Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

09/03/2012

Montecitorio, Sala del Mappamondo – Convegno “Risvegli - una nuova stagione per la Primavera Araba” in occasione della presentazione della nuova edizione della rivista “East”

La presentazione del dossier monografico "Risvegli" - che la rivista di geopolitica EAST ha dedicato alle rivoluzioni arabe - offre una buona occasione per accostarsi in termini non scontati agli scenari che si sono delineati sull'altra sponda del Mediterraneo.
L'originalità della chiave di lettura proposta da EAST sta nella valorizzazione del ruolo della società civile, dei movimenti giovanili e delle istanze di rinnovamento che stanno modificando, dall'interno ed in modo molto netto, se non irreversibile, gli equilibri regionali. E ciò pur nella consapevolezza che i tempi non sono ancora maturi per un bilancio, nemmeno approssimativo.

A fronte di ricorrenti interpretazioni che oscillano dal romanticismo della spontaneità dei moti di piazza al cinismo della ricostruzione dietrologica, ho trovato particolarmente interessante l'indicazione della "normalità" come fattore caratterizzante le rivolte popolari che hanno, non a caso, visto la mobilitazione di tutte le classi sociali.
Una domanda di "normalità" che si è diffusa da una rivoluzione all'altra, e che ha fatto venire alla luce, per la prima volta su così larga scala, le potenzialità democratiche dei nuovi mezzi di comunicazione, dai blog ai social network.

Questo spunto mi sembra un ottimo punto di partenza per evitare di ripetere i vecchi errori che ci hanno portato a sostenere tanto a lungo, forse oltre ogni ragionevole limite, regimi autoritari rivelatisi poi giganti dai piedi di argilla.
L'attuale dibattito sembra sempre più polarizzarsi negativamente in un'opzione idealistica ed in un'opzione realistica, senza accorgersi che entrambe rischiano di falsare la percezione della realtà e soprattutto rischiano di falsare la definizione delle politiche occidentali più opportune nei confronti del mondo arabo.

Da un lato, gli idealisti confidano nella forza liberatoria della democrazia sprigionata dalla "primavera araba" ed invitano a non sopravvalutare la portata del successo elettorale dei partiti politici musulmani, moderati o radicali che siano, asserendo che sarà sufficiente migliorare le condizioni di vita della popolazione per garantirne la maturazione politica.
Dall'altro lato, i realisti preferiscono usare, con uno scarto lessicale sensibilmente significativo, l'espressione di "autunno" se non, addirittura, di "inverno islamico" e prefigurano come inevitabile una deriva oscurantista che potrebbe portare a farci rimpiangere gli antichi dittatori.
Personalmente, ho l'impressione che dovremmo abbandonare le pur suggestive metafore stagionali che inducono in ogni caso ad interpretazioni unilaterali e valutare i processi in corso non dal nostro punto di vista, ma da quello dei popoli interessati.
Innanzitutto, a me pare che la vitalità dimostrata dalle società dei Paesi arabi nell'aspirare ad istituzioni liberali e democratiche abbia sensibilmente ridotto, a dieci anni dagli attacchi dell'11 settembre, la minaccia di Al Qaeda. Non intendo ovviamente dire che si debba abbassare la guardia nella lotta al terrorismo fondamentalista, ma mi sembra difficilmente contestabile che quel movimento abbia perso buona parte della sua capacità di attrazione ideologica, almeno nelle popolazioni arabe-musulmane del Nord Africa.

Rispetto ai miti pan-islamici sia sunniti che sciiti, è stata recuperata da parte di ciascun popolo arabo la dimensione nazionale, la volontà di partecipazione alla politica, la speranza che un futuro migliore sia raggiungibile insieme, avvertendosi come comunità, e non attraverso l'arricchimento personale reso possibile dalla corruzione del sistema di potere.
In tale ottica, la fase attuale è particolarmente cruciale perché si tratta di una fase costituente. La partita decisiva della legittimazione democratica dei nuovi sistemi politici si gioca, infatti, essenzialmente sul terreno del nuovo patto nazionale, delle nuove regole della convivenza civile, delle nuove basi necessarie ad affermare la credibilità dello Stato e la consapevolezza del bene pubblico in paesi che hanno storicamente conosciuto soltanto la faccia dell'esercizio privato del potere che dispensava favori o disponeva vessazioni ubbidendo ad una scala di carattere gerarchico piramidale.

