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Resoconto dell'Assemblea

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XVI LEGISLATURA


Resoconto stenografico dell'Assemblea

Seduta n. 261 di martedì 22 dicembre 2009

Pag. 1

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ANTONIO LEONE

La seduta comincia alle 9,10.

GIUSEPPE FALLICA, Segretario, legge il processo verbale della seduta del 17 dicembre 2009.
(È approvato).

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che, ai sensi dell'articolo 46, comma 2, del Regolamento, i deputati Albonetti, Angelino Alfano, Bonaiuti, Bossi, Brambilla, Brunetta, Carfagna, Colucci, Cosentino, Cossiga, Craxi, Crimi, Crosetto, D'Amico, Fitto, Franceschini, Gelmini, Alberto Giorgetti, Giro, La Russa, Maroni, Martini, Meloni, Miccichè, Molgora, Mura, Prestigiacomo, Roccella, Romani, Saglia, Stefani, Tremonti e Urso sono in missione a decorrere dalla seduta odierna.
Pertanto i deputati in missione sono complessivamente trentacinque, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Ulteriori comunicazioni all'Assemblea saranno pubblicate nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Annunzio di petizioni (ore 9,15).

PRESIDENTE. Invito l'onorevole segretario a dare lettura delle petizioni pervenute alla Presidenza, che saranno trasmesse alle sottoindicate Commissioni.

GIUSEPPE FALLICA, Segretario, legge:
GABRIELLA CUCCHIARA, da Roma, chiede:
la possibilità per i cittadini di difendersi in tutti i gradi di giudizio senza l'ausilio di un avvocato (801) - alla II Commissione (Giustizia);
che i notai non rivestano più funzioni di pubblico ufficiale (802) - alla II Commissione (Giustizia);
misure che limitino la possibilità per i magistrati di dichiararsi incompetenti territorialmente (803) - alla II Commissione (Giustizia);
MORENO SGARALLINO, da Terracina (Latina), chiede:
l'inasprimento delle sanzioni per l'interruzione della circolazione stradale o ferroviaria (804) - alla II Commissione (Giustizia);
l'introduzione di sanzioni penali per la detenzione a uso personale di sostanze stupefacenti (805) - alla II Commissione (Giustizia);
misure per la tutela delle tradizioni enogastronomiche e culturali italiane (806) - alle Commissioni riunite VII (Cultura) e XIII (Agricoltura);
provvedimenti volti a impedire la spettacolarizzazione di vicende giudiziarie e personali nelle trasmissioni televisive del servizio pubblico (807) - alle Commissioni riunite VII (Cultura) e IX (Trasporti);
norme volte a regolamentare la remunerazione dei personaggi che partecipano a trasmissioni radiotelevisive in proporzione agli introiti pubblicitari derivanti Pag. 2dalla loro presenza (808) - alle Commissioni riunite VII (Cultura) e IX (Trasporti);
provvedimenti volti a regolamentare i prezzi dei carburanti (809) - alla X Commissione (Attività produttive);
SALVATORE MALAFRONTE, da Sona (Verona), chiede provvedimenti per introdurre l'obbligo, per i proprietari di immobili, di stipulare polizze assicurative a copertura dei danni derivanti da terremoti e catastrofi ambientali (810) - alla VIII Commissione (Ambiente);
MATTEO LA CARA, da Vercelli, chiede l'introduzione di nuovi simboli accanto alla bandiera italiana (811) - alla I Commissione (Affari costituzionali);
PAOLO EUGENIO VIGO, da Genova, chiede la riduzione delle aliquote IRPEF sui redditi da pensione (812) - alla VI Commissione (Finanze);
GIANFRANCO CONSOLI, da Bergamo, chiede modifiche al codice di procedura penale ai fini dello snellimento e della riduzione dei procedimenti giudiziari (813) - alla II Commissione (Giustizia);
GIOVANNI VERARDI, da Montalbano Jonico (Matera), chiede l'istituzione di una Commissione parlamentare di inchiesta sul funzionamento del sistema giudiziario (814) - alla II Commissione (Giustizia);
LUCIANO GIULIANO, da Messina, e altri cittadini chiedono che il Parlamento non apporti modifiche al decreto-legge 27 novembre 2009, n. 170, in materia di concorsi per dirigenti scolastici (815) - alla I Commissione (Affari costituzionali);
ALESSANDRO ROCCHI, da Roma, chiede nuove norme per disincentivare e sanzionare l'uso di sostanze alcoliche o stupefacenti alla guida di veicoli (816) - alla IX Commissione (Trasporti);
ANTONIO CAPITANIO, da Luzzana (Bergamo), e altri cittadini, chiedono l'istituzione di un corso obbligatorio di formazione per coloro che aspirano alla carica di sindaco (817) - alla I Commissione (Affari costituzionali).

Informativa urgente del Governo sulla vicenda dell'esplosione di un pacco bomba all'interno dell'Università Bocconi di Milano (ore 9,20).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca lo svolgimento di un'informativa urgente del Governo sulla vicenda dell'esplosione di un pacco bomba all'interno dell'Università Bocconi di Milano.
Dopo l'intervento del rappresentante del Governo interverranno i rappresentanti dei gruppi in ordine decrescente, secondo la rispettiva consistenza numerica, per cinque minuti ciascuno. Un tempo aggiuntivo è attribuito al gruppo Misto.

(Intervento del Ministro dell'interno)

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il Ministro dell'interno, Roberto Maroni.

ROBERTO MARONI, Ministro dell'interno. Signor Presidente, onorevoli deputati, erano le 3,30 circa del 16 dicembre scorso quando il personale della Questura di Milano interveniva presso la sede dell'Università Bocconi, in seguito alla segnalazione di un custode che aveva udito una deflagrazione proveniente da un tunnel sotterraneo, che funge da collegamento tra due strutture dell'ateneo passando sotto le aule.
Inizialmente veniva rilevato esclusivamente il danneggiamento di alcuni cavi elettrici e veniva ipotizzato un corto circuito. Successivamente, anche grazie ad indicazioni che forniva il personale dell'ateneo e ad un forte odore acre, nel locale interessato dall'esplosione veniva rinvenuta una pila collegata a fili elettrici e ad alcuni pezzi di metallo, materiale certamente estraneo all'impianto elettrico.
Personale specializzato del nucleo anti-sabotaggio e del gabinetto regionale della polizia scientifica, prontamente intervenuto su richiesta dell'ateneo, recuperava vari frammenti di un presunto ordigno temporizzato, collocato in una piccola apertura posta appena sotto il soffitto che Pag. 3mette in collegamento il sottopasso con il locale ripostiglio. Il congegno era stato assemblato utilizzando una sezione di tubo metallico, lunga circa 25 cm e larga circa 10 cm, al cui interno era stata pressata una consistente quantità di esplosivo, quasi certamente superiore ad un chilogrammo. Solo una piccola parte della sostanza esplosiva risultava essersi innescata; un'ingente quantità della stessa era infatti sparsa nel sottopasso. Per questo motivo la deflagrazione è risultata di modesta entità, con lievi danni all'edificio. Il tubo risultava chiuso all'estremità da due tappi formati da lastre metalliche tenute insieme da quattro grosse viti, lunghe circa 28 cm con relativi dadi. L'ordigno era stato verosimilmente attivato da un detonatore o altro innesco di cui non è stata rinvenuta alcuna traccia, collegato tramite fini elettrici ad una batteria a 9 volt. L'innesco era poi collegato ad un timer elettrico con relè di scambio utilizzato come interruttore per ritardare l'esplosione. Del congegno venivano rinvenuti l'involucro esterno e i componenti interni. Tutto il materiale è stato sequestrato e messo a disposizione del gabinetto regionale di polizia scientifica per ulteriori approfondimenti investigativi.
L'attentato del capoluogo lombardo è stato poi rivendicato con una missiva fatta recapitare alla sede del quotidiano Libero contenente un volantino a firma «Sorelle in armi, nucleo Mauricio Morales/FAI», con l'intestazione «Operazione Eat the Rich - Fuoco ai CIE». Con il volantino di rivendicazione viene fatto esplicito riferimento all'esplosione del «16 dicembre ore 3 a.m. Milano» e si ribadisce che si tratta di un ordigno composto con 2 chilogrammi di dinamite. Inoltre, pur non citando mai esplicitamente l'Università Bocconi, si afferma che si è voluto colpire «un avamposto del dominio, dove si formano i nuovi strumenti e apparati del capitale, dove si affilano le armi che taglieranno la gola agli sfruttati». Nel prosieguo del testo si stigmatizza la scelta dell'Occidente «civilizzato» di continuare a costruire CIE, definiti nuovi campi di concentramento, e si lanciano esplicite minacce: «siano i ricchi e potenti a tremare, noi a ballare». Il testo termina con lo slogan «Chiudere subito i centri di identificazione e di espulsione o inizierà a scorrere il sangue dei padroni». Di seguito è disegnato a penna un cerchio raffigurante un volto sorridente e, sempre a mano, sono riportate alcune caratteristiche dell'ordigno, ovvero: «scatola metallo, 4 viti, otto bulloni».
A seguito dell'accaduto le autorità di pubblica sicurezza di Milano hanno subito attivato il livello massimo di attenzione sul pericolo di altri episodi analoghi a quello accaduto. Nell'immediatezza, la mattina del 17 dicembre, il prefetto ha presieduto una riunione tecnica di coordinamento delle forze di polizia per una prima analisi della situazione nel capoluogo lombardo. Negli ultimi giorni si sono infatti susseguiti diversi eventi in cui è stato possibile registrare un preoccupante innalzamento della tensione. Mi riferisco a quanto ho già detto in quest'Aula sulla gravissima aggressione al Presidente del Consiglio dei ministri, nonché alle turbative arrecate alle celebrazioni di commemorazione della strage di Piazza Fontana il giorno precedente.
Quanto accaduto nei sotterranei dell'Università Bocconi non ha fortunatamente colpito le persone, ma non può essere sottovalutato, considerate anche le connessioni con l'esplosione di un pacco bomba avvenuto il giorno prima a Gradisca d'Isonzo. L'episodio di Milano infatti è da ricollegare a quello accaduto nel pomeriggio del 15 dicembre presso il centro di identificazione e di espulsione di Gradisca; questo sia per le motivazioni di base (la campagna per la chiusura dei CIE), sia per le modalità e i contenuti dei volantini di rivendicazione.
In questa struttura, verso le 17,55 del 15 dicembre, il direttore dell'ente gestore, mentre si accingeva ad aprire la normale corrispondenza, notava fuoriuscire del fumo da una busta di colore giallo paglierino, dalle dimensioni di 15x20 centimetri, con imbottitura tipica per la protezione di materiale fragile. Allarmato dal suo aspetto, il direttore lasciava cadere il plico Pag. 4sul tavolo dove lo stesso esplodeva provocando danni soltanto al ripiano del mobile. L'esplosione faceva fuoriuscire dalla busta un portamonete di foggia femminile nel quale, presumibilmente, era stata inserita la miscela esplosiva, un filo metallico, una pila ed una molla. Il plico riportava l'indirizzo del CIE stampato su carta adesiva di colore bianco e quale mittente la dicitura «Cooperativa nuova luce».
Da un attento esame dei materiali e della dinamica dei fatti condotta dagli investigatori intervenuti sul posto, risulta verosimile che obiettivo del gesto non fosse la persona del direttore del centro, ma la stessa struttura per immigrati. All'interno del plico è stato rinvenuto un volantino di rivendicazione dell'episodio delittuoso dal titolo identico a quello presente nel volantino di Milano: «Operazione Eat the rich - Fuoco ai CIE». Anche la firma in calce alla rivendicazione è la stessa di Milano: «Sorelle in armi - Nucleo Mauricio Morales/FAI», così come la raffigurazione a penna di un volto sorridente all'interno di un cerchio.
Nel documento si afferma testualmente: «Dopo due chili di dinamite a Milano, due detonatori fanno brillare le dita dei nuovi gestori dello schiavismo: cooperative, Croce rossa e ditte appaltatrici. Chiudere subito i CIE o inizierà a scorrere il sangue dei padroni, altri pacchi bomba colpiranno la Croce rossa internazionale».
Immediatamente si sono recati sul posto il personale della questura di Gorizia e gli artificieri della Polizia di Stato, nonché operatori del gabinetto provinciale della polizia scientifica. Il prefetto di Gorizia ha subito presieduto una riunione tecnica di coordinamento delle forze di polizia per l'analisi dell'episodio; è emerso che l'intento del gesto era probabilmente quello di minacciare i responsabili degli enti gestori dei CIE. Gli investigatori hanno rilevato che la busta esplosiva è stata realizzata con indubbia perizia e da parte di un soggetto in possesso di conoscenze tecniche nel confezionamento di ordigni. È emerso altresì che l'ordigno potenzialmente era in grado di provocare gravi offese, scongiurate solo grazie alla particolare attenzione prestata dal direttore del CIE nell'apertura della busta. L'autorità giudiziaria, immediatamente informata, ha assunto la direzione delle indagini.
Già subito dopo l'episodio di Gorizia sono state sensibilizzate alla massima attenzione tutte le prefetture e le questure ove hanno sede i centri di identificazione ed espulsione, in relazione alla possibilità che possano essere recapitati altri pacchi esplosivi ad aziende ed istituzioni interessate alla gestione dei CIE, tra cui, in particolare, la Croce rossa italiana, specificamente citata nella rivendicazione dell'episodio di Gorizia. Sono state, inoltre, informate le polizie degli Stati europei, attraverso il circuito internazionale che comprende gli uffici antiterrorismo dei Paesi dell'Unione, non potendosi escludere che altri plichi esplosivi possano essere recapitati anche a strutture ed organismi internazionali con sede all'estero.
Il testo e la firma delle due rivendicazioni non lasciano dubbi sulla matrice anarco-insurrezionalista dei relativi atti eversivi; l'acronimo FAI (Federazione anarchica informale), peraltro, riappare a distanza di poco oltre due anni dall'ultimo episodio. Risale, infatti, al 5 maggio 2007 la rivendicazione siglata FAI-RAT (Rivolta anonima e tremenda) dell'attentato compiuto nel quartiere residenziale Crocetta di Torino dove tre ordigni avevano fatto esplodere dei cassonetti.
In quella circostanza gli autori del volantino motivarono la scelta dell'obiettivo in quanto «quartiere d'elezione degli sfruttatori e dei potenti, dove non sorgeranno mai carceri o centri di detenzione per immigrati», minacciando poi ulteriori azioni nel caso in cui il CPT di corso Brunelleschi non fosse stato chiuso e sostenendo, quale fine ultimo, l'abolizione di «queste moderne strutture di segregazione razziale».
Il tema della contrapposizione violenta, ieri ai CPT e oggi ai CIE, è stato sempre uno dei fili conduttori delle attività degli anarco-insurrezionalisti. Sempre in relazione Pag. 5a tematiche di questo genere, missive esplosive erano state inviate dal gruppo FAI Narodna Volja nel maggio 2005 alla stazione di polizia municipale di Torino, al centro di permanenza temporanea per cittadini extracomunitari di Modena e al questore di Lecce.
Ricordo, altresì, i plichi esplosivi rivendicati dalla sigla FAI-Rivolta anonima e tremenda, inviati nel luglio del 2006 alla sede del quotidiano Torino Cronaca, alla sede della ditta Coema Edilità srl di Torino, nonché al sindaco del capoluogo piemontese.
Lo scorso 18 dicembre si è riunito il Comitato di analisi strategica antiterrorismo (CASA) per un esame dei due attentati. Buona parte delle analisi deve restare riservata per non compromettere le attività di investigazione degli organi di polizia. Le analogie tra i due pacchi bomba inducono a collocare gli episodi in linea di continuità rispetto ad analoghe azioni realizzate in passato dalle componenti anarchiche, non solo in Italia, ma anche all'estero e, in particolare, in Grecia e in Spagna. La matrice anarchica, secondo le valutazioni emerse dall'analisi, può essere riconducibile, più che a un rinnovato attivismo dei vecchi militanti, che negli anni scorsi hanno rivendicato azioni della stessa natura, a quello che viene definito testualmente «gruppo spontaneo di affinità», composto da soggetti anagraficamente giovani, che intende rinverdire i propositi del FAI rilanciandone il progetto federativo.
Alcuni episodi verificatisi in precedenza avevano già richiamato l'attenzione del Comitato sul perdurante attivismo propagandistico della componente anarco-insurrezionalista, e indotto, da una parte, a mettere a fattore comune le attività preventive giudiziarie in corso da parte della DIGOS e del ROS in diverse città italiane; dall'altra, a focalizzare l'attenzione sulle nuove leve del mondo anarchico nei cui confronti sono in corso iniziative investigative.
In conclusione, l'analisi finora effettuata induce a ritenere quanto accaduto in diverse località come una serie di fatti succedutisi nel tempo, essendo poco verosimile, peraltro, l'esistenza di un disegno criminoso eversivo unitario che veda un qualche collegamento strategico tra i diversi eventi. Da parte del Ministero dell'interno e delle forze di polizia la vigilanza è in ogni caso massima e massimo è l'impegno per non dare tregua e non lasciare alcuno spazio a chi, con la violenza, vuole turbare la civile convivenza e alterare il libero svolgimento del confronto politico e sociale.
Voglio assicurare il Parlamento che il livello di operatività di tutte le strutture investigative, di intelligence e degli apparati di prevenzione e di vigilanza è ai massimi livelli e in tal senso ho disposto specifiche direttive di sensibilizzazione (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania).

(Interventi)

PRESIDENTE. Passiamo agli interventi dei rappresentanti dei gruppi.
Ha chiesto di parlare l'onorevole Santelli. Ne ha facoltà.

JOLE SANTELLI. Signor Presidente, signor Ministro, visto che si tratta dell'ultima seduta dell'anno ne approfitto anche per ringraziare lei e, soprattutto, le forze dell'ordine per gli straordinari successi che quest'anno sono stati raggiunti in Italia, soprattutto nei confronti della criminalità organizzata, tanto nell'arresto dei latitanti, quanto nel sequestro e nell'aggressione ai patrimoni mafiosi.
Credo sia giusto e doveroso anche sottolineare come, in un solo anno, l'opera legislativa antimafia, cominciata già nel 1991 e nel 1992 dopo le stragi di Falcone Borsellino, sia finalmente completata in quest'anno con il completamento della legislazione economica e di aggressione. Credo che questo sia un segnale di rinvigorimento dello Stato nei confronti di uno dei pericoli sempre costanti del nostro territorio.
Per quanto riguarda la specifica situazione di cui lei oggi ci ha parlato, la Pag. 6ringrazio per il quadro in cui ha inserito questo contesto. Sono episodi che, come lei stesso ha detto, non sono collegati direttamente, ma che disegnano sostanzialmente un quadro generale di preoccupazione.
È una preoccupazione che lei, come i suoi predecessori, ha sempre sottolineato, quella dell'anarco-insurrezionalismo, di una manifestazione spontanea sempre maggiore, che probabilmente - dico probabilmente, senza accusare lo strumento - avviene anche tramite la rete. Credo che quello che bisogna sottolineare in questa sede (la politica dovrebbe stare particolarmente accorta) è lo sfruttamento in questo caso della situazione degli immigrati e delle loro condizioni di disperazione proprio per creare una nuova forma di vittimismo che giustifichi la violenza.
Di fatto, c'è qualcuno che ha deciso di trovare una nuova categoria da «difendere», lo dico tra virgolette, come i nuovi deboli, alcune volte inconsapevoli. Può capitare con le bombe, ma può capitare, come è accaduto a Lampedusa o a Malta, anche attraverso l'utilizzazione e, come dire, l'agevolazione degli strumenti della rivolta. Questo semplicemente per sottolineare la necessità da parte di tutte le forze politiche di una particolare attenzione su questi temi e, da parte nostra, di evitare di incendiare alcuni temi come questi. Anche nelle visite nei CPA, i Centri di prima accoglienza, dobbiamo ricordarci sempre che spesso è molto facile attaccare gli incendi, ma molto più difficile è spegnerli (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Fiano. Ne ha facoltà.

EMANUELE FIANO. Signor Presidente, signor Ministro, vorrei cominciare dall'ultima parte del suo intervento, perché, se c'è una domanda che è rimasta inevasa nel suo intervento - ed è la domanda che le rivolgo - è se sia, nella vostra idea e nell'idea che si sono fatti gli investigatori, del tutto casuale l'avvenimento del quale stiamo parlando, la sua contemporaneità o coincidenza con i giorni di tensione che, proprio nella città di Milano, si sono vissuti poche ore prima, nei giorni precedenti al ritrovamento, anzi all'esplosione parziale di questa bomba. Penso, quindi, agli episodi che hanno caratterizzato l'aggressione, che tutti abbiamo condannato, al Premier Berlusconi ed anche ad alcuni episodi legati alle celebrazioni del quarantesimo anniversario della strage di piazza Fontana.
Nella sua analisi, lei ha qui detto che è poco credibile un disegno criminoso eversivo organizzato e articolato da ricondurre alla FAI. Tuttavia, come ella ha d'altronde ricordato, la scia degli eventi criminosi, seppur di livello intermedio, che sono legati a questa sigla, è lunga, a cominciare dal pacco bomba che nel 2003 ricevette il Presidente del Consiglio Romano Prodi e da quelli successivi indirizzati al sindaco di Torino Chiamparino, la cui città peraltro lei ha ricordato.
Quindi, la prima domanda è capire se siamo di fronte ad un'organizzazione che pur, come lei dice, non articola un disegno criminoso organizzato, tuttavia ha avuto intenzione o ha intenzione di inserirsi in un clima di tensione. Infatti, questo farebbe pensare ad altre stagioni del nostro Paese, nelle quali un disegno generale invece c'era stato.
La seconda questione, unendomi al ringraziamento per l'attività che lei, il suo Ministero e le forze dell'ordine hanno in questi mesi svolto contro la criminalità organizzata con numerosi importanti arresti, è che noi vorremmo vederla in quest'Aula celebrare l'arresto e lo sgominamento di questa organizzazione, che lavora come un fiume carsico, che emerge in maniera discontinua e che pur tuttavia rimane presente, se è vero com'è vero che sono molto numerosi gli episodi che possiamo ricordare.
La terza questione, che lei ha citato a nome degli inquirenti, riguarda un'indubbia perizia nella realizzazione degli ordigni. Mi pare che lei si riferisse, in particolare, con questo giudizio all'ordigno di Gradisca; tuttavia, anche il primo ordigno, proprio per come ella ha ricordato e Pag. 7descritto, presenta una certa capacità tecnica: un timer a collegamento elettrico, un innesco di tipo elettrico, due tipi diversi di componenti, due chili di dinamite.
Come lei certamente sa meglio di noi, tant'è vero che ha alzato il livello dell'allerta, sapere che nella città di Milano qualcuno può tranquillamente circolare con alcuni chili di pericolosissimo materiale esplosivo e avere la cognizione tecnica per innescarlo con una certa qual perizia non lascia tranquilli, se è vero, tra l'altro, che nella stessa città, qualche settimana prima, un altro tipo di attentato, di tutt'altra matrice, è occorso, come tutti sappiamo, contro la caserma Santa Barbara di Milano.
Nel nostro Paese, quindi, in questo momento, evidentemente esistono - e concludo - perizie, materiali, organizzazioni e persone che hanno come fine ultimo quello di seminare il terrore o di creare vittime.
Per questo, mi auguro che il lavoro degli inquirenti e dei servizi di sicurezza e informazione dello Stato continui, per garantire i cittadini della Repubblica italiana. Pur se questi episodi sono di livello medio e avrebbero potuto - per fortuna non lo sono stati - essere più gravi, seppure questa organizzazione non presenti un disegno eversivo coordinato, come lei ha sin qui detto, vorremmo vedere più chiarezza e più certezza e vorremmo avere la sicurezza che questa organizzazione non possa salire di livello, non possa organizzare intorno a sé altri aderenti e non possa organizzare attentati o episodi di maggior livello.
Rimane la preoccupazione per una serie di episodi che hanno colpito la città di Milano e per una tensione che rimane alta. Mi auguro che tutti insieme potremo far scendere questa tensione e sgominare chi non vuole garantire la democrazia in questo Paese (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Volpi. Ne ha facoltà.

RAFFAELE VOLPI. Signor Ministro, innanzitutto mi associo ai ringraziamenti fatti dalla collega Santelli, che spero vorrà trasmettere a tutte le forze dell'ordine, per il lavoro fatto in quest'anno. La ringrazio anche per la puntuale informativa, però eravamo già preoccupati, perché credo che il livello di terrore, se così si può chiamare, non si misuri in chili di tritolo, ma nei fatti che accadono.
È un anno e mezzo che il nostro movimento, la Lega Nord, subisce attentati, forse meno eclatanti, ma non meno pericolosi in un contesto politico: prima in Emilia, poi a Torino due volte; in Emilia, anche lì, con polvere nera e bulloni, ma senza fare assolutamente critiche, perché poi fatti analoghi sono accaduti, come ha ricordato il collega Fiano, a Torino ad altri esponenti politici.
Siamo preoccupati: nel 1977 io avevo 17 anni, poi negli anni di piombo sono andato in un'università tranquilla, l'università di Padova. Mi ricordo che i cattivi maestri c'erano e quando si parla di un contesto politico come il nostro, che dovrebbe essere quello che in questi giorni, come lo ha definito, credo, il segretario Bersani, è quello dello zucchero, ma la befana vedremo qual è, vedremo se alla befana tutti si dissoceranno dagli atti di terrorismo che stanno crescendo nel nostro Paese.
Signor Ministro, le voglio leggere alcune cose: «Da quando la Lega ottusa e priva di barlumi culturali, al punto che non ricorda (...), alterna la cattiveria persecutoria contro gli immigrati al disprezzo verso insegnanti e aspiranti direttori didattici (...)». «La Lega è radicata nel territorio della paura: la coltiva e la ingrandisce. La paura produce vittime (...). La Jugoslavia iniziò così». «Dovunque in Europa ci sono gruppi politici xenofobi e razzisti. Ma solo in Italia, con il partito Lega Nord che occupa il Ministero dell'interno e comanda tutte le polizie», signor Ministro di polizia.
«Leggi razziali e stella gialla, proprio come nel 1938». Questo è veramente interessante: «Ergendosi fiero su questo crescente tumulo di vittime (...),» lei, signor Ministro, non altri. E ancora che la Lega fa la guerra agli zingari, soprattutto donne e bambini. «Il gerarca leghista Roberto Pag. 8Maroni». «E così Maroni usa il cuore del sistema democratico italiano come Stato di polizia (...). Il gerarca in camicia verde non perdona: la sua Costituzione materiale è barbara (...). La sola differenza tra lui (...) - che sarebbe lei, signor Ministro - e il peggior passato è il colore della camicia: verde invece che nero».
E questo se lo segni, perché questi sono i cattivi maestri: «Poiché tutto ciò avrà brutte conseguenze nel già pacifico Paese Italia, segnatevi alcuni nomi - colleghi, segnatevi alcuni nomi -: sono il capo della Lega e il suo Ministro dell'interno». Questi sono messaggi di pacificazione che non vengono da Internet, ma dal collega Colombo, dal quale non ho mai sentito nessuno di voi dissociarvi, mai una volta (Applausi del deputato Dal Lago)!
Credo che questa debba diventare una stagione di riflessione: una stagione di riflessione per tutti, perché all'epoca degli anni di piombo si arrivò tardi alla consapevolezza. Fu attaccato un «periodo» che forse poteva avere aspetti diversi, furono uccisi in maniera barbara politici, sindacalisti, uomini delle forze dell'ordine. Spero che i colleghi della sinistra vorranno raccogliere almeno su questo tema la voglia di partecipare insieme ad un momento di riforme.
Certo, signor Ministro, che ancora l'altro giorno un altro cattivo maestro, secondo me, diceva che queste cose non bisogna farle: gli accordi non si trovano, l'«inciucio» è cosa non buona e ingiusta. Non si cercano compromessi neanche su queste cose?

PRESIDENTE. La invito a concludere.

RAFFAELE VOLPI. Concludo, signor Presidente. Mi dispiace che il giovane redattore di Roma fascista nel 1940, quello che firmò insieme all'amico Colombo, al collega Colombo, l'appello contro Calabresi, vi dica ancora cosa dovete fare (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Tassone. Ne ha facoltà.

MARIO TASSONE. Signor Presidente, ho ascoltato con attenzione sia l'intervento del Ministro che le osservazioni e le riflessioni svolte dai colleghi. Abbiamo dunque due modi per chiosare quanto ci ha riferito questa mattina il Ministro: o cedere ad uno schema un po' consunto, usuale, rituale di sollecitazioni generiche; oppure richiedere con molta forza, visto e considerato che il Ministro nella sua esposizione ci ha fornito degli spunti, ulteriori approfondimenti e quadri di riferimento più chiari e più certi rispetto alle cose che ci ha detto.
Questa mia riflessione, signor Presidente, signor Ministro, nasce proprio da quanto lei ci ha descritto: una situazione certamente non confortante, un po' preoccupante rispetto ad una serie di vicende che si possono collegare tra di loro. La prima domanda allora è: sono collegabili, c'è un disegno? Noi abbiamo avuto oggi contezza, questa mattina, all'inizio dei lavori dell'Aula: proprio sull'informativa sul pacco bomba all'Università Bocconi abbiano avuto un quadro più ampio o quanto meno delle notizie che lei ci ha fornito in questo momento. Non entro nel merito della FAI, e di altri tipi di problema: chi è a conoscenza delle storie di questo Paese, dei dibattiti che si sono svolti e «consumati» in quest'Aula, sul terrorismo e quant'altro, deve cogliere anche questi segnali per capire se vi è un disegno organizzato, visto e considerato che si parla di perizia, di capacità «professionale», lo dico tra virgolette, quelle capacità professionali tecniche e militari che abbiamo dovuto riscontrare in altri fenomeni e vicende.
Il quadro deve essere allora molto più completo, perché se tutto dovesse risolversi nell'informativa, nella risposta, non vi è dubbio che sarebbe poca cosa, sarebbe minimale, non avremmo fatto un buon servizio verso il Paese ed il rafforzamento delle istituzioni. Certo, il clima di quei giorni, signor Ministro, non è stato tranquillo: forse, qualcosa è mancato nell'organizzazione e in termini di deterrenza da parte delle forze dell'ordine, forse sia per quanto riguarda la manifestazione di rievocazione, Pag. 9di commemorazione di Piazza Fontana che altre vicende, alcune situazioni potevano essere diversamente controllate; e poi vi è sempre il dato importante, significativo di capire qual è il ruolo in questo nostro Paese dei servizi di sicurezza e di informazione. Questo è un interrogativo che tutti quanti ci poniamo, molte volte in sordina, senza una forte manifestazione, ma non vi è dubbio che questo è l'aspetto con cui dobbiamo confrontarci.
Il dato di partenza è infatti questo: quando diciamo che si sono raggiunti dei risultati e degli obiettivi per quanto riguarda la lotta alla criminalità organizzata, e che quindi la «sezione catturandi» ha operato in termini positivi, ciò ovviamente rappresenta un elemento di verità, affermiamo cioè un fatto reale; ma questo non significa che abbiamo sconfitto la criminalità organizzata e la mafia anche perché - come lei sa, signor Ministro - vi sono catturati che si fanno catturare (o qualcuno li fa catturare all'interno dell'organizzazione) ed altri che invece vengono catturati proprio per la grande capacità ed il grande slancio dimostrati sia dalle forze dell'ordine sia dai magistrati.
Non c'è dubbio, allora, che bisogna capire se questa rivendicazione della bomba da parte di circoli anarchici ci riporta al passato oppure se vi sono fatti nuovi, come nuove organizzazioni che si collegano anche a storie e vicende internazionali; né è il caso ovviamente di abbandonarsi a sottolineature per quanto riguarda i centri di identificazione e di espulsione, perché anche su tale punto dovremo certamente svolgere un approfondimento per evitare una semplicistica conclusione dei nostri lavori e del nostro impegno.

PRESIDENTE. Onorevole Tassone, deve concludere.

MARIO TASSONE. Comunque, il mio gruppo parlamentare - e così il mio partito, come loro sanno, signor Presidente e signor Ministro - rimane attestato su una vecchia storia di coerenza nella difesa delle libertà e delle istituzioni, e quindi a sostegno di tutto il lavoro che hanno svolto il Governo e, in particolar modo, il Ministero dell'interno per fronteggiare e contrastare questi fenomeni così preoccupanti e ovviamente così gravi (Applausi dei deputati del gruppo Unione di Centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Evangelisti. Ne ha facoltà.

FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, voglio ringraziare insieme a lei la struttura della Camera, il Presidente della Camera ed il Ministro Maroni per avere reso tempestivamente un'informativa al Parlamento sui fatti che si sono verificati a Milano e a Gradisca d'Isonzo.
Mi sembra proprio il caso di dover sottolineare che, di fronte ad una situazione come quella che è stata descritta, occorre al tempo stesso non minimizzare e non ingigantire i fatti, ma cercare di coglierli nella loro esatta portata: servono vigilanza ed attenzione, ed è giusto e utile che si sia alzato il livello di guardia dell'intelligence e delle forze di polizia perché, appunto, non ci si può distrarre. Per il pericolo, infatti, non serve che vi sia un gruppo strutturato, di alto livello intellettuale, ma basta un piccolo nucleo, basta l'iniziativa di un singolo per portare danno e sangue.
E noi lo sappiamo, perché nella storia della Repubblica italiana vi sono stati gli anni in cui il sangue è corso: il sangue copioso degli esponenti delle forze dell'ordine, dei magistrati, degli stessi sindacalisti che denunciavano i crimini che si stavano compiendo.
Siamo a quaranta anni dalla strage di piazza Fontana, l'anno prossimo ricorreranno i trenta anni dalla strage di Bologna e sinceramente l'auspicio di tutti era quello di non rivivere neanche lontanamente - se non appunto nel ricordo commosso di quelle vittime - una stagione che potesse riportarci indietro.
Personalmente, non mi hanno mai convinto le dietrologie, così come non mi ha mai convinto il giustificazionismo verso i compagni che sbagliano; tuttavia, si fa fatica Pag. 10ad equiparare la situazione attuale con quella.
Persino i comunicati che lei ha letto, signor Ministro, persino le sigle che hanno rivendicato queste che io voglio immaginare possano ridursi ad azioni dimostrative, ancorché potenzialmente molto pericolose, denunciano un qualche cosa di poco chiaro e sicuramente non strutturato dal punto di vista dello spessore intellettuale.
Quando si parla infatti di FAI, Federazione anarchica informale, cosa vuol dire? O quando si parla di un gruppo RAT, Rivolta anonima tremenda, lei stesso fa fatica a trattenere un sorriso, però deve essere un sorriso ed una riflessione amara perché può essere il tentativo di sviare l'attenzione e di coprire la reale portata del disegno criminale che può essere in nuce.
Quindi, lo ripeto, servono attenzione e vigilanza. Però, voglio dire che, anche se il quadro che lei questa mattina ci ha descritto continua ad essere preoccupante, mi sembra di aver capito dalle sue espressioni che al momento appare un po' meno inquietante di quello che nell'immediato potevano far supporre le prime analisi e i primi accertamenti della DIGOS e degli esperti artificieri.
Ciò che ha colpito questa mattina è stato il tentativo di cogliere anche questo, che deve essere un momento in cui le forze politiche davvero tutte insieme si allertano e vigilano democraticamente, come uno degli elementi della strumentalizzazione politica. Chiamare in causa per quelle cose che l'hanno fatta sorridere, e fanno tutti sorridere amaramente, i «cattivi maestri», ed indicarli in quest'Aula con nome e cognome, come è stato fatto nei confronti dell'onorevole Colombo, significa che, purtroppo, a dieci giorni di distanza, si conferma quella linea davvero sbagliata dell'onorevole Cicchitto che ha fatto l'elenco dei cosiddetti mandanti morali di un clima di odio in questo Paese. In questo Paese non vi è un clima di odio, e se si devono chiamare in causa i maestri, allora bisogna fare un'attenta riflessione, soprattutto una riflessione seria, che c'era nella sua relazione e che non c'è stata negli interventi che sono seguiti (Applausi dei deputati del gruppo Italia dei Valori).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l'onorevole Iannaccone. Ne ha facoltà.

ARTURO IANNACCONE. Signor Presidente, signor Ministro, c'è qualcosa che non va in Italia se lei, a distanza di pochi giorni, è dovuto venire qui in Parlamento ad illustrare e a relazionare su due gravi episodi di violenza politica che sono accaduti nel nostro Paese. È fuor di dubbio che l'attentato al Presidente del Consiglio è un attentato che si configura come un attentato terroristico e, anche se non commesso da un terrorista, presenta delle finalità evidentemente terroristiche. Quanto è accaduto all'università Bocconi rappresenta un ulteriore campanello d'allarme che ci dovrebbe far riflettere.
Di cosa si alimenta il terrorismo? Si alimenta di logistica, ed è stato ricordato in questa Aula che gli attentati, in modo particolare quelli commessi da questo gruppo anarchico, sono stati commessi con una certa perizia e con materiale esplosivo che evidentemente circola nel nostro Paese. Si alimenta di cattivi maestri che c'erano negli anni Settanta fuori dal Parlamento, molto spesso nelle università, e altre volte nelle redazioni dei giornali.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
GIANFRANCO FINI (ore 10)

ARTURO IANNACCONE. Ora, piaccia o non piaccia, i «cattivi maestri», molto spesso, siedono in Parlamento, e non per testimoniare una distinzione ideologica, ma per alimentare quel clima di odio che, evidentemente, non giustifica di per sé quello che sta accadendo, ma ne è una delle componenti essenziali e fondamentali. Un clima che si alimenta, inoltre, di obiettivi da colpire, che vengono individuati nel Presidente del Consiglio, per quello che secondo una certa opposizione rappresenta, e nella sua maggioranza, per le Pag. 11politiche che porta avanti. Allora, il clima che viviamo è difficile e richiede una grande attenzione e sensibilità.
Noi, come Movimento per le Autonomie, nel ringraziarla per l'opera che svolge - signor Ministro - riteniamo che sia importante avviare nel nostro Paese una fase reale di riforme costituzionali che possano contribuire non a creare confusione di ruoli, ma a risolvere i problemi.

PRESIDENTE. È così esaurito lo svolgimento dell'informativa urgente del Governo.

Sull'ordine dei lavori.

WALTER VERINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

WALTER VERINI. Signor Presidente, prendo la parola perché vorrei che la Presidenza della Camera si facesse interprete presso il Ministro della giustizia della situazione e del clima di inquietudine che, non soltanto nella regione interessata (l'Umbria), ma in generale ha generato la decisione del giudice per le indagini preliminari di procedere all'archiviazione delle accuse per il possibile reato - sottolineo l'aggettivo possibile - di omicidio ad opera di ignoti del detenuto Aldo Bianzino. Ciò vuol dire che la morte in carcere di questa persona, avvenuta poco più di due anni fa, rischia di rientrare in quella categoria di morti le cui cause non saranno mai disvelate.
Si tratta di un caso che meritoriamente gli amici e colleghi del Partito Radicale hanno più volte sollevato, ma, anche alla luce di questo nuovo fatto (l'archiviazione da parte del GIP), credo sia utile sollevare in Aula la questione.
Morti dalle cause non accertate - dicevamo - e questo è inaccettabile, ne va della credibilità del sistema carcerario, che ai drammatici ed esplosivi problemi legati al sovraffollamento, all'edilizia penitenziaria, al taglio di risorse, aggiunge una troppo lunga serie di morti dalle cause poco chiare, o fin troppo chiare.
A questo proposito credo sia giusto soltanto en passant, non per il rilievo naturalmente ma per la brevità del tempo, richiamare alla memoria il caso Cucchi, un caso che non può e che non deve essere archiviato.
A proposito di morti ci associamo anche noi alla richiesta che la nostra collega Ferranti ha rivolto al Ministro perché si indaghi sull'incredibile morte nel carcere di Teramo di Uzoma Emeka, testimone chiave del pestaggio avvenuto ai danni di un detenuto poi morto nello stesso carcere.
Torno rapidissimamente al caso Aldo Bianzino. Questa persona non era neppure condannata, fu arrestata il 12 ottobre 2007 insieme alla sua compagna a seguito del ritrovamento nel loro giardino di piante di marijuana. Trasferito al carcere di Capanne di Perugia - un carcere che ho visitato qualche giorno fa e che peraltro non è certamente dei peggiori - fu trovato morto 36 ore dopo, la mattina del 14. È un carcere che ha problemi come tanti, ma non ha oltrepassato la soglia dell'invivibilità, anche se per esempio mancano circa 120 guardie di custodia e questo naturalmente crea problemi legati al sovraffollamento e al mancato rispetto degli standard tra popolazione carceraria e guardie di custodia. Noi non siamo - e concludo Presidente - abituati a criticare la magistratura e le sue sentenze che rispettiamo davvero, e neanche in questa circostanza lo faremo.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

WALTER VERINI. Tuttavia, la decisione del GIP di archiviare - e concludo Presidente - non offre risposte certe alla domanda sulle cause della morte. Per questo credo che vi siano le condizioni per chiedere al Ministro di contribuire a dare le risposte che l'opinione pubblica attende.
Non si chiede di ipotizzare tesi, ma semplicemente di contribuire con l'autorità e il peso ministeriale ad accertare che le Pag. 12procedure di indagine che hanno portato alla decisione di archiviazione siano state tutte scrupolosamente seguite. Si chiede un accertamento che possa anche togliere quelle zone d'ombra che sono apparse e che ancora persistono sulla prima fase delle indagini.

