Il Presidente della Camera dei deputati Gianfranco Fini

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Interventi e discorsi

Interventi e discorsi del Presidente della Camera

12/10/2012

Nuova Aula dei Gruppi parlamentari – Presentazione del Rapporto Annuale di Federculture dal titolo “Cultura e sviluppo. La scelta per salvare l’Italia”

Autorità, colleghe e colleghi, signore, signori!

E' con vivo piacere che la Camera dei deputati ospita l'VIII rapporto di Federculture.

Un benvenuto al Presidente, Roberto Grossi, al giornalista del Sole 24 ore Stefano Salis, al Presidente dell'Istat, Enrico Giovannini, al Presidente della Fondazione Musica per Roma, Aurelio Regina.

Voglio innanzitutto sottolineare l'importanza del prezioso appuntamento annuale con Federculture: il rapporto, che viene presentato a cadenza regolare, rappresenta infatti un fondamentale strumento di lavoro non soltanto per gli operatori culturali ma anche e soprattutto per le Istituzioni.

La lettura dell'VIII Rapporto di Federculture conferma l'urgenza di porre in relazione le politiche governative con le attività culturali.

La prima contraddizione da risolvere è l'enorme distanza tra la domanda di cultura presente nella società e la carenza o l'insufficienza dell'investimento pubblico nell'ambito culturale.

Il documento che oggi viene presentato è importante non solo perché fornisce gli elementi per comprendere quanto la cultura sia intrinsecamente legata alla nostra identità di Patria e alla nostra storia, ma anche perché offre gli orientamenti della cosiddetta 'industria culturale'.

Il rapporto di Federculture, per le osservazioni, i suggerimenti, le rilevazioni statistiche che elabora e approfondisce merita la più ampia diffusione possibile presso le scuole, le Università, le Istituzioni e la politica per accrescere la duplice consapevolezza che l'Italia ha nella cultura una delle sue specificità nel mondo e che la cultura può rappresentare uno dei motori della ripresa economica del nostro Paese.

Dobbiamo chiederci perché la cultura è sempre stata considerata dai governi dell' ultimo decennio, e forse anche prima, la Cenerentola del bilancio statale.

Si tratta soltanto di questioni di cassa? O la ragione sta nella prosaica considerazione, un vero e proprio stereotipo, che "con la cultura non si mangia", come affermato in passato da un illustre esponente politico?

Lo studio dimostra tutta la fallacia di questa valutazione - ne parleranno i nostri autorevoli ospiti- perché nonostante la crisi economica, le attività legate alla produzione culturale mostrano ancor oggi un segno positivo e il settore attira sempre più fruitori.

La cultura si conferma anche in questo periodo di crisi un ramo vitale dell'economia e della società. Negli ultimi anni, l'entità della spesa degli italiani destinata ai prodotti culturali è costantemente cresciuta nonostante la contrazione dei consumi. Le famiglie italiane continuano a destinare quote del proprio reddito ai consumi culturali e alle attività del tempo libero a essi connesse.

Insomma, per quanto non debbano essere sottovalutati i segnali della congiuntura economica negativa, quello culturale rimane un comparto vivo e dinamico.

Eppure, a fronte di questo scenario incoraggiante, l'Italia è sistematicamente priva di una politica culturale che sappia fare sistema tra gli operatori del settore.

I diversi ambiti culturali sono erroneamente considerati vasi non comunicanti.

Nonostante l'incremento del consumo di cultura, le istituzioni e le aziende culturali si dibattono in crescenti difficoltà economiche, in molti casi aggravate dall'assenza dello Stato.

Come rileva il Rapporto "nel 1950 lo Stato investiva per arte e cultura una quota pari a circa lo 0.5% della spesa totale, fino ad arrivare nel 1955 a sfiorare lo 0,8 e rimane ancora alto nel 1960 con lo 0,6 e nel 1979 con lo 0,45 per poi decrescere al livello dei giorni nostri. Questi dati, se paragonati al minimo storico del 2011, lo 0,19, danno un quadro evidente dell'importanza assegnata al settore nelle diverse fasi storiche del Paese".