La parola è passata - a Tunisi, al Cairo, a Rabat (non ancora a Tripoli) - dalle piazze ai parlamenti. Le nuove istituzioni rappresentative devono dare prova di essere all'altezza delle aspettative popolari e della responsabilità loro affidata e di essere quindi capaci di fondare una democrazia aperta a tutte le componenti della società, ed è una svolta epocale, in cui le coalizioni di governo sostituiscono i partiti unici ed in cui la cittadinanza sia piena e condivisa, escludendo quindi qualsiasi discriminazione etnica, religiosa o di genere.
La democrazia non può esaurirsi in un meccanismo istituzionale né nella pratica elettorale; essa vive dell'esercizio quotidiano della cittadinanza, dei diritti fondamentali e delle libertà civili - a cominciare dalla libertà di stampa, di pensiero e di professione religiosa - che nella rappresentanza politica pluralistica trovano la loro più alta garanzia.

Le Nazioni Unite, l'Unione europea, il Consiglio d'Europa hanno naturalmente uffici e programmi che sono alacremente impegnati a sostenere lo svolgimento delle elezioni e la redazione delle costituzioni nazionali. E' da ritenere che abbiano peraltro maturato sufficiente esperienza per non pretendere di esportare modelli preconfezionati e sappiano pertanto operare con flessibilità e con rispetto delle singole realtà.
Ma un significativo "valore aggiunto" potrebbe venire dalla democrazia e dalla diplomazia parlamentare, perché le relazioni politiche, gli scambi culturali e la cooperazione tecnico-legislativa potrebbero contribuire sia a rafforzare il clima di fiducia reciproca sia a plasmare uno spazio costituzionale comune.
Non si parte fortunatamente da zero. Il dialogo parlamentare euro-mediterraneo ha preso le mosse dalla Dichiarazione di Barcellona del 1995. L'Assemblea parlamentare dell'Unione per il Mediterraneo - che esattamente un anno fa teneva qui a Montecitorio, sotto la presidenza italiana, la sua ultima sessione plenaria - è forse la sola novità di rilievo che si sia di recente concretizzata nell'ambito di un esercizio i cui risultati sono stati assai inferiori alle attese del vertice istitutivo di Parigi.
La prossima sessione annuale sarà la prima grande opportunità di incontro con le rappresentanze parlamentari neo-elette di Egitto, Tunisia e Marocco e darà senz'altro impulso alle relazioni euro-mediterranee. Ne ho parlato pochi giorni fa con il nuovo Presidente del Parlamento europeo, Martin Schultz, che ha condiviso l'esigenza di assumere un'iniziativa di rilancio della politica europea per il Mediterraneo meridionale, anche in una sede come quella del Parlamento di Strasburgo.

Il "grande assente", in quest'anno straordinario delle rivoluzioni arabe, è stata -spiace rilevarlo - proprio l'Unione europea. Senz'altro la spiegazione va ricercata nella crisi economica e finanziaria che sta mettendo a dura prova la stessa sopravvivenza dell'euro, ma è difficile non prendere atto del sostanziale inadempimento del Trattato di Lisbona che avrebbe dovuto sancire la nascita di una sorta di ministro degli esteri e di una diplomazia europea, mentre sia l'Alto rappresentante che il Servizio per l'azione esterna non sono riusciti ad andare oltre ad una logica meramente gestionale.
L'European Council for Foreign Relations - un think-tank che sta acquisendo sempre più autorevolezza e che è tra i promotori della giornata odierna - ha rilevato, in un recente rapporto, che l'Unione europea non è finora riuscita a "fare la differenza" nello sviluppo delle relazioni con il vicinato più decisivo per la sua sicurezza. Non sono certo mancati gli studi, i programmi, le missioni, gli slogan ma - a parte l'esiguità delle risorse - è mancata una "politica" a tutto tondo che fosse il frutto di una riflessione condivisa e generasse un impegno coordinato tra l'Unione ed i suoi Stati membri.

Inoltre abbiamo scontato negativamente l'aver rinunciato di fatto alla prospettiva dell'adesione all'UE della Turchia che sta dimostrando quanto avrebbe potuto essere un partner strategico se la sua influenza regionale fosse stata raccordata all'iniziativa europea.
Un altro nodo irrisolto sta nell'altalenante contrapposizione tra l'approccio statale e quello regionale, e ciò senza che l'UE sia riuscita sin qui ad individuarne un adeguato bilanciamento. Porsi singolarmente in relazione a ciascuno stato arabo continua ad essere certamente indispensabile perché ogni paese fa storia a sé ed ambisce legittimamente ad una presa in considerazione autonoma. Tuttavia, come dimostra anche il crescente ruolo della Lega araba, è impossibile ignorare le interconnessioni che attraversano l'area.