PRESIDENTE. Deve concludere.

WALTER VERINI. Concludo davvero per dire solo che il Ministro della gioventù, Giorgia Meloni, meritoriamente segue dal punto di vista umano il dramma dell'unico figlio di questa coppia che è rimasto solo (perché è morta successivamente anche la madre), un ragazzino di 17 anni che, oltre che essere assistito (il Ministro della gioventù si è interessato), chiede anch'egli con coraggio una cosa: che si faccia luce sulla scomparsa di suo padre (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

Discussione del testo unificato delle proposte di legge: Angeli; Angeli; Bressa ed altri; De Corato ed altri; Fedi ed altri; Ricardo Antonio Merlo ed altri; Santelli; Cota ed altri; Paroli; Sbai; Di Biagio ed altri; Sarubbi e Granata; Mantini e Tassone; Sbai; Garagnani: Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza (A.C. 103-104-457-566-718-995-1048-1592-2006-2035-2431-2670-2684-2904-2910-A) (ore 10,05).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca la discussione del testo unificato delle proposte di legge d'iniziativa dei deputati Angeli; Angeli; Bressa ed altri; De Corato ed altri; Fedi ed altri; Ricardo Antonio Merlo ed altri; Santelli; Cota ed altri; Paroli; Sbai; Di Biagio ed altri; Sarubbi e Granata; Mantini e Tassone; Sbai; Garagnani: Modifiche alla legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante nuove norme sulla cittadinanza.
Avverto che lo schema recante la ripartizione dei tempi relativi alla discussione sulle linee generali è pubblicato in calce al resoconto stenografico della seduta del 17 dicembre 2009.

(Discussione sulle linee generali - A.C. 103-A ed abbinate)

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la discussione sulle linee generali.
Avverto che i presidenti dei gruppi parlamentari dell'Unione di Centro, Italia dei Valori e Partito Democratico ne hanno chiesto l'ampliamento senza limitazioni nelle iscrizioni a parlare, ai sensi dell'articolo 83, comma 2, del Regolamento.
Ha facoltà di parlare il relatore per la maggioranza, onorevole Bertolini.

ISABELLA BERTOLINI, Relatore per la maggioranza. Signor Presidente e onorevoli colleghi, il testo che la I Commissione sottopone alla discussione e all'approvazione dell'Assemblea interviene sulla legge n. 91 del 5 febbraio 1992 per tentare di adeguare le esigenze che sono emerse nel corso di questi anni, sulla base del principio che tra tutte le proposte di legge in esame, che sono ben quindici, è rilevabile che la cittadinanza non debba più essere un acquisto automatico a seguito della permanenza sul territorio italiano per un determinato numero di anni, ma debba costituire il riconoscimento di un'effettiva integrazione, una cittadinanza quindi basata non su un fatto quantitativo, bensì su un fatto qualitativo.
Oggi, in base alla legge vigente, acquistano la cittadinanza italiana di diritto alla nascita coloro di cui almeno un genitore sia cittadino italiano, cosiddetto ius sanguinis. La legge n. 92 del 1991 disciplina poi alcune ipotesi che sono riconducibili al cosiddetto ius soli e che riguardano principalmente coloro che nascono nel territorio italiano ed i cui genitori siano da considerarsi o ignoti dal punto di vista giuridico oppure apolidi; coloro che nascono nel territorio italiano e non possono acquistare la cittadinanza dei genitori perché la legge dello Stato di origine dei genitori esclude che il figlio nato all'estero possa acquisire la loro cittadinanza; i figli di ignoti che vengono trovati a seguito di abbandono nel territorio italiano e per i quali non può essere dimostrato da parte Pag. 13di qualunque soggetto interessato il possesso di un'altra cittadinanza.
La cittadinanza italiana viene acquisita anche per il riconoscimento della filiazione, cioè da parte del padre o della madre che siano cittadini italiani oppure a seguito di un accertamento giudiziale della sussistenza della filiazione. In questi casi l'acquisto della cittadinanza è automatico per i figli minorenni, mentre quelli maggiorenni conservano la propria cittadinanza, con la possibilità però di scegliere la cittadinanza determinata dalla filiazione con un'apposita dichiarazione da effettuarsi entro un anno dal riconoscimento o dalla dichiarazione giudiziale di filiazione o dalla dichiarazione di efficacia in Italia del provvedimento straniero, nel caso in cui l'accertamento della filiazione sia avvenuto all'estero.
Ho ritenuto utile riassumere quanto detto dalla legge perché in Commissione vi sono stati molti fraintendimenti su questo tema.
Per gli stranieri di origine italiana oggi la legge prevede modalità agevolate di acquisto della cittadinanza che riguardano stranieri o apolidi che discendano entro il secondo grado da un cittadino italiano per nascita, a condizione che facciano un'espressa dichiarazione di volontà ed abbiano svolto effettivo servizio militare nelle Forze armate italiane oppure abbiano un impiego alle dipendenze, anche all'estero, dello Stato italiano, oppure risiedano legalmente in Italia da almeno due anni al momento del raggiungimento della maggiore età. In questo caso la dichiarazione di voler conseguire la cittadinanza italiana deve intervenire entro l'anno successivo al compimento di tali condizioni.
Lo straniero poi nato in Italia può divenire cittadino italiano purché vi abbia risieduto legalmente ininterrottamente fino al raggiungimento della maggiore età e se dichiara, entro un anno dal compimento dei 18 anni, di voler acquistare la cittadinanza italiana. Lo straniero coniuge di cittadino italiano ottiene la cittadinanza su richiesta, se dopo il matrimonio risieda legalmente da almeno due anni nel territorio della Repubblica oppure dopo tre anni dal matrimonio, se risiede all'estero. Occorre che al momento dell'adozione del relativo provvedimento non sia intervenuto scioglimento, annullamento, cessazione degli effetti civili del matrimonio e che non sussista la separazione personale dei coniugi.
L'acquisto della cittadinanza per matrimonio è precluso dalla condanna per delitti contro la personalità internazionale ed interna dello Stato e contro i diritti politici dei cittadini e dalla condanna per un delitto non colposo per il quale la legge preveda una pena edittale non inferiore nel massimo a tre anni di reclusione, dalla condanna per un reato non politico ad una pena detentiva superiore ad un anno da parte di un'autorità giudiziaria straniera, quando la sentenza sia stata riconosciuta in Italia, nonché dalla sussistenza, nel caso specifico, di comprovati motivi inerenti alla sicurezza dello Stato.
La cittadinanza può poi essere concessa con decreto del Presidente della Repubblica in base ad una valutazione discrezionale di opportunità, su proposta del Ministro dell'interno previo parere del Consiglio di Stato, allo straniero che sia residente in Italia da almeno dieci anni, se cittadino che non appartiene all'Unione europea, o da almeno quattro anni se cittadino comunitario, se sia apolide e sia in Italia da almeno cinque anni oppure il cui padre o la cui madre o uno degli ascendenti in linea retta di secondo grado siano stati cittadini per nascita o che sia nato in Italia ed in entrambi i casi vi risieda da almeno tre anni oppure sia maggiorenne adottato da cittadini italiani residenti in Italia da almeno cinque anni oppure abbia prestato servizio alle dipendenze dello Stato italiano, anche all'estero, per almeno cinque anni.
L'efficacia del decreto di concessione della cittadinanza è subordinata alla prestazione da parte dell'interessato di un giuramento di fedeltà alla Repubblica e di osservanza della Costituzione e delle leggi del nostro Stato.
Infine, la cittadinanza può essere concessa anche in casi eccezionali, per meriti agli stranieri che abbiano reso notevoli servigi Pag. 14all'Italia e per elevate necessità di ordine politico connesse all'interesse del nostro Stato.
La legge n. 91 del 1992 prevede anche la possibilità di conservare la cittadinanza italiana a chi è già in possesso di una cittadinanza straniera, e disciplina tutte le ipotesi di rinuncia, perdita e riacquisto della cittadinanza.
Per quanto riguarda il lavoro che abbiamo svolto in Commissione, e con il testo che ho presentato all'attenzione dei colleghi dell'Assemblea, abbiamo introdotto alcune modifiche. L'articolo 1 della proposta modifica l'articolo 4, comma 2, della legge n. 91 del 1992, precisando che, ai fini dell'acquisto della cittadinanza da parte dello straniero nato in Italia, occorre che la residenza, fino al raggiungimento della maggiore età, sia senza interruzioni e che lo straniero stesso abbia frequentato con profitto le scuole, almeno fino all'assolvimento del diritto-dovere all'istruzione e alla formazione.
Si tratta di due condizioni essenziali per l'acquisto di un'identità legata al territorio, oltre che di una manifestazione dell'effettiva volontà di essere italiani.
In particolare, con riferimento alla previsione dell'obbligo di frequentare con profitto le scuole riconosciute dallo Stato italiano, l'intenzione è quella di porre i minori stranieri in una posizione di sempre maggiore parità rispetto ai minori che sono già cittadini italiani. Non si vede, infatti, per quali ragioni, a questi ultimi si impone l'obbligo di frequentare le scuole, mentre la stessa previsione non si vuole applicare ai minori che non sono ancora cittadini italiani.
Si è scelto, invece, di non intervenire in questa fase sull'articolo 9, comma 1, lettera a), della legge n. 91 del 1992, che prevede che la cittadinanza possa essere concessa allo straniero nato in Italia dopo soli tre anni di residenza legale sul territorio. Tuttavia, questa questione andrà, comunque, affrontata e rivista - mi rivolgo ai colleghi - durante l'iter di approvazione della legge, perché crea notevoli disparità.
Gli articoli 2 e 3 della proposta in oggetto modificano la legge n. 91 del 1992, precisando che, ai fini dell'acquisto della cittadinanza, non basta la permanenza sul territorio della Repubblica per dieci anni, ma occorre, in primo luogo, che tale permanenza sia stabile. Questo, al fine di evitare che possa accedere alla cittadinanza lo straniero che, pur avendone la possibilità, non abbia chiesto il permesso di soggiorno comunitario per soggiornanti di lungo periodo, ma si sia avvalso, invece, di permessi di soggiorno temporanei.
È, infatti, evidente che la richiesta di un permesso di soggiorno di lunga durata è un segno evidente e tangibile della volontà di far parte stabilmente della comunità italiana. I dati forniti dal Ministro dell'interno mostrano, infatti, che molti stranieri, di fatto, considerano il soggiorno in Italia come una sosta temporanea in attesa di spostarsi verso altri Paesi, comunitari e non comunitari.
In secondo luogo, occorre la frequentazione di un corso annuale funzionale alla verifica del percorso di cittadinanza, finalizzato all'approfondimento della storia della cultura italiana ed europea, dell'educazione civica e dei principi della nostra Costituzione.
Non è stato previsto l'esame linguistico in quanto, con le riforme già introdotte dal cosiddetto pacchetto sicurezza, si prevede che lo straniero sia sottoposto ad una verifica della conoscenza della lingua italiana già al momento della richiesta del permesso di soggiorno comunitario per soggiornanti di lungo periodo, in occasione della sottoscrizione del cosiddetto accordo di integrazione. Poiché il possesso di tale permesso di soggiorno è una condizione per la richiesta della cittadinanza, appariva inutile e superfluo prevedere un ulteriore esame di lingua.
È stato previsto, invece, come ulteriore elemento del percorso di cittadinanza, un effettivo grado di integrazione sociale, nonché il rispetto, anche in ambito familiare, delle leggi dello Stato e dei principi fondamentali della nostra Carta costituzionale. Questo, poiché le cronache mostrano che vi sono stranieri che, pur Pag. 15risiedendo in Italia da molti anni, non condividono valori fondanti della comunità italiana, quale quello della parità tra uomo e donna. È, pertanto, essenziale verificare che chi chiede la cittadinanza abbia assimilato tali valori per noi fondamentali.
È, infine, previsto che chi chiede la cittadinanza abbia mantenuto, nei cinque anni successivi all'ottenimento del permesso di soggiorno comunitario per soggiornanti di lungo periodo, tutti gli stessi requisiti di reddito, alloggio ed assenza di carichi pendenti, necessari per ottenere quel permesso.
Al fine di risolvere il problema, che da più parti è stato segnalato, dell'eccessiva durata dei procedimenti di riconoscimento della cittadinanza, è stato, poi, previsto un meccanismo di anticipazione dell'avvio del procedimento e sono stati stabiliti alcuni termini.
In particolare, si prevede che l'accesso al corso annuale funzionale alla verifica del percorso di cittadinanza possa avvenire già dopo otto anni di permanenza in Italia e dunque due anni prima della maturazione del requisito dei dieci anni di permanenza. Si prevede, inoltre, che alla richiesta dello straniero di accedere al corso annuale si debba dare risposta entro 120 giorni e che il procedimento amministrativo relativo al percorso di cittadinanza debba comunque concludersi entro due anni dalla presentazione della richiesta di iscrizione al corso annuale stesso, fermo restando, però, il requisito dei dieci anni di permanenza in Italia per l'ottenimento della cittadinanza.
È previsto, ancora, che il Governo attui, con il concorso delle regioni, iniziative ed attività finalizzate a sostenere il percorso di integrazione linguistica, culturale e sociale dello straniero, cui questi è tenuto a partecipare; in questo modo si è voluto affidare alle amministrazioni pubbliche il compito di curare la vera integrazione degli stranieri, prima ancora di poterla verificare.
È evidente che questa parte della proposta normativa in esame determina un costo per le finanze pubbliche: la copertura finanziaria del provvedimento è mancante solo perché è necessaria una preliminare quantificazione dei costi che io stessa non sono stata in grado di effettuare senza l'aiuto e la partecipazione del Governo.
È previsto, infine, un regolamento di attuazione che stabilisca, tra l'altro, in quali casi lo straniero possa essere esonerato dalla frequentazione del corso annuale in considerazione del fatto che lo stesso si può ritenere superfluo, ad esempio perché lo straniero possiede un titolo di studio universitario conseguito in Italia che attesta di per sé la conoscenza delle materie oggetto del corso. All'individuazione di tali casi appare più opportuno che provveda un regolamento apposito.
Infine, l'articolo 4 prevede il giuramento da parte dello straniero sia nel caso di acquisto della cittadinanza a seguito della maturazione dei presupposti di legge, sia nel caso di concessione della cittadinanza con decreto del Presidente della Repubblica. Nella formula del giuramento è previsto, tra l'altro, un riferimento espresso anche al principio della pari dignità sociale di tutte le persone che lo straniero che diventa cittadino deve dunque impegnarsi a riconoscere.
Per quanto riguarda l'iter del provvedimento, ricordo che la Commissione ha avviato l'esame delle proposte di legge nella seduta del 16 dicembre 2008; proposte che sono state poi integrate da altre arrivate successivamente. Si è proceduto in seguito, il 27 luglio 2009, alla nomina di un Comitato ristretto per il seguito dell'esame. Dopo lo svolgimento di alcune riunioni di tale Comitato si è ritenuto opportuno riportare la discussione in seno alla Commissione plenaria e nella seduta dell'11 dicembre si è convenuto sull'adozione, quale testo base, di un testo unificato predisposto dalla sottoscritta tenendo conto degli esiti della discussione e del contenuto delle singole proposte di legge.
Sul testo unificato - mi avvio a concludere, signor Presidente - adottato dalla Commissione sono pervenuti i pareri delle Commissioni competenti. In particolare, la Commissione lavoro ha espresso parere Pag. 16favorevole; la Commissione giustizia, la Commissione affari esteri e la Commissione politiche dell'unione europea hanno espresso pareri favorevoli con osservazioni; la Commissione cultura ha espresso parere favorevole con una condizione e la Commissione finanze ha espresso nulla osta al prosieguo dell'iter. L'unica Commissione che si è riservata di esprimere il proprio parere, come ho già detto, è la Commissione bilancio per mancanza della copertura.
Ritengo che alcune delle osservazioni contenute nei pareri espressi dalle Commissioni competenti siano di particolare interesse, con riguardo alle questioni relative, da una parte, all'opportunità di sanare le disparità di trattamento in materia di riacquisto della cittadinanza, con particolare riferimento ai casi in cui la perdita ovvero la rinuncia siano state effetto del divieto della doppia cittadinanza, e, dall'altra parte, alla possibilità di prevedere il rilascio di un attestato finale della frequenza con esito positivo del corso previsto dall'articolo 3.
Ritengo, invece, al momento, non condivisibili gli altri rilievi espressi dalle Commissioni, con particolare riferimento alla condizione contenuta nel parere della Commissione cultura che richiama la necessità di riconoscere cittadini italiani i minori nati in Italia, o che abbiano completato un ciclo di studi nel nostro Paese, da genitori non italiani legalmente residenti in Italia da almeno cinque anni. Infatti, la questione della cittadinanza attribuita a minori non ha trovato in Commissione univocità di proposte. Inoltre, la riforma in discussione si basa soprattutto sull'introduzione del principio di responsabilità e di scelta volontaria da parte dello straniero di acquisizione della cittadinanza. Pertanto, proporre di attribuire ad un soggetto minore, lasciando a lui la facoltà, al raggiungimento della maggiore età, di potervi eventualmente rinunciare, appare in questa fase in netta contraddizione con lo spirito della riforma stessa. La cittadinanza non rappresenta, a mio parere, un mezzo per una migliore integrazione, ma rappresenta la conclusione di un percorso di integrazione già avvenuta. Altri sono, invece, i percorsi da effettuare per facilitare l'integrazione degli stranieri nel nostro tessuto sociale, percorsi che dobbiamo facilitare, attivare, modificare e certamente migliorare. La cittadinanza rappresenta l'attribuzione di uno status che non tutti gli stranieri vogliono ottenere.
Essendo, infine, tutti i diritti sociali ed economici garantiti sia ai cittadini sia agli stranieri residenti nel nostro Paese ed essendo solo i diritti politici esclusivamente appartenenti a chi ha la cittadinanza italiana, ciò non incide su chi non ha raggiunto ancora la maggiore età. Termino il mio intervento, signor Presidente, dicendo che l'auspicio è quello di poter giungere ad un testo che rechi quanto più possibile termini e percorsi certi, nel rispetto dei diritti e delle prerogative di ognuno, intervenendo con serietà e responsabilità su un tema che assume sempre maggiore rilievo nelle società integrate e globalizzate dei nostri giorni. Ecco perché, a mio parere, vi è la necessità di un'ulteriore riflessione su questa difficile materia (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il relatore di minoranza, onorevole Bressa.

GIANCLAUDIO BRESSA, Relatore di minoranza. Signor Presidente, una nuova legge sulla cittadinanza è una sfida altissima per un Parlamento, perché significa riflettere su questioni fondamentali di tipo politico e costituzionale. Innanzitutto, di tipo politico e con questo non voglio intendere questioni proprie del rapporto maggioranza-minoranza, ma questioni politiche di fondo dirimenti, visioni politiche profonde e costitutive del processo democratico.
I diritti fondamentali, umani, civili e politici, non possono mai essere considerati fuori agenda nella discussione politica, perché negare il carattere politico delle discussioni sui diritti, riducendoli a interpretazioni di disposizioni normative, come è vostra deprecabile consuetudine, Pag. 17significa esprimere una profonda sfiducia nella politica. Ma il punto è che il mutamento economico, sociale, culturale, scientifico, religioso e tecnologico dei modi di vivere e convivere, di sentire e consentire, quel processo di meticciato di civiltà e culture che, come dice il patriarca di Venezia, monsignor Angelo Scola, è un processo in atto e non una scelta - e come tale è qualcosa che ci supera - e il cui governo chiede politica, perché non sono in gioco solo i nostri interessi ma anche le nostre identità e la nostra visione di democrazia e di progresso.
Il rapporto tra cittadini e non cittadini si colloca al centro di questi fenomeni sociali, economici e culturali a carattere globale. Il fenomeno delle emigrazioni di massa che, come dice Amartya Sen, sono il prodotto del principale problema della globalizzazione, vale a dire la diseguaglianza, sono il detonatore che fa esplodere le contraddizioni del rapporto tra cittadini e non cittadini.
Se torniamo alle radici costituzionali del tema della cittadinanza il concetto nasce in funzione dell'eguaglianza e cambia il modo di esprimere il valore giuridico dell'individuo rispetto all'organizzazione politica. Il senso del passaggio da suddito a cittadino caratterizza il sorgere delle Costituzioni. E con l'affermazione delle Carte internazionali dei diritti, nella seconda metà del secolo scorso, figlie del celebre discorso del Presidente Roosevelt delle «quattro libertà» che devono valere per tutti, ovunque si trovino, nasce la nuova frontiera dell'uguaglianza nei nostri tempi. I diritti fondamentali, le libertà fondamentali non conoscono confini.
Fare una nuova legge sulla cittadinanza significa confrontarsi con questi problemi, significa ridefinire il rapporto fondamentale tra l'individuo e l'ordine politico-giuridico nel quale si inserisce. Ma se questo è, allora dobbiamo chiedere alla politica di costruire le condizioni per cancellare quella specie di lotteria sociale che impedisce alle persone di usare della loro libertà per perseguire una compiuta realizzazione della propria vita e un pieno sviluppo della propria persona. Modificare la disciplina della cittadinanza per gli stranieri residenti in Italia significa restituire loro quell'uguaglianza di opportunità che l'articolo 3 della Costituzione garantisce a tutti i cittadini. Eguaglianza di opportunità che deriva dalle pari capacità giuridiche, cioè uguale capacità di essere titolari di diritti e di doveri che l'articolo 3 della Costituzione garantisce a tutti, in virtù della portata del principio fondamentale personalista che limita l'esercizio della sovranità sui diritti inviolabili della persona umana, vincolando la Repubblica a garantirne accesso e godimento a ogni essere umano a prescindere dalla condizione di cittadinanza. E proprio in coerenza con questi principi costituzionali la giurisprudenza costituzionale di merito ha affiancato alla cittadinanza legale una cittadinanza per così dire sociale, che riguarda coloro che a vario titolo risiedono sul territorio nazionale e in alcuni casi anche indipendentemente dalla presenza legale - si pensi all'obbligatorietà delle prestazioni sanitarie - e che divengono destinatari di diritti e di doveri.
Fare una nuova legge sulla cittadinanza significa affrontare e sciogliere questi nodi, se vogliamo fare una legge che prenda atto della realtà e la regoli secondo i principi costituzionali.
I Romani ci hanno insegnato che ex facto oritur ius, ma voi siete totalmente inconsapevoli, anzi direi scientemente inconsapevoli di questa lezione. La vostra lezione, che spero non lasci traccia nella storia e nella cultura giuridica del nostro Paese, vi porta ad una strada esattamente contraria: ex iure deletur factum: dal diritto per distruggere la realtà, perché il vostro obiettivo non è regolare un fenomeno umano, culturale e sociale complesso, ma annullarlo, dichiararlo inesistente con la forza del diritto, piegando la realtà alla vostra propaganda, dove il risultato da raggiungere non è la garanzia dei diritti costituzionali, ma qualche voto alle prossime elezioni regionali.
Affermazioni troppo forti? Non credo proprio, basta leggere la vostra proposta di modifica delle norme sulla cittadinanza. La mens legis, la vostra ispirazione di Pag. 18fondo, è orientata a rendere più difficile l'ottenimento della cittadinanza, in palese controtendenza rispetto alla riforma della legislazione in materia nei principali Paesi europei che, pur nel quadro di opzioni specifiche che restano piuttosto differenziate, sono tutte orientate ad attenuare impostazioni basate sullo jus sanguinis accogliendo, in via tendenziale, lo jus soli e abbreviando i tempi per richiedere la cittadinanza a seguito di un periodo di prolungata residenza dello straniero sul territorio nazionale.
In cosa consistono gli appesantimenti rispetto alla legge attuale che voi proponete? Sostanzialmente in un incremento della discrezionalità della pubblica amministrazione per la concessione della cittadinanza. Diventare cittadini italiani sarà sempre più difficile, perché il potere discrezionale dell'amministrazione non solo si accresce, ma viene ancorato a requisiti indeterminati, a fenomeni largamente opinabili, la cui concretizzazione è affidata a un regolamento di attuazione della legge.
Vogliamo vedere questa fiera delle meraviglie? Puoi diventare cittadino italiano se il Ministero accerta un effettivo grado di integrazione sociale, oppure il rispetto, anche in ambito familiare, delle leggi dello Stato e ancora, aver frequentato con profitto scuole riconosciute dallo Stato. Si accettano scommesse su cosa significhi «effettivo grado di integrazione sociale». È integrato chi va allo stadio la domenica o chi va a messa o chi va a fare una scampagnata con i compagni di lavoro o di condominio, ed è effettivamente integrato chi non insulta l'arbitro alla partita, chi fa anche la comunione a messa, o chi porta il salame fatto dallo zio al picnic?
Il rispetto, nell'ambito familiare, delle leggi dello Stato comporta il divieto di fumare, la possibilità di sottoporre i figli all'etilometro dopo il pasto serale o, se vivi per caso in provincia di Bolzano, l'uso del bilinguismo quando ci si riferisce alle destinazioni di una gita? Ma, più di tutti, avere frequentato con profitto la scuola, a parte la stravaganza di far resuscitare l'alfabetismo come condizione per il diritto di voto, così come era in epoca anteriore al suffragio universale, qualcuno mi vuole spiegare quale sarà l'interpretazione discrezionale di profitto? Per esempio, il sette in condotta nel primo quadrimestre, può incidere negativamente sulla definizione di profitto?
Voi direte che sono esempi paradossali. No, è il vostro modo di legiferare che è paradossale, al punto che non resisterebbe al vaglio costituzionale di ragionevolezza: per quanto riguarda il principio di uguaglianza, comporta un divieto di differenziazioni non ragionevoli. La nostra proposta, quella alternativa, risponde a una cultura costituzionale e giuridica opposta, come risulta chiaramente dalla relazione al testo alternativo da noi presentato e già agli atti parlamentari (A.C. 103-A-bis).
Per noi la cittadinanza non è una concessione, o meglio non lo è solamente. Prevediamo l'introduzione del procedimento per l'attribuzione della cittadinanza che configura un iter nel quale esiste un vero e proprio diritto soggettivo all'acquisizione della cittadinanza, anche se condizionato al possesso di una serie di requisiti. È tuttavia un diritto, non una graziosa concessione da parte del Principe.
Così, come per le seconde generazioni, per i bambini nati in Italia o arrivati in Italia in età minore, vale lo jus soli, anche se temperato, ma jus soli è, e jus soli deve essere. La differenza sta tutta qui: per noi il riconoscimento della cittadinanza è la premessa per costruire l'unità della comunità; è il punto dal quale si parte, non quello al quale si arriva, con il rischio concreto di non arrivarci mai.
Lo Stato costituzionale pluralista fa dell'unità un obiettivo da raggiungere, non un dato presupposto. La Costituzione è uno strumento per garantire l'unità di una comunità nazionale.
Per Kelsen, l'unità si costruisce garantendo, per il principio di eguaglianza, diritti minimi a tutti per garantire un dialogo e una convivenza tra eguali. Per Schmitt, l'unità si costruisce annullando le minoranze. Non so se avete letto Schmitt o la vostra è una tendenza autoritaria naturale, ma la differenza tra noi e voi è nel modo di concepire lo Stato costituzionale Pag. 19di diritto che è non solo una conquista irrinunciabile del secolo scorso, ma è per noi un programma normativo per il futuro, nel senso che i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione e dalle Carte internazionali debbono essere garantiti e concretamente soddisfatti. Parlare di cittadinanza significa parlare di diritti e di garanzie di effettività di questi diritti. La sicurezza, l'identità e altre variabili di facile presa popolare non contano.
Uno dei miei maestri, il professor Livio Paladin, mi ha insegnato a collocare le vicende costituzionali nella dimensione più ampia della trama sociale e politica di un determinato Paese. La nostra proposta va in questa direzione e la sfida è tanto per voi quanto per noi. Abbiamo il dovere di esserne all'altezza sapendo che le elezioni regionali passano, mentre questa legge resta. La responsabilità politica di ciascuno di noi si misura su questo, sul voto che in Assemblea a gennaio saremo chiamati ad esprimere (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare il rappresentante del Governo.

NITTO FRANCESCO PALMA, Sottosegretario di Stato per l'interno. Signor Presidente, mi riservo di intervenire in sede di replica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Bocchino. Ne ha facoltà per dodici minuti.

ITALO BOCCHINO. Signor Presidente, è sicuramente un passo molto importante il fatto che oggi l'Assemblea di Montecitorio cominci la discussione sulle linee generali sulla riforma della legge sulla cittadinanza. È un passo molto importante perché affrontiamo un argomento spinoso, ma che andava affrontato necessariamente. Per comprendere le ragioni occorre innanzitutto ricordare come siamo giunti all'attuale legislazione sulla cittadinanza.
L'Italia è stata a lungo un Paese di emigrazione e quando ha cominciato ad essere Paese di immigrazione si è trovata una norma sulla cittadinanza che era sostanzialmente senza alcun paletto. Fino agli anni in cui è iniziata a giungere l'immigrazione nel nostro Paese, per diventare cittadini italiani bastavano cinque anni senza sostanzialmente nessun paletto. Poi, quando cominciarono ad arrivare da altri Paesi persone per lavorare, creando anche problemi di ordine pubblico e di sicurezza dei cittadini, il Parlamento frettolosamente innalzò da cinque a dieci anni i tempi per diventare cittadini senza porsi il problema di quale doveva essere l'iter per favorire l'integrazione.
Sta di fatto che oggi siamo uno dei Paesi europei ed occidentali che richiede tempi più lunghi per diventare cittadino. Al contempo, siamo uno dei Paesi europei ed occidentali che richiede meno condizioni per diventare cittadini. Quindi, dobbiamo porci il problema, nel momento in cui questo fenomeno non è destinato a diminuire. Infatti, i continenti sono come i vasi comunicanti con l'acqua: puoi fare quello che vuoi, la diga può farti guadagnare del tempo, ma quando si alza il livello dell'acqua o hai le chiuse per aprire e far passare l'acqua o si sfonda tutto. Quindi, noi dobbiamo generare quelle chiuse che ci permettono di costruire una diga sana e di governare il fenomeno dell'immigrazione, non di subirlo solamente.
Siamo il pontile dell'Europa nel Mediterraneo. Siamo il pontile dell'Europa ricca che non fa figli in un mare dove affacciano continenti più poveri e dove si fanno figli. Si tratta al contempo di continenti dove ci sono dei segnali importantissimi: con riferimento al PIL, il nord Africa negli ultimi anni è cresciuto del 6 per cento l'anno e ha una popolazione prevalentemente sotto i 25 anni: dobbiamo guardare a questi fenomeni, perché se pensiamo che solo la diga possa risolvere il problema un giorno rischiamo la tragedia del Vajont nelle nostre città. Allora guardiamo ad un nuovo modello di cittadinanza che non faccia venir meno i controlli. Pag. 20
Credo che il testo della relatrice Bertolini sia un ottimo testo di partenza. Ovviamente bisogna essere pronti al dialogo e alla discussione.
Dobbiamo essere attenti ai tempi e ai modi di questa riforma, attenti a non politicizzarla, altrimenti non la facciamo e restiamo con una legge che non è una buona legge. Per questo noi proponiamo - e siamo convinti di trovare una convergenza con gli altri gruppi parlamentari - di avviare la discussione e poi di far sedimentare quello che diremo in quest'Aula, ragionando e approfondendo la questione, e magari di riprenderla dopo le elezioni regionali, quando sarà più facile trovare la convergenza su alcuni argomenti.
Dobbiamo immaginare quale sarà la società futura e dobbiamo guardare agli altri modelli sapendo che purtroppo hanno fallito. In Inghilterra si convinsero che il multiculturalismo avrebbe risolto il problema dell'integrazione. Fu detto: ognuno viene con la sua cultura, le sue tradizioni, si insedia all'interno della nostra società e vive con la sua cultura e le sue tradizioni. Poi si sono accorti che c'è stato addirittura uno scontro e le poste inglesi l'anno scorso, per la prima volta, non hanno potuto emettere il francobollo per celebrare il Natale, perché il multiculturalismo aveva portato ad uno scontro tra culture. In Francia, essendo stato un Paese coloniale, si era detto: i loro padri avevano combattuto per la Francia, parlano francese, vengono qui e nel momento in cui entrano nel territorio francese vengono assimilati, diventano uguali ai francesi; hanno tentato la strada dell'assimilazionismo con un altro fallimento, con la rivolta delle banlieues fatta da cittadini francesi, nati in Francia, che sono scesi in piazza a dare fuoco alle auto per dire: siamo nati in Francia, siamo cittadini francesi, ma siamo cittadini di serie B e non lo vogliamo più essere.
Allora il problema è serio, ecco perché noi usiamo come slogan «l'Italia a chi la ama». Il problema non è soltanto il motivo per cui sei venuto in Italia, da quanto tempo ci stai e se conosci la lingua. Tu devi amare il nostro Paese, perché devi avere voglia di integrarti. Non si può pensare che la soluzione al problema dell'immigrazione sia lo jus soli. Lo jus soli è un bellissimo principio, ma è utopico in una realtà come la nostra. Lo jus soli può funzionare in Paesi come gli Stati Uniti d'America o in altri Paesi che hanno una popolazione e una società che si sono stratificate partendo sostanzialmente da zero, e ciò è avvenuto negli anni. Quindi per creare il cittadino americano lo jus soli poteva essere la soluzione. Diventa difficile applicarlo in Europa, diventa difficilissimo in Italia, dove lo jus sanguinis ha le sue ragioni.
Questo non significa che non si possa innestare in un Paese che ha come principio base lo jus sanguinis anche uno jus soli temperato, differito nel tempo, come già c'è nel nostro ordinamento. Oggi nel nostro ordinamento esiste lo jus soli differito nel tempo: chi nasce in Italia da cittadini stranieri, il giorno del compimento della maggiore età può chiedere, entro un anno, di diventare cittadino italiano. Già c'è uno jus soli differito nel tempo!
Ragioniamo su questo, perché a nostro giudizio il problema dell'immigrazione è una trave che poggia su due pilastri: il primo pilastro è quello della lotta alla clandestinità, il secondo è l'integrazione. Noi abbiamo fatto molto come Parlamento, anche grazie al Governo e alla maggioranza, sul primo pilastro: dobbiamo ora lavorare sul secondo pilastro. Sono orgoglioso del fatto che il nostro Governo, con i nostri gruppi parlamentari di maggioranza, ha dato vita ad una legislazione molto severa per fare in modo che l'Italia non fosse il colabrodo e il ventre molle dell'Europa. I respingimenti sono giusti e sono riconosciuti dalla comunità internazionale: la clandestinità va combattuta. Noi abbiamo una presenza del 4,5 per cento di immigrati regolari in Italia che, secondo i dati dell'ISTAT, delinquono in proporzione meno dei cittadini italiani. L'immigrato regolare non delinque, delinque meno degli italiani, perché essendo sottoposto a giudizio per il rinnovo dei Pag. 21permessi di soggiorno teme sempre il giudizio dell'autorità di questo Paese. Poi se andiamo a vedere i dati, la sacca di clandestinità crea un allarme sociale straordinario: le carceri sono piene di clandestini, gran parte di coloro che vengono arrestati per svariati reati sono clandestini.
Allora noi non dobbiamo combattere l'immigrazione in quanto tale, ma dobbiamo combattere la clandestinità e lo abbiamo fatto con una politica del Governo severa e attenta, dopo avere approvato una legge sull'immigrazione, la legge Fini-Bossi, che è stata straordinaria, perché è riuscita a realizzare due cose contemporaneamente. È stata la più grande regolarizzazione di tutti i tempi in Italia, perché ha stabilito che chi era in Italia con un lavoro, una casa e voleva pagare le tasse, poteva rimanere, ma, al contempo, ha stabilito che chi era in Italia per vivere di espedienti e per finire nelle maglie della criminalità organizzata, ossia quella sacca di clandestinità che inevitabilmente diventa criminogena, non ci poteva stare.
Dunque, da una parte, dobbiamo contrastare duramente la clandestinità e, dall'altra, favorire l'integrazione. Come si favorisce, allora, l'integrazione? Il problema non sono i sei, sette, otto, nove, dieci anni, ma è la certezza del diritto. Qual è il problema che incontra oggi l'immigrato regolare? Il problema del regolare è che non sa mai quando diventerà cittadino italiano, perché dopo aver seguito l'iter previsto, ottenuto il permesso di soggiorno e la carta di soggiorno e aver presentato la richiesta di cittadinanza, questa è «appesa» ad un funzionario che un giorno lo chiamerà, forse, per farlo diventare cittadino italiano. Cominciamo a stabilire, come fa il testo della collega Bertolini, che è un diritto certo quello per cui chi oggi è residente in un comune italiano, fra dieci anni, se segue un certo iter, diventa cittadino italiano. Questo è il primo grande risultato: la certezza dei tempi.
Il secondo risultato è quello di passare da una cittadinanza di quantità ad una cittadinanza di qualità. Oggi in Italia la mamma di Sanaa (quella signora che in televisione ha perdonato il marito che ha ucciso la figlia, dicendo che aveva sbagliato la figlia perché aveva deciso di andare a convivere con un italiano senza il permesso del padre, pur essendo maggiorenne) quella signora velata, che in televisione ha condannato il gesto della figlia e ha perdonato il marito, oggi dopo dieci anni può diventare cittadina italiana.
Noi vogliamo che diventino cittadini italiani coloro che amano l'Italia, le sue tradizioni, la sua società, le sue regole, le sue leggi, la sua Costituzione; non ci importa se in dieci, undici, otto, nove o sei anni, ma vogliamo che la mamma di Sanaa non diventi cittadina italiana, perché non può diventare cittadino italiano chi pensa che sia giusto che il marito uccida la propria figlia solo perché va a convivere con un cittadino italiano.
Questo è il punto: occorre cambiare dalla cittadinanza di quantità - dopo dieci anni la si riconosce a tutti - alla cittadinanza di qualità. Ecco perché si prevede di riconoscerla dopo un certo numero di anni, dopo un corso di italiano con un esame e dopo un corso di educazione civica e di leggi fondamentali del nostro Paese e con ancora un esame, perché ci deve essere una persona che ad un certo punto chieda all'immigrato se sia un diritto della figlia andare a convivere con un italiano. È questo che vogliamo fare, puntando soprattutto sulle seconde generazioni.
Noi condividiamo il testo della collega Bertolini, soprattutto per i tempi certi e la cittadinanza di qualità. Avanziamo soltanto un'esigenza, una necessità. Io ho presentato due emendamenti in Commissione, che ho ritirato su richiesta della maggioranza, per poi discuterli in Aula. Un emendamento riguarda i tempi, rispetto ai quali, però, credo che il testo della collega Bertolini vada bene, l'altro è sui minori. Vedete colleghi, l'adolescenza è il momento in cui si forma la personalità di un individuo e per fare un buon cittadino italiano dobbiamo stare attenti a quale rapporto c'è tra quel ragazzo nella fase adolescenziale e il nostro sistema giuridico e statuale. È per questo che noi Pag. 22riteniamo che coloro che nascono in Italia o i bambini figli di cittadini stranieri che giungono in Italia entro l'età di due anni, cioè cominciano la loro vita cosciente in Italia, possano diventare cittadini italiani dopo dieci anni di residenza e dopo avere fatto le scuole elementari, ossia almeno un ciclo scolastico.
Si tratta di favorire l'equiparazione di giovani adolescenti che andranno a giocare a calcio con i nostri figli, che vivranno l'adolescenza insieme ai nostri figli, che saranno italiani a tutti gli effetti: saranno nati qui, conosceranno la nostra lingua e magari non quella del Paese d'origine, e dovranno essere in grado di sentirsi italiani, di amare l'Italia e di non sentirsi dei giovani di serie B solo ed esclusivamente perché dovranno aspettare la maggiore età per divenire cittadini (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Zaccaria. Ne ha facoltà.

