Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

20/10/2011

Roma, CNR - Intervento in occasione delle giornate di studio dedicate al "Regionalismo italiano dall'Unità alla Costituzione e alla sua riforma"

Autorità, Signore e Signori!

Sono particolarmente lieto di partecipare al Convegno che l'Istituto di Studi sui Sistemi regionali federali e sulle autonomie "Massimo Severo Giannini" ha organizzato per riflettere sull'evoluzione che ha avuto il regionalismo italiano dal processo di unificazione fino ai nostri giorni.

Ringrazio, in particolare, il Direttore dell'Istituto, professor Stelio Mangiameli, per aver inserito, in modo opportuno, questa iniziativa nell'ambito delle celebrazioni per il 150° anniversario dell'Unità d'Italia, che offrono un'occasione preziosa per richiamare l'attenzione di tutti, e, in particolare, dei più giovani, sul significato profondo dell'unificazione e sulla necessità di salvaguardare questo inestimabile patrimonio di valori, combattendo tutti i fattori di disgregazione, a cominciare da quelli non dichiarati e, quindi, in quanto tali, ancor più pericolosi.

Proprio Giannini, nel 1963, concludendo il suo saggio intitolato "Le prospettive del Nord e del Sud", scriveva: "Le incognite che le Regioni presentano sono parecchie. La prima, e la più grande, è data da una vicenda imprevista per la dimensione che ha assunto e che è costituita dal declino dello Stato. La seconda incognita, altrettanto grave, e' quella rappresentata dagli squilibri regionali. Da Giustino Fortunato e da Filippo Turati in poi l'obiezione, o almeno la preoccupazione di fondo, e' stata quella di dimostrare che la Regione non e' lo strumento di iniziative di gruppi locali, perché se così fosse lo squilibrio, già grave per le differenze delle posizioni di partenza, si aggraverebbe ulteriormente, talché il Nord andrebbe sempre più avanti aumentando il suo distacco dal Sud". Parole estremamente profetiche.

Bastano, dunque, queste significative parole di Giannini per dimostrare come la storia del rapporto tra lo Stato e le autonomie territoriali sia la storia della nostra Repubblica, che si è costruita e continua a costruirsi nella faticosa ricerca di un punto di equilibrio dinamico e capace a garantire un sistema di poteri coerente con la Carta costituzionale e sostenibile per il Paese.

Una ricerca che, talvolta, può aver dato l'impressione di dispiegarsi come una sorta di tela di Penelope, in un interrotto farsi e disfarsi delle soluzioni istituzionali prescelte per meglio rispondere ai bisogni di governo e di rappresentanza espressi da un Paese che, come il nostro, è caratterizzato dalla ricchissima pluralità di identità, di tradizioni, di città e di territori.

Questo procedere così tormentato non è stato solo la conseguenza di decisioni troppo spesso poco meditate, ma anche dell'oggettiva difficoltà di comporre, in un disegno unitario, un mosaico ordinamentale autenticamente rispondente ai principi fondamentali dell'indivisibilità della Repubblica e della sussidiarietà sia in senso verticale che orizzontale.

Non a caso, la necessità di un aggiornamento continuo dei rapporti fra "centro" e "periferia" è un compito espressamente indicato dalla stessa Costituzione, che, attraverso l'articolo 5, impone allo Stato di adeguare i canoni e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento.

I Padri costituenti hanno dunque configurato questa attività di adeguamento in un orizzonte temporalmente aperto e come un preciso dovere della Repubblica, in tutte le sue componenti. Proprio questo principio ci obbliga a una continua verifica di ciò che è stato fatto e di ciò che rimane da fare in un settore così cruciale per la qualità della nostra vita civile.

Il 150° anniversario dell'unificazione nazionale coincide con la ricorrenza di un altro anniversario molto più vicino a noi: il decennale dell'entrata in vigore del nuovo Titolo V della Costituzione. Una riforma che ha profondamente mutato le relazioni fra i diversi livelli di governance territoriale e, in definitiva, il modo stesso di essere dell'unità nazionale.

Questo arco temporale costituisce un patrimonio di esperienza sufficientemente ampio da consentire di svolgere un ponderato bilancio critico della riforma, come credo vi apprestiate a fare anche voi nel corso di queste importanti giornate di studio che si aprono oggi.

Per parte mia, vorrei soffermarmi su alcuni aspetti di politica istituzionale che ritengo particolarmente meritevoli di attenzione soprattutto nell'attuale fase storica che vede l'Italia e l'Unione Europea essere esposte a difficili sfide che ci proiettano in uno scenario per molti aspetti del tutto nuovo rispetto a quello di dieci anni fa.

La riforma costituzionale n. 3 del 2001 ha certamente introdotto una notevole spinta alla modernizzazione dei rapporti fra lo Stato e le autonomie territoriali. Una spinta che, a ben guardare, ha trovato il suo effettivo impulso nel nuovo ritmo impresso ai processi di integrazione europea a partire dagli anni '90.