Oggi, per fare un solo esempio ci troviamo nel paradosso per cui, il Paese di Carmelo Bene, Eduardo De Filippo, Vittorio Gasmann e tanti altri illustri registi teatrali ha mortificato prestigiosi istituti culturali come la Scuola di Arte Drammatica 'Silvio D'Amico', mentre le scuole di formazione come le Accademie d'Arte operano con fondi così scarsi e in situazioni logistiche talmente critiche da compromettere la loro attività e l'inserimento nel mondo del lavoro dei suoi allievi.

In questi casi lo Stato ha di fatto abdicato al suo ruolo.

Sono ben consapevole del fatto che lo Stato non possa gestire le Istituzioni culturali, né gli spetta, ma suo compito deve comunque essere quello di metterle in condizioni di produrre e di produrre anche grazie all'intervento dei privati. Un intervento che deve essere sussidiario ma non sostitutivo dello Stato.

Il rapporto tra politiche pubbliche e cultura è - o dovrebbe essere - dinamico. Il Rapporto testimonia come la domanda culturale cresca in relazione allo sviluppo delle politiche culturali e a quello del sistema di produzione e di offerta.

Invece per il combinato disposto di problemi economici, problemi logistici, problemi statutari, le nostre istituzioni culturali si trovano spesso in condizioni di paralisi produttiva.

Una possibile strada per favorire la competitività delle aziende e delle Istituzioni culturali potrebbe essere quella di estendere la Tax Credit, cioè forme di fiscalità agevolata ora destinate solo al settore cinematografico, anche agli spettacoli dal vivo e alla produzione culturale in generale. Si potrebbero inoltre lasciare i proventi museali alle singole istituzioni culturali o al Ministero dei Beni Culturali e non dirottarli più, come avviene da molti anni, al Ministero dell'Economia.

Servirebbe inoltre una politica fiscale che incoraggiasse le donazioni di chi investe nell'arte mettendole a servizio della collettività.

Un altro fenomeno sul quale il Rapporto ci induce a riflettere è la gestione del nostro immenso patrimonio culturale, spesso non conosciuto e adeguatamente valorizzato. Considerare l'Italia semplicemente come un 'museo a cielo aperto' senza creare le necessarie connessioni tra la scuola, l'università, la ricerca, significa rinunciare a priori alla valorizzazione della nostra identità culturale.

Da questo punto di vista, va messo in luce l'impatto negativo che la Riforma del Titolo V della Costituzione, del 2001, ha avuto sulla promozione del Made in Italy e del Brand Italia, come giustamente viene definito nel Rapporto.

L'attribuzione del turismo come materia concorrente alle Regioni ha di fatto impedito che l'Italia si presentasse nei consessi mondiali come realtà coesa e ben organizzata, come sistema Paese.

Alle fiere turistiche internazionali alle quali partecipano Paesi di tutto il mondo e colossi come gli Stati Uniti d'America, la Cina, la Russia, l'India, l'Italia si presenta frammentata in 20 regioni, dispersa in innumerevoli stand di assessorati comunali e regionali con una promiscuità di attività promozionali che si perdono in infiniti rivoli. Si spende un fiume di denaro che, spesso, alimenta politiche clientelari, viaggi di piacere, delegazioni tanto pletoriche quanto inutili ai fini della valorizzazione del Made in Italy e del Brand Italia.

È necessario cambiare. Non a caso, una corrente di pensiero economica ha arricchito la semplice rilevazione del Prodotto Interno Lordo con nuovi indicatori: il benessere culturale, la qualità della vita. Il che dimostra come sia necessaria quella 'rivoluzione copernicana' di cui parlava il direttore de "Il Sole 24 Ore", Roberto Napoletano, quando ha lanciato dalle colonne del suo giornale, nel febbraio scorso, un dibattito al quale hanno partecipato le migliori risorse intellettuali e culturali italiane.