ROBERTO ZACCARIA. Signor Presidente, credo che questo inizio di discussione in Aula manifesti, fin dai primi interventi, tutta la sua importanza.
Nella I Commissione il provvedimento era incardinato da oltre un anno e segnava il passo; si è cominciata la discussione vera quando l'esame del provvedimento è stato programmato per l'Assemblea.
Dirò poche cose sul contenuto, in quanto mi riconosco integralmente nella relazione presentata dall'onorevole Bressa e nelle sue motivazioni molto ampie, profonde e ricche. Vorrei ricordare che anche nella scorsa legislatura questo argomento, quando fu relatore proprio il collega Bressa, fu posto con la consapevolezza che fossero maturi i tempi per affrontare questa grande questione.
Vorrei dire solo una cosa sul merito, ovvero che il testo attuale proposto dalla relatrice non è, a nostro avviso, un bicchiere mezzo vuoto che, invece, il collega Bocchino ha giudicato mezzo pieno. Per noi il testo rappresenta un vistoso arretramento rispetto alla normativa del 1992 poiché pone una serie di paletti, alcuni di questi caratterizzati da forte discrezionalità, che non danno alcuna certezza a coloro che vogliono affrontare questo percorso.
Il mio è il primo intervento in questa discussione e molti altri ne faremo. Il numero degli interventi dimostra anche l'interesse e l'importanza che ha questo provvedimento per il Partito Democratico e vorrei riflettere. Io affronto il provvedimento con l'umiltà con cui si affronta un tema sul quale ci deve essere un concorso di punti di vista e un'intesa sui valori che hanno un rilievo costituzionale. Come ha già detto il collega Bressa, vorrei proprio riflettere sul significato della cittadinanza che, come è stato detto e tutti ripetono, è uno status civitatis. Come è trattato dalla nostra Costituzione? Si potrebbe dire che non è materia costituzionale perché si disciplina con legge ordinaria. Da questo punto di vista, i costituzionalisti discutono molto, in quanto anche la legge elettorale, come sappiamo, non è di rango costituzionale, ma influisce moltissimo sulla Costituzione. Stiamo parlando di un presupposto costituzionale, quindi di uno degli elementi che una dottrina un po' datata indicava come elemento condizionante uno dei tre capisaldi costitutivi dello Stato, ovvero il popolo accanto al territorio e ed alla sovranità). Il popolo si individua attraverso coloro che hanno lo status di cittadini: questo vuol dire parlare di un presupposto fondamentale. Del resto, l'articolo 22 della Costituzione, quando parla espressamente di cittadinanza, recita solennemente che nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza e del nome. Quindi, l'articolo lascia intendere proprio una visione di altri tempi quando la cittadinanza veniva manovrata per motivi politici (è successo e ci sono stati dei casi che tutti ricordiamo).
Se questo è un provvedimento di tale portata, dobbiamo renderci conto che non appartiene ad una scelta contingente, ovvero non è una proposta di legge come le altre che caratterizzano un'azione del Governo e una politica di maggioranza. Nei Paesi civili la legge sulla cittadinanza segna Pag. 23una tappa fondamentale: l'abbiamo avuta nel 1912 e ottant'anni dopo nel 1992. Oggi, in un'epoca in cui tutto corre rapidamente, ne stiamo parlando quasi vent'anni dopo quella data: sono dunque appuntamenti di estrema importanza.
Se questa collocazione è giusta, sarebbe importante che tutti i partiti e i gruppi presenti in questa Camera affrontassero questo tema al di fuori dei tradizionali criteri che contraddistinguono gli altri argomenti di natura politica, di maggioranza e di indirizzo politico, quasi lasciando a priori libertà di coscienza ai singoli parlamentari. Evidentemente, infatti, il premio di maggioranza dato per governare applicato su provvedimenti di questo tipo non ha alcun senso. Su questi temi sono importanti l'attitudine, la scelta e la valutazione dei singoli individui che compongono questa Camera.
Del resto, in questi giorni non si fa che parlare di riforme. Devo dire la verità: sono anche un po' disorientato, perché sento che tutti parlano di riforme e di un certo clima, ma nessuno sa che cosa effettivamente il suo interlocutore ponga nel paniere delle riforme. Evidentemente, è facile dire «facciamo le riforme», ma se uno nel proprio paniere ha una serie di argomenti addirittura ingombranti è chiaro che la stessa parola «riforme» può risultare equivoca.
Proviamo allora a domandarci per un attimo se noi consideriamo questa discussione, che inizia oggi alla Camera, come un test significativo sulla volontà di fare le riforme in Parlamento su argomenti che sono tipici delle grandi riforme costituzionali.
Facciamo un po' di conti, perché naturalmente è molto importante. Nel nostro Paese siamo circa 60 milioni di persone; circa 5 milioni sono gli stranieri regolari, secondo i dati più recenti, se non siamo a questa cifra ci avviciniamo molto. Non siamo tra i Paesi in Europa che hanno il maggior numero di stranieri, perché la Spagna, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna ne hanno molti di più. Vi sono circa 850 mila minori residenti: questi sono i dati. Sulla base della nostra legge, che la relatrice tende sostanzialmente ad inasprire, ponendo una serie di paletti di difficile superamento, diamo 40 mila cittadinanze l'anno e forse anche un po' meno. Di queste 40 mila cittadinanze, i due terzi sono date per matrimonio (mi pare 25 mila nel 2007) e 14.500 sono concesse per i dieci anni di residenza. Siccome la cittadinanza per matrimonio ha avuto già un giro di vite - ed era anche giusto che fosse così - ne avremo teoricamente meno: l'acquisto della cittadinanza per matrimonio si ridurrà. I dieci anni sono teorici, perché decorrono formalmente da quando un soggetto è regolarmente residente in Italia, mentre evidentemente queste persone possono aver fatto un percorso prima e, comunque, un percorso dopo, che deriva dall'amministrazione. Quindi, si parla di quindici anni. Ci vorrebbero cento anni, per dare la cittadinanza a 5 milioni di persone. Ammesso che la chiedano la metà, ci vorrebbero cinquant'anni per lo stesso obiettivo. Pensiamo che si possano governare questi fenomeni dando la cittadinanza a 2,5 milioni di persone in cinquant'anni? È una follia!
Vi cito allora le altre leggi europee, perché su queste si fa della propaganda un po' spicciola: la Germania ha una legge aggiornata nel 1999 che prevede lo ius soli e dà 113 mila cittadinanze l'anno; la Francia ha fatto una legge nel 1998, dà la cittadinanza persino ai minori che hanno 13 anni a certe condizioni e concede 131 mila cittadinanze l'anno; la Gran Bretagna ha approvato una legge nel 2006, anch'essa che prevede una sorta di ius soli, dell'interno della cosiddetta cittadinanza a punti, e dà 164 mila cittadinanze l'anno; la Spagna né dà 71 mila ed ha fatto una legge nel 2002.
In conclusione, credo che nessuno di noi possa pretendere di «portare a casa» tutto quello che pensa, ma nel parere della Commissione cultura, che è stato liquidato in maniera un po' frettolosa dalla relatrice, ci sono tre condizioni. Prima: nati o minori di anni cinque; seconda: genitori con permesso di soggiorno - si può stabilire di quale durata - e conclusione del primo ciclo di studi. La mia conclusione è Pag. 24semplice: se rispettiamo queste condizioni, facciamo un passo avanti enorme nella nostra legislazione e diamo a questi soggetti identità e dignità. Identità e dignità non sono valori che si conquistano con la maggiore età, sono valori dell'uomo che acquista appena nasce in un certo Stato (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico, Italia dei Valori e Unione di Centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Volpi. Ne ha facoltà, per otto minuti.

RAFFAELE VOLPI. Signor Presidente, preannuncio già da ora che chiederò l'autorizzazione a consegnare il testo integrale del mio intervento.
Signor Presidente, colleghe e colleghi, affrontiamo oggi la discussione sulla cittadinanza e voglio dire subito che l'argomento è stato dibattuto in Commissione con una serie di contributi veramente importanti da parte di tutti i colleghi.
Vi è stato un approfondimento serio e composto, sostenuto, certo, nelle differenze, ma sempre con il riconoscimento reciproco di un'onestà ideale e intellettuale delle motivazioni che non ha lasciato spazio a speculazioni di alcun tipo.
Signor Presidente, lo dico perché, al di fuori della Commissione, mi pare non vi sia stata la stessa compostezza e la stessa consapevole riservatezza che un tema importante e delicato come questo probabilmente richiedeva. Credo che la serenità della discussione di chi se ne è occupato da quasi un anno nella nostra I Commissione avrebbe potuto essere un esempio di un modo di fare politica che non cerca l'eclatante né la superficialità del proclamo.
Ma il tema della cittadinanza era ghiotto: accertata la sua rilevanza mediatica, forse qualcuno non ha potuto resistere alla tentazione di utilizzarlo. A tutto si può resistere meno che alle tentazioni, per dirla come Wilde, o, più genuinamente tradotto, «piatto ricco, mi ci ficco».
Penso che vi fossero soggetti titolati giustamente ad esprimere i loro pareri e le loro sensibilità, ma penso anche che argomenti di tale portata, di tale incidenza sulla vita delle persone, italiani e stranieri, non possano essere usati come vetrina personale o per rimarcare posizionamenti politici o come strumenti di strategia relazionale partitica o correntizia.
Credo che la responsabilità della politica si esprima al suo meglio nel massimo organo di partecipazione popolare, e cioè in questo Parlamento; un Parlamento che va difeso anche riconoscendolo, signor Presidente, dal suo interno, nel lavoro dei suoi organi, come il lavoro svolto dalla Commissione.
È una Commissione di uomini e donne con le proprie idee, con i propri sentimenti e con i propri ideali, che con questi principi non si sono fatti comunque influenzare dai messaggi mediatici e dai suggerimenti eterodiretti. Detto questo, nel ringraziare la relatrice Bertolini per un lavoro non facile, ma che ha generato un prodotto che noi, come Lega, condividiamo appieno, vogliamo subito ricordare che la Lega, onorevole Bressa, non ha cercato pubblicità su questo tema.
Lo dico con chiarezza, perché non si dica che noi utilizziamo questo tema per cercare consenso. Sappiamo tutti, e lo sappiamo bene, che noi, come Lega, non volevamo parlare di cittadinanza: secondo la Lega non vi era necessità; non solo, ma ribadiamo che l'argomento non è nel programma di Governo sottoscritto dai partiti di maggioranza.
Ma nella discussione, ovviamente, non ci siamo sottratti alla doverosa espressione delle nostre idee, anche se pensavamo e continuiamo a pensare che servisse una maggiore fase di approfondimento o, se volete, di maturazione, prima di giungere in Aula.
Abbiamo espresso le nostre idee con la serenità e con la pacatezza di un movimento che ha esposto in maniera ragionata le sue motivazioni e le abbiamo esposte da subito senza ambiguità e senza incertezza, a prova della stima personale e politica verso i colleghi delle altre parti politiche. Pag. 25
Voglio dire che non abbiamo mai voluto confondere il fenomeno dell'immigrazione con le tematiche della cittadinanza e della sicurezza. Lo sanno i colleghi che con noi hanno dibattuto: non abbiamo voluto partecipare ad una speculazione che voleva utilizzare, anche dall'esterno, le tematiche importanti, certamente con punti di vista diversi, della cittadinanza, legandole al governo dell'immigrazione.
Abbiamo parlato di diritti, collega Bressa: lei, per primo, venne in Commissione e svolse un intervento estremamente importante sui diritti e sui doveri, ma anche su chi veramente crede al massimo passo di libertà e democrazia riferito alla persona: il rinunciare ad una cittadinanza e richiederne un'altra, cioè rinunciare ad un'identità complessiva e scegliere di essere altro e altrove. Ebbene, colleghi, secondo noi chi immagina un passaggio così forte e fondamentale, chi non lo fa per convenienza o per contingenza, chi lo fa con forti motivazioni e convincimenti, è anche più facilmente quello che si integra e che, con serena partecipazione al processo di cittadinanza, non teme i dieci anni per essere un nuovo cittadino.
Abbiamo anche parlato delle situazioni dei Paesi europei: certo, storie diverse hanno maturato prodotti diversi, ma dal nostro punto di vista, pur intuendo e vivendo le trasformazioni e i cambiamenti della nostra epoca, anzi, anche per questo, riteniamo che una condizione severa, che non è un aggettivo né sminuente né negativo, sia una posizione contemporanea, realistica e responsabile, prima di tutto verso il nostro Paese e parimenti verso l'Unione europea.
Riteniamo quindi con convinzione che i tentativi di fare equiparazioni sociali attraverso la condizione della cittadinanza con processi facilitati non agevoli invece una consapevole necessità di integrazione, e sono dal nostro punto di vista esperimenti che risulterebbero negativi, non trovando spesso nei richiedenti stessi una vera e profonda convinzione nell'accesso ad un nuovo esclusivo status.
Noi consideriamo lo Stato come un ordinamento generale della società civile: lo consideriamo nello stesso modo come un'evoluzione propria di una stretta colleganza tra le appartenenze, tra i popoli e il suolo di una nazione, in tutti i suoi aspetti costitutivi di cultura, concetto di legge, modello di società, consuetudini e tradizioni e, non certo da ultimi, i valori. Su ciò dichiaro già che noi abbiamo una posizione assolutamente aderente e coerente con il testo presentato dalla relatrice Bertolini.
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Volpi, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Casini. Ne ha facoltà.

PIER FERDINANDO CASINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, agli inizi del Novecento, un secolo fa, gli abitanti dell'Europa occidentale rappresentavano il 17 per cento della popolazione mondiale; oggi sono il 7 per cento, nel 2050 scenderanno, anzi scenderemo, al 5 per cento. Ciò significa che, se già oggi l'Europa conta pochissimo negli equilibri mondiali, nel futuro sarà destinata a contare sempre meno se non saprà modificare i propri tassi di natalità, da una parte, e accogliere ed integrare i migranti extracomunitari dall'altra.
La debolezza demografica del nostro continente fa sì che il nostro benessere stesso dipenderà sempre più dalla capacità di attrarre, e non di respingere, lavoratori stranieri, di integrarli; anche perché le stime delle Nazioni Unite dicono che da qui al 2050 gli uomini e le donne che faranno il loro ingresso nel mondo del lavoro saranno 438 milioni, e il 97 per cento saranno persone nate nei Paesi in via di sviluppo. L'Italia avvertirà l'esigenza di integrare la propria forza lavoro con persone provenienti dall'estero, ancora di più degli altri Paesi europei, perché i nostri tassi di natalità sono drammaticamente bassi: siamo il secondo Paese più Pag. 26vecchio al mondo dopo il Giappone; gli uomini in Italia vivono attualmente in media 78,3 anni, le donne 83,8, ormai il 20 per cento degli italiani ha più di 65 anni, e il 5,3 per cento più di 80. Agli inizi del Novecento la vita media in Italia era di 42 anni, nel 2050 sarà più del doppio, di 86 anni. Ecco perché, se non si invertirà il trend del nostro tasso di natalità, tutti i demografi sono concordi nel ritenere che dovremo accogliere ogni anno per i prossimi 40 anni 300 mila nuovi immigrati, se vogliamo mantenere i tassi di sviluppo che avevamo raggiunto prima della crisi globale.
Peraltro, non possiamo trascurare il fatto che se ci rinchiudiamo a riccio nei nostri confini, chiudiamo anche la possibilità per le nostre imprese e i nostri prodotti di affermarsi sui mercati in grande espansione, lasciando il campo alle aziende degli altri Paesi europei competitori. Negli ultimi anni, i Paesi del Mediterraneo, dell'Africa e del Medio Oriente sono cresciuti a ritmo ben superiore rispetto all'Europa, e anche in questa fase di recessione continuano a crescere più rapidamente di noi: sono mercati che, considerando anche il Golfo Persico, già oggi rappresentano il 10 per cento del totale delle nostre esportazioni, e si apprestano ad arrivare a rappresentare oltre il 5 per cento della produzione del PIL mondiale.
Onorevoli colleghi, di fronte a questi dati incontrovertibili, due sono i modi di affrontare la realtà dell'immigrazione e della cittadinanza: uno ha il senso della realtà, è politico, prova a guidare processi ed a governarli; l'altro è demagogico, è populista: lancia slogan ma non produce nessun risultato. Punta tutto sulle paure: fa credere agli italiani che gli immigrati siano assai di più di quelli che sono, e infatti, secondo un recente sondaggio, la gente pensa che siano il 25 per cento della popolazione residente in Italia, mentre sono il 7,2.
Li si illude di poter risolvere il problema dell'immigrazione clandestina respingendo le «carrette del mare» che in realtà rappresentano appena il 10-15 per cento del totale degli arrivi, mentre l'85-90 per cento arriva in gran parte con regolari permessi turistici che vengono lasciati scadere senza più uscire dall'Italia o per transitare verso altri Paesi europei.
È una demagogia ipocrita che si riempie la bocca con la promessa di aiutarli a casa loro quando la realtà è che l'Italia destina assai meno dello 0,7 per cento del suo PIL annuo al sostegno e allo sviluppo dei Paesi poveri e che il vero sostegno - semmai - lo forniscono proprio i migranti che vengono a lavorare in Italia con le loro rimesse verso i Paesi di origine: in pratica, sono proprio i nuovi poveri della nostra società a tendere la mano ai poveri del Terzo mondo.
E d'altro canto, mentre si fanno discorsi farneticanti di ronde, di medici e presidi spia, di cassa integrazione ridotta per gli stranieri, di referendum per dire «no» a moschee e minareti, di reati di clandestinità, di immigrati che verrebbero in Italia per ammazzare quando ormai vi sono 4 milioni di lavoratori extracomunitari regolari che danno un contributo essenziale alla nostra economia, mentre si esaltano sui mezzi di informazione disposti a fare da gran cassa gli straordinari risultati ottenuti con i respingimenti, la verità è che nel solo 2008 sono arrivati in Italia altri 460 mila immigrati, più del doppio di quelli che si aspettava l'ISTAT.
Ma una scelta tra la demagogia e la responsabilità, tra le chiacchiere e il vuoto si impone anche di fronte ad un puro calcolo egoistico tutto italiano: l'Italia è il paese dell'OCSE con il più alto livello di spesa pensionistica, pari al 14 per cento del prodotto interno lordo nel 2005.
Nel decennio 1995-2005 la spesa previdenziale è aumentata del 23 per cento (solo Giappone, Corea, Portogallo e Turchia hanno avuto simili aumenti); la spesa pensionistica, onorevoli colleghi, assorbe il 30 per cento del bilancio dello Stato, quasi il doppio rispetto alla media degli altri Paesi OCSE che è del 16 per cento, e i contributi pensionistici in Italia raggiungono quasi il 33 per cento dei guadagni contro una media del 21 per cento negli altri Paesi OCSE. Pag. 27
Può un Paese con un sistema pensionistico così a rischio, con una demografia così drammatica permettersi di rinunciare all'apporto di 4 milioni e mezzo di lavoratori stranieri in regola? Possiamo pensare di rinunciare al 10 per cento del nostro PIL di punto in bianco solo perché dovremmo dar ragione a chi pensa che lo straniero sia una minaccia? Possiamo dire che i 5 miliardi e 600 milioni di euro di tasse che versano ogni anno al nostro fisco - lo stesso introito del tanto decantato scudo fiscale - più o meno non ci servono? E ancora: possiamo dire ai 7 bambini su 10 nati in Italia, figli di immigrati, che in questo momento frequentano le nostre scuole dell'infanzia, che domani si iscriveranno con i nostri figli alle scuole elementari e che poi prenderanno il nostro diploma di licenza media e magari superiore e la laurea, che non li vogliamo perché dobbiamo difendere il manifesto dello ius sanguinis? Possiamo trattare questi bambini come un problema di sicurezza negando loro diritti, presente e futuro? E quale sarebbe l'interesse per noi di questa scelta? Che cosa guadagniamo dalla presenza sul nostro territorio di centinaia di migliaia di nuovi emarginati? Onorevoli colleghi, le grandi trasformazioni sociali del nostro tempo, la crescente realtà cosmopolita della nostra società ci inducono a considerare la necessità di politiche di integrazione che favoriscano in modo equilibrato l'acquisizione dei diritti di cittadinanza, nel rispetto dei principi fondamentali della Costituzione, dei diritti umani e della coesione sociale.
Infatti, il massiccio fenomeno immigratorio degli ultimi anni, le difficoltà del dialogo interreligioso, gli sviluppi del processo di unificazione europea e gli scenari della globalizzazione dei mercati hanno creato dizioni diverse da quelle che nel 1992 portarono alla definizione del quadro normativo sulla cittadinanza attualmente in vigore.
L'onorevole collega della Lega che mi ha preceduto ha ricordato - e forse ha ragione - che l'argomento della cittadinanza non è nel programma di Governo; ma, onorevoli colleghi, l'argomento della cittadinanza è nel programma dell'Italia e degli italiani.
E noi da tempo consideriamo l'opportunità di intervenire legislativamente per adeguare la disciplina attualmente vigente al mutato contesto economico e sociale caratterizzato dalla multietnicità derivante dalla convivenza tra cittadini e persone immigrate di breve e lungo periodo. Questa è una situazione che implica un'attenta riflessione sul concetto di cittadinanza e sullo stesso significato di identità nazionale.
Fermo restando l'apprezzamento per lo sforzo compiuto in Commissione dal relatore al fine di realizzare una sintesi delle diverse proposte di legge, secondo noi permangono troppe questioni irrisolte. Nel dibattito attuale sul tema della cittadinanza, degli anni necessari per chiederla, del contesto entro il quale si deve favorire l'appartenenza per sangue o per territorio ad una determinata identità nazionale, non sembra che sia stato fino ad ora adeguatamente approfondito l'aspetto concernente il rapporto tra le regole della cittadinanza, l'identità nazionale e la nuova epoca della cosiddetta globalizzazione. Se, infatti, si prende finalmente atto che siamo in presenza di un periodo storico radicalmente nuovo, nuove devono essere anche le regole della cittadinanza. Di fronte a questo fenomeno straordinariamente nuovo si possono, infatti, assumere due atteggiamenti: o di radicale chiusura egoistica, basata sulla consanguineità (il criterio dello ius sanguinis attribuisce, infatti, la cittadinanza sulla sola base della situazione giuridica di filiazione) o di presa d'atto della globalizzazione, nella ricerca di un nuovo equilibrio tra identità nazionale e globalizzazione medesima.
Per quel che concerne l'Italia è questo, dunque, il momento di andare oltre, potenziando il meccanismo dello ius soli che attribuisce la cittadinanza a colui che nasce nel territorio dello Stato indipendentemente da quella dei genitori. Oltre a ciò, è l'intero orizzonte politico e culturale a suggerire una radicale capacità di adeguamento degli istituti, anche giuridici, Pag. 28della vecchia statualità nazionale, alle nuove sollecitazioni dell'epoca attuale. Occorre, inoltre, partire dal concetto che la cittadinanza non è di per sé un fattore di integrazione, bensì l'arrivo di un percorso di integrazione culturale. Essa, infatti, non costituisce soltanto un riconoscimento di una lista di diritti, ma rappresenta qualcosa di più strettamente connesso con i principi fondamentali e con i valori fondanti della nazione. Il nostro ordinamento, anche grazie alle regole del diritto internazionale e dell'Unione europea, garantisce oggi a tutte le persone residenti nel suo territorio, a prescindere dalla cittadinanza, i diritti umani fondamentali, diversi strumenti di protezione sociale, nonché il pieno godimento dei diritti sociali a tutti coloro che in maniera regolare, e con un reddito sufficiente, lavorano in Italia. Per queste ragioni non è la cittadinanza l'unica garanzia di tutela giuridica. Ecco perché in tale visione lo Stato, nel concederla e nel riconoscere uno status che comporta una piena partecipazione alla vita pubblica, compresi i diritti politici, debba pretendere che sia stato effettuato un certo percorso culturale e a determinate condizioni. Si profila pertanto necessaria, come giustamente evidenziato dalla relazione della proposta di legge Sarubbi-Granata, una svolta paradigmatica nella concezione del meccanismo di attribuzione, passando da un'ottica concessoria e quantitativa ad un'ottica attiva e qualitativa.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

PIER FERDINANDO CASINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, non diamo alibi a nessuno per non continuare l'esame di questo provvedimento. La materia è spinosa, ma riteniamo che sia importante continuare il lavoro, e anche da parte nostra, con tutti i rilievi e le critiche che abbiamo, non metteremmo i bastoni tra le ruote, perché non vogliamo dare alibi per rinviare sine die una materia che richiede oggi di essere approfondita e decisa (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito Democratico e di deputati del gruppo Popolo della Libertà).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Casini, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Favia. Ne ha facoltà per 15 minuti.

DAVID FAVIA. Signor Presidente, signor rappresentante del Governo, onorevoli colleghi, credo che questa giornata, questo momento, siano particolarmente importanti perché ci accingiamo a discutere una proposta di legge di grande rilievo (come diceva l'onorevole Zaccaria, di rilievo quasi costituzionale) e soprattutto perché si tratta di una delle poche leggi di iniziativa parlamentare che abbiamo avuto l'occasione di discutere in quest'Aula.
Finora abbiamo visto troppi decreti-legge, abbiamo visto troppe questioni di fiducia, e stiamo cominciando a vedere che senza la posizione della questione di fiducia si scatenano problematiche interne alla maggioranza.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE ANTONIO LEONE (ore 11,15)

DAVID FAVIA. Tuttavia - giustamente lo ricordava prima il collega Volpi - questa materia non è inserita nel programma di Governo, quindi ci auguriamo e auspichiamo che ci sia libertà di coscienza nell'analisi di questo testo unificato e che ciascun deputato possa esercitare il proprio ruolo senza vincoli di appartenenza, senza vincoli di nessun tipo.
Abbiamo già cominciato a vedere qualche problema all'interno della maggioranza per sanare il quale - ma non sappiamo quanto questi problemi siano stati sanati - è stata partorita una proposta del relatore che francamente non fa proprio la sintesi di tutte le proposte di legge, ma ci sembra che faccia una sintesi, la più bassa possibile, per chiudere le problematiche interne alla maggioranza. Pag. 29
Il dialogo con l'opposizione è stato concluso in Commissione con questa proposta che non è condivisibile, quasi irricevibile. Si tratta di un provvedimento che non considera minimamente che una buona legge sulla cittadinanza faciliterebbe l'integrazione. Infatti la concessione della cittadinanza aiuta ad integrare e - come è stato autorevolmente ricordato - risponde al nuovo quadro mondiale, risponde alle nuove situazioni che vedono un grande indebolimento dell'Europa nel quadro mondiale stesso, a meno che non ci nascondiamo dietro ad un dito per cercare di risolvere le problematiche della nostra presenza nel contesto mondiale (una delle quali è proprio quella di come vengono affrontate le migrazioni che non possono in alcun modo essere respinte tout court ma devono essere intelligentemente affrontate e assorbite, perché la storia insegna che quando ci si è opposti in maniera preconcetta non si è risolto il problema, anzi, nella peggiore delle ipotesi si sono scatenate delle guerre).
La normativa si articola, a nostro avviso, su tre livelli: il livello dei nati sul territorio italiano, il livello degli immigrati giovani (diciamo in età prescolare), e il livello della concessione della cittadinanza agli adulti.
Per quanto riguarda i nati sul territorio italiano si possono adottare tre tipi di soluzione: lo ius soli, lo ius sanguinis, un temperamento (una contaminazione) dell'uno o dell'altro concetto o di entrambi fusi assieme.
Noi non crediamo che la proposta sostitutiva del comma 2 dell'articolo 4 della legge n. 91 del 1992 da parte della relatrice sia positiva. La vedremmo positivamente - e l'avevamo detto in Commissione - per quanto riguarda gli immigrati giovani, cioè quelli entrati in Italia entro il quinto anno di età. Perché diciamo questo? Perché già l'attuale comma 2 dell'articolo 4 della legge n. 91 del 1992 prevede che lo straniero nato in Italia, e che vi abbia risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggiore età, divenga al raggiungimento appunto della maggiore età cittadino italiano. L'inserimento della frequenza della scuola, al di là della permanenza sul territorio senza interruzioni, ci sembra un aggravamento inutile.
Pertanto, per quanto contrari allo ius soli puro e semplice per quanto riguarda gli entrati, noi crediamo che per i nati in Italia possa andar bene la normativa attuale, e che per coloro che sono invece entrati in età prescolare possa valere, per ottenere la cittadinanza, l'aver frequentato in maniera positiva, in maniera favorevole, il corso di studi.
Ci sia consentito sollevare un paio di eccezioni su questo comma 2, che noi vedremmo bene adattato agli entrati in età prescolare. Anzitutto il fatto di aver risieduto legalmente senza interruzioni fino al raggiungimento della maggior età ci sembra estremamente penalizzante, perché significherebbe bloccare sul territorio una persona per 18 anni e questo francamente mi sembra anche lesivo del diritto al libero movimento di una qualsiasi persona. Quindi, bisognerebbe introdurre la possibilità di lasciare il territorio per brevi periodi.
Poi vi è il concetto dell'avere frequentato con profitto le scuole riconosciute dallo Stato italiano, almeno fino all'assolvimento del diritto-dovere all'istruzione e alla formazione. Innanzitutto, ci sembra contraddittorio il concetto di profitto con l'assolvimento del diritto-dovere e poi ci sembra incostituzionale. Infatti, per quale ragione lo straniero deve frequentare con profitto ed altri no? Quindi francamente il concetto del profitto ci sembra da cassare.
Per quanto riguarda gli immigrati giovani, ma anche per i nati in Italia che siano inseriti in un contesto non perfettamente alfabetizzato per quanto riguarda la lingua italiana, noi siamo dell'idea che questa normativa dovrebbe prevedere investimenti ed una frequenza obbligatoria prescolare di corsi per apprendere la lingua italiana, così come vorremmo qui introdurre un altro concetto: dobbiamo tener presente che l'impatto dell'immigrazione dipende tutto dal livello di welfare. Infatti non è con la semplice concessione della cittadinanza che si risolve il problema Pag. 30di come i cittadini italiani vedono l'immigrazione. Certo vi è una parte della politica italiana e della società italiana che tende a terrorizzare l'elettorato, che si fa terrorizzare per quanto riguarda la sicurezza (anzi, l'insicurezza) apportata dall'immigrazione.
Noi crediamo che, se vi fossero maggiori investimenti per esempio sulle case popolari e sul welfare in genere, quindi se non vi fosse un confronto spesso e volentieri così acceso tra l'immigrato ed il cittadino italiano, tutta questa problematica non vi sarebbe e anche la concessione della cittadinanza potrebbe essere vissuta in positivo, come a nostro giudizio va vissuta, anche se noi condividiamo per esempio il discorso del percorso, perché indubbiamente la cittadinanza deve essere interpretata non tanto come un premio, ma come una situazione alla quale si approda dopo la verifica di tutta una serie di adeguati parametri.
Per il terzo livello, che è quello degli adulti, viene prevista una tempistica di dieci anni. Come diceva prima l'onorevole Bocchino, con una normativa probabilmente errata il tempo occorrente per ottenere la cittadinanza fu portato da cinque a dieci anni. Noi crediamo francamente che sia un po' troppo: la nostra proposta è di otto anni. Ma al di là del periodo, prima la relatrice ha affermato che è stato introdotto un meccanismo di anticipazione. Certo, questo è vero perché è stato detto che si può cominciare la pratica per la cittadinanza due anni prima della scadenza dei dieci anni necessari. Però c'è un problema particolare, al di là del tempo che come ripeto noi proponiamo di abbassare da dieci a cinque anni: non vi è alcuna sanzione nel caso in cui questo periodo di tempo non venga rispettato.
Attualmente, ho esperienza di pratiche che durano tre, quattro, cinque, sei, sette anni. Dunque, perché non introdurre - e presenteremo un emendamento in tal senso (mi si perdoni il bisticcio di parole) - ad esempio, l'istituto del silenzio assenso? In altri termini, si stabiliscono due anni per completare la pratica: se entro due anni, non arriva un'esplicita negazione, la cittadinanza deve intendersi concessa. Altrimenti, la prescrizione dei due anni rappresenterebbe un termine assolutamente non vincolante.
Con riferimento al percorso di cittadinanza - che, in parte, possiamo anche condividere - devo rilevare che all'articolo 3, comma 1, lettera c), della proposta di modifica dell'articolo 9 della legge n. 91 del 1992, si subordina l'acquisizione della cittadinanza italiana: «ad un effettivo grado di integrazione sociale ed al rispetto, anche in ambito familiare, delle leggi dello Stato e dei principi fondamentali della Costituzione». Francamente, l'inciso «anche in ambito familiare» ci sembra un nonsenso, perché è noto a tutti che la Costituzione e le leggi dello Stato vanno rispettate in ogni ambito. Il riferimento all'ambito familiare ci fa venire in mente un attacco implicito a determinati atteggiamenti religiosi o tradizionalisti che, anche se non condivisibili, vanno sconfitti in altro modo, e non con questi richiami assolutamente, a nostro avviso, illegittimi.
Con riferimento al testo alternativo illustrato dal collega Bressa, nutriamo alcune perplessità in ordine allo jus soli assoluto, che, tuttavia, all'esito del dibattito, se strutturato in una certa maniera, potrebbe anche trovarci favorevoli. Comunque, crediamo che tale testo alternativo sia assolutamente preferibile a quello della relatrice.
Auspichiamo che il dibattito vada avanti - come è stato affermato, giustamente, in precedenza, dall'onorevole Casini - e che si svolga un dibattito serio ed approfondito sugli emendamenti (al limite, anche nell'ambito del Comitato dei nove).
Credo, infatti, che partorire una legge come questa su un argomento così importante - direi quasi, epocale - senza una blindatura da parte della maggioranza e con assoluta libertà di coscienza (magari, anche attraverso un voto trasversale), sarebbe un segno non solo di grande responsabilità, ma anche di recupero della centralità di quest'Assemblea che, come dicevo all'inizio del mio intervento, è stata, finora, troppo svilita da decreti-legge e voti Pag. 31di fiducia. Nel momento in cui si tenta di far respirare nuovamente la politica, ciò rappresenterebbe un messaggio estremamente importante verso la nazione che ci sta guardando.

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Santelli. Ne ha facoltà.

JOLE SANTELLI. Signor Presidente, anch'io mi associo ai ringraziamenti nei confronti della relatrice, che ha svolto un lavoro assolutamente difficile, soprattutto, per un dato di fondo. È duro parlare di dialogo e cercare di comunicare seriamente su un tema, quando poi, già in quest'Aula - come ha affermato, in precedenza, il Presidente Casini - da un lato, si cerca di regolamentare un fenomeno, e, dall'altro lato, si risponde con gli slogan. Prima il collega Bressa ha detto: voi fate solo propaganda. Credo che non sia, certo, questo il terreno migliore per costruire un corretto dialogo.
Ritengo che la discussione parta, soprattutto, dal dubbio.
Invidio fortemente tutti coloro che sono convinti di avere in mano la verità assoluta, come poco fa il relatore di minoranza, il collega Bressa, il quale ci ha spiegato che potremmo avere dei problemi derivanti dai flussi migratori, che lo strumento migliore per l'integrazione è la cittadinanza, che abbiamo un dovere, quello di modificare la legge sulla cittadinanza, e che ciò si può fare solo introducendo lo ius soli, e questa è la verità.
Credo che il termine «politica» significhi confronto di idee e nessuno ha la verità in tasca, quindi è possibile e necessario considerare le valutazioni politiche espresse dalle altre parti, cercando di assumere quello che vi può essere di valido.
Vi chiedo, innanzitutto, di sgomberare il campo da un equivoco che è emerso anche questa mattina in quest'Aula. Sicuramente affrontiamo tale tema perché negli ultimi vent'anni, ormai, i flussi migratori sono continuamente in aumento in Italia. Per la prima volta, dopo una piccola modifica introdotta nel 1986 alla legge n. 555 del 1912, la legge cosiddetta Amato ha modificato la legge sulla cittadinanza portando da cinque a dieci anni il termine per poterla richiedere, proprio in relazione ai flussi migratori.
Oggi vi ritorniamo, ma, per cortesia, vi chiedo di distinguere i temi. Da un lato, abbiamo un tema, quello dei flussi migratori, e in alcuni casi i flussi migratori e la presenza di immigrati irregolari determinano problemi di sicurezza; dall'altro lato, abbiamo un tema altrettanto delicato quale il tema dell'integrazione. Ma né di sicurezza, né d'integrazione stiamo parlando quando ci occupiamo di cittadinanza, si parla di tutt'altro, di un tema che nulla ha a che fare con i primi due.
Iniziamo con il dire che il primo equivoco che si sente è quello sul diritto: diritto, diritto alla cittadinanza. Anche qui, è una verità, ma non so di chi. Personalmente, ho tentato di studiare quanto riportano i vari testi di diritto costituzionale e non vi si trova una definizione di cittadinanza, non si riesce a dare.
Nel principio di cittadinanza sono contenuti almeno due elementi fondamentali: diritti e doveri della persona, da un lato e, dall'altro lato e altrettanto fondante, il concetto di soggezione del cittadino nei confronti dello Stato, in altre parole quella che viene definita sudditanza. I due concetti sono presenti nel termine cittadinanza, quindi non parliamo di un diritto, ma di un'altra cosa. Né si può trattare di un contratto, perché essa è imposta, a prescindere dalla volontà. Vi è una serie di elementi che oggettivamente fanno sì che la discussione qui dovrebbe avere, come si usa dire in queste circostanze, molti più «se» e molti più «ma», molti più dubbi di quelli che si ascoltano.
Ma veniamo a noi. Esiste una differenza fondamentale tra il nostro Paese e gli altri. È vero che il nostro è un Paese di immigrazione ed è vero che nel nostro Paese è sempre stata fondamentale la legge dello ius sanguinis, quindi la filiazione e la necessità di un'identità di popolo, ed è altrettanto vero che altri Paesi europei hanno invece avuto legislazioni più «aperturiste». Anche qui, colleghi, Pag. 32facciamo attenzione: i grandi Paesi europei che riconoscevano lo ius soli o riconoscevano la cittadinanza a chi arrivava da altri Paesi erano Paesi organizzati in maniera imperiale. Non si parlava di cittadinanza di diritti, ma di sudditi di un impero, dei sudditi dell'impero francese, dell'impero britannico e dell'impero romano.
Già nel corso della discussione in Commissione ho sentito, credo dal collega Granata, che dobbiamo ricordarci del nostro passato. Civis romanus sum è un emblema simbolico di quella che è la nostra storia di apertura. Purtroppo no, purtroppo la storia romana è che la cittadinanza si trasmetteva per filiazione gentilizia.
Solo nel 212 dopo Cristo, con la Costituzione Antoniana e, quindi, con la definizione dell'impero e delle province dell'impero si apre la cittadinanza agli altri, in quanto sudditi e non in quanto cittadini dotati di diritti, ma in quanto sudditi di un impero.
E veniamo al punto più delicato, visto che anche il tempo è tiranno. Sicuramente voglio sottolineare un dato che reputo essenziale. Si può rimanere in questo Paese - come in tutti gli altri Paesi - in maniera regolare, godendo di tutti i diritti sociali senza, per questo, essere cittadini. Ciò che distingue il cittadino dallo straniero regolarmente residente è il diritto politico, la partecipazione e il sentirsi parte di una comunità. Spiegatemi come si può dire di sentirsi parte di una comunità se non si sceglie di farne parte.
Vado ora al punto essenziale che mi sembra anche quello più delicato. Sicuramente per chi vive in questo Paese e chiede la cittadinanza è importante il discorso di avere tempi certi. In tale materia il silenzio-assenso mi sembra quasi impossibile, perlomeno nel sistema concessorio, mentre sicuramente può essere dato dal punto di vista amministrativo, lasciando comunque la concessione della cittadinanza al Presidente della Repubblica. Ma questa è una diversa valutazione perché quello che ritengo più importante è proprio la questione dei bambini. Vorrei che su questo punto si evitasse di fare demagogia, perché non possiamo commuoverci tutti per questi poveri bambini diversi. Non esistono bambini diversi, ma bambini che nascono in Italia da genitori che non sono e che non vogliono essere italiani. Vi sono bambini che vivono regolarmente in questo Paese ma magari si sentono filippini, arabi o turchi e vogliono tornare a casa loro o rimanere qui sentendosi altro, oppure scelgono! Il punto essenziale è la scelta.
Occorre fare attenzione a quello che è accaduto negli altri Paesi europei, proprio con le nuove generazioni. Il tema è quanto integrazione e cittadinanza siano differenti. Come ricordavano prima i colleghi, nella banlieue non si trattava di un problema fra i cittadini e gli stranieri, perché erano gli stessi cittadini francesi immigrati di terza generazione a sentirsi cittadini di serie B. Non era un problema di immigrazione, ma di differenza sociale che è una questione diversa. Si tratta di integrazione e non di cittadinanza.
Vi sono poi altri problemi. In sostanza, il vero problema è che un ragazzo o un bambino che nasce in questo Paese, come qualsiasi persona, costruisce una sua identità, e, spesso proprio nella fase adolescenziale di cui si parlava, può essere in contrasto con quella che è l'identità vissuta come un'imposizione. Pertanto, si va alla ricerca della propria identità. È quanto è accaduto in Paesi come l'Inghilterra o la Francia. In questi Paesi questi bambini, cui veniva imposta una cittadinanza, per recuperare la propria identità a un certo punto sono ritornati a un'identità storica che era precedente, non a quella dei loro genitori, ma anche a quella delle loro nonne. In Francia le ragazzine francesi di terza generazione si sono rimesse il velo perché hanno cercato un'identità. Probabilmente - e dico probabilmente perché, collega Bressa, non ho la verità.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

JOLE SANTELLI. Concludo, signor Presidente. Sarei per un percorso in cui un ragazzo, con pari diritti, quando ha la Pag. 33capacità politica, quindi quando può partecipare attivamente alla vita politica e civile di questo Paese, cioè al compimento della maggiore età, che comporta per la legge italiana la capacità di intendere e di volere, se vuole e decide di essere cittadino italiano, lo diventa per volontà e per scelta, ed è italiano quanto noi. Preferisco questo percorso piuttosto che concedere la cittadinanza italiana e poi magari, coloro che l'hanno ottenuta, scelgono di perderla (Applausi di deputati del gruppo Popolo della Libertà e di deputati del gruppo Lega Nord Padania).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Franceschini. Ne ha facoltà.