Come hanno giustamente sottolineato gli studiosi dell'"europeizzazione" degli ordinamenti nazionali, le politiche europee - e segnatamente quelle orientate allo sviluppo e alla coesione - hanno avuto un potente effetto di valorizzazione delle realtà territoriali degli Stati membri.

Non è un caso che la revisione del Titolo V si sia sviluppata in parallelo con importanti processi di riforma in senso autonomistico intervenuti in altri Paesi dell'Unione, anche fra quelli di più antica tradizione centralista, come la Francia o la Gran Bretagna.

La comune appartenenza all'Unione Europea ha dunque incoraggiato, in misura assai rilevante, la differenziazione e il pluralismo sul piano dell'articolazione territoriale degli Stati nazionali.

Di ciò troviamo traccia nelle numerose clausole europee contenute nei nuovi articoli della nostra Costituzione, a partire dal primo comma dell'articolo 117, che sottopone l'attività legislativa dello Stato e delle Regioni ai vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario, oltre che dagli obblighi internazionali.

Proiettando la riforma in questa prospettiva europea, le nuove disposizioni della Costituzione hanno tuttavia cercato di disegnare in termini realistici un possibile punto di equilibrio fra le diverse componenti territoriali della Repubblica, riconoscendo rango costituzionale, oltre che alle Regioni, anche alle autonomie locali.

E' stata una scelta condivisibile, considerato il peso storico e politico che, in particolare, le autonomie comunali hanno avuto e continuano ad avere nel nostro Paese. Un dato questo che, già di per sé, impone di assicurare all'Italia un assetto dei poteri territoriali che si discosti necessariamente da quelli di classica matrice federale.

Come per tutte le riforme di vasta portata, l'attuazione delle nuove norme ha richiesto un processo di attuazione piuttosto lungo e controverso, necessitato, per la verità, anche dalla scarsa chiarezza del testo costituzionale su alcuni profili certamente non secondari, come quelli, ad esempio, relativi al riparto di competenza legislativa concorrente fra Stato e Regioni.

Le numerose difficoltà interpretative sorte sono state in parte risolte attraverso la meritevole attività della Corte costituzionale, che si è spesso avvalsa, per risolvere i più complessi conflitti di competenza, delle clausole forse più innovative contenute nel Titolo V, vale a dire quelle dell'articolo 118.

Si tratta di disposizioni che introducono nel nostro ordinamento i principi europei di sussidiarietà e di adeguatezza per distribuire in modo flessibile le competenze amministrative fra i diversi livelli territoriali. Criteri che, come e' noto, sono stati utilizzati dalla Corte anche per "leggere" il riparto di competenze legislative fra Stato e Regioni, sciogliendo l'eccessiva rigidità di talune previsioni.

Ma anche la politica ha fatto la sua parte nel processo di attuazione. In una legislatura fortemente conflittuale come l'attuale, il Parlamento ha approvato con un'ampia maggioranza (se non ricordo male, unico caso di convergenza tra le forze politiche) la legge di attuazione dei principi di autonomia fiscale contenuti nell'articolo 119 della Costituzione (legge n. 42 del 2009), impegnandosi poi, attraverso la speciale Commissione bicamerale per il federalismo, nell'esame dei numerosi schemi di decreti legislativi di attuazione predisposti dal Governo.

E' significativo, a questo proposito, che, per molti di questi provvedimenti, a seguito del parere parlamentare, il testo sia stato totalmente riscritto rispetto alla versione governativa.

Questa è la prova evidente che il Parlamento non è stato certo a guardare rispetto all'esigenza di dare attuazione ad una delle previsioni più impegnative contenute nel nuovo testo della Costituzione, anche se va certamente sottolineata quella che appare la frequente indeterminatezza dei contenuti dei decreti approvati in via definitiva, che troppo spesso rinviano ad altre fonti di rango secondario la risoluzione dei nodi più difficili indicati dalla riforma.

E qui veniamo a quello che appare il profilo forse più critico dell'esperienza maturata in questi anni. Mi riferisco all'eccessiva enfasi ideologica che ha permeato gran parte del processo di riforma. Dalla necessità di costruire un efficace ed equilibrato sistema di relazioni Stato-autonomie, si è, infatti, in questi anni, progressivamente scivolati verso il mero annuncio di un palingenetico mutamento in senso federale del nostro sistema costituzionale.

Al riguardo, mi preme ribadirlo, il federalismo non può essere concepito come una sorta di "manifesto" privo di pesi e contrappesi. Sotto questo profilo, come molti studiosi hanno ben evidenziato, è necessario configurare, organizzare e far funzionare il nostro sistema di governance multilivello in modo che esso diventi un fattore di crescita, di sviluppo sostenibile, di coesione sociale e di competitività del Paese e non, invece, un fattore di conflittualità politica, di paralisi decisionale, di eccessiva complicazione burocratica, di inutile appesantimento dei costi da regolazione.