Una rivoluzione che si potrà realizzare solo considerando le risorse stanziate per la cultura come investimenti e non come spese.

Infine, sarebbe riduttivo parlare di investimenti culturali in senso stretto,è indispensabile ampliare l'orizzonte alla educazione e alla formazione.

Investire nella scuola, nell'università, nella ricerca, nella straordinaria ricchezza del nostro patrimonio storico e artistico, nei beni ambientali, nonché investire in adeguate politiche turistiche rappresenta la condizione essenziale affinché l'Italia possa riconquistare competitività internazionale, sia in termini di offerta di produzione culturale sia in capacità di attrarre gli investimenti internazionali e le rotte turistiche.

Ci sono nazioni nel mondo legate ad alcune tipicità che i governi incoraggiano: gli Stati Uniti d'America, per esempio, sono famosi per l'innovazione. L'India per l'eccellenza dell'ingegneria informatica, la Corea, la Cina e il Giappone per la produzione di sistemi robotici, la Francia - per restare in Europa- per la managerialità delle gestioni museali. Per l'ingente quantità di risorse che i governi stanziano per valorizzare queste tipicità, questi Paesi rappresentano l'avanguardia dello sviluppo economico e culturale.

L'Italia può seguire questi esempi e fare altrettanto, proponendosi come capofila mondiale di un nuovo Rinascimento. Ho trovato in tal senso estremamente opportuni i riferimenti fatti dal presidente Roberto Grossi nel Rapporto a quella straordinaria stagione di creatività.

Cosa rese possibile, nel XV e XVI secolo, quella straordinaria fecondità di ingegni da cui conseguì la rinascita della cultura italiana come faro dell'Europa: la riscoperta dell'antichità classica rielaborata in senso moderno.

Lo dimostrano gli scritti di Giorgio Vasari, le opere di quel genio eclettico che fu Leonardo da Vinci, i capolavori di Brunelleschi e di Michelangelo, lo dimostra l'eccezionale sensibilità e lungimiranza di papi, principi e sovrani che investirono nell'arte, rimodellarono città, promossero una visione della cultura in cui l'aristocrazia e il popolo, come ha sottolineato lo storico Burckhardt nel suo 'La civiltà del Rinascimento italiano', condividevano arte, piazze, eventi culturali. Una civiltà in cui l'arte era intrinsecamente legata alla speculazione scientifica, quella che oggi chiameremmo 'ricerca scientifica'.

Questa del resto è cultura nel senso più pieno del termine: l'arte mai concepita come fine a se stessa ma frutto di studio e di trasmissione di valori, la conservazione del bello non come semplice dato estetico ma come valore educativo ispirato al rispetto del luogo dove si vive, la tutela ambientale concepita non soltanto come semplice politica ecologica ma in quanto parte della nostra storia.

Arte, archeologia, territorio e ambiente come elementi di un patrimonio unico al mondo di cui l'Italia deve andare fiera.

In questo, lo studio della storia ha un ruolo indispensabile perché ci dimostra le profonde interconnessioni tra le diverse espressioni dell'umanità che in Italia hanno raggiunto il massimo fulgore creando un'identità unica e irripetibile, nonostante le repliche posticce dei 'Non luoghi' in stile italiano sparsi dall'America alla Cina.

Questa identità ha tutte le caratteristiche per diventare volano di sviluppo, opportunità di lavoro e crescita economica, e dobbiamo essere consapevoli che ciò che i nostri Padri ci hanno trasmesso necessita di cure e attenzioni continue, pena l'abbandono, il degrado e lo sradicamento. Per questo è necessario non soltanto preservare le memorie del passato, come patrimonio storico, ma anche renderle vive e attuali come fonte d'ispirazione di nuova creatività.