DARIO FRANCESCHINI. Signor Presidente, al porto di Genova è in corso una bellissima mostra che spero, con l'intervento dello Stato, possa diventare un museo permanente sull'emigrazione italiana.
Da quel porto sono partiti milioni di italiani: sono 27 milioni gli italiani che in un secolo sono andati a cercare la fortuna dall'altra parte e la strada per uscire dalla miseria. Abbandonavano tutto: la loro terra, la loro casa, le famiglie e anche loro attraversavano un mare, attraversavano l'oceano, viaggiavano per settimane, cercavano il nuovo mondo, e sognavano anche loro un futuro migliore, senza povertà, per loro e per i loro figli.
Le navi di terza classe erano piene fino all'inverosimile di uomini, di donne, di bambini, di valigie ed avevano per destinazione privilegiata «La Merica» (come si intitola quella bellissima mostra) ed avevano come destinazione privilegiata New York, ma si fermavano qualche miglio prima, a Ellis Island, l'isola che faceva da frontiera, un luogo di attesa, di speranza ed anche di umiliazione: erano sottoposti a interrogatori, domande, sospetti, visite e verifiche.
Penso che ogni italiano di oggi dovrebbe passare di lì, a Ellis Island, per potersi specchiare negli occhi dei nostri nonni, in quelle foto ingiallite e piene di sguardi fatti di paura, ma anche di speranza e di orgoglio, perché per loro iniziava la fatica di entrare in un mondo diverso, cercare un tetto sotto cui ripararsi, un lavoro e cominciare a vivere di nuovo. Non c'è stereotipo, che sia stato usato in questi anni nei confronti degli immigrati nel nostro Paese, che non sia già stato usato per i nostri nonni, per quelli italiani: rubano il lavoro ai giovani, sono tutti delinquenti, ci stanno invadendo.
Non si contano quanti sono stati oggetto di queste generalizzazioni. Spesso eravamo anche clandestini e c'è stato un tempo in cui i Paesi confinanti ci chiedevano di controllare i passi alpini non per bloccare gli arrivi, ma per bloccare le partenze. Di là dall'oceano ci chiamavano «dago», che più o meno vuol dire accoltellatore, pugnalatore, perché i nostri connazionali usavano bene il coltello. Dovremmo ricordare cosa significhi, non tanti anni fa, avere nei bar o nei ristoranti il cartello con scritto: «vietato l'ingresso ai cani e agli italiani». La storia, del resto, quando spinge alla disperazione, muove milioni di persone e spesso fa ripetere le cose. Nel nostro passato si vedono le stesse cose che oggi vediamo; non inventa nulla la storia. Fa impressione assistere alla leggerezza e alla disinvoltura con cui, in un colpo solo, troppa parte di questo Paese dimentica la sua storia e si calpestano i principi più elementari di umanità e di accoglienza.
Invece nessuno più di noi italiani, un popolo di migranti, dovrebbe reagire quando vengono calpestati quei principi. Oggi è l'Italia che accoglie, oggi è l'Italia che è già un Paese diverso, è l'Italia che è cambiata. Non c'è bisogno di demografi, basta chiedere all'ostetrica di un ospedale qualsiasi e ti dirà che, su nove bambini nati nei nostri ospedali, uno è figlio di genitori stranieri.
Oggi in Italia c'è tutta una generazione di persone che è un errore definire immigrate, che non si sono mai mosse dal nostro Paese per il semplice fatto che qui è cominciata la loro avventura umana: sono nate qua; e una parte di questa generazione, una parte molto grande, è già maggiorenne, ed è nata ed è diventata maggiorenne nel nostro Paese. Pag. 34
Allora riconoscere diritti è l'obiettivo di una legge giusta sulla cittadinanza. Noi l'abbiamo già presentata nella scorsa legislatura, poi non c'è stato il tempo e l'abbiamo ripresentata già nell'aprile del 2008. Si diventa cittadini italiani se si è nati in Italia; se si è minori e si studia in Italia e - questa è una novità assoluta - c'è la possibilità dell'attribuzione della cittadinanza - che non è più solo una concessione dello Stato, come ha detto bene l'onorevole Bressa questa mattina - dopo cinque anni, se lo si vuole, se ci si crede, naturalmente assolvendo ad alcuni requisiti elementari, come la conoscenza della lingua, il reddito minimo previsto in Europa, il giuramento di osservanza della Costituzione e il rispetto della pari dignità sociale dei cittadini.
Si diventa cittadini perché lo si vuole diventare, non perché qualcuno te lo concede: la cittadinanza come primo e principale motore dell'integrazione: è una questione di civiltà ed è una questione di giustizia. Stiamo facendo in questi giorni - non è la prima volta - un dibattito politico sulle riforme istituzionali che dovremmo giustamente cercare di fare insieme, maggioranza e opposizione.
Naturalmente la riforma dalla quale cominciare è sempre quella successiva. Ne abbiamo una qua, è sicuramente una riforma istituzionale, riguarda il diritto di cittadinanza e migliaia di persone. Cominciamo da qua, misuriamo da questo provvedimento che non è nel dibattito sui giornali, ma è qui in Assemblea pronto ad essere votato il mese prossimo. Misuriamo da questo provvedimento se c'è veramente la volontà dell'opposizione e della maggioranza di cercare, naturalmente, un'intesa sui contenuti, una cosa concreta che serve al Paese.
Cominciamo da questa riforma istituzionale a misurare la realtà tra le parole e i fatti. Cominciamo da qui, verificando anche dal voto in Assemblea se c'è una corrispondenza tra le parole, anche importanti, pronunciate da molti esponenti e leader della destra di fare un passo avanti sul tema della cittadinanza. Misuriamolo qui.
È ora di chiudere i dibattiti e di passare al voto. Per questo trovo assolutamente sgradevole, sbagliata e da respingere l'affermazione - che prima correva nei corridoi, adesso è stata pronunciata in Assemblea - secondo la quale dovremmo rinviare l'approvazione della legge sulla cittadinanza a dopo le elezioni regionali. Io debbo chiedere: che cosa c'entrano le elezioni regionali (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico)? Se una norma è giusta e va incontro ad un principio costituzionale, si può pensare di approvarla o meno prima o dopo le elezioni regionali perché questo potrebbe spostare in termini di consenso e di voto? Ma chiedo, che rispetto è degli elettori questo: «La facciamo dopo perché così avete già votato!».

LIVIA TURCO. Bravo!

DARIO FRANCESCHINI. Allora vedremo qui. Con il voto in gennaio misureremo qui l'idea di quelli che sono contrari ad una società multietnica, come è stato detto, che sono fermi ad un'idea della cittadinanza che deriva solo dal sangue, dalla nascita, dall'appartenenza razziale e non sopportano il pensiero che ci siano più e nuovi italiani. Però si devono rassegnare: questo sta già avvenendo, l'Italia è già cambiata e non aspetta il legislatore.
Lo sanno gli imprenditori del nord per cui l'immigrazione è una risorsa preziosa. Lo sanno i milioni di famiglie che vivono grazie alla cura dei loro cari da parte di persone straniere. Lo sanno i nostri figli e i nostri nipoti che a scuola, come compagno di banco, ogni giorno di più hanno bambini di un colore differente dal loro, di un'altra religione, che però parlano la stessa lingua, tifano per la stessa squadra di calcio e sognano di fare da grandi lo stesso lavoro. È proprio nelle scuole che è cominciata l'Italia di domani, là dove bambini pakistani, maghrebini, albanesi, cinesi imparano l'alfabeto assieme, dividono lo stesso banco, gli stessi giochi e gli stessi sogni per il futuro.
Quindi, basta con questo collegamento automatico tra sicurezza e immigrazione. Pag. 35La sicurezza è un diritto che lo Stato deve garantire a tutti i cittadini, ma non c'è un automatismo con l'immigrazione. Anzi, non rinunciamo a dire, anche se è impopolare, che le nostre città, che stanno diventando multietniche, dove è garantita la sicurezza, possono essere più giovani, più vive, più dinamiche e che proprio gli immigrati integrati potranno aiutarci a combattere la criminalità legata all'immigrazione clandestina, perché è nel loro interesse combattere la criminalità e il racket e per noi anche combattere la tristezza di società vecchie e impaurite.
Del resto così è l'Italia, così è la storia italiana: la nostra identità attuale quella che giustamente difendiamo è il frutto di millenni di incontri tra culture e lingue diverse. Pensiamo alle nostre città, al nord, lo dico gli esponenti della Lega Nord Padania: Genova, crocevia di marinai e mercanti, dove nei secoli la lingua si è arricchita di parole arabe, spagnole, francesi e di molte altre influenze. O pensate a Venezia: un incrocio, un miracolo, fatto da italiani, ma anche da mosaicisti bizantini, da intagliatori arabi, da tappezzieri turchi. Pensate ai nostri dialetti, alle cadenze greche del barese, a quelle arabe del siciliano e del calabrese, alle comunità che dopo millenni continuano ancora oggi a parlare in albanese antico, alle influenze francesi in Piemonte, a quelle spagnole in Lombardia, a quelle slave nel nordest.
A questa eredità, unica al mondo, dobbiamo dare un futuro: l'identità non è immobile, è qualcosa di vivo che si costruisce ogni giorno. È la costruzione paziente e tenace di un nuovo patriottismo nel segno dell'apertura, del rispetto delle regole e dei doveri insieme ai diritti per tutti. Nel segno della nostra Costituzione e dei valori che la esprimono, questa è una battaglia giusta.
È una battaglia che contribuisce a costruire un Paese migliore, abitato anche da nuovi italiani, protagonisti con noi di un'identità nazionale rivolta al futuro; un'identità che non è costruita nel rifiuto delle diversità, ma attraverso i valori dell'accoglienza e dell'integrazione. È una battaglia giusta e noi la faremo comunque (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e Italia dei Valori - Congratulazioni).

PRESIDENTE. Come annunziato, saluto la delegazione dell'Associazione culturale di Sulmona che sta assistendo ai nostri lavori dalle tribune (Applausi).
È iscritto a parlare l'onorevole Cota. Ne ha facoltà.

ROBERTO COTA. Signor Presidente, noi abbiamo vinto le elezioni con un programma politico che non prevedeva revisioni della legge sulla cittadinanza. Anzi, noi abbiamo vinto le elezioni dicendo chiaramente che una delle emergenze che ci trovavamo ad affrontare era quella dell'immigrazione non regolamentata e che avremmo dovuto in questa legislatura dare piena e completa attuazione ai principi contenuti in una legge approvata nella legislatura precedente a quella in cui aveva governato Prodi; vale a dire ai principi contenuti nella legge Bossi-Fini che stabiliscono che sul nostro territorio entra soltanto chi ha un lavoro; chi non ha questo lavoro - e quindi non è in grado di rispettare le nostre regole - deve necessariamente essere rimpatriato e se non ha il titolo per entrare sul nostro territorio non deve entrare.
Questo cosa vuol dire? Noi abbiamo mandato alla gente, ai nostri elettori, un messaggio chiaro: noi non possiamo accogliere tutti, basta con la vendita dei sogni che poi non si possono realizzare! Questo programma elettorale e questo approccio sono incompatibili con l'introduzione di norme sulla cittadinanza facile, perché uno degli aspetti che rende più difficoltosa la presenza degli immigrati sul nostro territorio è proprio quello della mancata integrazione. Dare la cittadinanza facilmente vuol dire non verificare adeguatamente l'integrazione, intesa come rispetto delle nostre leggi, dei nostri costumi, usi, tradizioni e cultura.
Inoltre, noi viviamo in un contesto storico caratterizzato da una forte pressione migratoria, non viviamo in un contesto caratterizzato dall'esigenza di attrarre Pag. 36nuova immigrazione. Non sono d'accordo con l'impostazione che è stata data da alcuni colleghi che sono intervenuti in questo dibattito, i quali da un lato hanno considerato l'immigrazione come qualcosa di ineluttabile e dall'altro hanno detto che noi abbiamo bisogno di nuovi immigrati per costruire la nostra nuova identità. Non è così, noi oggi non abbiamo bisogno di attrarre immigrazione, abbiamo bisogno di gestire un fenomeno di immigrazione complesso restringendo le maglie (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania)!
Ripeto, oltre al contesto storico abbiamo anche una posizione geografica che ci deve indurre a riflettere. Siamo la porta del Mediterraneo, siamo un Paese con 8 mila chilometri di coste: dobbiamo stare attenti a quello che facciamo e ai messaggi che mandiamo, non possiamo mandare messaggi sbagliati. Dire che intendiamo modificare le norme sulla cittadinanza in senso estensivo significa mettere una potente calamita per nuovi immigrati che noi non possiamo accogliere e che sceglierebbero l'Italia come il Paese del Bengodi.
Così è stato nella passata legislatura, quando con il Governo Prodi e con la presenza della sinistra in maggioranza sono stati mandati dei messaggi sbagliati che hanno attratto nuovi immigrati clandestini. Quelli sono stati gli anni delle migliaia di sbarchi di tutti gli immigrati che arrivavano sull'isola di Lampedusa e - aggiungo - sono stati anche gli anni delle tragedie del mare, perché dobbiamo fare questo discorso anche pensando alla vita degli immigrati e alle organizzazioni criminali che sfruttano il passaggio degli immigrati sul nostro territorio, sperando di avere sempre una sanatoria e che poi si possa contare sulla vendita dei sogni che poi non si realizzano. Vorrei anche dire che i Paesi che hanno ampliato e allargato le maglie delle leggi sulla cittadinanza lo hanno fatto in contesti diversi, in situazioni diverse: lo hanno fatto perché avevano bisogno di nuova immigrazione o perché non avevano i problemi che, invece, abbiamo noi.
Oggi, in Aula, arriviamo a questo dibattito, che non abbiamo chiesto noi, bensì è stato chiesto dall'opposizione e vi arriviamo con una proposta che ha voluto calendarizzare l'opposizione. Non l'abbiamo fatto per senso di responsabilità, perché noi sappiamo di avere dalla nostra parte il consenso della gente, ma sappiamo anche, per senso di responsabilità, che in questo Paese vanno affrontate con priorità le riforme necessarie (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania)! Va realizzato il federalismo, vanno affrontati i problemi di chi ha perso il posto di lavoro, i problemi di tanti nostri giovani e di tanti nostri anziani che, sì, hanno bisogno di un intervento incisivo dello Stato; non è una priorità quella di dare la cittadinanza facile agli immigrati o, per esempio, il diritto di voto a chi non è cittadino (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania)!
Quindi noi, con senso di responsabilità, non abbiamo chiesto un dibattito e non abbiamo strumentalizzato la questione. Oltretutto, colleghi, non si tratta nemmeno di dare ascolto ad una pressante istanza che proviene dagli immigrati presenti sul nostro territorio: non è così, non arriva questa richiesta! Tra l'altro, da tutti i sondaggi, da tutte le analisi, abbiamo la dimostrazione che la stragrande maggioranza degli immigrati, giustamente, viene sul nostro territorio con un obiettivo, ossia quello di ritornare a casa, ed è giusto così! Viene per poi ritornare a casa, tant'è che la presenza degli immigrati in Europa ha una media che si attesta proprio sui dieci anni.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ROBERTO COTA. Allora, il termine di dieci anni è assolutamente ragionevole e gli immigrati che sono presenti sul nostro territorio sono ben consci di vivere in un Paese che, in quanto a rispetto dei diritti di chi viene da fuori, non è secondo proprio a nessuno.
Qui siamo dunque su un piano puramente ideologico, di un'ideologia scollegata, appunto, dalla realtà, che ha sempre Pag. 37caratterizzato le posizioni della sinistra che in questo ha dimostrato - devo dirlo - una certa coerenza.
Detto questo, noi abbiamo dovuto affrontare il dibattito e nell'affrontarlo abbiamo detto alcune cose: abbiamo affermato che siamo contrari al principio dello ius soli. ..

PRESIDENTE. Deve concludere, onorevole Cota.

ROBERTO COTA. Signor Presidente, prendo qualche minuto, poi aggiustiamo gli interventi...
Siamo contrari al principio dello ius soli che oggi esiste nel nostro ordinamento soltanto in forma molto residuale e che riguarda il caso di figli di genitori apolidi e quello in cui il figlio non acquisti la cittadinanza dei genitori in base alla legge dello Stato di appartenenza. Siamo contrari ad abbassare il requisito dei dieci anni, perché dieci anni è un periodo di tempo ragionevole, tra l'altro in linea con la legislazione degli altri Paesi europei: la Germania, la Spagna e la Svizzera hanno questo limite e non hanno i nostri problemi.
Dunque, non potevamo che tenere fermi questi paletti nel testo che abbiamo concordato con la maggioranza; invece, se proprio vogliamo innovare, è bene verificare adeguatamente che l'integrazione ci sia.
Proprio per questo motivo, noi abbiamo inserito nel testo Bertolini l'esigenza di avere una carta di soggiorno...

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ROBERTO COTA. Chiedo scusa, signor Presidente, solo un minuto.

PRESIDENTE. L'ha già preso...

ROBERTO COTA. Come dicevo, abbiamo previsto l'esigenza di fare un corso della durata di un anno, di verificare l'integrazione sociale, il rispetto delle leggi e degli obblighi fiscali. In conclusione, quanto alla polemica legata alla presenza dei minori sul nostro territorio, vorrei soltanto dire che prima di fare determinate considerazioni, bisognerebbe anche fare un'analisi e una verifica del testo delle leggi. Noi oggi abbiamo una disposizione che stabilisce che il minore che nasce sul nostro territorio e vi rimane per tre anni, al diciottesimo anno di età, se ha risieduto in Italia nei due anni precedenti, ha diritto a richiedere la cittadinanza italiana. Allora, vorrei capire dov'è questa esigenza di modificare la legislazione sui minori e dove sono queste norme illiberali che la sinistra denuncia ogni volta che si parla di questo tema.
Per questi motivi, noi con convinzione sosteniamo il testo presentato dalla relatrice Bertolini (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania e di deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Tassone. Ne ha facoltà.

MARIO TASSONE. Signor Presidente, vorrei esprimere alla collega Bertolini un sincero apprezzamento, l'ho fatto anche in Commissione e non ho difficoltà a reiterare la mia ammirazione in Aula, anche dopo aver ascoltato alcuni interventi. Il lavoro della relatrice appare sempre più importante per le strade non asfaltate, ma accidentate, con cui si è trovata a fare i conti e a svolgere il suo percorso da relatrice.
Questo è un provvedimento di cui la I Commissione si sta interessando da qualche tempo e credo che a febbraio concluderemo il giro di boa di un anno, in quanto mi pare che abbiamo iniziato l'esame dell'argomento a gennaio-febbraio del 2009. Abbiamo affrontato questo tema innanzitutto con una grande attesa e un grande impegno rispetto a problemi che non riguardano una parte anziché un'altra di quest'Aula e di questo Parlamento. Si tratta di un problema che esiste e che c'è, ossia l'esigenza di innovare e creare una condizione diversa rispetto alla previsione della legge n. 91 del 1992 è sempre stata ritenuta importante e fondamentale, non soltanto da noi. Bisogna capire qual è il Pag. 38percorso e qual è il momento di equilibrio. Ritengo che l'onorevole Casini in termini molto compiuti, puntuali e precisi questa mattina abbia indicato anche il modo con cui affrontare un argomento di una tale importanza e rilevanza. Non voglio nemmeno correre verso le enfasi qui rinnovate e reiterate, tuttavia ci troviamo di fronte ad un tema di importanza fondamentale. Quando si parla di immigrazione, di cittadinanza, di concessione e di riconoscimento di diritti, non c'è dubbio che si tratti di riforme di carattere ampio che possiamo qualificare certamente come riforme di carattere istituzionale. Quando discutiamo di riforme istituzionali all'interno del nostro Paese, ci poniamo certamente in direzione della tutela sempre maggiore dei cittadini e dei loro diritti e della crescita della persona umana. Non è che noi riformiamo, ad esempio, le norme sul sistema elettorale o, meglio ancora, trattiamo la forma di Stato o di governo semplicemente in astratto. Facciamo ciò perché i destinatari sono i cittadini e noi dobbiamo tentare di capire quali siano le forme migliori per accrescerne sempre più la tutela verso una prospettiva di progresso civile e umano.
Non c'è dubbio che qui ci troviamo di fronte allo stesso filone logico e culturale: la tutela della persona umana. Il problema vero è capire se sia possibile trovare un momento di sintesi. Noi siamo per trovare una soluzione, perché molte volte le posizioni inconciliabili, ferme o molto rigide, creano ovviamente delle rotture. Le rotture sono volute soprattutto da chi non ha interesse a trovare un momento forte per riformare la legge n. 91 del 1992. Noi siamo qui e, per nostra storia e per nostra cultura, non c'è dubbio che, quando ci riferiamo a certi valori, non lo facciamo in astratto.
Qualcuno parlava dell'immigrazione: noi da un Paese di emigrazione siamo diventati un Paese di immigrazione. Ho avuto mezza famiglia distribuita in Argentina, in Brasile, morti con la spagnola sulle navi e buttati in mare. Ci sono le tragedie di questo Paese e bisogna convenire se questo ha raggiunto il suo livello culturale ed umano per creare le condizioni perché ci siano dei riconoscimenti e non delle differenziazioni tra i cittadini.
Qualcuno ricordava anche il civis romanus: certamente si trattava di un privilegio, di un'acquisizione di diritti. L'onorevole Santelli diceva prima che però rimanevano sempre sudditi: qui c'è sempre la cultura di creare una sudditanza. Non soltanto sull'immigrazione c'è una cultura della sudditanza, ma anche fra italiani - questa è la tragedia - ossia tra coloro che hanno gli stessi diritti. C'è un momento di rottura e di squilibri anche tra parti del Paese. Il dato forte è che il problema dell'immigrazione ci ripropone anche in termini seri la questione dell'identità dell'Italia, della cultura e della storia di questo nostro Paese, attraverso le mescolanze di etnie e di sangue che via via nei secoli ci sono state. Ma il punto forte è comprendere quali sono il percorso e il traguardo che dobbiamo perseguire e sarebbe un errore trovare in tutto questo una conflittualità. Ho ascoltato anche in Commissione dei pregevolissimi interventi. Qualcuno diceva che la cittadinanza non è prevista in nessuna parte della Costituzione. Possiamo anche discutere su questo aspetto, ma non c'è dubbio che tutti i diritti previsti e costituzionalmente garantiti presuppongono ovviamente la cittadinanza e il cittadino, che deve avere una sua collocazione ben definita, precisa e puntuale.
Il problema della cittadinanza può essere legato al problema dell'immigrazione, della sicurezza e della tutela della nostra tranquillità. Qui ovviamente dobbiamo portare anche il discorso in termini molto più ampi, forti e stringenti rispetto alla realtà.
Si parla di bomba demografica, dell'esplosione di un aumento incontrollato della popolazione che preme sulle coste del nostro Paese. In Italia, c'è invece - lo abbiamo detto - la diminuzione delle nascite, quindi vi sono prospettive scarne, preoccupanti e gravide di incognite rispetto ai processi e al mantenimento dei livelli di sviluppo che dobbiamo garantire e assicurare al nostro Paese. Ma noi non Pag. 39vogliamo gli immigrati in termini di sostituzione. Abbiamo detto più volte - anche con la proposta dell'onorevole Mantini, che ho sottoscritto, e con le proposte degli onorevoli Sarubbi e Granata - che ci sono problemi che non possono essere sottaciuti. In Italia, c'è la presenza di cittadini, di persone e di minori, che non possono essere mantenuti in una fase squilibrata, come se ci fosse l'apartheid.
Ho sentito con molta attenzione gli interventi in Commissione dell'onorevole Pecorella, che diceva con molta chiarezza che lo disturbava il fatto di pensare che i minori, che vanno a scuola e giocano con i loro coetanei, possano essere considerati diversi da quelli con i quali hanno contatti e rapporti.
C'è un parere della Commissione cultura; perché, poi, la Commissione di merito non ne abbia tenuto in alcun conto, lo posso ben capire, ma si apre certamente un discorso all'interno della maggioranza. Non è un problema della minoranza o di programma di Governo, ma è un problema che si pone all'interno della maggioranza rispetto a scelte e opzioni forti.
Come si vede, dobbiamo pur fare una ricognizione e una ricerca molto forti all'interno del Parlamento, ma non soltanto all'interno di esso, con un confronto e con un collegamento continuo con il territorio rispetto ai percorsi da intraprendere proprio sul piano della cultura e dell'identità culturale, certamente non ampliando, non facilitando e non espandendo lo ius soli a cui faceva riferimento l'onorevole Cota, ma creando le condizioni e la presa d'atto di situazioni che già esistono e si verificano soprattutto per quanto riguarda i minori.
Nel testo della relatrice, per alcuni versi espressione dello sforzo a cui facevo poc'anzi riferimento, ovviamente l'aspetto dei minori viene lasciato in ombra, ma si è capito il motivo e quali sono le sollecitazioni e le controspinte.
Sul problema della cittadinanza questo nostro Paese combatte una sua battaglia di identità. Lo ripeto: nemmeno le posizioni rigide e l'automatismo che veniva indicato e portato avanti possono soddisfare, perché non ci fanno raggiungere alcuna soluzione e alcun percorso.
Bisogna capire se la cittadinanza è strumentale o meno a scontri politici di altra natura oppure un tentativo serio e forte, come deve essere a nostro avviso, per dare una risposta, sul piano del riconoscimento della dignità umana, ad esigenze improcrastinabili.
Vediamo i tempi, i modi, certamente i percorsi (se siano giusti quelli indicati) per quanto riguarda la conoscenza della cultura e della lingua italiana, per quanto riguarda i minori; certamente, sono aspetti fondanti e importanti. Certamente - ed è un dato non deve essere disconosciuto - quando parliamo di riconoscimento, non si tratta di una concessione o di un'elargizione, perché in uno Stato di diritto non si può parlare di concessione o di elargizione, ma si tratta, soprattutto, del modo di essere e di costruire anche questo nostro Paese.
Sono momenti importanti e non vorrei che, come diceva anche l'onorevole Casini poco prima, chiudessimo questo 2009 con l'appuntamento al prossimo anno, per poi perdere di vista questo provvedimento.
Non vi è stato alcun provvedimento dell'opposizione, tranne qualcuno, che sia stato approvato in questo Parlamento, alcun provvedimento! Credo che sia un dato fondamentale e certamente preoccupante per il funzionamento del Parlamento. Qualche indicazione che ci è venuta anche da questa parte ci fa capire che anche i problemi veri, che possono essere sentiti e avvertiti da parte dell'Aula, non sono tali da poter ottenere una cittadinanza normativa.
Ritengo che si prefiguri questo un dato, che si raccorda anche con i problemi di oggi. Non vi è mai un argomento scisso rispetto agli altri: tutti quanti si collegano rispetto a un dato culturale. Bisogna capire qual è la nostra sensibilità, la nostra cultura e, soprattutto, le nostre prospettive, e questo, signor Presidente, è un bell'interrogativo (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito Democratico e della deputata Sbai).

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Della Vedova. Ne ha facoltà.

BENEDETTO DELLA VEDOVA. Signor Presidente, credo che questa discussione sia importante e mi auguro che trovi i tempi necessari e che da nessuna parte se ne faccia un uso - assolutamente legittimo - di tipo elettoralistico. Lo dico anche rispetto a ciò che diceva prima il capogruppo Franceschini.
La questione della cittadinanza, a mio avviso, non riguarda gli stranieri, ma l'Italia.
Questa discussione la dobbiamo al nostro Paese: un Paese che oggi non funzionerebbe, probabilmente neppure starebbe in piedi dal punto di vista economico e sociale, senza l'apporto determinante e qualificato di milioni di non cittadini.
Sono stati fatti interventi pregevoli questa mattina con i dati, con l'analisi dell'immigrazione italiana per quel che è, e non per quel che sembra: penso alle parole dell'onorevole Casini. Gli immigrati in Italia crescono più, percentualmente, che altrove; gli immigrati servono, come ci ricorda l'ISTAT, a riequilibrare parzialmente un deficit demografico che si fa in prospettiva drammatico; gli immigrati italiani, sempre secondo i dati dell'ISTAT, sono di buona qualità, perché gli immigrati italiani hanno un tasso di attività superiore a quello degli immigrati di altri grandi Paesi, e un tasso di disoccupazione più basso degli immigrati di altri grandi Paesi. Gli immigrati italiani regolari sono in buona parte dovuti a scelte sagge e lungimiranti del centrodestra italiano, con le sue regolarizzazioni, lo ripeto, sagge e lungimiranti.
È una buona qualità quella degli immigrati italiani, e di questo dobbiamo tener conto, e questo è un dato che va valorizzato. Ritengo che in una società aperta e competitiva la cittadinanza non debba costituire una rendita, ma possa divenire un merito, non un fatto trasmesso anagraficamente ma un diritto conquistato, anche moralmente, attraverso il concorso fattivo alla vita ed alla prosperità del Paese. La cittadinanza si chiede, nessuno prevede in alcuna proposta di legge che venga data automaticamente, per capirci. Noi viviamo invece situazioni paradossali, una di esse emblematicamente evidenziata dal fatto che Mario Balotelli, nato in Italia da genitori non italiani, vissuto e cresciuto sempre entro i confini nazionali, a 17 anni giocava in prima squadra nell'Inter e non ha potuto andare alle Olimpiadi di Pechino, perché non poteva acquisire la cittadinanza italiana, mentre Amauri (e io sono juventino, e non interista) potrebbe giocare in Sudafrica, vestendo le insegne della nazionale italiana, perché ha sposato una signora il cui bisnonno era italiano, pur essendo lei nata di Brasile. Lo jus sanguinis va benissimo, ma questo paradosso non ci dice qualcosa su quanto ormai inattuali siano le leggi sulla cittadinanza?
Credo che, per arginare una deriva pericolosamente multiculturalista, quando non separatista (e penso ad alcuni fenomeni legati all'immigrazione islamica e non solo), sia necessario riconoscere agli stranieri la possibilità di far valere istanze ed interessi che nella normale dialettica civile, se non vogliamo le comunità separate, si fanno valere in un gioco di compensazioni attraverso la rappresentanza politica. E questo lo dico da liberale: no taxation without representation, è il principio cardine delle società, degli Stati, delle repubbliche liberali; e noi abbiamo anche questo paradosso, per cui vi sono cittadini svizzeri, brasiliani, australiani che eleggono rappresentanti che vengono qui con noi a decidere come si spendono le tasse degli italiani, ed abbiamo milioni di contribuenti italiani che pagano le tasse, che servono la nostra economia, e che non hanno nessuna titolarità in alcun modo per intervenire sulle decisioni che vengono prese. È un problema, questo, sì o no? Io ritengo che sia un problema. Voto, cittadinanza, discutiamone; ma l'interesse in gioco non è quello di una minoranza di immigrati che vogliono o pretendono: l'interesse in gioco è quello della Repubblica che amiamo, nei suoi fondamenti civili e costituzionali. Pag. 41
Non è credibile che per milioni di persone l'Italia rimanga semplicemente un posto di lavoro, anche quando la loro vita personale, familiare e sociale si svolge interamente in Italia. Non è credibile che bambini che sono nati e studiano in Italia, e a volte parlano solo l'italiano, non possano (perché, lo ripeto, sempre di richiesta da parte dei genitori stiamo parlando)...

PRESIDENTE. La invito a concludere.

BENEDETTO DELLA VEDOVA. Concludo, signor Presidente, non possano, dicevo, diventare cittadini italiani.
Sono consapevole come tutti che su questo tema il consenso più facile è quello che si ottiene cavalcando la paura e la diffidenza nei confronti dello straniero e nei confronti del diverso, perché è la mia diffidenza e, a maggior ragione, sarà la diffidenza di chi, a differenza di noi, vive a contatto con la parte più disperata e più dolente dell'immigrazione; ma credo che dobbiamo questa discussione seria non agli immigrati, ma al futuro della Repubblica italiana dove legge ed ordine non possono in prospettiva essere separati dai diritti e dalla possibilità di integrazione dei milioni e milioni di cittadini che vengono da altri Paesi a servire se stessi, il proprio desiderio di libertà nonché la prosperità di questo Paese.
Credo che su tale punto debba aprirsi una discussione oltre il testo che abbiamo oggi al nostro esame, non per guerre ideologiche ma per soluzioni che guardino al futuro (Applausi di deputati del gruppo Popolo della Libertà e di deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Evangelisti. Ne ha facoltà.

FABIO EVANGELISTI. Signor Presidente, la questione della revisione della disciplina in materia di cittadinanza - come abbiamo ascoltato e come era facile prevedere - ha assunto una rilevanza politica non soltanto nel confronto tra la maggioranza e l'opposizione ma anche all'interno della maggioranza stessa, se è vero - com'è vero - che la ormai ben nota e, a mio parere, condivisibile posizione del Presidente della Camera sullo ius soli, ovvero sul diritto di cittadinanza per chi nasce in Italia (lo specifico non per presunzione ma perché chi ci legge e magari ci segue da casa ha la necessità di avere espressioni e concetti sempre più chiari) ha determinato una evidente spaccatura all'interno della maggioranza.
Il Presidente Fini infatti - ripeto, a mio avviso con molto buonsenso - ha spiegato che i figli degli immigrati sono il futuro e che certamente è il momento di non opporre rigidità e chiusura al cambiamento, invitando la destra, ovvero la sua parte politica, a non essere pigra, a mettersi in discussione, a sfidare il futuro con coraggio a partire da immigrazione e cittadinanza.
È del tutto evidente che non intendo con ciò mettermi nei panni o fare l'esegeta del pensiero della terza carica dello Stato, ma è indubbio oggi che i migranti - anche se non formalmente esclusi dalla cittadinanza - sono in grave difficoltà e non riescono a vivere pienamente i loro propri diritti.
Non possiamo allora ignorare il problema con un atteggiamento di chiusura: «di questo non si parla, punto», è stata la risposta proveniente in qualche modo dalla stessa relatrice, ma soprattutto dal capogruppo della Lega, l'onorevole Cota: di questo non si parla perché abbiamo assunto un impegno con gli elettori per cui di questo non si parla.
In verità, gli impegni con gli elettori erano ben altri ed anche altri impegni sono stati del tutto disattesi, ma andiamo pure avanti. Si tratta - dicevo - di un problema di rilievo, tutt'altro che marginale, e invece ancora si sente dire nella sedicente Padania: «piuttosto se ne tornino a casa loro» (è una frase ed una affermazione che abbiamo sentito tutti attraverso le testimonianze e le interviste a giovani in un locale trasmesse recentemente da alcuni programmi di approfondimento e i cui contenuti non fanno certo onore né alla tolleranza né alla ragionevolezza). Pag. 42Mi scuso se sto disturbando qualche collega ma concludo presto il mio intervento.
Credo che su questo punto sia bene in assoluto avviare una riflessione con una discussione aperta e pacata che ci porti da qualche parte e non a rinchiuderci nelle rispettive posizioni di partito o di convenienza elettorale che sia.
Le questioni di cui da tempo si dibatte sono diverse: introduzione dello ius soli accanto allo ius sanguinis, dimezzamento dei tempi di concessione della cittadinanza da dieci a cinque anni, fare in modo che i minori che non sono nati nel nostro Paese ma che hanno compiuto un ciclo completo di studi possano accedere al termine della scuola alla cittadinanza, differenziare il trattamento dei coniugi di cittadini italiani che vivono in Italia rispetto a quelli che risiedono all'estero, soppressione della possibilità di avere la doppia cittadinanza come chiediamo noi dell'Italia dei Valori.
Insomma, ce ne è di materia da discutere e da decidere. Allora perché dobbiamo sempre guardare altri Paesi europei come ad esempio la Danimarca, la Svezia, la Finlandia o l'Olanda? Perché dobbiamo vedere che questi compiano quelle che sono considerate scelte coraggiose e lungimiranti quali l'estensione agli stranieri del diritto di voto in occasione delle elezioni locali o regionali? Perché ritenere che noi, come Paese, non siamo ancora pronti per un gesto tale? Perché si plaude sempre e soltanto alle scelte altrui?
Recenti dati ISTAT ci informano che i cittadini stranieri ormai residenti in Italia sono 3 milioni e 891 mila, ovvero il 6,5 per cento del totale dei residenti. Rispetto ad un anno prima, sono aumentati di 458 mila unità, più 13 per cento. Si tratta di un incremento ancora molto elevato, effettivamente, ma inferiore a quello dell'anno precedente che aveva un tasso del 16 per cento. Si tratta di una percentuale ormai prossima a quella di altri grandi Paesi europei come la Francia, il Regno Unito, la Germania; Paesi che, tuttavia, sono di ben più antica immigrazione. Tra i Paesi europei di immigrazione relativamente recente come l'Italia, si può segnalare il caso della Spagna dove al primo gennaio del 2008 gli stranieri rappresentavano quasi il 12 per cento di tutti i residenti, quindi, una quota molto più elevata di quella italiana, quasi il doppio. Occorre quindi ricordare che in Spagna, un Paese cattolico che presenta similitudini culturali, linguistiche, economiche e sociali, anche i cittadini extracomunitari, non in possesso del titolo equivalente al nostro permesso di soggiorno, possono, però, iscriversi al Padron municipal, l'equivalente della nostra anagrafe.
Tornando all'Italia, sul totale dei residenti di cittadinanza straniera, quasi 520 mila sono nati in Italia, 72 mila nel solo 2008. Gli stranieri nati nel nostro Paese sono un segmento di popolazione in costante crescita: nel 2001, in occasione del censimento, erano circa 160 mila. Ormai costituiscono il 13 per cento del totale degli stranieri residenti e, non essendo immigrati, rappresentano una cosiddetta seconda generazione, in quanto la cittadinanza straniera è dovuta unicamente al fatto di essere figli di genitori stranieri. Ad oggi, la maggior parte dell'acquisizione della cittadinanza italiana avviene tuttavia ancora e soltanto per matrimonio e, poiché i matrimoni misti si celebrano prevalentemente tra donne straniere e uomini italiani, tra i nuovi cittadini italiani sono più numerose le donne. Le concessioni della cittadinanza italiana per naturalizzazione, invece, sono ancora poco frequenti, specialmente se confrontate con il bacino degli stranieri potenzialmente in possesso del requisito principale per richiedere la cittadinanza ovvero la residenza continuativa per dieci anni. In base ai dati forniti dalla Caritas migrantes sui permessi di soggiorno, si apprende che si può stimare che siano circa 720 mila i cittadini extracomunitari che potrebbero essere in possesso di tale requisito.
Allora, onorevoli colleghi, di fronte a queste cifre, se non riusciremo a trovare una maniera diversa dal linguaggio abitualmente utilizzato, cui ho fatto un rapido cenno, per parlare dell'immigrazione, resteremmo, comunque, con le stesse note Pag. 43difficoltà nel gestire responsabilmente l'Italia che si va costruendo. Sarà sempre più evidente che la presenza di cittadini stranieri regolarmente soggiornanti è una risorsa e non soltanto un problema, e che i problemi vanno affrontati e la risorsa va governata. Non si può continuare a negare un diritto che è di tutti: il diritto di cittadinanza (Applausi dei deputati dei gruppi Italia dei Valori e Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Livia Turco. Ne ha facoltà.