La questione è sicuramente complessa, ma è possibile individuare, a mio avviso, almeno tre aree di intervento. Penso, in primo luogo, all'esigenza di apportare alcuni limitate, ma significative, modifiche al Titolo V della Costituzione. Occorre farlo per distribuire meglio i poteri tra lo Stato e le Regioni, riducendo drasticamente il numero delle materie attribuite alla potestà legislativa concorrente, riassegnando alla competenza esclusiva del Parlamento la disciplina dei settori che hanno un indubbio rilievo nazionale o interregionale e, alla luce di altre esperienze, introducendo, contemporaneamente, quella clausola di supremazia federale che rappresenta la norma di chiusura di tutti i sistemi federali.

Penso, in secondo luogo, ad alcune riforme costituzionali che del Titolo V rappresentano l'ineludibile e necessaria integrazione: in primis, in un'ottica di superamento del cosiddetto "bicameralismo perfetto", l'istituzione del Senato federale o Camera delle autonomie, necessaria a garantire la piena partecipazione democratica delle comunità territoriali a tutte le decisioni nazionali.

Penso, infine, all'attuazione di quel federalismo fiscale che, da qui a breve, dovrà necessariamente cambiare l'assetto della finanza pubblica così da assicurare, da una parte, una razionale ed equa ripartizione delle risorse, che sia coerente con la nuova "geografia" dei compiti e delle funzioni, dei poteri conferiti ai diversi enti istituzionali, e, dall'altra, il rispetto dei rigorosi principi di responsabilità e di autonomia nell'impiego delle risorse assegnate.

Spetta, dunque, ad una seria classe dirigente di rango nazionale il compito di fare uscire l'Italia dalla situazione di perdurante stallo in cui si trova rispetto alle priorità che stanno sotto gli occhi di tutti e per raggiungere questi irrinunciabili obiettivi - sui quali si gioca la possibilità stessa di rilanciare su basi più solide l'unità nazionale - è certamente indispensabile il concorso delle autonomie che dispongono di quello straordinario potenziale di sperimentazione e di innovazione espresso dalla vitalità dei nostri territori.

Questa sinergia va tuttavia profondamente ripensata, respingendo una concezione autoreferenziale dell'autonomia che vede gli enti titolari di competenze agire secondo logiche "esclusive" spesso del tutto distaccate dalle esigenze funzionali.

Dobbiamo prima capire quali sono i bisogni dei cittadini e delle imprese per poi disegnare il sistema istituzionale più idoneo a rispondere a queste domande e non fare viceversa come troppo spesso si è fatto in passato, vale a dire che si è chiesto ai cittadini di adattarsi faticosamente ad un groviglio di competenze normative ed amministrative farraginoso e qualche volta indifferente ai risultati.

La comune appartenenza alla Repubblica deve invece produrre nel nostro sistema di relazioni territoriali lo stesso effetto indotto negli Stati membri dal processo di costruzione europea, che, senza cancellare le differenze e le identità nazionali, ha operato per l'abbattimento delle barriere economiche ed amministrative, per lo sviluppo dei mercati, per una sostanziale coesione.

Le nostre autonomie, cresciute negli ultimi tempi grazie anche all'impulso delle istituzioni comunitarie, devono essere portatrici di questo spirito di responsabilità repubblicana.

Questa è un'esigenza imprescindibile soprattutto alla luce della crisi economica internazionale e delle fortissime pressioni sui Paesi dell'eurozona e che impongono di rendere assai più stringente il governo dei conti pubblici europei.

Come gli altri Stati dell'Unione, anche l'Italia è chiamata a dimostrare con i fatti di partecipare attivamente ad un percorso di convergenza. Il patto di stabilità finanziaria si deve ora saldare con una precisa agenda di riforme strutturali capaci di impegnare tutte le componenti della Repubblica.

Daniel Elazar (1934-1999), un grande studioso del federalismo, sosteneva che questo tipo di ordinamento, moltiplicando i livelli di governo e le sedi della rappresentanza politica, assicura il "lusso della libertà" con un notevole grado di spreco economico e un'ampia dose di sovrapposizione di competenze.

Ecco, oggi noi dobbiamo battere strade diverse per costruire il nuovo regionalismo italiano: dimostrare di continuare a meritarci il "lusso della libertà", sapendo eliminare gli sprechi, le ridondanze, i costi di un sistema istituzionale bloccato e inefficiente.

Questo è un imperativo categorico cui non è possibile sottrarci se abbiamo davvero a cuore le sorti della Nazione e il futuro delle nostre generazioni.

Grazie.