Continente.

Proprio il Muro di Berlino fu la rappresentazione plastica di quest'anima mutilata e divisa, una condizione che la mia generazione ha vissuto con particolare intensità e drammaticità. Non posso, al riguardo, fare a meno di ricordare che la lotta per la libertà sostenuta dai ragazzi berlinesi, praghesi, ungheresi e polacchi tra gli anni Cinquanta e gli anni Settanta ha segnato profondamente la mia formazione politica e civile. E concordo pienamente con l'autore laddove osserva che le sofferenze inflitte dal Muro della Vergona "al popolo tedesco di entrambe le Germanie lo trasformarono in simbolo duraturo della guerra fredda, delle sue asprezze e delle sue paure, ma anche, e soprattutto, della tragica utopia del comunismo".

Ma la guerra fredda fu anche una stagione di chiaroscuri, nella quale le ragioni ideali cedevano talvolta il terreno alle logiche di potere e nella quale l'obiettivo prioritario di salvaguardare la pace e di scongiurare un conflitto atomico non impediva la corsa agli armamenti da parte di entrambe le superpotenze.

L'autore osserva in proposito che, dopo il duro autunno del '56, caratterizzato dalla sanguinosa repressione sovietica in Ungheria e dalla crisi di Suez, "entrambi gli schieramenti avevano acquisito la consapevolezza che l'assioma dell'impossibilità della guerra nucleare totale aveva retto alla prova dei fatti e si accingevano a rafforzarlo ancora accumulando ulteriori capacità distruttive".

Situazione analoga si riprodusse subito dopo la crisi del 1962, provocata dallo sconsiderato e potenzialmente devastante tentativo di Krusciov di modificare a vantaggio dell'Urss l'equilibrio geostrategico attraverso l'installazione a Cuba di missili nucleari. Anche in quell'occasione la comune constatazione che la sola soluzione praticabile era la coesistenza pacifica non ostacolò l'ulteriore incremento della potenza militare in entrambi gli schieramenti e lo scoppio di conflitti in varie aree del mondo.

La guerra fredda la possiamo pertanto vedere anche come una lunga e complessa partita a scacchi, sulle cui modalità, a vent'anni dalla fine dell'Unione Sovietica, è opportuno riflettere con serenità, individuando con chiarezza sia le luci sia le ombre.

Quello che, a tanti anni di distanza, appare, tra le altre cose, molto distante dalla sensibilità odierna è sicuramente la durezza della Realpolitik dimostrata in diverse occasioni dagli attori internazionali di allora. E non c'è dubbio che la cultura dei diritti umani abbia a lungo faticato per farsi strada nel mondo della guerra fredda.

Numerosi e interessanti sono gli spunti di riflessione offerti al riguardo da Pinzani.

Come quando ad esempio rileva -sempre a proposito della crisi del '56- che in tale circostanza Washington e Mosca presero "decisioni simmetriche", tali da prefigurare, secondo l'opinione di uno storico ungherese riferita dall'autore, "una crescente interdipendenza e cooperazione forzata tra Stati Uniti e Unione Sovietica nonostante la prosecuzione della competizione e dell'antagonismo".

Il Dna - se così vogliamo dire- della guerra fredda fu del resto scritto nell'immediato dopoguerra: una parte fondamentale la svolse la cosiddetta "Dottrina Truman", che a giudizio di Pinzani "aveva soprattutto il significato della definitiva conversione degli Stati Uniti alla politica delle sfere d'influenza, sino allora teorizzata ma poveramente praticata da Churchill e dal successivo governo laburista per mancanza di risorse, e realizzata apertamente dall'Unione Sovietica sulla base della teoria del socialismo in un solo Paese".

La complessità politica di quei quarant'anni di vita mondiale non deve comunque farci dimenticare che in quella fase agirono figure di grande statura storica e di notevole visione strategica.

I leader della guerra fredda avevano la consapevolezza della tremenda responsabilità che gravava sulle loro spalle, ma non possiamo dire che la prudenza e il realismo politico, uniti alle paure e ai sospetti reciproci, li condusse mai all'immobilismo.