LIVIA TURCO. Signor Presidente, mentre si svolge questa discussione, davanti al Parlamento ci sono molti ragazzi e ragazze. Alcuni di loro fanno parte di un movimento nuovo che si chiama G2 (le seconde generazioni). Si tratta dei figli degli immigrati che diventano protagonisti del proprio inserimento nella società italiana.
Credo che dovremo tenere molto conto di questo fatto nuovo. Per capire e valutare il senso della riforma che stiamo discutendo bisogna partire da loro, dai ragazzi e dalle ragazze della seconda generazione, che sono italiani di fatto, e molti di loro vorrebbero anche esserlo per nome e per legge. Sono 862 mila e 465 nel 2008 i minori stranieri residenti in Italia. Costituiscono il 22 per cento della popolazione immigrata. Nel 1991 erano 51 mila i minori stranieri iscritti all'anagrafe. Da 51 mila a 862 mila e 465: in queste due cifre è contenuto il profondo cambiamento che ha vissuto il nostro Paese e di cui noi in realtà non siamo ancora consapevoli. Nella dizione «minori stranieri» sono comprese figure giuridiche diverse: minori ricongiunti, adottati, rifugiati, minori non accompagnati, nati in Italia. Quest'ultimo è il gruppo in crescita. Nel 2006 sono nati 57 mila bambini da coppie straniere (il 10 per cento di tutti i nati in Italia); nel 2008 ne sono nati 72 mila e 472. Sono figli di famiglie integrate, che lavorano, diffuse in ogni parte del nostro Paese, concentrate maggiormente al centro-nord. Secondo la legge sulla cittadinanza attualmente in vigore, varata nel 1992, questi bambini e ragazzi (che crescono in Italia, vanno a scuola e giocano con i nostri figli, studiano sui nostri libri, guardano la nostra televisione, giocano nelle nostre squadre di calcio) restano stranieri fino ai 18 anni e possono presentare domanda di cittadinanza dopo aver vissuto in modo legale e ininterrotto sul suolo in Italia per 18 anni. In compenso, hanno solo un anno di tempo per presentare la domanda di cittadinanza. In nessun Paese europeo - dico in nessun Paese europeo - c'è una norma così ostile alla naturalizzazione dei minori immigrati, e credo che sarebbe stato importante sentire in questo dibattito un maggiore richiamo all'Europa e un maggiore confronto in Europa, se mi è consentito, con un po' più di rigore di quanto abbiamo sentito da parte dell'onorevole Santelli.
La legge italiana del 1992, che sul punto dei minori inasprisce la stessa legge del 1912, continua a pensare l'Italia come un Paese di emigranti, e riafferma il vincolo di sangue e la discendenza come base della nazione. Ma l'Italia stava già cambiando allora, cominciava già a diventare un Paese di immigrati (il legislatore non se ne accorse). Favorire l'acquisizione della cittadinanza italiana per i bambini e i ragazzi che nascono in Italia significa prevenire conflitti e favorire l'integrazione e la coesione sociale. Per questo noi consideriamo essenziale per il minore che nasce in Italia da genitori stranieri, che sono da molto tempo residenti nel nostro Paese, acquisire la cittadinanza al momento della nascita, e per quelli che in Italia entrano entro il quinto anno, e dopo aver concluso la scuola primaria, poterla acquisire (scelta che ricade sulla responsabilità dei genitori e che il giovane dovrà confermare al suo diciottesimo anno). La possibilità di essere chiamati italiani - lo ripeto - e di essere riconosciuti tali dalla legge favorisce la formazione e l'integrazione dei giovani, anche quelli di religione islamica. Anzi, vorrei dire che quando si parla di integrazione dell'Islam forse bisognerebbe partire da qui, da questi bambini, da questi adolescenti, da questi giovani Pag. 44e ragazzi. Certo, tale possibilità deve essere prevista all'interno di un'offerta formativa e di una reale promozione dell'integrazione attraverso la scuola, la famiglia, il gruppo dei pari. Favorire la naturalizzazione dei minori e dei cittadini a lungo residenti è coerente con una visione dell'Italia e del suo modo di essere nazione: un'Italia che guarda al futuro e si misura con i cambiamenti intervenuti, un'Italia che è consapevole di dover innovare il suo modo di essere nazione, perché i suoi valori costituzionali, per essere fedeli a se stessi, devono nutrirsi della cultura e dell'esperienza dei nuovi italiani. Non è questa una velleità, non è neanche un radicalismo di sinistra, non è l'eterno dilemma sull'integrabilità dell'Islam, è al contrario una potente corrente europea che ha trovato un suo importante suggello nel Trattato di Maastricht, quando appunto si è affermato che la cittadinanza è la condivisione di un sistema di regole e di valori.
Crediamo dunque che sia importante dare oggi ai ragazzi stranieri che crescono in Italia un messaggio di impegno e di speranza, se vogliamo che siano integrati: diventare nuovi cittadini significa anche scegliere di farsi coinvolgere nei riti, nei miti e nei sentimenti del Paese ospitante, oltre ad imparare a conoscerlo ed a rispettarne le regole. Essere coinvolti nei miti, nei riti e nei sentimenti del Paese ospitante non per dimenticare se stessi, ma per arricchirsi e per costruire insieme, italiani e nuovi italiani, una nuova tappa di sviluppo e di crescita umana della nostra società.
Per questo noi pensiamo che il punto della naturalizzazione dei minori sia altamente qualificante in una legge sulla cittadinanza. Pensiamo, speriamo ed auspichiamo che su questo si possa trovare una convergenza, altrimenti ci chiediamo che senso ha riformare una legge sulla cittadinanza, anzi che senso ha addirittura inasprirla, come purtroppo ci ha proposto il testo della relatrice (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Rao. Ne ha facoltà.

ROBERTO RAO. Signor Presidente, inizierei proprio con un apprezzamento che già da più parti del mio partito è stato rivolto alla relatrice, un apprezzamento non formale per il suo lavoro non semplice e spiego il perché: perché oggi qui siamo chiamati tutti, maggioranza ed opposizione, a dare una prova delle capacità e del ruolo del Parlamento, la capacità di trovare una mediazione anche a maggioranza, se necessario, ma che tenga conto delle esigenze dei partiti, che in quest'Aula rappresentano tutti gli italiani.
Il Parlamento è chiamato, sul provvedimento in esame in maniera particolare, a battere un colpo, a trovare una sintesi. Infatti su questo tema, prima ancora e insieme alle altre riforme, tanto evocate in questi giorni e recentemente e più autorevolmente anche del Presidente della Repubblica, si potrà verificare - vedremo se ciò si potrà fare - un'intesa attraverso un dibattito ampio, fuori dalla tentazione della propaganda delle parti, con amore se possibile della verità, dei dati reali, alcuni dei quali riporterò anch'io e molti dei quali sono stati già riportati in quest'Aula, però senza nasconderne altri, senza citare solo quello che ci fa comodo. Infatti questo problema, che è anche un'opportunità, deve essere valutato nel suo insieme.
Non dobbiamo dare alibi a chi cerca, davanti ai riflettori di questo dibattito, la conflittualità. Cerchiamo di ritrovare quei toni pacati e costruttivi che abbiamo ascoltato nel dibattito che si è svolto in Commissione. Oggi la discussione è apparentemente e forse anche praticamente poco partecipata, speriamo non sia anche distratta, perché sarebbe interesse di molti - e i colleghi della Lega purtroppo lo hanno detto esplicitamente - rinviare sine die il provvedimento in esame, perché non è urgente, non è necessario, peggio ancora non è previsto nel programma di Governo.
Ma allora un Governo serio e riformatore quale si propone di essere questo, che ha inserito tante novità rispetto al suo programma di promesse elettorali (una Pag. 45per tutte lo scudo fiscale per reperire risorse sì preziose, ma anche per premiare gli evasori fiscali), dovrebbe restare ingessato per cinque anni? Restare fermo al programma che ha fatto, scritto e sottoscritto con gli elettori due anni fa? Il provvedimento in esame per noi è necessario, di più: è utile al Governo, che ora non c'è, è utile alla maggioranza, è utile all'opposizione.
Anche la distrazione e l'assenza del Governo oggi è una questione grave, signor Presidente, perché il tema, lo sappiamo, è stato evocato anche dal Presidente della Camera, ma io non mi nascondo dietro le parole del Presidente della Camera e capisco: un solo rappresentante del Governo alla vigilia di Natale probabilmente è anche chiedere molto a quest'Aula, come se il tema non fosse importante, non fosse sentito, non fosse realmente frutto...

NITTO FRANCESCO PALMA, Sottosegretario di Stato per l'interno. Sono qui onorevole e la stavo ascoltando molto attentamente.

ROBERTO RAO. La ringrazio molto signor sottosegretario e mi scuso della digressione.
Il Governo dovrebbe dimostrare su questo tema non pavidità, ma coraggio, quel coraggio che su tante altre materie ha dimostrato. Riteniamo che sia un provvedimento utile al Paese, nell'ottica di uno sviluppo sociale e, ancora di più, economico (in seguito, spiegherò anche il perché).
Su questo tema, gli schieramenti saranno, indubbiamente, trasversali, lo abbiamo visto. Pertanto, è inutile farsi male anche all'interno della maggioranza e dell'opposizione. Cerchiamo un percorso comune, che dia voce anche a quei sentimenti e a quelle persone libere, serie e responsabili, che daranno un contributo al dibattito che si sta svolgendo. Su questo tema non servono falangi, serve ragionevolezza.
Il testo della relatrice - come dicevo - a nostro giudizio, va migliorato, va cambiato, in certi punti, anche profondamente, ma dobbiamo partire da qui. Noi vogliamo partire da qui, da questo testo, e aprirci, però, all'ascolto: non dare alibi a chi vuole far saltare tutto irresponsabilmente. Non affrontare questo problema, ora, oggi, significa, infatti, rendere più drammatici i suoi effetti; significherà, più tardi, intervenire sulle paure, sull'onda dell'emozione che, spesso, viene cavalcata dagli organi di informazione (e di cui, spesso, ci lamentiamo); significherebbe intervenire tardivamente sulle emergenze, sulla disorganizzazione e sulla confusione.
Il fenomeno di cui stiamo parlando, invece, va regolato e, prima ancora, compreso. Per questo, è bene conoscere alcuni dati. Tanti ne sono stati elencati questa mattina, e mi permetto di aggiungerne alcuni. I numeri assoluti dell'immigrazione riguardanti il nostro Paese confermano questo stato di cose.
I cittadini stranieri residenti in Italia al 1o gennaio 2009 sono quasi quattro milioni, pari al 6,5 per cento del totale dei residenti. Si tratta di un aumento del 13 per cento rispetto all'anno precedente, ma siamo ancora lontani dal 13 per cento complessivo degli Stati Uniti, dal 20 per cento del Canada, dal 13,5 per cento della Germania, perché il nostro è un fenomeno più recente.
Lo studio della Caritas Migrantes dell'ottobre scorso ha dimostrato come gli immigrati producano, ormai, quasi il 10 per cento del PIL italiano. Più di 200 mila sono imprenditori - piccoli imprenditori, evidentemente - ma dalla loro busta paga, ogni anno, lo Stato preleva 5 miliardi e 600 milioni di euro.
Pensare ad un'Italia senza immigrati, ad un Paese nel quale solo dopo pochi anni questi cittadini dovessero andarsene - e con queste motivazioni proprie, purtroppo, soprattutto, dei colleghi della Lega - negare loro il diritto ad acquisire la cittadinanza in un numero di anni inferiore rispetto agli attuali, è una follia culturale - lo ripeto - anche e, soprattutto, sotto il profilo economico.
Come ha ben dimostrato la Banca d'Italia con un recente studio, gli immigrati non rubano il lavoro agli italiani, anzi, Pag. 46contribuiscono al benessere sociale e all'equilibrio dei conti previdenziali e alla sostenibilità del sistema pensionistico e fiscale.
Sul totale dei residenti di cittadinanza straniera, quasi 520 mila sono nati in Italia, 72 mila nel solo anno 2008. Gli stranieri nati nel nostro Paese rappresentano un segmento di popolazione in costante crescita. Nel 2001, in occasione del censimento, erano circa 160 mila: essi costituiscono il 13,3 per cento degli stranieri residenti.
Non essendo immigrati, rappresentano quella famosa seconda generazione, di cui abbiamo parlato anche questa mattina in Aula, che qualcuno di noi, magari, conosce soltanto dai giornali, ma con cui i nostri figli condividono lo studio e il gioco tutti i giorni.
Oggi, la cittadinanza straniera è dovuta unicamente al fatto di essere figli di genitori stranieri. I minorenni stranieri in Italia sono circa 862 mila, la maggior parte di essi è nata in Italia, mentre la restante parte è giunta nel nostro Paese insieme ai propri genitori.
Da tempo, l'Unione di Centro - come testimoniano gli atti parlamentari, le nostre proposte di legge, i nostri interventi in Aula e come testimoniano le stesse parole del Presidente Casini, quando era Presidente della Camera due legislature fa - considera l'opportunità di intervenire legislativamente per adeguare la legge vigente ai cambiamenti economici e sociali derivanti dalla convivenza tra cittadini e persone immigrate di breve e lungo periodo. Una situazione, questa, che implica un'attenta riflessione sul concetto di cittadinanza e sul significato stesso di identità nazionale.
Ribadisco l'apprezzamento per lo sforzo compiuto dal relatore in Commissione per realizzare una sintesi delle diverse proposte di legge presentate, ma restano questioni irrisolte.
Sugli anni necessari per chiedere la cittadinanza e sul contesto entro il quale si deve favorire l'appartenenza per sangue o per territorio ad una determinata identità nazionale non è stato fino ad ora adeguatamente approfondito l'aspetto concernente il rapporto tra regole della cittadinanza, identità nazionale e nuova epoca della cosiddetta globalizzazione.
Come ha ricordato poco fa il presidente Casini, di fronte a questo fenomeno straordinariamente nuovo si possono assumere due atteggiamenti: uno di chiusura egoistica, basata sulla consanguineità, appunto il criterio dello ius sanguinis, oppure quello della presa d'atto della globalizzazione e la ricerca di un nuovo equilibrio tra identità nazionale e globalizzazione medesima.
Per quel che concerne l'Italia, secondo noi dell'Unione di Centro, è arrivato il momento di andare oltre potenziando lo ius soli che permette più facilmente l'acquisizione della cittadinanza a coloro che nascono nel territorio dello Stato, indipendentemente da quella dei genitori.
Dall'altra parte, è l'intero orizzonte culturale e politico a suggerire una radicale capacità di adeguamento degli istituti, anche giuridici, della vecchia statualità nazionale alle nuove sollecitazioni della nostra epoca.
Occorre però - e condivido in questo i richiami che sono venuti da molte parti della maggioranza, che in questa prima parte del dibattito si è dimostrata una maggioranza molto costruttiva, almeno per quanto riguarda il Popolo della Libertà e gli interventi degli esponenti del Popolo della Libertà, che sono le nostre stesse considerazioni - partire dal concetto che la cittadinanza non è e non deve mai essere di per sé un fattore di integrazione, bensì deve rappresentare il punto di arrivo di un percorso di integrazione anche culturale caratterizzato dall'atto della volontà del singolo di adesione alla nostra comunità nazionale. Nessun automatismo, chiediamo quindi, ma una scelta precisa, sentita, responsabile e non di mera opportunità, ma di condivisione, condivisione di valori, di una storia e di una comunità.
La cittadinanza non è soltanto il riconoscimento di una lista di diritti e questo lo sosteniamo tutti, maggioranza e opposizione, ma rappresenta qualcosa di più Pag. 47strettamente connesso con i principi fondamentali e con i valori fondanti della nostra nazione.
Il nostro ordinamento, anche grazie alle regole del diritto internazionale e dell'Unione europea, garantisce oggi a tutte le persone residenti nel suo territorio, a prescindere dalla cittadinanza, i diritti umani fondamentali, diversi strumenti di protezione sociale - che per i minori comprendono anche il diritto all'educazione scolastica, senza discriminazioni - nonché il pieno godimento dei diritti sociali a tutti coloro che in maniera regolare e con un reddito sufficiente lavorano in Italia, direi anche che lavorano per l'Italia.

PRESIDENTE. La prego di concludere, onorevole Rao.

ROBERTO RAO. Mi avvio a concludere, signor Presidente. Per queste ragioni, non è la cittadinanza l'unica garanzia di tutela giuridica. In tale visione ecco perché lo Stato, nel concedere e nel riconoscere uno status che comporta la piena partecipazione alla vita pubblica, compresi i diritti politici, debba pretendere che sia stato effettuato un certo percorso culturale e a determinate condizioni.
Si profila, pertanto, necessaria, come giustamente evidenziato nella relazione alla proposta di legge a firma degli onorevoli Granata e Sarubbi, una svolta nella concezione del meccanismo di attribuzione, passando da un'ottica concessoria e quantitativa - riteniamo infatti ragionevole un periodo di sei anni, a fronte dei dieci previsti dal testo unificato nell'ipotesi della concessione per decreto del Presidente della Repubblica - ad un'ottica attiva e qualitativa.
Signor Presidente, concludo. Siamo fiduciosi che quest'Aula saprà approvare, con un supplemento di approfondimento e dopo aver isolato la propaganda e l'estremismo che si sono affacciati anche questa mattina nella discussione sulle linee generali, norme degne del grado di civiltà del nostro popolo e della nostra storia (Applausi dei deputati dei gruppi Unione di Centro e Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Granata. Ne ha facoltà.

BENEDETTO FABIO GRANATA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, l'Italia si è trasformata, in un arco di tempo relativamente breve, da nazione con una storia antica e complessa di emigrazione, una storia di cui tutti noi andiamo orgogliosi, a meta di un imponente fenomeno di immigrazione proveniente sia dai Paesi dell'area geopolitica mediterranea, sia dal dissolto impero dell'est.
Questo fenomeno inizia ad assumere una dimensione rilevante, sia da un punto di vista sociale, sia da un punto di vista economico e culturale, ma la mia impressione è che venga affrontato dalla società civile italiana, ma anche dalle forze politiche, con analisi spesso limitate, alla luce del fatto che, trattandosi di questioni radicalmente inedite, le tradizionali categorie politiche nate nel novecento non sono in grado né di comprenderle fino in fondo, né, tanto meno, di fornire spunti significativi per poterle governare.
In una parola, l'Italia sta progressivamente cambiando volto anche perché lo stesso fenomeno migratorio ha iniziato ad assumere adesso un profilo strutturale e stabile. Si è infatti passati da una dinamica legata soprattutto alla nostra posizione geografica di ponte sul Mediterraneo, sul quale molti colleghi ovviamente si sono già soffermati, da nazione attraversata da persone dirette perlopiù verso il centro Europa, ad un'Italia divenuta adesso meta finale ambita del processo migratorio.
Basterebbe citare, per rendere esplicita questa rapidissima analisi, che nel 2007 a fronte di 480 mila presenti solo 20 mila persone si sono cancellate dagli uffici anagrafici degli stranieri. Ma ben altri indici testimoniano ancora meglio il fenomeno. Sempre nel 2007 i nati di cittadinanza non italiana sono stati più di 64 mila, circa l'11,5 per cento del totale dei bambini nati in Italia e sappiamo che questo dato è aumentato esponenzialmente in questi anni. Questo dato rappresenta, comunque, un incremento del 90 Pag. 48per cento rispetto alla situazione di soli sei anni fa.
Importanti e rilevanti sono anche le cifre che riguardano il mondo del lavoro. Potremmo parlare del 10 per cento - e forse più - di stranieri occupati sul totale degli occupati, della progressiva incidenza sul lavoro autonomo e sulla libera intrapresa, pensando che oggi sono quasi duecentomila i titolari di impresa e che quasi 150 mila sono i mutui accesi da stranieri per acquistare casa.
Da parte mia - e sottolineo che non fa parte della mia formazione politica e culturale - questi dati non vogliono essere trasmessi al Parlamento e al dibattito importante che questa mattina si tiene, grazie anche al lavoro proficuo della Commissione e al confronto che, comunque, si è avviato su basi di grande e approfondita capacità di discussione (è questo che ci chiede la nostra funzione di parlamentare). Non si tratta solo di un'elencazione ragionieristica, ma di un punto di partenza di un ragionamento politico sulla nuova cittadinanza. Infatti, i numeri dimostrano come la popolazione straniera tenda sempre più a scegliere l'Italia come Paese di adozione.
Molte analisi economiche hanno rilevato l'importanza per il PIL nazionale di questo apporto straniero. Tuttavia, al di là di queste valutazioni economiche che - lo ripeto - comunque iniziano a farci percepire finalmente l'immigrazione regolare come una grande opportunità, si apre la scommessa politica del Governo di questo scenario inedito che possa, da una parte, determinare e garantire una gestione rigorosa degli arrivi ma, dall'altra, far emergere una capacità, come dimostreremo anche storicamente tutta italiana, di lungimiranti politiche di integrazione sociale, civile e culturale. Infatti, le statistiche collocano l'Italia tra i primi Paesi di immigrazione dell'Unione europea, con i suoi 4 milioni e mezzo di stranieri di cui si è parlato. Sappiamo che su questi numeri vi sono altre grandi potenze europee - parlo della Francia, della Germania, della Spagna - ma ben altro è il livello percentuale di concessione della cittadinanza rispetto al numero degli stranieri regolarmente residenti in Italia. Questo è un po' il nodo del ragionamento politico che facciamo per cercare di superare, innovando, la legge del 1992.
Nonostante l'aumento importante e progressivo della nuova cittadinanza, la situazione nazionale è quindi lontanissima da quella relativa al quadro europeo, che abbiamo prima citato. Vi sarebbe, dunque, un fenomeno tutto italiano dove la cittadinanza per residenza sia il frutto di una volontà politica di adesione ai valori della nazione italiana - ma finora non è stato così - e ai processi di integrazione culturale. Le motivazioni di questo fenomeno sono politiche e culturali e questo è anche il senso di questa giornata di dibattito e del percorso che stiamo facendo. Auspico che sia un percorso non condizionato da fattori esterni, che possono portare a posizioni più tattiche che strategiche, rispetto agli aspetti importantissimi che siamo qui chiamati a discutere.
Da questo punto di vista, va rilevato come la cittadinanza in Italia sia regolamentata dalla norma del 1992, concepita dal legislatore in un momento storico del tutto diverso da quello attuale, che individua un percorso meramente quantitativo e burocratico in un arco di tempo molto lungo - dieci anni - che poi in realtà, come sappiamo tutti, salgono a 13, a 15 o a 18 anni. È positiva, quindi, l'introduzione di questo limite certo, seppure sia stata discussa da parte nostra un'altra impostazione rispetto al quantum e, quindi, al tempo per concedere la cittadinanza.
Tuttavia, già il fatto che si siano fissati due principi - la certezza del termine di dieci anni e il passaggio a una concezione qualitativa e attiva di cittadinanza - riteniamo che sia un primo passaggio importante di questo proficuo dibattito in Commissione e adesso in Aula.
Si tratta di un percorso fino ad oggi dettato dalla legge del 1992 che impedisce, di fatto, che l'acquisizione a pieno titolo dei diritti civili e politici legati alla cittadinanza Pag. 49diventi un obiettivo che lo straniero, legalmente residente in Italia, reputi davvero perseguibile.
Ma la caratteristica più grave e politicamente molto discutibile è rappresentata dalla natura concessoria (di cui abbiamo parlato), che esclude qualsiasi volontà politica di partecipazione piena a quello che io definisco il perimetro pubblico della vita nazionale, anche attraverso la conoscenza della lingua italiana e della storia antica e nobilissima della nostra nazione; elementi anche questi già introdotti rispetto alla nostra discussione della proposta della Commissione da noi condivisa e ovviamente da noi anche proposta.
Si tratta di un giuramento non burocratico e formale, ma sostanziale e solenne sulla nostra Costituzione. È fuori discussione, quindi, che anche da un punto di vista normativo bisogna produrre un cambiamento radicale che abbia riguardo non solo ad una svolta paradigmatica della concezione stessa del meccanismo di attribuzione della cittadinanza in Italia, ma che passi, come abbiamo detto, da un'ottica concessoria e quantitativa ad un'ottica attiva e qualitativa.
Infine, è fondamentale e in linea con le più antiche e nobili tradizioni classiche dell'Italia e dell'Occidente avere a cuore il destino di numerosissimi bambini nati in Italia da genitori non italiani. Dicevamo che i giovani di seconda generazione sono oltre 800 mila e non possono essere lasciati, a nostro avviso, in una pericolosa terra di mezzo, in una sostanziale condizione di apolidi dove il loro percorso di crescita sia caratterizzato - e concludo - da un senso di estraniazione e sradicamento dal loro contesto sociale e scolastico, fenomeno pericoloso non solo per il futuro processo di integrazione e di inserimento.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

BENEDETTO FABIO GRANATA. Per questo motivo è un elemento di civiltà passare - veramente concludo - dallo ius sanguinis al principio dello jus soli temperato e condizionato dalla stabilità della famiglia in Italia o dalla partecipazione del bambino al percorso scolastico e formativo. Signor Presidente, la politica deve costruire percorsi e riforme - in una parola - all'altezza di un'Italia dell'accoglienza, dotata di un'identità dinamica che ha nelle sue più nobili origini la cifra politica e culturale della contaminazione di segni, simboli, storie, uomini dai quali è nato ed è stato possibile il Rinascimento. Non dall'etnia, né dalla chiusura tribale, è stato reso possibile il Rinascimento italiano. Una certa idea della politica deve riuscire a cogliere le opportunità dentro un problema, a parlare ai nuovi cittadini che amano l'Italia e agli italiani che non la amano più - questa è un'altra vasta questione - e rilanciare...

PRESIDENTE. Deve concludere.

BENEDETTO FABIO GRANATA... così un progetto nazionale nel quale può rinascere la riaffermazione e la ricostruzione di un immaginario simbolico e culturale del modello italiano (Applausi di deputati del gruppo Popolo della Libertà e di deputati dei gruppi Partito Democratico e Unione di Centro).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Garavini. Ne ha facoltà.

LAURA GARAVINI. Signor Presidente, negli ultimi decenni il fenomeno dell'immigrazione è aumentato ed è anche profondamente cambiato. Il mutamento demografico che ne è seguito può essere governato o con la paura, o con il realismo. I grandi Paesi europei hanno scelto il realismo: hanno capito che il cambiamento non può essere negato, ma va gestito.
L'Italia del Governo Berlusconi, invece, vuole andare in tutt'altra direzione. Con il provvedimento in esame una parte della maggioranza dimostra di voler governare la nuova realtà con la paura, rifiutando l'idea che possano esserci nuovi italiani. Dimentica, però, che gli emigranti ci sono ed oggi fanno parte della realtà di tutti i Paesi europei. Pag. 50
La questione, dunque, è come affrontare questo fenomeno. La questione tocca anche l'argomento della cittadinanza, con una semplice alternativa: o nego la realtà e cerco di isolare i migranti e i loro figli ai margini della società, con tutti i pericoli che una ghettizzazione comporta, oppure accetto la realtà e do ai migranti e ai loro figli l'opportunità di mettere i loro talenti al servizio del nostro Paese e di diventare cittadini con i diritti e con i doveri che questo comporta.
Per me questo è un discorso familiare perché, da italiana all'estero, per anni ho vissuto sulla mia pelle queste alternative proprio viste dalla prospettiva di immigrata. Noi italiani all'estero ci siamo battuti per essere accettati nei nostri Paesi di residenza come cittadini normali, ci siamo battuti affinché i nostri figli abbiano pieni diritti nei Paesi in cui sono nati, cittadinanza inclusa.
Ciò che era ed è giusto per i migranti italiani all'estero è giusto anche per gli stranieri in Italia. È significativo che, mentre il Paese più potente del mondo un anno fa ha eletto come Presidente proprio il figlio di un immigrato, da noi una parte della maggioranza abbia difficoltà a trattare come italiani i figli che nascono in Italia, crescono con la lingua e la cultura italiana e frequentano scuole italiane.
Ma è inutile farsi illusioni: questi figli non è che spariscano. Negare il fenomeno non porta a nulla, semmai dobbiamo gestirlo nel migliore dei modi. Emarginare con la forza milioni di persone che fanno parte della nostra società è una scelta che non può che essere sbagliata. Ecco perché i nostri grandi partner in Europa mettono in atto una politica diversa.
Il testo unificato delle proposte di legge che oggi discutiamo sembra invece frutto del passato, sembra scritto per tempi che non ci sono più e rappresenta addirittura un arretramento rispetto alla legge del 1992. Uno degli aspetti più deplorevoli è che ignora i diritti di quegli 862 mila bambini stranieri nati in Italia, che sarebbero, quindi, condannati a rimanere «precari dei diritti», quando invece il diritto di acquisizione della cittadinanza per nascita, il cosiddetto ius soli, è ormai una prassi consolidata in tutti i Paesi di maggiore immigrazione (Germania, Francia, Inghilterra).
Infatti, è ormai provato che proprio la concessione della cittadinanza e, dunque, l'estensione dei diritti e, dunque, sottolineiamolo nuovamente, anche dei doveri, è la prima premessa per una integrazione vera, per una partecipazione attiva e costruttiva e per evitare ghettizzazioni che rappresentano poi quell'humus ideale per deviazioni e violenze.

PRESIDENTE. Onorevole Garavini, la prego di concludere.

LAURA GARAVINI. Ma questo provvedimento presenta ulteriori limiti. Ignora completamente i diritti dei tanti cittadini italiani residenti nel mondo che per trovare un lavoro hanno dovuto rinunciare alla cittadinanza a causa di norme locali che vietavano la doppia cittadinanza. Questi ci chiedono di riaprire i termini per l'ottenimento. Lo stesso vale anche per i figli di madri italiane nati all'estero prima dell'entrata in vigore della Costituzione, ai quali non è stata concessa la cittadinanza italiana dal momento che la donna nel vecchio ordinamento non era considerata soggetto in grado di trasmetterla.

PRESIDENTE. Onorevole Garavini, deve concludere.

LAURA GARAVINI. Dunque, mi associo anch'io alla richiesta del nostro capogruppo affinché dimostriamo con questa legge la volontà e la capacità di realizzare riforme condivise (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Pastore. Ne ha facoltà.

MARIA PIERA PASTORE. Signor Presidente, il tema dell'acquisto della cittadinanza è stato oggetto di diverse proposte di legge sulle quali i componenti della I Commissione (Affari costituzionali) hanno discusso e si sono confrontati per un anno. Pag. 51Si è, infine, pervenuti ad un testo base che, modificando la legge n. 91 del 1992, prevede per lo straniero, residente legalmente e stabilmente da dieci anni nel territorio della Repubblica, un percorso di cittadinanza.
Si tratta di un provvedimento in base al quale la concessione della cittadinanza è subordinata a determinati requisiti, tra i quali il possesso di un regolare permesso di soggiorno, la frequenza di un corso finalizzato alla conoscenza della storia e della cultura italiana ed europea, il rispetto degli obblighi fiscali, e così via. Detto questo, credo che sia indispensabile mantenere, così come previsto dalla legge n. 91 del 1992, il carattere discrezionale della concessione della cittadinanza. Di conseguenza, non è possibile configurarla come un diritto soggettivo del richiedente. A tale proposito, il Consiglio di Stato nelle proprie pronunce ha sottolineato più volte la necessità di verificare alcuni elementi a partire dalla serietà dell'intento, dalla conoscenza della lingua italiana, dall'assolvimento degli obblighi contributivi.
L'acquisto della cittadinanza italiana non è un diritto, né può essere l'inizio di un percorso di integrazione. Deve nascere dal libero convincimento e, quindi, da una richiesta specifica ed espressa. Deve nascere dal senso di appartenenza ad un Paese di cui si riconoscono i valori e i principi. Ha poco a che fare con la democrazia e l'uguaglianza, dato che i non cittadini nel nostro Paese non sono affatto discriminati. Se un individuo vuole diventare cittadino italiano, deve essere consapevole che esistono delle regole da rispettare e i criteri ai quali la proposta di legge della relatrice subordina l'acquisto della cittadinanza sono le fondamenta di una civile convivenza.
La cittadinanza non è un diritto, ma implica una serie di doveri che debbono essere precisati. Quindi, pare ovvio che si debbano pagare le tasse e rispettare gli obblighi fiscali. Appare ovvio che chi vuole diventare cittadino conosca la nostra lingua. Meno ovvio, ma assolutamente irrinunciabile, è la convinzione che le pari opportunità non siano solo belle parole, ma principi che vanno applicati, così come la pari dignità tra uomo e donna.
Sappiamo che in alcune culture non è così scontato che la donna abbia gli stessi diritti degli uomini. Sappiamo che esistono condizioni di sottomissione, che ci sono situazioni nelle quali le donne non possono frequentare le scuole. Sappiamo che esistono la poligamia e l'infibulazione.
Non possiamo accettare che la cittadinanza non sia che la fine di un percorso diretto anche ad «educare», tra virgolette, alla pari dignità, ad affermare che nel nostro Paese ci sono leggi diverse da quelle del Paese di provenienza, leggi che devono essere rispettate. Non si può pensare che la cittadinanza sia una mera formalità, un pezzo di carta o il modo per acquisire il diritto di voto, perché in realtà questa è l'unica differenza. Tra l'altro, proprio in sede di discussione in Commissione, è emerso come si voglia ottenere con alcune proposte di legge un'integrazione politica, di partecipazione politica.
Si è discusso anche di ridurre i termini, di abbreviarli, o di introdurre nuove figure quale l'attribuzione della cittadinanza o di concederla ai bambini che hanno seguito un limitato percorso scolastico o di applicare il principio dello jus soli. Ma in questo modo rischiamo di svilire un principio importante contenuto nella nostra Costituzione, di sminuirlo in base ad un concetto buonista secondo il quale occorre prima concedere la cittadinanza e poi integrare, scegliendo di essere buoni invece di essere seri. Si è detto che i bambini che crescono in Italia, che frequentano la scuola, che vivono e giocano con i nostri bambini, si sentono diversi perché non sono cittadini. Ma mi chiedo se ne siamo così sicuri: non partecipano forse alla vita sociale, non usufruiscono di tutti i servizi? Tra l'altro non credo che un bambino possa essere consapevole di cosa significhi essere cittadino, per un bambino di dieci anni probabilmente è indifferente.
Il provvedimento in esame del resto prevede che lo straniero nato in Italia, che vi risieda ininterrottamente fino alla maggiore età e che abbia frequentato con Pag. 52profitto la scuola dell'obbligo, diventa cittadino se dichiara, entro un anno dal raggiungimento della maggiore età, di voler acquisire la cittadinanza italiana. Il ragazzo straniero deve essere libero di poter scegliere e del resto anche per gli italiani l'esercizio di alcuni diritti è subordinato al raggiungimento di una certa età. Inoltre, perché dare per scontato che gli stranieri vogliano diventare cittadini, soprattutto se sono legati alla propria terra di origine o se sono così giovani da non comprenderne le conseguenze?
Vorrei fare un'altra considerazione: questo Parlamento è espressione della volontà popolare e la funzione del legislatore dovrebbe essere quella di risolvere le esigenze del popolo e di farsi espressione del comune sentire. Mi sembra allora che si stia parlando di cittadinanza senza considerare ciò che vogliono i cittadini italiani. Mi chiedo se per i cittadini italiani la questione della cittadinanza sia una priorità e se i cittadini sentano l'esigenza che agli stranieri possa essere concessa la cittadinanza abbreviando i tempi previsti dall'attuale legge o creando forme giuridiche nuove o applicando lo jus soli. Inoltre, se è vero che gli stranieri in Italia sono milioni, non per questo bisogna concedere un maggior numero di cittadinanze, dato che non può trattarsi di un semplice rapporto numerico slegato da volontà e consapevolezza.
Nella relazione di minoranza dell'onorevole Bressa si dice che di regola il diritto nasce per reagire al fatto, quindi la politica si deve adeguare ai fatti. Ma in materia di cittadinanza la realtà è, che ci vuole tempo, ci vuole la volontà di integrarsi e la convinzione che si lascia qualcosa di sé per acquisire qualcosa di nuovo. In conclusione, la proposta della relatrice, onorevole Bertolini, è di assoluto buonsenso ed è quindi condivisa.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Di Biagio. Ne ha facoltà.

ALDO DI BIAGIO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, oggi siamo noi tutti chiamati a ragionare su un tema rilevante sul quale si riflette in modo chiaro e articolato la struttura stessa della società italiana e della sua evoluzione. Il nostro Paese è passato nell'arco di qualche decennio da terra di emigrazione a terra di immigrazione, con tutte le complessità che questa evoluzione socio-economica comporta. Questo cambiamento però sembra trovare delle difficoltà nel compiersi pienamente, almeno sotto più profili, poiché mancano le condizioni strutturali, normative e sociali che consentono una piena integrazione del cittadino immigrato nel tessuto sociale e produttivo della terra di migrazione.
Queste difficoltà sono ampliate dal fatto che non esiste in Italia una cornice normativa chiara e all'avanguardia che ci consenta di creare le condizioni per un'integrazione reale dell'immigrato con il suo bagaglio di oneri ed onori. Purtroppo questo aspetto oggettivo dell'analisi appare strettamente connesso ad un altro aspetto di natura politica che sembra condizionare il dialogo a monte e l'operatività legislativa.
Quando si parla di integrazione e di dinamiche di concessione della cittadinanza a coloro che arrivano sulle nostre terre e vogliono essere parte integrante della nostra società, spesso si è tentati di nascondersi dietro trincee, credendo di parlare di posizioni ideologiche o espressioni di partito. La consapevolezza di trovarsi dinanzi ad una società in evoluzione, che ha bisogno di nuove regole per sapersi gestire meglio, non ha né colori né barriere ideologiche, ma è mossa da pragmatismo.
Siamo noi che in questa sede istituzionale rappresentiamo la società civile, chiamati a dare forma a questo pragmatismo trovando soluzioni e predisponendo progetti. Infatti, quando ci si trova dinanzi ai problemi reali della società, dei più piccoli, delle migliaia di stranieri integrati ma che non possono esserlo pienamente, non deve esserci spazio per posizioni politiche predefinite, né per presunte priorità di programma. Credo che sia arrivato il momento di affrontare a viso aperto la materia della cittadinanza agli immigrati che Pag. 53viene raccolta in questo testo unificato di proposte di legge, frutto di un lavoro complesso nelle Commissioni di competenza.
Salutiamo certo con soddisfazione il tentativo di approdare ad un testo di riforma ed innovatore, ma bisogna fare di più e mi auguro che in quest'Aula nelle settimane a venire ci siano tutte le condizioni per una riflessione congiunta e condivisa su questo tema. Ricordiamoci che con questo testo siamo chiamati a dare delle risposte normative ad una società che cambia e che ci induce a proporre una riformulazione del concetto della cittadinanza capace di identificarsi come un modo ampio e corretto di intendere la titolarità dei diritti fondamentali in un ordinamento democratico.
Proprio per questo il testo su cui noi tutti siamo chiamati a riflettere oggi si presenta poco rispondente alle reali dinamiche sociali: le disposizioni ruotano intorno ad un concetto di ius soli temperato che non risolve il problema, ma lo sposta, ricercando delle condizioni troppo rigide per usufruire del diritto di cittadinanza. Penso, in prima battuta, ai tanti bambini che nascono nel territorio da genitori stranieri legalmente residenti e pienamente operanti nel tessuto produttivo e sociale italiano. Non rendiamo questi piccoli degli apolidi, dobbiamo dimostrare, piuttosto, di avere quella sensibilità e quella competenza politica e normativa capace di garantire ciò che a livello europeo è già stato riconosciuto: vale a dire la cittadinanza acquisita dalla nascita a chi è figlio di stranieri residenti stabilmente e legalmente nel nostro territorio almeno da cinque anni, un concetto pieno e completo dello ius soli.
A ciò accostiamo la priorità che tale riconoscimento venga legittimato nei confronti di quegli stranieri che realmente vogliono essere parte del nostro Paese, rispettandone tradizioni, leggi e usanze. Questa nostra sensibilità non deve essere fraintesa come posizione scissionista o come espressione di conflittualità nella maggioranza, come qualcuno tende erroneamente a banalizzare, ma come l'espressione di un concetto dinamico attraverso cui intendere la nostra democrazia. Bisogna piuttosto salutare positivamente il fatto che nella maggioranza di Governo si cominci a riflettere sulle possibilità di riformulazioni del concetto di cittadinanza in termini di appartenenza alla società, evitando di banalizzare o di ricorrere a semplificazioni fuori luogo, lì dove, fino ad ora, ci si è limitati a creare delle barriere, senza neanche mai soffermarsi sulla natura del problema e sull'esigenza di trovare delle soluzioni.
Appartenere ad una nazione, essere espressione di questa, non significa necessariamente viverci da più generazioni ed essere figlio del suo substrato culturale ed etnico, piuttosto significa qualcosa di più profondo: vuol dire anche aver fatto una scelta, quella di diventare parte di una collettività e di lavorare e vivere per questo. È da tale rinnovato concetto di appartenenza che dobbiamo ripartire; noi siamo chiamati a sostenere questo, a creare le condizioni più opportune per facilitarne la completa realizzazione, senza creare ostacoli o vincoli che rischiano di generare maggiore frammentazione sociale e culturale nel nostro Paese. Con questa legge abbiamo una possibilità e non dobbiamo perderla (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Castagnetti. Ne ha facoltà.