La più cocente frustrazione - in verità non solo dell'Unione europea, ma di tutta la comunità internazionale - viene dalla situazione in Siria dove è in corso un massacro intollerabile nel XXI secolo. Tutti noi ci riconosciamo pienamente nelle puntuali e severe parole di condanna del nostro Governo, ma è ormai evidente che la sola adozione delle sanzioni non è sufficiente: basti pensare che siamo arrivati al dodicesimo pacchetto in meno di un anno! E' indispensabile una risoluzione del Consiglio di sicurezza dell'ONU. Ad ogni livello ed in ogni sede, a Cina e Russia deve essere chiesto conto del loro veto e deve essere esercitata su di loro ogni forma di pressione perché lo rimuovano.
L'Italia ha una primaria responsabilità nel sollecitare, da parte dell'Unione europea, il coraggio di una visione politica di più elevato profilo e di più concreto spessore. Occorre tornare all'iniziale entusiasmo che aveva fatto evocare, forse in modo un po' retorico, il lancio di un Piano Marshall per il Mediterraneo meridionale.

Come paese abbiamo significativi punti di forza da valorizzare negli scambi economici, nelle radici culturali, nelle diaspore migratorie che pongono problemi ma costituiscono anche formidabili occasioni di reciproca conoscenza. Ci sono poi alcune misure che a livello europeo si potrebbero adottare subito per dimostrare una reale volontà di favorire la crescita della sponda sud, anche se inevitabilmente ci sarebbe qualche prezzo da pagare.
Penso, ad esempio, alla liberalizzazione del commercio di alcuni prodotti, alla promozione finanziaria degli investimenti, all'ampliamento dell'offerta educativa dei progetti Erasmus. Moltiplicare i contatti diretti tra i cittadini delle due sponde del Mediterraneo rimane la strada maestra per alimentare lo sviluppo umano da cui può nascere il tessuto connettivo della società civile.

L'Europa deve essere consapevole di avere potenzialmente una marcia in più, che è quella di poter offrire ai Paesi partner la condivisione di un destino comune, già delineato negli accordi di associazione in vigore, e di potersi presentare come un caso di successo di integrazione regionale. A differenza di altri attori sulla scena - la Turchia appena menzionata, le monarchie del Golfo, gli stessi Stati Uniti d'America con cui pure sarebbe necessario avere un più intenso raccordo - l'Europa non ha secondi fini nel sostenere le aspirazioni al cambiamento dei popoli arabi, non nutre disegni egemonici né ha velleità di mettersi in cattedra.

Questo capitale di fiducia e di immedesimazione che l'Europa può dispiegare - una volta che ne acquisisse definitivamente la consapevolezza e ne perseguisse con maggiore vigore la realizzazione - si rivelerebbe una risorsa preziosa anche per quanto concerne la questione medio-orientale, che rischia di trasformarsi in una pesante ipoteca per il futuro della democrazia nel mondo arabo.
A questo proposito - e mi avvio a concludere - non sono particolarmente confortanti le sempre più condivise previsioni per cui il conflitto israelo-palestinese sarebbe ormai senza soluzione a tal punto che il suo congelamento risulterebbe, alla fine dei conti, nell'interesse di entrambe le parti e della stessa comunità internazionale.

A mio parere, non ci sarà una democrazia stabile e duratura nel mondo arabo se non si sarà realizzato nel Medio Oriente il principio dei due Stati, garantendo pace e sicurezza agli israeliani così come ai palestinesi. Quello storico contenzioso ha infatti una tale valenza simbolica - credo lo sappiano tutti coloro che hanno avuto la possibilità di interloquire con un rappresentante del mondo arabo o israeliano - da poter costituire in ogni momento una riserva propagandistica pronta per l'uso da parte di qualsiasi tentativo estremista o autoritario, come del resto ben dimostra l'atteggiamento dei governanti iraniani.
Non c'è, quindi, dubbio che il riconoscimento dello Stato di Israele e dei trattati di pace sarà un banco di prova decisivo per le nuove classi dirigenti arabe. Ed è pienamente giustificata la preoccupazione del governo israeliano nel doversi confrontare con i nuovi interlocutori a partire da una situazione di accerchiamento aggravata dalla minaccia proveniente da Teheran.
Una democrazia come quella israeliana, che affonda le sue radici in un'originalissima esperienza storico-politica, non può non trarre giovamento dalla più ampia affermazione dei principi democratici.

Qualche segnale positivo viene peraltro dal versante palestinese in cui sembra essersi riavviato un processo politico-elettorale non necessariamente destinato, come era parso sino a poco tempo fa, ad essere egemonizzato da Hamas.
Su queste basi, potrebbero esserci significativi margini per un'azione europea che porti ad una confluenza positiva tra processo di pace e rivoluzioni arabe. Oggi invece sembra quasi che vi sia una precisa volontà di tenere i due piani separati. Temo che sia un abbaglio nel breve ed un'illusione nel lungo periodo.

Quel che è certo è che il vento di libertà che ha iniziato a spirare nella regione mediterranea e medio-orientale difficilmente si arresterà ai confini degli stati sin qui coinvolti. A noi europei l'accaduto dovrebbe riportare alla memoria la forza contagiosa delle rivoluzioni definite anti-comuniste. Possiamo a questo punto dire che Jan Palach ha trovato un fratello in Mohamed Bouazizi!