Così nel caso di Eisenhower, che fu certamente sensibile ai timori americani per l' aumento della potenza militare sovietica ma che fu anche attento ai mutamenti all'interno dell'Urss a seguito della morte di Stalin e dell'ascesa di Krusciov.

Così nel caso di Kennedy e del suo sforzo di "dare alla pace un'altra possibilità" , come osserva Pinzani. Così anche nel grande gioco diplomatico avviato da Nixon e Kissinger con l'apertura alla Cina, che cambiò il quadro della guerra fredda offrendo agli Usa un nuovo interlocutore internazionale.

E' impossibile riassumere e ripercorre in poche parole tutti gli eventi, tutte le figure e tutte le idee che hanno caratterizzato la lunga fase del confronto Est Ovest.

Quello che si può sinteticamente affermare è che la guerra fredda appare, alla riflessione storica e alla memoria comune, come una grande e contraddittoria stagione, nella quale convissero idealismo e realismo, ideologismo e pragmatismo, forti tensioni morali e fredde logiche geostrategiche.

Spetta naturalmente agli studiosi stabilire quale può essere l'insegnamento più profondo e più duraturo che quella stagione storica affida al mondo di oggi. E so bene che possono essere espresse al riguardo le opinioni più diverse e discordanti.

Personalmente ritengo che la tensione morale emersa nei momenti di svolta della guerra fredda rappresenti una grande e sempre valida lezione, accanto naturalmente alla volontà di pace e al senso di realismo dimostrati dai leader mondiali nei momenti più difficili del confronto tra blocchi.

Desidero citare in proposito l'opinione del politologo americano Walter Russell Mead, il quale trova un tratto comune tra due presidenti americani molto diversi tra loro, il repubblicano Ronald Reagan e il suo predecessore democratico Jimmy proprio, proprio in una rinnovata attenzione di entrambi ai profili etici della politica internazionale,

"Carter e Reagan -cito testualmente - giunsero per strade alquanto differenti alla conclusione che il grande sforzo della guerra fredda contro l'Unione Sovietica richiedeva una dimensione etica". Entrambi -afferma sempre lo studioso - "concordavano sull'idea che una forte politica dei diritti umani fosse elemento cruciale di un'efficace strategia" nella contesa con l'Urss.

Russell Mead non trascura ovviamente il ruolo decisivo svolto dallo sviluppo economico e dal progresso tecnologico dell'Occidente nel convincere Gorbaciov che il sistema comunista non avrebbe potuto reggere ancora a lungo il confronto con il mondo libero.

Ma il dato che ora mi interessa mettere in rilievo è che, proprio nell'ultima fase della guerra fredda, si afferma progressivamente l'idea che un mondo più libero, un mondo che rispetta i diritti dell'uomo è anche un mondo più sicuro e più prospero.

Quell' idea appare recepita dallo stesso Gorbaciov. Come annota Pinzani, l'ultimo leader sovietico imprime un radicale cambiamento di paradigma nella politica estera: il principio della lotta di classe come motore delle relazioni internazionali viene sostituito da nuovi parametri volti alla "valutazione dell'interesse generale dell'umanità".

Affermazione dei diritti umani, garanzia della libertà e della dignità della persona, cooperazione tra i soggetti della politica internazionale: questi princìpi si impongono con rinnovata forza e urgenza nel mondo del XXI secolo, che continua purtroppo a essere attraversato da tensioni, conflitti, integralismi e sperequazioni nella distribuzione delle ricchezza tra le grandi aree della Terra.

Vorrei concludere con le parole di Thomas Friedman, il quale ha osservato che "finché il Muro di Berlino rimaneva in piedi non potevamo vedere il mondo in modo globale".

Oggi, dopo aver allargato il nostro sguardo, non dobbiamo stancarci mai di scorgere le grandi opportunità di crescita, libertà e collaborazione che un mondo liberato dal filo spinato e dalla Cortina di Ferro continua, nonostante i tanti problemi che lo affliggono, a offrire alla società del XXI secolo.