PIERLUIGI CASTAGNETTI. Signor Presidente, nei pochi minuti a mia disposizione posso solo esprimere un paio di riflessioni per evocare un briciolo di attenzione su un problema grosso come il mondo. La rimozione di questo problema, purtroppo, è diventata il campo su cui si gioca, soprattutto in Italia, la competizione politica.
La palla scelta per questo gioco è la paura: la paura prodotta dai diversi, soprattutto da quanti appaiano per colore della pelle, istruzione e costume diversi da sé; la paura dei cittadini residenti ed elettori; la paura oggettiva per gli atti di criminalità agiti o convenzionalmente attribuiti Pag. 54ai cittadini stranieri; la paura giusta per l'incolumità propria e dei propri beni; la paura alimentata intenzionalmente e non da un'informazione che non si interroga più sulla propria responsabilità e sulle proprie potenzialità; la paura cavalcata dalla politica, che da tempo ha smesso di fare i conti con le proprie responsabilità e potenzialità; la paura dei partiti, che per aver rinunciato a strumentalizzare la paura di cittadini temono di subirne le conseguenze sul piano elettorale.
In tale contesto, oltre ad alcune minoranze meritoriamente presenti nelle istituzioni - penso ad esempio al mio partito e, tra gli altri, sicuramente al Presidente Fini - a me sembra che la Chiesa, soprattutto la Chiesa, forse per il carattere oggettivamente rivoluzionario del suo messaggio, riesce ad andare contro corrente e riesce a spiegare che la paura impedisce agli uomini e alla politica di trovare le soluzioni adeguate ai problemi che certamente esistono. Lo fa con il suo linguaggio semplice, perché la verità per esprimersi non ha bisogno del linguaggio sofisticato dei dottori della legge, dei filosofi e dei teologi.
La verità che ci viene ricordata è che il mondo è uno solo e che solo la sorte colloca gli uomini in un angolo o in un altro, e la sorte non può essere dispensatrice di diritti diversi, ma solo di casualità. Perciò, ad esempio, il reato di clandestinità è stato così fortemente condannato dalla Chiesa, oltre che da quanti, a prescindere dalla fede, ne condividono sul punto il giudizio. Deve essere considerato reato, infatti, solo un'azione delittuosa e non già uno status, una condizione soggettiva non voluta. In tal caso, il reato diventerebbe strumento per discriminare fra persone a pieno titolo e persone con minori titoli o senza titoli: uomini, semi-uomini o per nulla uomini. La funzione della politica dovrebbe essere proprio quella di costringere la sorte nel suo ambito e liberare gli uomini dalle ingiustizie della casualità.
Questo dibattito sulla cittadinanza, prima ancora di entrare nel merito delle norme, prima ancora di discutere di ius sanguinis e di ius soli, prima ancora di discutere se occorrono dieci o cinque anni di permanenza regolare sul territorio, o se sia necessario qualche test di ammissione, dovrebbe servire almeno a stabilire un punto di convergenza su un dato semplice, fondamento di ogni successiva decisione: gli uomini sono tutti uguali, hanno tutti diritto agli stessi diritti e per tale ragione debbono tutti, indistintamente, pagare lo stesso prezzo di osservare le regole che la comunità di cui si chiede di far parte si è data.
Se riusciremo ad essere d'accordo su questo punto di partenza, non sarà difficile esserlo anche sul seguito del percorso. Questi sono il metodo e lo spirito con cui dovremo affrontare anche il confronto sulle riforme di cui si comincia a parlare, se vogliamo essere seri e fare cose serie. Non si tratta, infatti, di dividersi tra buonisti e cattivisti - non dimentico che è stata evocata da un Ministro la cattiveria come spirito dell'azione dello Stato - ma si tratta di assumere insieme uno sguardo giusto, responsabile e possibilmente lungo per leggere la storia e i suoi movimenti (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Melis. Ne ha facoltà.

GUIDO MELIS. Signor Presidente, secondo il rapporto annuale dell'ISTAT del 2008, l'anno scorso la popolazione italiana ha superato per la prima volta la soglia dei 60 milioni di abitanti. Spiega l'ISTAT che ciò è dovuto quasi esclusivamente all'incremento del 7,3 per mille (434 mila unità nel solo 2008) della popolazione immigrata. Cito un dato di gennaio 2009, che quindi probabilmente è già cambiato: oggi i cittadini stranieri residenti in Italia regolari ammontano a oltre tre milioni di unità. Sembra, almeno per ora, una tendenza inarrestabile e irreversibile e aggiungo che dei nuovi nati iscritti alla nostra anagrafe, circa 64 mila, ovvero l'11 per cento, sono figli di coppie di cittadini stranieri. Pag. 55
Nel 2008 questi nuovi italiani - cito il titolo di un bel libro recente edito da Il Mulino - cioè bambini nati in Italia con genitori e nonni stranieri sono stati 73 mila. I minori stranieri in Italia, non solo quelli nati adesso, ma anche quelli giunti piccolissimi nel nostro Paese, nel gennaio 2009 erano 868 mila. Insomma, in un Paese come l'Italia avviato, come è stato più volte detto, al declino demografico, un Paese di vecchi sempre più vecchi, i nuovi italiani costituiscono una vera e propria iniezione di giovinezza. Essi, infatti, sono e sempre più saranno nei prossimi anni essenzialmente giovani di un'età media di 31,1 anni, contro la media nostra di residenti italiani di 43 anni. Gli studenti stranieri iscritti nelle nostre università sono stati nell'anno accademico 2008-2009 oltre 48 mila, quasi 49 mila; di questi 5 o 6 mila sono di seconda generazione, il 10 o 12 per cento del totale.
Le previsioni ISTAT, riprese dalla Caritas migrantes, ci dicono che nel 2020 - non passerà tanto tempo, tra dieci anni - la popolazione in Italia ammonterà a 62 milioni 769 mila persone e gli stranieri residenti, con quasi 7 milioni di persone, costituiranno l'11 per cento del totale.
Signor Presidente, chiudere gli occhi di fronte alla realtà è sempre molto pericoloso. Pretendere di rispondere a un fenomeno di queste proporzioni, di questa manifesta oggettività e irreversibilità, con provvedimenti asfittici e tendenzialmente punitivi lo è ancora di più.
La proposta di legge della quale discutiamo è palesemente insufficiente a costituire una risposta adeguata, anzi costituisce una risposta sbagliata per le ragioni che sono state dette dai miei colleghi: per la dilazione irragionevole dei tempi di acquisizione della cittadinanza, per le difficoltà cervellotiche che frappone al suo conseguimento (la prova di conoscenza della lingua italiana, la prova di cultura italiana, la capacità di alfabetizzazione - vorrei vedere molti dei nostri ragazzi purtroppo nella situazione di analfabetismo di ritorno in cui sono le nostre scuole) soprattutto per l'ispirazione politica di fondo che caratterizza questa legge. Si tende, in realtà, a scoraggiare la richiesta di cittadinanza, cioè a ostacolare i processi naturali di inclusione, ghettizzando le comunità straniere e ricacciandole indietro, con effetti evidentemente perversi sulla stessa loro non conflittuale permanenza all'interno della nostra società nazionale.
Per questi motivi, occorre respingere questa proposta e dare luogo a misure più duttili e flessibile, più inclusive e soprattutto più ragionevoli, quali sono quelle che giacciono già oggi alla Camera, la proposta Sarubbi-Granata, la proposta Bressa e altre proposte che sono state avanzate. Nel riflettere su questo importantissimo e delicatissimo tema, mi viene in mente un dipinto di Giuseppe Pellizza da Volpedo, che raffigura agli inizi del Novecento il quarto Stato in marcia verso l'avvenire. Erano altri tempi, altre epoche. Credo che, se vivesse oggi un nuovo Pellizza da Volpedo e volesse rappresentare la grande trasformazione demografica e culturale in atto in Italia, dovrebbe soprattutto dipingere dei giovani, un esercito di ragazzi e ragazze di tutte le etnie e di tutte le nazionalità, incamminati pieni di speranza verso il futuro. Ed è questa la speranza con cui concludo il mio intervento (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico e di deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mazzarella. Ne ha facoltà.

EUGENIO MAZZARELLA. Signor Presidente, visti i tempi non si può chiedere alla politica di essere come la filosofia - lo chiedeva Hegel -, il proprio tempo appreso con il pensiero. Le si può ben chiedere, però, che il proprio tempo sia almeno governato con ragionevolezza. Ora è ragionevole affrontare un problema epocale come quello dei migranti e gli immigrati in cui l'Italia è pienamente coinvolta con l'approccio minimalista del testo in discussione? Il minimo comune denominatore proposto dagli articoli 1 e 2, tra le proposte agli atti del Parlamento, è talmente minimalista da segnare persino un arretramento rispetto alla legge n. 91 del Pag. 561992 e non risponde per niente alle esigenze avanzate dalla Convenzione europea sulla nazionalità del 1997. Infatti il testo si muove in un'ottica meramente concessoria e quantitativa della cittadinanza e non in un'ottica di sostegno attivo a processi di integrazione, che evitano, da una parte, i rischi di modelli multiculturali passibili di effetti di autoesclusione da un'effettiva integrazione sociale e, dall'altra parte, i rischi respingenti di modelli basati su politiche dure di assimilazione oggi improponibili. Sempre più per il futuro e già oggi, l'appartenenza ad una comunità nazionale non si fonda più solo sul lignaggio, sullo ius sanguinis, ma in misura sempre più significativa su dinamiche di aggregazione ad una comunità nazionale che il vivere accolti, e non respinti sul suolo nazionale, un habitat di opportunità e di cultura facilita.
Questo imporrebbe, piuttosto, di legiferare in un'ottica di ius soli temperato e condizionato dalla stabilità del nucleo familiare, come molte proposte dell'opposizione e il testo degli onorevoli Sarubbi e Granata chiedono. È del tutto evidente che gli articoli 1 e 2 del testo unificato sono all'antitesi di questa esigenza di governo dei processi di immigrazione.
L'articolo 1, in particolare, è un potente incubatore di estraniazione per chi, nato su suolo italiano, è costretto a viverlo come formalmente straniero e non come patria, senza che gli sia concessa per tempo, nell'età della costruzione della propria identità personale, che è anche identificazione con modelli valoriali, culturali e sociali, la possibilità di amare il Paese dove vive e vivrà.
I processi di integrazione sono complessi e definiscono profili non marginali di quella che Ulrich Beck ha definito società del rischio. Certo, nella società del rischio ci vuole saggezza e prudenza: il rischio peggiore è fare della società del rischio la società della paura, perché questo aumenta i rischi dell'insolvenza delle nostre responsabilità di governo dei processi complessi della nostra società.
Il paradosso è che i maggiori ostacoli ad una seria legge sulla cittadinanza vengono oggi da una forza politica che, sottotraccia, non manca talora di adombrare, per i propri obiettivi politici, un percorso di uscita dalla cittadinanza italiana.
Se si vuole difendere la nazionalità fondata sull'appartenenza etnica, sul lignaggio, tanto caro alla sensibilità padana, sarebbe più onesta ed opportuna una politica di incentivazione della natalità delle famiglie italiane, anziché porre ostacoli a poter dare l'Italia a chi la ama e ha il coraggio di fare famiglia e figli nonostante le difficoltà, come gli immigrati, concorrendo in modo determinante ai bisogni socioeconomici del sistema Italia, precondizione materiale perché vi sia e duri un organismo culturale e spirituale che si chiama Italia.
Si può diventare un'espressione geografica anche per insipienza e mancanza di coraggio nell'affrontare le sfide del futuro. Il coraggio del futuro è credere in noi stessi, ma anche in quelli che a noi si affiancano nel credere alla grandezza culturale e morale che, come nazione, siamo stati e dobbiamo essere (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna di considerazioni integrative del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Mazzarella, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Bianconi. Ne ha facoltà.

MAURIZIO BIANCONI. Signor Presidente, qui stiamo parlando di un falso problema; ognuno, poi, ci mette del suo. Intitolerei questo mio intervento, se fosse possibile: «Cittadinanza: falso problema» e come sottotitolo «Sicurezza e cittadinanza: due termini che non hanno nulla in comune».
Bisogna fare, in qualche modo, chiarezza su un tema in cui tutti si sono mossi con i più vari voli pindarici: abbiamo sentito anche un bel discorso solidarista del capogruppo del PD, ma che non c'entrava niente, proprio niente! Pag. 57
Bisogna partire dalla nostra Carta costituzionale, perché essa è fondante per noi, ce lo siamo detti più volte; anzi, essa viene ritenuta intangibile nella prima parte. Se guardiamo la Carta costituzionale, ci accorgiamo di una cosa strana: la cittadinanza non è definita, signor Presidente, ma si parla spesso di cittadini, di cittadinanza no!
Qualcuno potrebbe dire che i padri costituenti si sono dimenticati della cittadinanza. Non è che se ne sono dimenticati: in termini tecnici, si dice che la Costituzione non pone la cittadinanza perché la presuppone, cioè è uno dei tanti concetti che la nostra civiltà, il nostro ordinamento e il nostro vivere insieme danno talmente per scontato da non essere definito all'interno della Costituzione, ma si definiscono invece i diritti e i doveri dei cittadini.
Bisogna partire da qui: lo dico al professor Zaccaria, all'onorevole Bressa e a tutti quelli che sembrano scordarsi della Costituzione, che invece dovrebbe essere, specie per chi, come me, è componente della I Commissione, oltre che alla propria vita scientifica, il pane quotidiano.
Il fatto che la cittadinanza sia presupposta significa che, per modificare questo dato, bisogna porre un nuovo concetto di cittadinanza, ed esso, non valendo più quello presupposto, andrebbe scritto all'interno della Costituzione, in quei principi che nessuno, però, vuole toccare.
Si dice che è talmente cambiata la società, che siamo di fronte ad un fenomeno talmente sconvolgente (si dice anche con termine tecnico ex rebus ius, dalle cose bisogna fare il diritto: siccome cambia, è sconvolto tutto, allora bisogna cambiare qualche cosa), bene! Una cosa, la più epocale, che è cambiata nel nostro stare insieme è l'Unione europea: noi non siamo più Stato nazionale, ma dobbiamo collegarci all'Unione europea, la quale definisce la cittadinanza. Sapete che un cittadino italiano è automaticamente cittadino europeo, un cittadino francese è automaticamente cittadino europeo. Si chiama, in termini tecnici, cittadinanza duale: il Trattato di Maastricht definisce la cittadinanza e stabilisce che ha la cittadinanza europea, quindi quella duale, chiunque abbia la cittadinanza di uno Stato membro. Che significa? Significa che, di fronte a questo grande cambiamento, ossia che da nazione siamo diventati Europa, anche l'Europa attribuisce il concetto di nazionalità a quello di cittadinanza; cioè non cambia minimamente il dato presupposto dalla nostra Costituzione e dispone che si è cittadini europei se si appartiene ad uno Stato nazionale, vale a dire ad una determinata cultura, ad una determinata identità, che si fa territorio perché si fa Stato attraverso il territorio. Anche l'Unione europea, quindi, ci offre questa lettura della cittadinanza e se noi la volessimo cambiare, amici miei, colleghi, dovremmo anche andare a chiedere ai nostri partner europei come si cambia il Trattato di Maastricht, perché nel momento in cui noi scegliamo un cittadino italiano in una certa misura consegniamo ai nostri partner un cittadino europeo: ma di questo nessuno parla, nessuno parla della Costituzione, nessuno parla del Trattato di Maastricht.
Perché è un falso problema? Perché si dice una cosa che non sta né in cielo né in terra, né dal punto di vista contenutistico, né scientifico: la cittadinanza sarebbe portatrice di diritti. Questo è un film! La cittadinanza è soprattutto portatrice di doveri, non di diritti! E questo è il tasso veramente di basso profilo di questo dibattito, che si è detto alto ma che racconta un'altra storia. La cittadinanza è portatrice soprattutto di doveri, la cittadinanza si definisce munus, diritto-dovere; in diritto privato, tanto per far capire a chi non è esperto di queste cose, il munus è quello della potestà dei genitori: hai più doveri che diritti e li devi esercitare. E così è la cittadinanza: è la comunità che ti accoglie, che ti prende come figlio, che dice: sei degno di stare con noi e ti riconosco una serie di diritti, tutti scritti nella Costituzione. Ti dice che devi lavorare, sempre però che il tuo lavoro concorra al progresso materiale e spirituale della nazione; ti dice che la difesa della Patria è un sacro dovere, quindi ti chiede la vita: sei cittadino, puoi morire in guerra Pag. 58per la tua Patria; ti obbliga alla fedeltà alla Costituzione e alle leggi. Questi sono i doveri dello status di cittadinanza, che non è un diritto, è uno status! E porta però un altro diritto, che a sua volta veniva definito, viene ancora definito diritto-dovere: quello di voto.
L'unica controprestazione che vi è alla cittadinanza è che si vota. Tutti gli altri diritti che vengono sbandierati come portati dalla cittadinanza - e si sente parlare di Staten Island, e si sente parlare delle storie dei migranti italiani e dire che siamo figlioli di emigranti: vero, verissimo - ma non c'entrano niente con questo, è un'altra novella. La cittadinanza porta soltanto e principalmente doveri, porta però un diritto: quello di voto. Perché tutti gli altri diritti, colleghi, sono portati dalla Costituzione, sono portati dalle convenzioni internazionali, sono portati dalle sentenze, che ogni tanto si ricorda anche l'onorevole Bressa, della Corte costituzionale. Le nuove libertà sono portate da quelli, i diritti sociali sono portati dal nostro Stato sociale: non c'è straniero che non abbia assistenza sanitaria, non c'è straniero che non abbia diritto al lavoro, non c'è straniero che non abbia diritto alla tutela dei propri diritti, alla libertà personale, a svolgere attività politica!
Questi diritti non li porta la cittadinanza, ma il fatto di essere persone in uno Stato democratico che ha la sua Costituzione, le sue convenzioni e la sua giurisdizione. Allora, che storia è questa che raccontate, per cui dite che non è un atto concessorio? La cittadinanza ha soprattutto l'aspetto premiale: lo Stato accoglie nella comunità un uomo, una persona, un individuo al quale chiede di spendere la vita per quella patria, al quale chiede fedeltà alle leggi e alla Costituzione e al quale chiede più sacrifici che diritti, e gli dice che può concorrere con il voto alla politica di quel Paese.
Il resto non c'entra niente: la cittadinanza non è un diritto, è uno status, non porta diritti, porta più doveri che diritti! Che novella raccontate da mesi e mesi nei talk-show? Cosa ci dite, anche gli avveniristi della mia parte politica? E che c'entra, amici della Lega, la cittadinanza con la sicurezza? Quando uno straniero ci può stare o non ci può stare e delinque, che sia cittadino o che non lo sia, cosa cambia? Abbiamo bisogno di una comunità che dia carattere premiale alla cittadinanza, che aiuti sì i processi integrativi ma che metta al culmine di questo processo il premio della cittadinanza, senza abbassare la cittadinanza allo status di essere italiano ed europeo, ad un mero strumento di integrazione, avvilendo completamente l'istituto, la Costituzione, il nostro diritto e la nostra tradizione ed avvilendo anche quei minori che si vogliono tanto tutelare.

PRESIDENTE. Onorevole Bianconi, deve concludere.

MAURIZIO BIANCONI. Ma vi rendete conto di cosa dite riguardo ai minori? Voi pretendete che un padre ed una madre stranieri residenti in Italia che hanno scelto di rimanere stranieri debbano andare davanti ad un ufficiale di certificazione presso il comune o chissà dove per dire: voglio che il mio figliolo sia italiano! Voi dite infatti questo: sopprimete la volontà del minore e date una cittadinanza quasi coatta. L'atto volontario di ambire è nelle mani di stranieri e togliete facoltà al minore, dal momento che tante nazioni non danno la doppia cittadinanza. E se poi lui a diciotto anni vi rinunzia o gli viene revocata ne fate un apolide, compite un atto di violenza integrativa.
È un atto di violenza come quello di alcuni americani, che volevano far diventare i pellerossa tutti americani e gli mettevano il cilindro ed il frac come gli americani senza rispettarne l'identità. Voi usate una violenza tremenda anche sui minori: i minori che si trovano qui devono essere educati, devono avere rispetto delle regole, devono stare con noi; ma noi dobbiamo rispettare la loro identità e se vogliono diventare cittadini italiani lo diventeranno, e non con il buon cuore di questo pseudo-solidarismo che mira soltanto a cambiare la platea elettorale, sfruttando i buoni sentimenti di questo Paese (Applausi di deputati del gruppo Popolo della Libertà).

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Garagnani. Ne ha facoltà.

FABIO GARAGNANI. Signor Presidente, anche ascoltando alcuni degli interventi mi sono reso conto - pur non essendo quest'Aula estremamente affollata - dell'importanza di esprimere la mia opinione accanto a quella di altri colleghi che sono già intervenuti e che più di me, direi, hanno motivato le ragioni del PdL in una materia delicata come questa.
Innanzitutto mi sento di respingere in questa sede una sorta di processo alle intenzioni che i colleghi del centrosinistra hanno svolto sia ora che in altre occasioni; soprattutto, credo che affrontando un argomento delicato come questo dobbiamo liberarci da un presupposto sbagliato che invece è presente in molti degli interventi svolti in questa sede, da una visione idilliaca della società moderna e della cittadinanza, quasi che i problemi di una reale integrazione venissero risolti abbreviando i termini per ottenere la cosiddetta cittadinanza, edulcorando una serie di norme che invece sono poste a presidio di una reale integrazione.
Credo che al riguardo vada ribadito un concetto fondamentale: il diritto di cittadinanza - è stato detto prima - non è un diritto che si acquisisce comunque e dovunque, ma è costituito da doveri precisi e viene acquisito al termine di un lungo percorso che dimostra la maturità del cittadino nell'acquisizione degli elementi fondamentali che costituiscono la base della cittadinanza stessa.
Mi riferisco alla conoscenza della storia, delle identità, della cultura, di tutto ciò che costituisce l'humus che è l'essenza di un popolo. In questo contesto ho ascoltato poche riflessioni riguardo al fatto che la difesa dell'identità culturale di un popolo non è un gretto modo di gestire la propria presenza in una società multietnica, ma fa parte di un diritto-dovere del legislatore e del Governo. La nostra tradizione culturale che si riconnette - piaccia o meno - a quella giudaico-cristiana, che in duemila anni di storia ha permeato la storia italiana ed europea, deve essere recepita chiaramente da coloro che desiderano acquisire la nostra cittadinanza, perché la nostra cittadinanza si basa su questi elementi essenziali. In questo senso, credo sia giusto e doveroso dare una prova della propria maturità culturale nell'acquisizione e nel modo di introiettare profondamente questi concetti che rendono un popolo tale e, soprattutto, lo rendono libero di confrontarsi con altri popoli, fiero e orgoglioso della propria storia e della propria identità. Ciò non significa rifiutare il confronto con l'altro, ma significa essere consapevoli di appartenere ad una storia diversa e gloriosa, ad un'identità che ci ha permeato fin fondo. Questo credo sia un elemento che manchi totalmente nella visione del centrosinistra. Manca totalmente un'analisi seria e dettagliata su ciò che sta accadendo in Paesi come l'Olanda, la Danimarca e i Paesi anglosassoni, che erano all'avanguardia nel cosiddetto processo di integrazione e che oggi stanno facendo precipitosamente marcia indietro, perché si sono resi conto che l'essere eccessivamente garantisti nei confronti di popolazioni che, al di là della loro volontà, non riescono a maturare, con una sufficiente ponderazione, tutta una serie di valutazioni, rischia di degenerare in forme di razzismo e xenofobia che si vorrebbero evitare. Quando all'interno di un Paese si supera una determinata soglia di integrazione di cittadini extracomunitari, in quel momento esplode la violenza e la reazione; sono tutti fenomeni che vogliamo evitare. In questo senso, credo che sia assurdo e sbagliato parlare di paura o di volontà di chiusura da parte nostra. In realtà, la nostra non è una chiusura, ma è un'apertura ragionata.
Il testo che è stato elaborato dall'onorevole Bertolini credo si faccia carico di varie esigenze. C'è chi l'avrebbe voluto più duro in alcune sue parti, come il sottoscritto, ma in ogni caso ritengo che contenga gli elementi essenziali per favorire una reale integrazione che tenga presente questi aspetti: l'apertura misurata alle nuove correnti migratorie e, nel contempo, la difesa orgogliosa - lo devo dire - dell'identità culturale del nostro popolo e Pag. 60il necessario obbligo per coloro che vogliono diventare cittadini di misurarsi con alcune condizioni ben precise, sia dal punto di vista giuridico, sia culturale, sia soprattutto dal punto di vista della loro capacità di integrarsi in un Paese che ha proprie leggi, istituzioni, e una propria civiltà che va difesa e acquisita gelosamente.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

FABIO GARAGNANI. Ho avuto occasione in un incontro di misurarmi con le problematiche dei nostri concittadini italiani che ancora oggi chiedono di ottenere la cittadinanza australiana e con le rigide misure adottate da quel Governo, che sono accettate pienamente dai nostri concittadini. Anche le problematiche dei concittadini che desiderano acquisire la cittadinanza francese e statunitense sono sotto gli occhi di tutti per evidenziare come in una materia come questa non dobbiamo avere presente velleità riformiste o pauperiste, ma la realtà dei fatti e la necessità di favorire quell'integrazione che non significa una mescolanza indistinta di persone, di culture e di razze, ma una corretta integrazione che abbia come base i presupposti essenziali della civiltà giuridica, spirituale e artistica del nostro Paese.

PRESIDENTE. Sospendiamo a questo punto la seduta. Lo svolgimento degli ulteriori interventi nella discussione sulle linee generali avrà luogo a partire dalle ore 15.

Sull'ordine dei lavori.

ALESSANDRO BRATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO BRATTI. Signor Presidente, sarò molto veloce. Il mio intervento riguarda una situazione che si è determinata nel centese; riguarda, in particolar modo, la chiusura di una fabbrica, la Oerlikon Graziano, che ha deciso, entro marzo 2010, di interrompere definitivamente la produzione in questo stabilimento di Cento. Nell'ambito del proprio piano industriale, che ha presentato a Roma il 10 dicembre, sono previsti negli otto stabilimenti italiani 994 esuberi su un totale di poco superiore a 2.700 dipendenti. Lo stesso piano prevede la chiusura, appunto a partire dal 2011, dello stabilimento di Cento. Le amministrazioni locali e le organizzazioni sindacali ritengono poco convincente il progetto presentato e ritengono ingiustificabile che si chiuda uno stabilimento che poi viene spostato da altre parti fuori dall'Italia.
Le chiedo, signor Presidente, in questa situazione, di farsi parte attiva nei confronti del Governo al fine di un impegno. Infatti, ci sarà il 19 gennaio 2010 (quindi tra poco) un ulteriore incontro a Roma tra le organizzazioni sindacali e il Ministero dello sviluppo economico; dunque, le chiedo un impegno nei confronti del Governo perché si faccia carico di garantire che non venga effettuata alcuna azione unilaterale da parte dell'azienda fino al prossimo incontro (che si terrà - lo ripeto - il prossimo gennaio). Quindi, le chiederei d'intercedere presso il Ministero dello sviluppo economico perché il Ministro si faccia parte diligente nei confronti dei vertice dell'azienda.

PRESIDENTE. Onorevole Bratti, la Presidenza si farà carico della sua richiesta.
Sospendo la seduta che riprenderà alle 15.

La seduta, sospesa alle 13,50, è ripresa alle 15,05.

Missioni.

PRESIDENTE. Comunico che non vi sono ulteriori deputati in missione alla ripresa pomeridiana della seduta.
I deputati in missione sono complessivamente trentacinque, come risulta dall'elenco depositato presso la Presidenza e che sarà pubblicato nell'allegato A al resoconto della seduta odierna.

Pag. 61

Si riprende la discussione.

PRESIDENTE. Ricordo che nella parte antimeridiana della seduta sono iniziati gli interventi nella discussione sulle linee generali.

(Ripresa discussione sulle linee generali - A.C. 103-A ed abbinate)

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Sbai. Ne ha facoltà.

SOUAD SBAI. Signor Presidente e onorevoli colleghi, vorrei ringraziare innanzitutto la relatrice Isabella Bertolini, come sempre precisa. Ho lavorato tanto tempo con lei e devo dire che abbiamo lavorato in questo anno in I Commissione in armonia anche con l'opposizione.
Oggi il nostro Paese, da sempre accogliente e attento alle diverse sensibilità presenti sul suo territorio, si avvia verso una stagione in cui l'apertura al diverso non è negoziabile. Inizia qui un cammino lungo e pieno di speranza: è il cammino per la costruzione di un'Italia multietnica e multiculturale, un'Italia sicura e integrata, in cui gli italiani e gli immigrati possano camminare fianco a fianco verso un futuro prospero di pacifica convivenza e di armonioso sviluppo culturale, sociale, economico e politico.
Le ultime stime dicono che l'Italia si colloca tra i primi Paesi di immigrazione dell'Unione europea, con oltre 4 milioni e mezzo di stranieri: lo stima il rapporto 2009 sull'immigrazione della Caritas Migrantes, anche se una maggior parte è solo di passaggio verso altri Paesi europei. In un'Italia sempre più disomogenea occorre disciplinare l'acquisizione della cittadinanza per favorire una piena integrazione, che avrà conseguenze importanti sulla nostra società.
Posto che alla dovuta acquisizione del diritto corrisponda lo speculare rispetto dei doveri imposti dal patto di cittadinanza, che gli stranieri si impegnano ad abbracciare e rispettare, essi possono rappresentare una grande risorsa per il nostro Paese, specie per quanto riguarda le seconde generazioni.
Condividere i valori su cui si fonda la Repubblica, la nostra cultura e la nostra Costituzione, apprendere la lingua italiana, frequentare e superare il percorso scolastico obbligatorio per i bambini (molto importante soprattutto per le femmine), portare amore e rispetto verso la loro futura nuova nazione: questi sono i punti essenziali su cui dobbiamo lavorare. Queste sono le tappe del percorso di integrazione, alla fine del quale può essere acquisita la cittadinanza.
Servono allora politiche efficienti di governo e di sostegno per gli immigrati, nel rispetto dei principi democratici dell'uguaglianza e della solidarietà, ispirati ai valori della laicità e del dialogo.
Occorre dunque affiancare alla repressione contro gli atti criminosi una serie di misure ampie e diversificate, capaci di influenzare l'educazione civica della comunità, al fine di scoraggiare, da una parte, la ghettizzazione identitaria entro i confini delle comunità di origine e, dall'altra, promuovere la cultura ed i valori della cittadinanza.
Serve un impegno concreto e reale dello Stato in un processo di scolarizzazione e di alfabetizzazione soprattutto perché molte donne immigrate, in particolare le donne del nord Africa, sono analfabete sia nella loro lingua sia nella lingua italiana. Per gli immigrati serve veramente un impegno importante: serve ispirarsi ad un obiettivo di reale inclusione, serve lavorare sodo.
Non è auspicabile pensare che l'impegno politico si arresti con la presentazione di questo testo unificato, ma bisogna sincerarsi che il processo di integrazione e di inclusione vada a buon termine.
Bisogna fare leva sulla forza e sulle energie delle seconde generazioni, la cui presenza si manifesta in ritardo rispetto ad altri Paesi europei: ciò può essere il punto di forza di un'Italia che non ha ancora ben delineato il proprio modello, ma che, per questo motivo, può apprendere dagli errori degli altri e proporre un Pag. 62modello suo - un modello nostro, italiano, vincente - facendo tesoro delle sconfitte altrui.
Non vogliamo che gli immigrati restino attaccati alle sottane della mediazione culturale e linguistica, che li inquadra ex ante come qualcuno cui deve essere affiancato un tutor a vita! Non vogliamo che essi siano costretti ad uno status di cittadini minori, cui viene riconosciuta una tale diversità da attribuire loro le discriminatorie attenuanti culturali (come già accade in vari tribunali)! Non vogliamo dare spazio ad una ideologia relativista - direi nichilista - incapace di riconoscere che la dignità umana, la sacralità della vita, la solidarietà e il rispetto dell'altro sono valori universalmente riconosciuti. Non possiamo permettere che venga posto il principio per cui ogni cultura, anche quella più odiosa e brutale, debba essere compresa e rispettata, nonostante, sul piano etico, le culture non siano ugualmente valide.
Noi vogliamo che gli immigrati prendano davvero in mano il proprio destino e siano messi nelle condizioni più idonee per sviluppare la pienezza delle proprie potenzialità.

PRESIDENTE. La invito a concludere.

SOUAD SBAI. In quest'ottica - e concludo - ritengo sia molto importante valorizzare la carta di soggiorno di lungo periodo (che non esiste da oggi, ma dagli anni Novanta), perché dà allo straniero la necessaria serenità per intraprendere il proprio percorso di cittadinanza, senza timori e senza paure.
Al tempo stesso, credo che, a fronte di queste iniziative, debba essere posta la possibilità di revocare la cittadinanza a quanti sono venuti meno al patto di fedeltà con lo Stato: penso a chi si sia macchiato del reato di terrorismo internazionale o chi abbia posto in atto dichiarazioni mendaci.

PRESIDENTE. Onorevole Sbai, deve concludere.

SOUAD SBAI. Ecco perché - concludo - a fronte dell'impegno delle istituzioni, è necessario un impegno concreto degli immigrati a volersi integrare e a sposare in toto i valori su cui si fonda la nostra Repubblica e le sue regole (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Sbai, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti.
È iscritto a parlare l'onorevole Sarubbi. Ne ha facoltà.

ANDREA SARUBBI. Signor Presidente, innanzitutto, vorrei rivolgere un ringraziamento all'onorevole Sbai, che in questo intervento, mi è sembrata la Souad Sbai che conoscevo fino a qualche mese fa, e che mi sembrava di aver perso per strada. Ringrazio anche tutte le persone che sono intervenute prima di me: sono presente in Aula da questa mattina e vi rimarrò fino all'ultima parola dell'ultimo intervento.
Avrei potuto - forse, avrei dovuto - scrivere un discorso, perché interventi di questo tipo restano agli atti (quindi, si rischia anche di fare qualche bella figura), ma in realtà, ho pensato che sarebbe stato meglio svolgere un intervento «a braccio». Mi scuso, pertanto, soprattutto con i nostri funzionari, per l'assenza di grammatica e di sintassi nel mio linguaggio, ma vorrei rispondere ad alcune questioni che sono emerse.
In primo luogo, vorrei dire in quest'Aula che, quando i miei amici della comunità di Sant'Egidio si rivolsero a me - ormai parliamo di quasi due anni fa - e mi chiesero di fare qualcosa perché venisse sbloccata l'impasse sulla cittadinanza, ricordai loro che il Partito Democratico aveva perso le elezioni e che, quindi, sarebbe stato difficile presentare una proposta di legge che ottenesse il consenso della maggioranza.
Pertanto, posi una condizione e dissi loro: se volete, possiamo lavorare insieme Pag. 63ad un testo che, però, non sia il testo di Andrea Sarubbi né della comunità di Sant'Egidio, ma un testo condiviso che possa piacere anche alla maggioranza, o a parte di essa.
Prendemmo in considerazione allora tutte le proposte di legge che erano a disposizione, anche quelle delle legislature precedenti, a partire dalla proposta a firma dell'onorevole Bressa, ma anche tante altre, e vedemmo che vi erano delle richieste che si ripetevano. In sostanza, il centrosinistra chiedeva sempre di rivolgere l'attenzione ai minori che nascevano o che venivano nel nostro Paese da piccoli e, per quanto riguarda gli adulti, chiedeva sempre lo snellimento e la riduzione dei tempi richiesti per la concessione della cittadinanza.
Guardando, invece, alle proposte del centrodestra, era sempre presente la richiesta di alcuni requisiti ben precisi, quali la fedina penale o il test di integrazione, che mirassero ad una cittadinanza qualitativa, e vi era anche un giuramento sulla Costituzione, sul quale ricordo benissimo di avere ascoltato il Ministro La Russa che poi, purtroppo, evidentemente non ha capito lo spirito della proposta bipartisan che tanti oggi in quest'Aula hanno citato.
Infatti, quando si cominciò a parlare della proposta di legge n. 2670, che nei telegiornali è diventata la Sarubbi-Granata, il Ministro disse che l'iniziativa era di due peones in cerca di visibilità. A me questa dichiarazione fece molto male allora e mi ha fatto male anche risentirla questa mattina in Aula. È questa la prima critica che vi faccio nel metodo.
Perché si dice che sono necessarie le riforme, che è necessario un dialogo e ci si richiama agli appelli del Presidente Napolitano e poi la prima volta che due persone, anche rischiando di far arrabbiare i propri schieramenti di appartenenza, cercano un dialogo e lo cercano a metà strada, questo diventa un inciucio, diventa una manovra di visibilità personale? Sinceramente, questa è un'accusa che, con tutto il cuore, mi sento di rispedire al mittente.
L'altro aspetto di questo testo unificato che mi sembra un po' strano è il modo in cui è arrivato all'esame dell'Aula. Si tratta di un testo che l'opposizione ha chiesto di calendarizzare, quindi, come si dice da queste parti, è in quota opposizione. In tale proposta, però, di quello che ricordavo poco fa, cioè delle classiche richieste del centrosinistra e del centrodestra, una parte viene presa e buttata via e si tiene solo l'altra; è cioè una proposta in quota dell'opposizione che la maggioranza ha preso, riveduto e corretto, facendola diventare una proposta soltanto propria.
Lo capisco, è legittimo dal punto di vista politico, ma non mi sembra il miglior viatico per un dialogo: se si parla di riforme, che siano riforme condivise. Visto che non stiamo parlando dell'etichettatura dei tappi dei barattoli, che pure è una cosa degnissima, che però non cambierà l'Italia per i prossimi 17 o 18 anni, quello che in tutti questi mesi non sono riuscito a capire è come mai l'abbia avuta vinta la tentazione di ridurre tutto a tattica politica. Se i dissidi interni alla maggioranza si fossero manifestati sui tappi di barattolo avrei capito che potesse esserci una ritrosia, ma se i dissidi interni alla maggioranza si manifestano su una legge così importante, non capisco come mai non si entri nel merito piuttosto che dire «non facciamo un piacere a questo o a quest'altro».
Mi sembra, quindi, che per ora sia stata accolta soltanto quella parte delle richieste di riforma che storicamente proviene dal centrodestra.
Per questi motivi, chiedo alla relatrice, in particolare, di fare un passo avanti e di ricordarsi che esiste un'altra metà del Parlamento, che poi suppongo sia più di una metà e gli interventi di oggi lo hanno dimostrato; alla fine faremo i conti, così come abbiamo fatto in Commissione cultura, dove 7 deputati del Popolo della Libertà su 12 hanno detto che i minori meritavano un'attenzione particolare, senza considerare tutti i deputati del Partito Democratico, dell'Unione di Centro e dell'Italia dei Valori.
Se volete su questo potremo sfidarci e vedremo chi vincerà, ma non credo che le Pag. 64riforme si possano fare a colpi di maggioranza: sarebbe utile se, invece, prima trovassimo insieme un accordo.
Questa mattina ho sentito delle enormi inesattezze. Oltre a quella dei peones in cerca di visibilità, ne ho sentita un'altra dal collega Bianconi che è arrivato ad accusarci di cittadinanza imposta e di cittadinanza coatta. Mi chiedo se anche dare lo sciroppo per la tosse ai bambini sia un atto di violenza. Di cosa stiamo parlando, di una cittadinanza che viene imposta a delle persone che non aspetterebbero altro e che non possono chiederla perché non hanno compiuto 18 anni?
Ma siete andati fuori, mentre stavamo qui in Aula, siete andati a sentire i ragazzi delle seconde generazioni, a chiedere loro se sono italiani o no, come hanno trascorso la loro infanzia e l'adolescenza e come si sono trovati a 18 anni quando il pulmino che li portava a scuola poi li ha condotti improvvisamente in galera? Vi sembra una cosa normale?
Credo che su questo sia necessario trovare una soluzione, altrimenti faremmo tutti gli ingegneri costituzionali, e voi di ingegneri costituzionali siete ricchi: siete persone che ragionano in punta di comma e beati voi che ne sapete così tanto di diritto; ma poi lo avete mai incontrato un ragazzo delle seconde generazioni, un ragazzo che magari si chiama Xianping che, però, qui in Italia si fa chiamare Valentino e che non si sente null'altro che italiano?
Ci avete mai parlato? Perché quando dico certe sigle - G2, ANOLF - i miei colleghi, ingegneri costituzionali, mi guardano con gli occhi sgranati, come se stessi parlando di cose folli. Invece, vorrei dirvi che esistono sia queste sigle, sia queste persone.
Una cosa sola vi chiedo, senza confondere integrazione, sicurezza e tutto il resto: attenzione a non fare lo sbaglio che fece la Germania negli anni sessanta. Quando sento dire dal capogruppo della Lega, il vostro candidato in Piemonte, Roberto Cota, che gli immigrati vengono qui per andarsene via, mi viene in mente la Germania degli anni sessanta, quando si chiamavano gli immigrati di corsa, perché servivano braccia e non persone, e si diceva loro: «vieni, vieni, stai qui. Riempiti i calzini di marchi e vattene via il prima possibile!». Non vi era alcun ricongiungimento familiare né interessava che si apprendesse la lingua. Si diceva: «Fai il gelataio? Impara a dire fragole e pistacchio e a noi va bene così!». Ma che faceva poi questo signore del Bangladesh o della Turchia? Nel tempo libero si vedeva con i signori del Bangladesh e della Turchia. E quale convivenza aveva con la società che lo circondava? Nessuna. Cosa faceva? Si chiudeva in un ghetto. E cosa porta il ghetto? La devianza. Dunque, se non vi è integrazione non vi è neanche sicurezza e se non vi è il senso di appartenenza a una comunità non vi è neanche integrazione.
Vi chiedo di volare un po' più alto. Oggi ho sentito l'onorevole Santelli parlare in termini di gens romana. In questo caso non si deve parlare in termini di gens, ma in termini di comunitas, che è qualcosa di diverso dal legame di sangue. Sono certo che l'onorevole Bertolini, anche per le sue radici profondamente cristiane, capirà quello che sto dicendo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Dal Lago. Ne ha facoltà.

MANUELA DAL LAGO. Signor Presidente, mi pare giusto intervenire subito dopo il collega, così vediamo anche un po' di equilibrare le cose.
Vengo al tema della cittadinanza. Oggi ho sentito spiegare in quest'Aula che siamo di fronte a uno dei temi più importanti e - vorrei dire - principali che affronta questo Parlamento. Vorrei cominciare proprio da questo punto per aggiungere altre due o tre cose. Forse dovremmo imparare un po' tutti ad andare fuori e ad ascoltare la nostra gente, quelli che sono già cittadini italiani. Forse se uscissimo e li ascoltassimo ci sentiremmo chiedere come facciamo, a fronte di tutti i problemi che in questo momento stiamo vivendo - mancanza di lavoro, problemi di mancanza di soldi, mutui della casa che non si Pag. 65possono pagare e altro ancora - ad occuparci, oggi in Parlamento, di questi temi.
Dunque, aveva ragione il mio capogruppo questa mattina quando faceva notare correttamente che la cittadinanza non faceva e non fa parte degli accordi con i quali siamo andati di fronte agli elettori per chiedere loro il voto per poter governare questo Paese.
Ma credo che su un'altra cosa avesse ragione l'onorevole Cota questa mattina, quando ha provato a spiegare due concetti. Innanzitutto, siamo stanchi di sentirci dire che vogliamo bloccare la cittadinanza per problemi di sicurezza. Concordo con l'onorevole Franceschini che stamattina diceva - ma solo lui, però, perché gli altri hanno sempre detto il contrario - che la cittadinanza deve essere slegata dalla sicurezza. Lo è sempre stata! Ma vorrei aggiungere anche un'altra cosa: la cittadinanza è slegata dall'integrazione.
Forse se ci chiarissimo su questi concetti potremmo - allora sì - trovare più convergenze di quelle che abbiamo trovato finora, perché l'impressione che abbiamo, o che abbiamo avuto in questo periodo, è che si voglia utilizzare la cittadinanza presupponendo che si possa fare integrazione attraverso una cittadinanza facile. Noi siamo, evidentemente, assolutamente su un'altra linea, ritenendo la cittadinanza come l'elemento più importante ed eventualmente finale di un percorso di integrazione, ritenendo che essere cittadini, in un mondo globalizzato, sia oggi ancora più importante che rispetto al passato.
Infatti, è vero che siamo di fronte alla globalizzazione, ma siamo di fronte a una globalizzazione economica che non vogliamo far diventare globalizzazione di modo di essere, di pensare, di muoversi, di parlare e di territorio. La globalizzazione insegna che più il mondo si apre e più c'è bisogno di rafforzarsi all'interno delle proprie usanze, del proprio modello di pensiero, del proprio essere comunque di casa in qualche posto. Se è così - e noi riteniamo che sia così - siamo convinti che la cittadinanza debba essere data a coloro che sono fortemente convinti di essere e di sentirsi cittadini italiani.
Questa mattina l'onorevole Bocchino diceva «bisogna che diventi italiano chi l'Italia la ama». Noi ci ritroviamo moltissimo in queste parole, ci ritroviamo talmente che aggiungiamo: bisogna che diventi italiano chi l'Italia la ama e poiché la ama ne rispetta tutta le leggi, tutte le regole e tutti i principi costituzionali. Ecco perché, signor Presidente, noi riteniamo che i dieci anni proposti dalla relatrice onorevole Bertolini siano anni corretti per un corretto percorso di integrazione, siano anni giusti e necessari perché uno straniero possa capire se voglia essere cittadino italiano o meno. Diamo ragione a coloro che hanno fatto presente che oggi per ottenere la cittadinanza non sono sufficienti dieci anni: si può arrivare a tredici, quattordici, quindici, sedici anni. Ecco che allora l'onorevole Bertolini correttamente ha previsto nella proposta di legge una serie di regolamenti attuativi per poter predisporre carte, argomentazioni, studi, conoscenze per poter far acquisire al decimo anno la cittadinanza a chi ne ha diritto.
Anche su questo aspetto vogliamo evidenziare che giustamente l'onorevole Bertolini ha aggiunto una previsione alla proposta di legge: cittadinanza al decimo anno, ma a chi ha già la carta di soggiorno permanente. Ritengo che anche questo sia un fatto estremamente importante, perché richiedere la carta di soggiorno permanente vuol dire già iniziare il primo passo per sentirsi cittadini italiani.
Si è molto parlato di giovani stamattina, di ragazzi. Si è parlato di ius solis e di ius sanguinis...

ANDREA SARUBBI. Ius soli!

MANUELA DAL LAGO. Ma al plurale va solis.

ANDREA SARUBBI. No, no!

MANUELA DAL LAGO. Sono i miei ricordi di latino, ma se mi sbaglio mi scuso. Ci penso, dopo ci ragioniamo.
Ripeto, si è molto parlato di questi due diritti questa mattina. Anche in questo Pag. 66caso vorrei portare avanti un concetto a cui noi teniamo profondamente. Noi siamo convinti che una cosa sia la cittadinanza che uno acquisisce perché imposta dalla famiglia, un'altra cosa è invece la cittadinanza che un giovane vuole acquisire perché crede e si sente cittadino italiano. Per un ragazzo che nasce in Italia noi siamo d'accordo assolutamente nel mantenere l'acquisizione della cittadinanza ai diciotto anni, nel momento in cui ha la capacità di poter decidere e valutare se vuole o non vuole essere effettivamente cittadino italiano.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

MANUELA DAL LAGO. Altro è il discorso, e concludo subito signor Presidente, per chi invece arriva a tre anni, come nel problema che è stato posto. È vero, qui c'è un problema, onorevole Bertolini, ma mi pare lei si è già posta nell'ottica di andare a verificare se si può trovare una soluzione. C'è il problema che l'iter dei 10 anni dovrebbe cominciare con i famosi diciotto anni.
Credo che su tale questione, come Lega Nord - non per diminuire gli anni per poter avere la cittadinanza, perché comunque noi rimaniamo fermi alla previsione dei diciotto anni - si possa cercare di verificare insieme se sia possibile trovare una strada corretta che, data una permanenza stabile in questo Paese, ci garantisca che un richiedente che è arrivato in Italia a tre anni si senta in tutti i sensi un cittadino italiano, per potergli assegnare la cittadinanza dopo i diciotto anni, non dovendo attendere ulteriori altri dieci anni.
Per il resto, concludendo, Presidente, al di là dei tempi ulteriori che la Lega avrebbe perché sono l'ultima a parlare per il mio gruppo ...

PRESIDENTE. Se me li chiede glieli do.

MANUELA DAL LAGO. No, non si preoccupi Presidente. Per il resto, vorrei concludere con la seguente riflessione. Non credo che ci siano, da una parte, i cattivi, in quanto pretendono una cittadinanza consapevole, condivisa, garantista per chi la dà e garantista anche per chi la riceve, e dall'altra, i cosiddetti buonisti che vorrebbero dare la cittadinanza a tutti. Ritengo che ci siano due modi di pensare, che non ci siano da una parte i violenti e dall'altra i buoni.
Da una parte ci sono coloro che ritengono che la cittadinanza sia una concessione e, come tale, non può essere data o venduta come quando si vanno a comprare le merendine in un supermarket; dall'altra parte, vi sono coloro che ritengono che in questo Paese siano più importanti i valori degli altri rispetto al mantenimento dei nostri valori e delle nostre tradizioni che noi vogliamo fortemente mantenere. Pertanto, riteniamo che possano essere cittadini italiani solamente coloro che sapranno e vorranno pienamente rispettare le nostre regole, la nostra storia, la nostra cultura e le nostre tradizioni (Applausi dei deputati dei gruppi Lega Nord Padania e Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Mogherini Rebesani. Ne ha facoltà.

FEDERICA MOGHERINI REBESANI. Signor Presidente, vorrei usare questi pochi minuti per leggere alcuni messaggi che ci sono arrivati da parte delle persone di cui stiamo parlando qui, dalle seconde generazioni. Anna scrive: «Quando mi chiedono di dove sei non ho dubbi, né problemi. Rispondo: «di Roma». Anche se a Roma non sono nata, su questo dubbi non ci sono. Sono di Roma. Il problema nasce quando mi chiedono: «Sei italiana?». Rimango imbambolata, sembro una deficiente di fronte a una domanda semplice semplice, e generalmente borbotto qualcosa come «è complicato». In effetti dire «sì, sono italiana» non è un problema perché non mi sento tale, dire «sì, sono italiana» vuol dire trascurare ciò che maggiormente mi influenza nel quotidiano, tutti i problemi del permesso di soggiorno, della mobilità, delle scelte pesantemente condizionate, le restrizioni. Ma Pag. 67poi neanche potrei dire «sì, sono italiana» se poi effettivamente non ho la cittadinanza, non voto e non ho la responsabilità nella scelta dell'attuale Governo. Mi avete capito? Voi come rispondereste?»
Anna sta interrogando noi. Noi come risponderemmo? Come rispondiamo come Parlamento? Loro hanno le idee molto chiare. L'appello della Rete nazionale di figli di immigrati G2-Seconde generazioni scrive a noi parlamentari italiani: «State discutendo del nostro futuro, del futuro di molti figli di questo Paese molti dei quali già adulti. Vorremmo, onorevoli parlamentari, che ci venga riconosciuta la cittadinanza italiana secondo il principio dello jus soli, e non più solo in virtù dello jus sanguinis. E per quelli che arrivano in Italia da piccoli, vorremmo che prima del compimento della maggiore età anche loro possano diventare cittadini. Infatti, è da bambini, tra i banchi di scuola e giocando nei cortili, che avviene quella che in molti chiamano integrazione; noi in realtà la intendiamo come socializzazione, tanto più se ci si riferisce a soggetti che sono in Italia da sempre o quasi. È da bambini, infatti, che nasce l'istinto della consapevolezza di essere cittadino di un certo Paese; è da bambini che si iniziano a mettere radici in quella che si dovrebbe percepire come casa. E non è questo, onorevole parlamentari, che fa di un Paese il proprio? Oggi siamo come alberi che mettono radici in un terreno che poi ci viene negato, e noi non ci rassegniamo ad essere alberi senza radici. «Auspichiamo che il nuovo testo di legge» - continuano - «oltre ad essere approvato in tempi brevissimi, non si dimentichi di chi è già maggiorenne e non ha ancora potuto ottenere la cittadinanza italiana a causa delle storture e delle lacune dell'attuale normativa. Chiediamo, a nome dei quasi novecentomila minorenni e delle altre migliaia di maggiorenni, tutti figli di immigrati già presenti in Italia, che ci venga data la possibilità di partecipare e contare in questo Paese come cittadini a pieno diritto. Infine, chiediamo accoratamente che questo Parlamento non ci illuda e soprattutto non ci deluda, chiedendoci di aspettare ancora. I tempi sono maturi per permettere a tutti noi di essere italiani e fieri di esserlo, non solo nello spirito, come già è, ma finalmente anche sulla carta». Dobbiamo loro una risposta, dobbiamo a questi italiani una risposta.
Vorrei concludere dando voce qui dentro alle parole di Sabrina che dice: «L'italianità di una persona non si vede dal viso. Non si vede né dalle mani, né dei capelli, né dal colore della pelle. Questa italianità da cosa si vede?
Essendo italiana, io non ho mai pensato di dover motivare questo mio sentimento nazionale a nessuno. Quando avevate sette anni, vi siete mai interrogati sulla vostra nazionalità? Penso di no. Bene, io l'ho fatto, e non per curiosità, ma per cause esterne: «Di dove sei?» «Di Roma» «Davvero?! Non sembri italiana» «Mia madre è brasiliana» «Ah, allora sei brasiliana» «No, sono italiana» «Allora sei nata in Italia?» «No, sono nata in Brasile, ma sono venuta a Roma quando avevo due anni» «Ah, certo certo... la sai ballare la samba?».
Ecco, questa è una delle cause esterne che mi hanno fatto per tanto tempo interrogare sulla mia italianità. La mia risposta è semplice. L'italianità è un insieme di ricordi, di sensazioni, di odori, di colori e di sapori. L'italianità è il sentirsi a casa in Italia, perché è questo che l'Italia per me rappresenta: casa. Se chiamo mia madre e le dico: «Mamma sto venendo a casa, vienimi a prendere in aeroporto», non è che mia madre parte e se ne va in Brasile. Mia madre va a Fiumicino. Logico no? No, non è logico nel ragionamento. Quello che il mio animo mi dice è sbagliato. L'Italia è una macchina burocratica lenta e ingiusta. L'Italia è una parola vuota sulla bocca di tanta gente che sembra prendere forma solo quando si tratta di definire ciò che è estraneo, che è diverso e per questo meno prezioso. L'Italia è una massa di gente per cui io sono e resto, qualunque cosa faccia, una straniera. Questa è l'Italia alla quale la gente, là fuori, vuole farmi credere. Io, però, sono più furba e mi tengo stretta la mia». Pag. 68
Credo che abbiamo il dovere di dimostrare a Sabrina che questa è anche la nostra Italia (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico - Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Naccarato. Ne ha facoltà.

ALESSANDRO NACCARATO. Signor Presidente, la legge in vigore sulla cittadinanza, la n. 91 del 1992, ha bisogno di modifiche sostanziali perché inadeguata: è superata dai flussi migratori che hanno cambiato in profondità la composizione sociale e culturale dell'Italia e dell'Europa negli ultimi vent'anni e che incideranno sempre di più in futuro. Il nostro continente è diventato la meta di milioni di cittadini stranieri che scelgono di abbandonare le nazioni di origine per realizzare progetti per una vita migliore. Negli ultimi dieci anni i cittadini immigrati che vivono regolarmente in Italia sono passati da poco più 1 milione a 4 milioni; i minorenni da 186 mila a circa 900 mila, con una crescita di 100 mila all'anno negli ultimi tre anni. Dal 1992 il Parlamento non è stato capace di affrontare seriamente la questione e, al di là degli sforzi delle diverse parti politiche, non è riuscito a modificare la legge. Oggi, finalmente, la questione arriva all'attenzione della Camera e il dibattito in corso costituisce un'occasione per colmare il grave ritardo accumulato in questi anni. Se sottraiamo il tema della cittadinanza alla propaganda - in molti interventi dei colleghi della maggioranza ho sentito solo un richiamo al programma di Governo che non prevede questo punto, ed è un argomento, a mio avviso, che nulla c'entra con il tema della cittadinanza e sul quale, invece, sarebbe utile evitare forme di propaganda - dobbiamo essere tutti consapevoli che rendere più difficile l'acquisizione della cittadinanza non ferma né rallenta i flussi migratori, ma ferma soltanto l'inserimento e l'integrazione nella comunità degli immigrati regolari. Dagli anni Novanta, tutti i principali Paesi europei hanno modificato le norme sulla cittadinanza seguendo i seguenti orientamenti: riduzione dei tempi di permanenza regolare negli Stati ai fini dell'acquisizione della cittadinanza; semplificazione delle modalità dell'acquisizione della cittadinanza per nascita; aumento delle verifiche per accertare l'effettiva integrazione. Il risultato è che in Gran Bretagna e in Francia un immigrato diventa cittadino dopo cinque anni di residenza, in Germania dopo otto anni, in Italia solo dopo dieci. I figli di immigrati ottengono la cittadinanza del Paese dove nascono se uno dei genitori risiede là da quattro anni in Gran Bretagna e da otto anni in Germania, mentre in Francia il minore può chiedere la cittadinanza già a tredici anni, in Italia a diciotto anni, se ha risieduto senza interruzione nello Stato. Siamo uno dei pochissimi Paesi a fondare la cittadinanza soltanto sullo ius sanguinis basato sull'appartenenza genealogica e ad escludere lo ius soli, basato sul luogo di nascita. Ora, oltre ad avere la legislazione più arretrata, si rischia di andare nella direzione opposta con la proposta presentata dai gruppi di maggioranza. Siamo arrivati alla situazione paradossale determinata con le norme sul voto dei cittadini italiani residenti all'estero per cui l'immigrato che da anni risiede regolarmente in Italia, ha la famiglia qui, paga le tasse, non è cittadino e non vota. Il figlio o il nipote di emigrati, nato e vissuto sempre, ad esempio, in Argentina, che non ha mai visto l'Italia e non paga le tasse qui, è cittadino, vota per il Parlamento e vota pure a domicilio.
Credo che sia necessario inserire nella nostra legislazione italiana almeno due elementi nuovi. In primo luogo, favorire l'acquisizione della cittadinanza di figli di immigrati nati in Italia, introducendo anche da noi forme di ius soli, pur mantenendo anche la cittadinanza iure sanguinis. L'introduzione dello ius soli funzionerebbe sul piano pratico: infatti se, come probabile, queste persone rimangono in Italia, è meglio concedere loro la cittadinanza prima piuttosto che dopo. E funzionerebbe anche come principio: è più giusta ed equilibrata, infatti, una società basata sull'inclusione e sulla condivisione Pag. 69rispetto ad un superato legame di sangue che funzionava quando eravamo una nazione di emigranti. In secondo luogo, consentire al minore immigrato legalmente e residente in Italia, che ha frequentato un corso di istruzione e formazione professionale, di diventare cittadino.
Un popolo non può essere ridotto a un legame di sangue. È il risultato complesso di storia, cultura, lingua, regole. Un popolo è fatto di identità collettive condivise non da rapporti di discendenza. I 900 mila minori figli di immigrati crescono con i loro coetanei figli di italiani e, nella stragrande maggioranza, sono destinati a rimanere nel nostro Paese per il resto della loro vita: frequentano le stesse scuole, parlano la stessa lingua, ascoltano la stessa musica e guardano gli stessi programmi televisivi, hanno le stesse aspirazioni ed aspettative. Insomma, sono uguali ai loro coetanei italiani solo che non sono cittadini. Oggi l'Italia li accoglie, ma dice loro: non siete italiani perché non avete sangue italiano. È un messaggio devastante sul piano culturale e può causare separazione ed esclusione, favorire la xenofobia e il razzismo, alimentare paure e chiusure. Se è vero che i giovani rappresentano il futuro di un Paese, una parte importante del futuro dell'Italia sarà affidata a questi giovani figli di immigrati. Per costruire un futuro migliore allora è necessario promuovere adesso elementi per favorire l'integrazione e il coinvolgimento di questi giovani nel sistema di valori, diritti e doveri della nostra Costituzione, promuovere cioè la formazione di percorsi di acquisizione di cittadinanza. Altrimenti, si possono insinuare e sviluppare sentimenti e comportamenti di antagonismo, rancore e odio verso le società chiuse e ostili.
Dobbiamo favorire la condivisione dei principi e dei valori del Paese del quale si chiede di essere cittadini. Per questo è utile rendere più rigorosa la conoscenza della lingua, della storia, delle norme costituzionali e del funzionamento delle istituzioni. L'articolo 54 della nostra Costituzione stabilisce che tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservare la Costituzione e le leggi. Per farlo, è necessario conoscerle, pertanto chi chiede la cittadinanza deve conoscere il sistema al quale vuole partecipare.
Si deve prendere atto che il legame etnico di consanguineità, lo ius sanguinis, non determina l'appartenenza a una nazione. Questa è determinata dall'accettazione volontaria di valori civici e costituzionali della comunità statale. La nostra storia, se la studiamo con attenzione e senza pregiudizi, ci insegna che siamo tutti figli di immigrati. La cittadinanza, intesa come condivisione pratica dei valori, dei diritti e dei doveri costituzionali, si rafforza soltanto se è esercitata tutti i giorni con continuità. La cittadinanza esprime l'appartenenza di una persona a uno Stato, appartenenza culturale, politica e sociale ed esprime un'identità tra il cittadino e la comunità nella quale vive e opera. Cittadino è chi partecipa attivamente ed effettivamente alla vita culturale, politica e sociale dello Stato. La legge deve promuovere il desiderio di assumersi responsabilità e di farsi carico della cosa pubblica. Favorire l'acquisizione della cittadinanza per i figli degli immigrati nati in Italia e per gli immigrati minorenni che risiedono e studiano qui costituisce un elemento fondamentale per costruire insieme una società più giusta e più serena. Per queste ragioni, ritengo necessario e urgente modificare la legge sulla cittadinanza con l'obiettivo di promuovere una coesione improntata al rispetto dei principi costituzionali fondamentali e di chiedere alle persone immigrate di farsi carico dell'interesse pubblico e di metterle in condizioni effettive di farlo (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare l'onorevole Amici. Ne ha facoltà.

SESA AMICI. Signor Presidente, «Un mondo che si considera prospero e civile, segnato da disuguaglianze e squilibri al suo interno, ma forte di un'amministrazione stabile e di un'economia integrata; all'esterno, popoli costretti a sopravvivere con risorse insufficienti, minacciati dalla fame e dalla guerra, e che sempre più Pag. 70spesso chiedono di entrare; una frontiera militarizzata per filtrare profughi e immigrati; autorità di governo che debbono decidere volta per volta il comportamento da tenere verso queste emergenze, con una gamma di opzioni che va dall'allontanamento forzato all'accoglienza in massa, dalla fissazione di quote d'ingresso all'offerta di aiuti umanitari e posti di lavoro. Potrebbe sembrare una descrizione del nostro mondo, invece è la situazione in cui si trovò per molti secoli l'impero romano di fronte ai barbari, prima che si esaurisse, con conseguenze catastrofiche, la sua capacità di gestire in modo controllato la sfida dell'immigrazione.»
È la prefazione e la sintesi di un libro scritto da un docente di storia medievale, Alessandro Barbero, dell'Università di Torino. L'ho voluto leggere come premessa, perché credo che la discussione che abbiamo avviato oggi interroghi profondamente la politica, la sua capacità di dare risposte e di assumersi delle responsabilità. Alla collega Dal Lago, che saluto perché sta andando via, voglio ricordare che ci sono dei temi e delle questioni che si impongono forti del loro urto per la necessità di trovare soluzioni.
A quei temi non c'è alcuna regola, né di programma di governo né di coalizione, a cui si possa non rispondere, pena l'idea che la politica rinunci ad una sua funzione.
Credo che sia stato giusto da parte del Partito Democratico chiedere un'accelerazione su questa questione, averne chiesta la calendarizzazione in Aula, aver chiesto di aprire un confronto trasparente, a luci completamente chiare, su quali siano le posizioni che si vogliono confrontare, perché quello che ci viene imposto dalla realtà è come fare i conti con un processo di immigrazione dentro il quale non c'è semplicemente l'idea di un Paese e di una nazione, ma c'è l'idea di costruire un nuovo futuro e una nuova idea stessa di nazione.
Troppo in questo dibattito risente ancora di una discussione fatta di schieramenti e di voglia di continuare una lunghissima e permanente campagna elettorale. La cittadinanza non è solo il quadro normativo; sarebbe troppo semplice e troppo semplificato. La cittadinanza è un valore: è un valore per i cittadini italiani, ma lo è ancora di più per chi possa decidere, in maniera volontaria, di chiederne l'acquisizione.
E allora, qual è l'idea di nazione che noi abbiamo? È solo l'amore patrio o dietro quell'identità di nazione vi è, invece, anche una concezione civica della stessa nazione, che è fatta di capacità di guardare alla sua statualità, di occuparsi della cosa pubblica, di convivere dentro una gamma di valori condivisi? Questa è l'idea di nazione dello Stato moderno, altrimenti siamo e ritorniamo a un'idea antica dello Stato nazione, che è molto chiuso, incapace di recepire quanto viene a bussare fortemente al nostro ingresso.
Nonostante l'apprezzamento, anche qui, non formale del lavoro della relatrice Bertolini, che si è trovata a svolgere una funzione di estremo equilibrio all'interno della stessa maggioranza, è venuto fuori un testo snello nella sua articolazione, ma del tutto privo di soluzioni rispetto a quei temi che oggi sono oggetto della nostra discussione e anche degli interventi in quest'Aula.
È un testo che elude i nodi strutturali della questione della cittadinanza ed è del tutto evidente, dalle posizioni che abbiamo assunto, che per noi la cittadinanza, nella proposta che è stata illustrata dalla relazione di minoranza del collega Bressa - ce ne rendiamo conto e ne siamo consapevoli - aveva un qualcosa di più.
Non era semplicemente l'aspetto normativo, ma cercava di mettere la classe dirigente politica di questo Paese di fronte ad un obiettivo: vedere se eravamo in grado, per la nostra storia, per i nostri profili e per la civiltà giuridica, di assumere all'interno dell'idea della cittadinanza un qualcosa di più.
Non è un caso che, in quella proposta di minoranza, oltre all'acquisizione e alle questioni relative ai cittadini stranieri legalmente residenti in Italia per molto tempo e ai loro figli minori, noi davamo un'altra risposta, che interrogava la capacità Pag. 71del diritto di non essere solo norma, ma di entrare nel vivo della quotidianità degli usi e dei costumi di un popolo, ed era quella dell'attribuzione della cittadinanza.
Ce ne rendiamo conto, ne siamo consapevoli: è uno degli aspetti più innovativi della proposta della relazione di minoranza e su questo sappiamo che le distanze sono enormi. Eppure, quella questione interroga tutti noi e ci interroga al punto tale che la stessa questione che viene sollevata oggi, anche da pezzi della maggioranza, relativa alla soluzione da dare ai bambini nati da cittadini stranieri, e quindi riconoscere loro, al momento della nascita, la possibilità di essere cittadini italiani, è una questione che si può risolvere solo ad una condizione: se si ha l'idea che la cittadinanza non sia solo un assetto normativo.
Qui siamo chiamati ad assumere la responsabilità della politica e non possiamo far finta che questi bambini non esistano, che la questione di chi viene in Italia e chiede di avere un percorso non ad ostacoli per l'acquisizione della cittadinanza sia un elemento dentro il quale si possano assumere criteri astratti di controllo, di verifica, di scuola con profitto, di capacità e di conoscenza di storie e culture, addirittura quasi qualcosa di più di quello che si chiede allo stesso cittadino italiano.
Credo che, se vogliamo assolvere fino in fondo la nostra funzione, dobbiamo alzare il livello della discussione. Questa classe politica è capace, tutta intera, di dare una risposta immediata, slegata dalle ambiguità della quotidianità politica, dalla mediazione e anche da un uso mediatico di questo tema, perché di tutto abbiamo bisogno tranne che la cittadinanza viva sotto i riflettori, che, a volte, fanno sono male.
La cittadinanza, per noi, è sul serio il percorso attraverso il quale misuriamo la nostra capacità giuridica e civile di nazione, di un'idea dinamica della stessa identità di popolo, che è oggi un popolo che deve guardare agli stranieri che chiedono la cittadinanza non ancora una volta come a stranieri, ma come a nuovi italiani. E la nozione di nuovi italiani comporta un'operazione più complessa, perché richiede capacità di cultura politica, di integrazione; chiede cioè un profilo che supera quello che storicamente ha legato la cittadinanza anche nei Paesi europei: la questione dell'appartenenza etnica, il valore quasi indissolubile dell'idea di sangue.

PRESIDENTE. Onorevole Amici, la invito a concludere.

SESA AMICI. A questi nuovi italiani noi dobbiamo offrire la possibilità concreta di avere da parte dello Stato italiano, della sua classe politica, l'attenzione non di una risposta normativa, ma di un grande e capace viaggio di nuova civiltà giuridica e civile, che solo noi possiamo e siamo in grado di dare (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Touadi. Ne ha facoltà.

JEAN LEONARD TOUADI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, vorrei cominciare questo intervento dicendo che sono d'accordo con la Lega Nord, quando dice che il provvedimento in esame non fa parte del programma di governo, se intendiamo per governo un Esecutivo espressione di una maggioranza. A parte che il programma di governo non è un dogma: dovrebbe essere un pacchetto aperto, un work in progress attento ai bisogni emergenti della società. Il tema della cittadinanza fa parte invece di un altro programma di governo: il governo lungimirante delle grandi sfide epocali che una democrazia deve affrontare; e lo dobbiamo fare senza pregiudizi ideologici, senza paraocchi propagandistici: dobbiamo affrontare la questione come l'hanno affrontata le grandi democrazie a noi paragonabili, senza vincoli di coalizione. Siamo chiamati ad un passaggio epocale: dallo ius sanguinis allo ius soli, dalla gens intesa come comunità di sangue al demos fondato sull'accettazione di valori comuni, di orizzonti di vita insieme, così come è stato delineato stamattina da altri. Pag. 72
Qualcuno diceva stamattina: voi così andate a traviare il solco della cittadinanza tracciato all'interno dello Stato nazione. Vorrei dire al collega del PdL, che è intervenuto questa mattina, quanto è cambiata in questi anni con la globalizzazione l'articolazione dello spazio nazionale, così come l'abbiamo conosciuto. La costruzione europea stessa ha modificato la rigidità dello Stato nazionale, introducendo l'idea, la nozione, il concetto di uno spazio di cittadinanza transnazionale; e del resto il Trattato di Lisbona stesso ci porterà verso il superamento dell'Europa intergovernativa, quindi dell'Europa basata sulle istanze dello Stato nazione, verso quella che tutti noi auspichiamo sia una patria europea.
Cambiano quindi i connotati della cittadinanza, caratterizzati da una mobilità e plasticità che adesso notiamo che non coincide più con la staticità e la rigidità delle appartenenze di sangue. È un passaggio quindi fondamentale, è un passaggio che ci chiede la stessa Unione europea nella risoluzione adottata il 2 aprile 2009 sui problemi e le prospettive concernenti la cittadinanza europea, laddove il Parlamento europeo ha invitato gli Stati membri a riesaminare le loro leggi sulla cittadinanza e ad esplorare le possibilità di rendere più agevole per i cittadini non nazionali l'acquisizione della cittadinanza e il godimento dei pieni diritti. Il Parlamento europeo ha altresì auspicato che sia favorito lo scambio di esperienze sui sistemi di naturalizzazione in essere nei diversi Stati membri, al fine di pervenire ad un'armonizzazione, pur nel rispetto della competenza dei singoli Stati membri, nel determinare i modi di acquisto e perdita della cittadinanza, e ad un'accettazione continua ovviamente.

PRESIDENTE. Onorevole Touadi, la invito a concludere.

JEAN LEONARD TOUADI. È quindi l'Europa stessa che ce lo chiede, e non possiamo noi continuare a tenere le vecchie regole; e parlo solo dei bambini, signor Presidente, bambini stranieri immigrati, che solo impropriamente chiamiamoli tali, per pigrizia mentale.
Quelli che nascono, infatti, nel nostro Paese, signor Presidente, sono bambini italiani che frequentano i luoghi dell'iniziazione collettiva, della formazione dell'uomo e del cittadino, così come recitano i decreti delegati della scuola. Non possiamo e non dobbiamo lasciarli in un limbo giuridico che è anche un limbo di doveri dove, per questi bambini, mancano i diritti fondamentali, un limbo di assistenze sospese che accumula rabbia e disperazione che non favoriscono la pace sociale.
Concludo, signor Presidente, dicendo che un grande Paese come il nostro non può e non deve temere la novità dell'innesto. Esaminando questo provvedimento vi chiedo, vi supplico e vi imploro di dare una patria a questi bambini, di dar loro la terra dei padri che hanno scelto di vivere e di lavorare nel nostro Paese accettando la fatica della condivisione delle leggi e il rispetto dell'identità nazionale che, ricordo, non è mai una cosa chiusa, ma un organismo vivente ad alta complessità che accetta la sfida della novità dell'innesto (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mecacci. Ne ha facoltà.

MATTEO MECACCI. Signor Presidente, il tema che è in discussione oggi non riguarda solo una proposta di riforma della legge sulla cittadinanza, riguarda altresì il tipo di società, di Paese e di nazione che il Parlamento vuol contribuire a formare e a costruire perché, vedete, colleghi, le decisioni che si prendono in questa sede, ma anche gli argomenti, la retorica, le accuse e le imputazioni che si fanno non sono separate o scollegate dalla realtà del Paese. Sono parole e provvedimenti che producono un effetto diretto sulla vita dei cittadini che ci ascoltano, siano essi labili o sani di mente. Questo vale ricordarlo perché nel corso di questa legislatura il tipo di dibattiti che abbiamo avuto in Parlamento - quello ad esempio Pag. 73sul tema della sicurezza e dell'immigrazione - sono stati caratterizzati da decisioni e provvedimenti che hanno portato, tra l'altro, non dimentichiamolo, alla criminalizzazione del semplice status di immigrato clandestino. Altro che nuova cittadinanza! In questo Paese si può essere incriminati non solo ove si offenda, si ferisca o si danneggi qualcuno o i suoi beni, ma anche solo perché si è dei clandestini e quindi non in grado di ottenere un permesso di soggiorno.
Abbiamo avuto poi altri provvedimenti come quelli che hanno portato alla politica dei respingimenti dei barconi di immigrati verso la Libia che, a differenza di quello che è stato affermato stamattina dal collega Bocchino, sono stati definiti illegali e illegittimi, non tanto dall'opposizione - anche perché una parte dell'opposizione, il mio gruppo politico in particolare, ha votato a favore del Trattato con la Libia - ma dall'UNHCR, l'Agenzia dell'ONU che si occupa dei rifugiati e anche dal Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite. Insomma, si tratta di provvedimenti che hanno portato sia alla criminalizzazione tecnica che all'emarginazione sociale di un'intera categoria di persone, quella degli immigrati clandestini che spesso si trovano nel nostro Paese solo per lavorare e che devono farlo nell'illegalità, in nero, non per loro scelta ma perché così stabiliscono le nostre imprese anche a causa delle norme che regolano il mercato del lavoro. Da un lato, quindi, si richiedono sempre più servizi agli immigrati e, dall'altro, si nega loro una condizione sociale riconosciuta dallo Stato.
C'è un'altra vicenda di cui non si parla che va però inserita in questo dibattito sulla cittadinanza e che riguarda una premessa fondamentale per diventare cittadini in questo Paese: si tratta della questione del rinnovo dei permessi di soggiorno. Secondo Il Sole 24 Ore sono infatti oltre 700 mila gli immigrati che sono in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno in Italia. L'articolo 5 del Testo Unico sull'immigrazione prevede che il permesso di soggiorno venga rilasciato, rinnovato o convertito entro venti giorni dalla domanda. Oggi invece si devono aspettare dai sette ai quindici mesi anche solo per il rinnovo di un permesso della validità di un anno. La conseguenza incredibile e misconosciuta di ciò è che centinaia di migliaia di persone che lavorano, studiano e crescono i propri figli in Italia si trovano nella totale incertezza, in preda alla paura di essere espulsi da questo Paese non perché siano criminali, ma perché lo Stato li tratta come un fastidio, qualcosa di cui liberarsi, come persone cui va resa più difficile la vita, come ha detto stamattina il presidente del gruppo parlamentare della Lega Nord Padania, Roberto Cota.
Per chiedere il rispetto della legge sul tema del rinnovo dei permessi di soggiorno un dirigente radicale originario della Costa d'Avorio, Gaoussou Ouattara, che è da 29 anni nel nostro Paese, ha iniziato dal 12 dicembre uno sciopero della fame e a lui si sono uniti oltre 30 esponenti delle comunità di immigrati in tutta Italia (una iniziativa non violenta per ottenere non una nuova legge, bensì il rispetto di quella esistente).
Credo dunque che se la realtà a cui si guarda - la realtà dell'Italia - è quella che è stata descritta questa mattina dal presidente del gruppo della Lega, Roberto Cota, la conseguenza è che si faccia un provvedimento come questo che inasprisce le norme per ottenere la cittadinanza in questo Paese, ma poi non ci si deve stupire se nel nostro Paese aumentino l'odio, la paura e l'incertezza, perché all'incertezza e alla negazione del diritto poi corrispondono purtroppo anche violenze e stragi ai danni di esseri umani.
Signor Presidente, chiedo che la Presidenza autorizzi la pubblicazione in calce al resoconto della seduta odierna del testo integrale del mio intervento.

PRESIDENTE. Onorevole Mecacci, la Presidenza lo consente, sulla base dei criteri costantemente seguiti. È iscritto a parlare l'onorevole Giovanelli. Ne ha facoltà.

ORIANO GIOVANELLI. Signor Presidente, vorrei intanto dire che sono molto Pag. 74d'accordo con le considerazioni che in quest'Aula ha svolto l'onorevole Della Vedova, e questo mi fa ben sperare relativamente al fatto che su tale questione si possa discutere non dico - un po' ingenuamente - al di fuori degli schieramenti tra maggioranza e opposizione, ma liberamente (userei questa espressione), tanta è la rilevanza e l'importanza dell'argomento che è venuto all'ordine del giorno dei nostri lavori.
Non credo tanto che affronteremo bene questa questione se ci limitiamo a riflettere relativamente alla storia del nostro Paese e alle generazioni emigranti che ci hanno preceduto; la questione è proprio quella che l'onorevole Della Vedova poneva, ossia: che tipo, che idea di Repubblica abbiamo in mente? Parliamo di noi, non di altri.
È toccata alla nostra generazione la responsabilità di disegnare un nuovo profilo di civiltà, questo è il punto. Se alla generazione precedente è toccato di riflettere relativamente ad una civiltà che fosse fondata sul lavoro e che, in qualche modo, frenasse quello che è stato un fenomeno per certi versi drammatico di emigrazione di italiani verso Paesi stranieri, a noi tocca oggi disegnare un profilo di civiltà della nostra Repubblica che è fatto di immigrazione, di arrivi, di persone che giungono nel nostro Paese nella speranza di trovare una vita migliore, un lavoro, la condizione per realizzare il loro progetto di vita.
Credo appunto che questa responsabilità è toccata a noi e che noi la dobbiamo svolgere con grande attenzione e partecipazione, non emotiva ma razionale; sotto la spinta di cambiamenti epocali sta a noi scegliere tra due alternative: quella appunto di creare un nuovo equilibrio, un nuovo profilo della civiltà che sta alla base di questa nostra Repubblica ovvero man mano arretrare, di diritto o di fatto, rispetto alla stessa idea di civiltà che abbiamo ereditato dai nostri padri e che è scritta nella nostra Costituzione.
Quello della cittadinanza è un passaggio chiave per dare una risposta a questa alternativa. Le soluzioni che andremo a definire, dobbiamo saperlo, non sono e non saranno definitive, nel senso che anche a noi compete il dovere di indirizzare e di creare le condizioni perché si vada verso una certa strada, perché vi sia un'evoluzione. Non sta a noi, probabilmente, il compito di dire una parola definitiva rispetto al carattere della nostra società multietnica e ai suoi equilibri definitivi. Però quello che ci compete è fondamentale, perché dobbiamo creare il substrato, le condizioni, l'ambiente, il clima tale, perché questi cambiamenti siano fortemente impregnati dei valori fondanti della nostra Repubblica e, nello stesso tempo, siano tali da poter acquisire all'idea di cittadinanza persone che vengono da Paesi stranieri, o che sono nati nel nostro Paese, che non hanno potuto avere neanche lontanamente l'idea di quanto ci è costato arrivare a questi punti di riferimento.
Indicare la rotta e segnare il processo evolutivo è, quindi, fondamentale. L'alternativa è andare verso un processo di involuzione, sapendo che questo processo di involuzione possibile, rischioso, che dobbiamo evitare, non comporterà soltanto una maggiore difficoltà verso i cittadini che entreranno nel nostro Paese, ma cambierà il nostro modo di essere, lo stesso nostro modo di essere rispetto ai principi che hanno orientato la nostra vita, la nostra crescita, la nostra maturazione e la nostra cultura.
Per questo è fondamentale andare oltre gli schieramenti. Per questo è fondamentale un confronto vero, profondo, e predisporsi a far valere il valore che un percorso parlamentare può dare. È fondamentale far valere quell'idea di laicità che tante volte abbiamo evocato, anche impropriamente, e che invece in questo caso è davvero la linea d'orizzonte alla quale dobbiamo volgere il nostro sguardo. Un'idea di laicità che è fatta di ragionevolezza, di senso della misura, di approfondimento, di merito, di abbandono di qualsiasi pregiudizio ideologico.
Vorrei dire all'onorevole Cota che sono d'accordo con lui: non serve lasciarsi andare, abbandonarsi a sogni facili, lo sappiamo che non ci sono sogni facili da Pag. 75proporre. Ma vorrei dire all'onorevole Cota: evitiamo anche gli incubi di un Paese che, magari per il consenso immediato che può evocare la paura, faccia dei passi indietro rispetto ai suoi stili di vita, al suo modello di pensiero, alle sue stesse conquiste di civiltà.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

ORIANO GIOVANELLI. È passato tanto tempo dal 1992. Il fenomeno dell'immigrazione ha cambiato del tutto natura rispetto a quel momento in cui siamo stati coinvolti in una fase di emergenza nella quale il primo problema era quello di dare un tetto, un pasto caldo a questi sbandati. Oggi siamo di fronte a una realtà nella quale dall'immigrazione dipende una parte fondamentale della nostra economia. Abbiamo scuole dell'infanzia quasi totalmente frequentate da bambini stranieri, abbiamo piccoli centri urbani del nostro bellissimo territorio che tornano a vivere proprio grazie all'immigrazione, dopo una fase di emigrazione conosciuta dai cittadini italiani. Che cosa vogliamo fare? Vogliamo dare a costoro una prospettiva di diventare cittadini italiani o vogliamo, come è stato detto, erigere dighe, rendere complicato questo processo?
Io credo che ciò sarebbe davvero sbagliato per la nostra prospettiva.

PRESIDENTE. Deve concludere.

ORIANO GIOVANELLI. Perché - concludo - la questione della cittadinanza, che noi affrontiamo, è parte fondamentale della questione sociale del nostro Paese. Cosa evoca in noi l'idea della cittadinanza? Evoca l'idea di diritti e di doveri: diritti, certo, diritti di fronte al datore di lavoro nel momento in cui c'è un'economia che marcia sullo sfruttamento di queste persone; diritti di fronte a coloro i quali affittano le case e approfittano delle condizioni di disagio, di difficoltà e di emarginazione di queste persone. E anche doveri...

PRESIDENTE. Deve proprio concludere.

ORIANO GIOVANELLI. Ma nel momento in cui evochiamo i doveri dobbiamo anche ricordare i diritti. Una legge che in qualche modo ostacolasse un processo di cittadinanza significherebbe che noi in qualche modo andremmo nella direzione di rendere vuoti questi diritti (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Gozi. Ne ha facoltà.

SANDRO GOZI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il testo che noi oggi esaminiamo lascia molte questioni irrisolte, perché irrisolte sono le forti divergenze all'interno della maggioranza su questo tema. Capisco le difficoltà della collega Bertolini, capisco le difficoltà ma non posso condividerne la soluzione. Il provvedimento che abbiamo in esame compie la scelta della chiusura, della diffidenza, guarda al passato, una chiusura e una diffidenza verso i cittadini stranieri con prevalenza del legame di sangue, con un ulteriore indebolimento del diritto di cittadinanza per chi nasce in Italia, in netta controtendenza rispetto agli orientamenti dei principali Paesi dell'Unione europea.
Voglio sperare che ci possano ancora essere degli spazi per trovare un accordo più avanzato, un accordo più avanzato anzitutto per noi italiani, perché siamo noi italiani in primo luogo ad avere interesse a trovare una soluzione molto più positiva, più moderna e più adeguata alle esigenze del Paese sul tema della cittadinanza.
Certo, la cittadinanza è una fondamentale scelta nazionale, una scelta che corrisponde alla visione di società e di convivenza civica di un Paese, ma per un Paese europeo è anche un contributo alla realizzazione di uno spazio di libertà, di diritti e di cittadinanza appunto, condiviso nella stessa Unione. Lo ricordava il collega Touadi, il Parlamento europeo nella risoluzione del 2 aprile 2009 spronava gli Stati membri a rivedere i modi di acquisto e di perdita della cittadinanza per offrire ai cittadini dei Paesi terzi l'opportunità di ottenere la cittadinanza dello Stato membro Pag. 76in cui risiedono; invitava a riesaminare le loro leggi e ad esplorare le possibilità di rendere più agevole e non più complicato - come invece fa questo provvedimento - per i cittadini non nazionali l'acquisizione della cittadinanza e il godimento dei pieni diritti; suggeriva di favorire lo scambio di esperienze sui sistemi di naturalizzazione per un maggior coordinamento per quanto riguarda i criteri di accesso alla cittadinanza in maniera tale da limitare le discriminazioni (discriminazioni che in Italia permangono e rischiano di aumentare con questo provvedimento).
Sull'immigrazione infatti occorre un nuovo approccio. È un problema sul quale ci si è divisi troppo spesso tra ottimisti ciechi e pessimisti che vedono pericolo ovunque, tra chi fa lo struzzo e chi fa il gufo. Certo, la cittadinanza non garantisce automaticamente l'integrazione, ma non c'è vera integrazione senza cittadinanza. Il modo in cui legiferiamo sulla cittadinanza dà il senso della nostra visione della comunità nazionale, del grado di apertura che intendiamo adottare nei confronti degli stranieri e di come vogliamo vivere meglio insieme. Solo una visione liberale, basata sui diritti dell'individuo, sulla legalità, sull'uguaglianza, fondata sull'integrazione, può portarci sul cammino giusto, un cammino che la proposta in esame rende troppo lungo e tortuoso.
Guardiamo ad esempio al tempo di residenza richiesto per la naturalizzazione. Il testo attuale rimane fermo a dieci anni, che sono senz'altro troppi, che non sono più adatti alle esigenze attuali, che ci pongono molto al di sopra della media europea. Un periodo di cinque anni - come accade in Francia e nel Regno Unito - è senza dubbio più adeguato. Occorrono regole certe che definiscano un percorso definito in tempi prevedibili per l'ottenimento della cittadinanza, per una vera e completa integrazione. Il percorso in esame rende l'accesso alla cittadinanza ancora più complesso perché vi sono nuovi ulteriori requisiti aggiuntivi.
Pensiamo ad esempio al requisito del possesso del permesso CE per soggiornanti di lungo periodo: che succede se un individuo non lo ha richiesto e si è limitato a chiedere il rinnovo annuale per dieci anni? Non ha più accesso alla cittadinanza? Pensiamo alla frequentazione di un corso di educazione civica e linguistica: può essere utile, è previsto in vari altri Paesi, io stesso nella passata legislatura con Fouad Allam avevo fatto proposte simili, ma laddove previsto (penso ad esempio alla Germania) serve ad accorciare i tempi per la naturalizzazione, proprio perché dimostra una forte volontà di aderire alla comunità nazionale, che va prima incentivata poi premiata, mentre nella vostra proposta diviene unicamente un requisito aggiuntivo a quanto già previsto.
Ma il punto determinante è sicuramente l'estensione o meglio la restrizione, nel testo, del principio dello ius soli, la possibilità di divenire italiano per chi nasce in Italia, un principio - lo hanno già ricordato in molti - che si sta affermando nella maggior parte dei Paesi avanzati.
Penso al caso francese, un caso su cui si fonda l'intero impianto repubblicano e credo che se la destra italiana guardasse alle difficoltà in cui si sono cacciati Sarkozy e la destra francese, proprio proponendo un nuovo dibattito sull'identità nazionale che non ha né capo né coda, magari potrebbe anche trovare fonte di ispirazione per evitare di compiere gli stessi errori in Italia.
Penso a quello tedesco, che ha profondamente modificato la sua legislazione in materia consentendo dal 2000 ai nati in Germania di diventare automaticamente tedeschi, oltre ad acquisire la nazionalità dei genitori. Il nostro Paese, in base al testo in esame, si distinguerebbe ancora una volta in Europa per andare nella direzione opposta: nella proposta resta la prevalenza dello ius sanguinis, e si restringe addirittura la portata dello ius soli.
In una realtà sociale profondamente mutata come quella italiana, dove le ultime stime attribuiscono al nostro Paese 4 milioni e mezzo di stranieri regolari, dei quali solo 40.000 arrivano ad acquisire la cittadinanza, la vostra proposta sembra molto lontana da quanto necessita il nostro Pag. 77Paese. Sono solo 40.000 perché nella maggior parte dei casi non ci provano neppure, dato che è un «percorso di guerra» talmente difficile e talmente discrezionale nelle mani della burocrazia.
Ma ciò che proprio non capisco è la ragione per cui la proposta non tratti in maniera molto più specifica la questione dei minori stranieri. Possiamo ignorarli, ma i dati non cambiano e i dati ci dicono che al 1o gennaio 2008 i residenti stranieri nati in Italia, la cosiddetta seconda generazione, erano quasi mezzo milione e i minori stranieri in Italia rappresentavano più del 22 per cento degli stranieri residenti.
Ne ho sentite e lette tante in questi giorni: voi della maggioranza avete addirittura parlato della crisi di identità delle seconde generazioni, adducendola come motivazione - cito dai resoconti della I Commissione - «a non forzare l'integrazione», sostenendo che «non si può dare per scontato che chi nasca in Italia voglia essere italiano». Ma così si ribaltano i termini della questione: la crisi di identità c'è in chi non ha senso di appartenenza.
Come volete che si crei questo sentimento, se i provvedimenti che proponiamo emarginano i giovani italiani - non di diritto ma solo di fatto - rispetto ai coetanei? Frequentano le stesse scuole, hanno le stesse aspirazioni, gli stessi sogni, ma ad un certo punto scoprono di non avere gli stessi diritti, scoprono di non avere le stesse opportunità. Sono la «generazione Balotelli», come sono stati definiti e come li ha definiti lo stesso Presidente Fini. Ci dimostrano quanto sia vecchio un Paese che ragioni ancora sul diritto di sangue per distinguere i propri cittadini. Sono le famose seconde generazioni, i giovani che sono nati in Italia o che ci sono arrivati prima di cominciare la scuola, che non possono essere definiti immigrati, perché non lo sono, ma nemmeno italiani, perché il diritto di cittadinanza viene loro negato o viene loro ingiustamente ristretto. Sono loro a mostrare una convergenza di abitudini e di costumi con i coetanei italiani, una voglia di integrazione, un'apertura mentale che si scontra con la chiusura della nostra società, della nostra legislazione e della vostra proposta. Ma se vogliamo una vera integrazione non possiamo certamente continuare a trattarli come «figli di un diritto minore». Sì, perché queste generazioni di «italiani con il trattino» sono veramente «figli di un diritto minore», vittime di una visione anacronistica della nazione.
Concludo signor Presidente: lo sforzo che questo dibattito impone è grande, me ne rendo conto, richiede un'apertura mentale tale da farci capire ed accettare che si può essere italiani per scelta, non solo per nascita. L'unico strumento per costruire insieme, con un atto di volontà individuale e collettiva - e la parte lesa collettiva dobbiamo farla noi in questo Parlamento - è quello di un nuovo patto repubblicano e la piena integrazione sancita dalla cittadinanza.
Alle piccole patrie etniche care alla Lega, che anche oggi ci ha dimostrato quanto sia lontana dai bisogni del Paese, rispondiamo con un nuovo patriottismo costituzionale italiano, con i piedi nel presente e lo sguardo rivolto al futuro (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Monai. Ne ha facoltà.

CARLO MONAI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, signor sottosegretario, quella in discussione è una tematica molto sensibile in un Paese a forte connotazione democratica e liberale come l'Italia, che affronta questo tema, in un momento contraddistinto da una certa ritrosia verso la questione dell'integrazione multietnica. Tale questione, ormai da diversi anni, contraddistingue l'esperienza delle nostre città e delle nostre zone più sviluppate, con una forte presenza di immigrati anche nel settore agricolo e con situazioni, spesso, al margine della legalità, con lo sfruttamento dei braccianti e l'istituto dei caporalati.
Il Parlamento dovrebbe essere chiamato ad un atto di responsabilità e ad Pag. 78un'assunzione di ruolo, al fine di rendere questa nostra legislazione più al passo con i tempi, e con l'obiettivo di favorire quel processo di integrazione senza il quale si creano e si mantengono diritti di minore intensità per una sfera sempre più ampia di soggetti. Essi, infatti, si trovano al margine della società, perché non hanno pari dignità di ruolo nell'ambito dei diritti civili, politici e sociali che la Costituzione repubblicana, fin dal 1948, ha esplicitato.
È un percorso difficile e lento che ha visto, anche nel nostro Paese, un'evoluzione faticosa. Nella storia italiana, infatti, per tanti anni, la cittadinanza è stata riconosciuta, sostanzialmente, ai cittadini maschi e non alle donne. Ricordo che nello Statuto albertino del 1848 vi era una norma che riconosceva a tutti i regnicoli, qualunque fosse il loro titolo o grado, l'uguaglianza dinanzi alla legge ed enunciava il principio che tutti fossero ugualmente intitolati ai diritti civili e politici, ammessi alle cariche civili e militari, salve le eccezioni determinate dalle leggi. Si dà il caso che queste leggi riconoscevano la cittadinanza solo agli uomini, mentre le donne erano subordinate all'autorità del pater familias.
La situazione di un mondo letto attraverso gli occhi dell'uomo, e non della donna, che aveva antecedenti millenari, è rimasta valida anche dopo la Costituzione repubblicana, che ebbe il merito di considerare tutti gli italiani chiamati alle urne - donne o uomini che fossero - per il referendum istituzionale concernente la scelta fra monarchia e Repubblica e per l'elezione dell'Assemblea costituente.
Resta il fatto che, nonostante la Costituzione prevedesse la parità di cittadinanza tra uomo e donna, in realtà, fu solo la sentenza della Corte costituzionale n. 87 del 1975, a sancire il diritto di cittadinanza italiana anche al figlio di donna italiana e di padre straniero, riconoscendo, quindi, lo ius sanguinis anche in ordine alla linea femminile, e non solo a quella maschile.
In seguito, va ricordata la legge n. 151 del 1975, che ha riformato il diritto di famiglia, e che, finalmente, ha sancito un'uguaglianza reale e sostanziale anche all'interno del matrimonio e nell'ambito della pari dignità, del pari ruolo e del pari valore dei due sessi.
Oggi, la tematica si sposta: non è più relativa alla parità tra uomo e donna. Diventa una necessità prendere atto che, nel nostro Paese, esiste una forte immigrazione, che è aumentata vertiginosamente proprio negli ultimi anni, e che vede, ormai, anche nelle piccole comunità convivere persone provenienti da altri Paesi nelle scuole e negli ambienti di lavoro.
Si avverte la necessità di approcciare questo tema senza ideologismi e senza populismo; viceversa, il testo unificato di proposte di legge che è stato approvato in Commissione ed è ora all'esame dell'Assemblea risente, a mio giudizio, di una sorta di peccato originale. È una timida apertura verso una cittadinanza più accettabile e integrata, ma con forti contaminazioni e compromissioni legate alla concedibilità di questa situazione soggettiva, che dovrebbe essere un diritto soggettivo e che viene invece svalutata ad una sorta di concessione della pubblica autorità attraverso una serie di paletti (tra cui il profitto scolastico, piuttosto che altro) che attribuisce una forte discrezionalità e rende assai più opinabile quell'automatismo che dovrebbe essere riconosciuto a diritti di questa natura.
Da questo punto di vista, noi dell'Italia dei Valori riscontriamo sicuramente più affinità con la proposta di legge di minoranza, nel senso che vi riconosciamo maggiormente quell'enunciazione di principi tesi al rispetto delle norme costituzionali (dell'articolo 3, piuttosto che di altri) che riconoscono una dignità di soggetti politici e civili a coloro che per diritto di suolo (ius soli) abbiamo mantenuto in questo Paese una prolungata consuetudine di vita che possa rendere loro il riconoscimento di aver acquistato una sorta di integrazione e di riconoscibilità come cittadini e come componenti di questa comunità nazionale.
Il provvedimento, a nostro giudizio, dovrà essere temperato da una serie di Pag. 79aggiustamenti e di emendamenti che vorremmo vedere approvati anche in questa sede. Ricordo che vi sono auspicabili motivi perché la legislazione in materia di cittadinanza non sia segmentata in Italia in maniera troppo diversa da quella che vige negli altri Paesi europei. L'Unione europea è un grande disegno unitario che è partito dal punto di vista economico-finanziario e, attraverso una lenta e profonda riflessione, è approdato a un disegno costituzionale nel quale l'aspetto politico e l'aspetto della cittadinanza europea hanno assunto un valore sostanziale di riconoscimento di diritti civili e politici per ciascuno dei cittadini che vivono e appartengano agli Stati membri.
Rimane forse la necessità di una più attenta e convinta azione politica tesa a eliminare e a ottundere quelle diversità che ancora oggi abbiamo nelle legislazioni degli Stati membri, perché dovremmo tutti aspirare a un concetto di cittadinanza che sia certamente una cittadinanza nazionale italiana, piuttosto che inglese o francese, ma che possa garantire a tutti coloro che vi aspirano una parità di condizioni, di opportunità e di criteri di ammissione e di riconoscibilità.
Ricordo, inoltre, come il Parlamento europeo, proprio nell'aprile di quest'anno, abbia auspicato che gli Stati membri modifichino le proprie legislazioni interne per pervenire, pur nel rispetto delle competenze dei singoli Stati membri, a determinare modi di acquisto e di perdita della cittadinanza uniformi nel contesto europeo. Questo provvedimento, che la maggioranza e il Governo ci propongono, si distanzia, piuttosto che avvicinarsi, a questo obiettivo.
Lavoreremo con grande scrupolo e con grande disponibilità affinché le criticità di questa normativa, che vi accingete a deliberare, siano eliminate nella logica di garantire una maggiore integrazione per quei cittadini - e sono sempre più numerosi - che ormai fanno parte della nostra comunità nazionale e che dovremo tutti sforzarci di accettare, nel rispetto delle leggi, delle nostre tradizioni e nella logica di una società multietnica nella quale le molte identità convivono in pace e nel progresso di tutti (Applausi di deputati del gruppo Partito Democratico).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Cicchitto. Ne ha facoltà.

FABRIZIO CICCHITTO. Signor Presidente, mi sembra evidente che è stata compiuta una forzatura nel chiedere l'interruzione sostanziale dei lavori della Commissione e di fare approdare il provvedimento in Aula. Una serie di temi e di questioni, compresa quella dei minori, potevano essere approfondite e sviluppate - e si potevano trovare delle soluzioni - con un lavoro in Commissione che l'opposizione non ha voluto che si facesse. Tuttavia, poi sono emersi, nel corso della discussione, delle questioni che attengono alla visione complessiva del problema. Pertanto, l'onorevole Franceschini non può venire qui a «farci la predica» sulla base della sua visione del problema, perché noi ne abbiamo una totalmente diversa. È dunque evidente che vi è un confronto su due diverse visioni del problema. Il nodo di questa questione sta nel fatto che per quanto riguarda l'opposizione vi è la concezione secondo cui la cittadinanza è uno strumento di integrazione. Noi contestiamo questa visione e questa interpretazione non perché siamo xenofobi, ma perché siamo, per un verso, realisti e, per l'altro, perché abbiamo della cittadinanza, evidentemente, una concezione diversa da quella dell'opposizione.
Dicevo che siamo realisti, nel senso cioè che ho sentito e letto delle interpretazioni sul rapporto cittadinanza e immigrazione che sono delle forzature rispetto a quello che pensano e fanno realmente gli immigrati sia in Italia sia in Germania. Infatti, sia in Italia sia in Germania - le cifre parlano chiaramente - vi è una grande quantità di immigrati che non ha nessuna intenzione e volontà di acquisire la cittadinanza e che interpretano la loro fase lavorativa e di vita come una fase a «rotazione». In Germania, ad esempio, questa rotazione dura tra i 15 e i 20 anni. In Italia, allo stato attuale, la durata di Pag. 80essa è di 5-10 anni. Ebbene, queste persone vengono nel nostro Paese a lavorare, ad acquisire dei risparmi, possibilmente anche una posizione pensionistica e poi vogliono ritornare nel loro Paese. Dunque, l'attenzione che dobbiamo avere su questo tema è, per un verso, quella affrontata con la cosiddetta legge Bossi-Fini, in termini da assicurare l'assoluta attenzione per quello che riguarda l'autentico rapporto lavorativo di coloro che vengono nel nostro Paese e, per l'altro verso, quella di assicurare a coloro che vengono a lavorare con queste intenzioni nel nostro Paese le condizioni migliori, compresa anche una riflessione - che si deve compiere - sul rischio a cui essi sono esposti di truffe pensionistiche cui possono andare incontro. Ebbene, questa realtà è tipica del nostro Paese e della Germania.
Poi vi è un'altra realtà, più contraddittoria, sulla quale si è soffermata questa mattina, in termini molto esaustivi e brillanti l'onorevole Santelli, che riguarda l'Inghilterra e la Francia, cioè Paesi a tradizione coloniale che hanno pensato che, a seguito di questa tradizione coloniale, essi potessero realizzare un processo di assoluta assimilazione.
Poi noi abbiamo visto in quel contesto, totalmente diverso dal nostro e da quello tedesco, che purtroppo questo processo di assimilazione addirittura alla seconda o alla terza generazione è entrato in crisi (a tutti noi è presente la vicenda che va sotto il nome di Londonstam), per cui c'è stata una revisione legislativa anche in questi Paesi che, avendo un retroterra storico totalmente diverso dal nostro, si erano spinti molto in avanti su questo terreno.
Qui veniamo ad un nodo di fondo, quello della concezione della cittadinanza. La cittadinanza per l'opposizione è uno strumento di integrazione, con un'interpretazione a mio avviso riduttiva e pericolosa della cittadinanza in questa versione. Per noi l'immigrazione ha un suo canale di svolgimento; la cittadinanza di quella minoranza di immigrati che sono interessati ad essa - ed è una minoranza molto significativa, ma pur sempre ridotta - ha un altro percorso. La cittadinanza attiene al nucleo fondamentale e fondativo della legislazione nazionale, attiene all'identità giuridica e politica del cittadino. In sostanza implica che chi vuole essere cittadino deve avere l'intenzione di realizzare un'assimilazione politica, culturale e linguistica assai profonda. Questo è il nodo sul quale ci misuriamo su posizioni diverse che non attengono alle battute polemiche che voi avete fatto, ma proprio ad una visione di carattere generale.
A quel punto certamente una cittadinanza che ha questa valenza e questo significato, perseguita - diciamo così - con un atto di volontà da parte di immigrati che si pongono su quest'altra dimensione, è chiaro che deve avere un intreccio di aspetti quantitativi e di aspetti qualitativi. Non ho condiviso e non condivido un aspetto fondamentale della proposta Granata-Sarubbi, però di quella proposta colgo un altro aspetto, l'aspetto qualitativo. Noi dobbiamo intrecciare l'aspetto qualitativo con quello quantitativo. Non credo affatto che in cinque anni, tranne che per dei geni, si possa avere un processo di assimilazione culturale, linguistico, storico qual è richiesto ad una persona per diventare cittadino italiano. Quindi, a mio avviso, l'indicazione presente nella proposta della relatrice onorevole Bertolini del combinare insieme il requisito dei dieci anni - che siano dieci anni, e non tredici o quattordici - con il cominciare a partire dal settimo o ottavo anno a svolgere degli esami, con confronti linguistici, storici, politico-culturali e così via, può consentire la combinazione sia del punto di vista qualitativo sia del punto di vista quantitativo, in una visione alta della cittadinanza.
La nostra visione e la nostra interpretazione non rispondono alle facili battute sulla xenofobia e così via, ma attengono ad una valutazione della qualità della nostra civiltà e della qualità anche dell'operazione di assimilazione che va fatta rispetto a coloro i quali vogliono misurarsi con questi problemi, che sono una minoranza. A questa minoranza va dato un percorso qualitativo e quantitativo di alto livello, in Pag. 81modo tale che diventino realmente dei cittadini italiani per i valori che hanno dentro di sé.
Da questo punto di vista l'interrogativo che voglio porre è il seguente: noi tutti ci poniamo il problema della cittadinanza, ma cosa vuol dire essere cittadino italiano se non c'è un processo di assimilazione anche per quello che riguarda il rapporto uomo-donna? Non è una questione che viene risolta con cinque, sei o anche dieci anni; è un dato qualitativo e non quantitativo.
Noi possiamo, come dire, ammettere che ci siano cittadini italiani i quali non hanno la visione media che il popolo italiano ha sul terreno del rapporto uomo-donna? Lanciamo questa sfida. C'è un grandissimo silenzio del femminismo su questo terreno, un silenzio assordante per certi aspetti, che è testimonianza di una pigrizia intellettuale e mentale molto rilevante, ma questo è un nodo dal quale non si sfugge se ci si vuole misurare sul terreno della cittadinanza non attraverso soluzioni facili ed una facile demagogia che caratterizza la posizione della sinistra.
Quindi, noi ci misuriamo con la sfida della cittadinanza avendo una dimensione politico-culturale opposta a quella che qui è stata espressa da Franceschini, da Bressa e da altri. Abbiamo due visioni dei diritti, della cittadinanza e di altre questioni, quindi non ci si può venire a fare l'esame. L'onorevole Franceschini è arrivato al punto di venire a farci l'esame per vedere se superavamo gli scrutini di gennaio per quel che riguarda il decollo del dibattito sulle riforme istituzionali partendo da questa. Noi non abbiamo alcun esame da superare perché abbiamo una visione ben diversa dalla vostra per quanto concerne questo problema (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà)! Poi sulla questione dei bambini faremo una riflessione che avremmo potuto fare se ci aveste consentito di approfondire il ragionamento in Commissione.
Queste sono le ragioni di fondo sulle quali ci misuriamo non avendo alcun complesso di inferiorità culturale rispetto a ciò che voi sostenete e ci misureremo anche perché noi riteniamo necessari dei tempi più lunghi di valutazione e di riflessione sulla base di una scelta politico-culturale che ha una sua logica ed una sua coerenza e, lo potete contestare, ma si tratta di una logica e di una coerenza che sono l'opposto di facili visioni demagogiche che abbiamo sentito echeggiare in quest'Aula oggi (Applausi dei deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Giachetti. Ne ha facoltà.

ROBERTO GIACHETTI. Signor Presidente, non avrei voluto prendere la parola perché sono stato molto attento, sin da questa mattina, allo svilupparsi del dibattito, che credo sia stato di straordinario interesse e molto utile e che francamente mi ha aiutato molto a riflettere ulteriormente in modo libero sulle questioni che abbiamo dinanzi. Tuttavia, prendo la parola perché l'intervento del collega Cicchitto plana in quest'Aula - almeno si ha questa sensazione - senza neanche aver ascoltato una parola di quello che è stato detto, ovvero con l'intento di attribuire ad altri delle scelte e delle idee che non sono chiaramente quelle di altri, e che, anzi, nel corso del dibattito sono state chiaramente diverse, ma soltanto perché sono utili all'onorevole Cicchitto per poter dire «no» a qualunque tipo di impostazione venga espressa a favore delle proposte che sono state avanzate - ed arrivo anche a questo concetto - non solo dall'opposizione.
Si parla di forzatura, ma onorevole Cicchitto, io capisco che i tempi sono importanti, però è il suo Presidente del Consiglio che spesso ci aiuta a riflettere sull'esigenza di essere un po' rapidi. Questo è un dibattito che è iniziato in Commissione da un anno, e se lei dopo un anno ci viene a dire che abbiamo fatto delle forzature perché abbiamo chiesto che si facesse un passo avanti e che si venisse in Aula per aprire un confronto, che a mio avviso oggi ha dimostrato di essere stato utile, necessario ed anche, in un certo senso, propedeutico a compiere dei passi in avanti, non capisco quali siano Pag. 82queste forzature. Quindi, non vedo dove sia il problema in questo confronto.
Sa qual è il suo problema, onorevole Cicchitto? Il suo problema è che lei in qualche modo possa riportare in Aula ed ascoltare in Assemblea non un dibattito e un confronto libero, ma problemi che magari esistono all'interno della maggioranza. Infatti, quando la sento parlare e dire «noi, noi, la nostra proposta, noi», è in questo che le dico che lei probabilmente non ha ascoltato il dibattito che si è sviluppato in quest'Aula perché è difficile, nonostante la buona volontà, riconoscere nelle sue affermazioni un pensiero diffuso, variegato, assolutamente differenziato che è stato espresso in quest'Aula anche a partire dai rappresentanti della maggioranza.
Allora, qual è il problema? Lei ci dice che noi siamo per l'assimilazione, ma quando mai ha sentito (ne ha sentito almeno uno?) in uno degli interventi che ci sono stati in Aula parlare di assimilazione? Lei ci attribuisce la volontà di condannare, di negare, di torturare, di obbligare qualcuno a chiedere la cittadinanza, ma quando mai lo ha sentito?
Ci sarà una differenza tra consentire a chi lo vuole di farlo e obbligare qualcuno? Ecco perché dico che lei plana qui dentro con un'idea che aveva maturato. Ha maturato una posizione che, comprendo, è di partito e che deve rappresentare in Aula, probabilmente perché non coincidente con il pensiero di tutti i deputati appartenenti anche alla maggioranza. Lei fa ciò ponendo delle questioni che sono, a mio avviso, fuori luogo, semplicemente perché non sono cose dette dall'opposizione, o da coloro che sono intervenuti in quest'Aula. Quindi, penso che il giungere in Aula abbia dimostrato, anche attraverso questo dibattito che matura, la capacità di confrontarsi. È chiaro che abbiamo visioni diverse, questo è del tutto evidente e il collega Calderisi, che interverrà dopo di me, non potrà che rimarcarle ulteriormente. Tuttavia, ho sentito posizioni diverse all'interno di tutti gli interventi, e non ho sentito un dibattito così chiuso dentro i recinti delle linee politiche con le quali si è entrati qui dentro. Penso che sarebbe un bene per tutti se il rispetto per questo dibattito consentisse anche di compiere dei passi in avanti. Qual è un passo in avanti? Non sono in condizione e certo non spetta a me trarre la sintesi. Penso alla collega Bertolini che con grande pazienza ha seguito da questa mattina tutto il dibattito e credo che abbia potuto anche cogliere lo sforzo che vi è stato da parte di tutti per svolgere un confronto in modo sereno, anche nel pieno rispetto degli interventi sviluppati. La collega, quindi, alla fine di questo dibattito probabilmente potrà avere degli elementi in più, non dico necessariamente per modificare il testo che lei ha portato in Aula. Tuttavia, la collega potrà avere degli elementi in più per comprendere che vi è uno sforzo obiettivo, pur nelle differenze di posizione - abbiamo ascoltato anche i colleghi della Lega - per fare qualcosa. Mi riferisco non a qualcosa che va bene e fa del bene al gruppo del Partito Democratico, dell'Italia dei Valori, del PdL, o di chi sa chi. In un momento come questo, mi riferisco a qualcosa che faccia bene al nostro Paese e anche a quel qualcosa che non dobbiamo mai dimenticare come un valore fondamentale per noi, tanto più in questo momento che sta vivendo la nostra società, ovvero quello dell'integrazione (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico e di deputati del gruppo Popolo della Libertà).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Calderisi. Ne ha facoltà.

GIUSEPPE CALDERISI. Signor Presidente, mi spiace non poter concordare con quanto detto dall'onorevole Giachetti sulla valutazione del dibattito. Questo dibattito è stato certamente molto ricco e articolato, come lo era stato anche in Commissione, e sono emerse concezioni diverse, a volte opposte su questa materia. Onorevole Giachetti, mi sembra che sia confermata anche la valutazione di un dibattito che, in molti aspetti, vede ancora molta confusione e necessita di un approfondimento. In Commissione, di fatto, abbiamo affrontato Pag. 83il tema da non molte settimane, anche se era iscritto da un anno nell'agenda dei lavori della Commissione stessa. Questa non è una materia che si può affrontare in modo leggero, ma bisogna approfondirla bene perché stiamo scrivendo, come è stato ricordato, un aspetto che riguarda il nucleo fondamentale della legislazione di uno Stato nazionale. Credo che questa sia una materia che spesso viene confusa con quella delle problematiche dell'immigrazione e anche in questo dibattito, onorevole Giachetti, abbiamo assistito a molta confusione tra questi due aspetti diversi che necessitano di soluzioni diverse.
Vedo spesso anche la non conoscenza della legislazione vigente. Ad esempio, sullo ius soli la relatrice lo ha detto con molta forza, ma è stato ricordato e richiamato da pochi il fatto che in termini proprio di ius soli, ad esempio, in base all'articolo 9, comma 1, lettera a) della legge vigente, per chi è nato in Italia, se non è stato fino a diciotto anni qui, sono sufficienti tre anni di residenza in Italia per chiedere la cittadinanza. Quindi, non si tiene conto che già c'è un'accoglienza significativa dell'impostazione dello ius soli nel nostro ordinamento vigente, il quale forse va raccordato alle altre norme, anche a quelle che sono state introdotte nel testo approvato dalla Commissione. Come è stato ricordato, le legislazioni degli altri Paesi stanno cambiando.
Ha cominciato a cambiare quella della Gran Bretagna, che da un paio d'anni ha avviato in Parlamento discussioni su importanti dossier, che hanno riguardato l'aspetto dell'immigrazione, ma anche quello della cittadinanza, introducendo, sia per l'una che per l'altra, una concezione a punti molto qualitativa. Per la cittadinanza, nel luglio scorso, è stato approvato un primo pacchetto di norme in Gran Bretagna. Ebbene, abbiamo potuto soltanto esaminare per sommi capi questa legislazione, ma la stessa Commissione non ha potuto approfondire e conoscere esattamente come si articola questa legge inglese, così come quella olandese. Credo che invece, se vogliamo fare una legge fatta bene, dobbiamo approfondire questi aspetti. Ci sono aspetti di carattere amministrativo e burocratico, che non sto qui ad affrontare, che andrebbero meglio approfonditi, perché sono elementi essenziali per fare una legge che funzioni e che abbia copertura amministrativa, che potrebbero, se chiariti, risolvere anche una serie di problemi politici non indifferenti, come per esempio quello, se stabiliamo comunque un parametro quantitativo, di far sì che questo parametro quantitativo sia effettivo e non sia poi superato di tre, quattro, cinque o sei anni o addirittura si arrivi al doppio. Quindi, evidentemente questo non è possibile e dobbiamo capire bene tutti i meccanismi per rendere poi effettiva la disciplina che vogliamo fare. Quindi, la disciplina va fatta, però bisogna farla in modo non strumentale. Credo che affrontarla in un periodo elettorale sia la cosa meno indicata se vogliamo fare una legge fatta bene. Se poi vogliamo farne solo un uso strumentale, propagandistico ed elettoralistico, questo è un altro paio di maniche, ma non credo che questo serva al nostro Paese per fare una buona legge. Quindi, mi sembra che questi siano gli elementi di fondo da sottolineare, perché credo che a gennaio ci troveremo con una situazione di emendamenti che vengono presentati ma che non possono evidentemente tenere conto di un approfondimento che, a mio avviso, è invece indispensabile sviluppare ulteriormente.
Quindi, non so quale sarà, ma mi auguro che ci sia questa disponibilità di tutti nella stessa Conferenza dei presidenti di gruppo, semmai in Aula, perché si vada verso questo approfondimento. Mi sembra un passaggio significativo. Mi sembra che per quanto riguarda il nostro gruppo le posizioni dell'onorevole Bocchino e dell'onorevole Cicchitto siano quasi coincidenti, salvo questo aspetto dei minori, che da tutti è stato detto che è comunque da approfondire, sul quale vedremo di capire in che modo si possa arrivare ad una soluzione. Però, per noi è fondamentale la questione legata alla volontà, quindi per forza ad un dato che riguarda la maggiore età. Però, vediamo di capire il problema del minore straniero e del minore italiano, Pag. 84cioè il minore gode di tutti i diritti che ha il cittadino e l'unico diritto che non esercita è quello elettorale, che comunque può esercitare soltanto quando ha la maggiore età. Di questo dobbiamo renderci conto. Quindi, l'integrazione del minore, per farlo sentire anche cittadino italiano, integrato nella comunità, si fa soprattutto attraverso politiche di integrazione. Allora, vediamo anche di approfondire questo aspetto, che mi sembra fondamentale e, comunque, cerchiamo delle soluzioni su questa questione dei minori. Però, mi sembra che questo si debba fare con uno spirito - lo ripeto - nel rispetto delle diverse posizioni. Credo che si possano fare comunque passi avanti di maggiore condivisione, se si affronta il tema con questo spirito costruttivo e non di strumentalizzazione, come a me è sembrato che in parte almeno sia avvenuto finora. C'è stata un'accelerazione che a mio avviso non ha consentito alla Commissione di poter approfondire una serie di aspetti. Saremmo probabilmente arrivati ad un testo più avanzato, se questo tempo ci fosse stato dato. Bisogna che questo tempo sia dato alla Commissione per poter procedere. Quindi, signor Presidente, non vado oltre. Avrei voluto approfondire tutta una serie di altre confusioni concettuali, che mi sembrano presenti nel dibattito, ossia che la cittadinanza è un patto e non un diritto, che le problematiche della cittadinanza sono del tutto diverse da quelle dell'immigrazione - leggo solo i capitoli dei temi che, a mio avviso, vanno approfonditi - che la cittadinanza non serve per favorire l'immigrazione, ma al contrario presuppone l'avvenuta integrazione.
Vorrei che approfondissimo anche tutte queste tematiche, onorevole Sesa Amici: dello ius soli ho già detto che c'è già, in parte, nel nostro ordinamento e che questo aspetto si può migliorare, ma è un falso problema.
Mi sembra che vi siano degli elementi di condivisione sul fatto importante che sulla cittadinanza il baricentro vada spostato dagli aspetti cronologici e quantitativi a quelli valutativi e qualitativi. Vediamo se su questo si possono fare ulteriori passi avanti. Se non è vero che c'è un'impostazione così radicalmente diversa, vediamo se su questa impostazione qualitativa c'è la possibilità che anche da parte del centrosinistra si possano condividere almeno alcuni elementi.
A me sembra che il testo dell'onorevole Bertolini, con il percorso di cittadinanza molto simile, anche se in parte diverso, a quello della «cittadinanza a punti», sia un'impostazione adeguata alla nostra situazione e alla nostra realtà. Si diventa cittadini, innanzitutto, perché si chiede la carta di soggiorno permanente, che già comporta, in base alle leggi vigenti, un test di lingua italiana e la verifica dei requisiti di reddito e di alloggio, e poi si fa la domanda all'ottavo anno, quindi in anticipo rispetto alla scadenza. Vi è questo corso relativo alla conoscenza della storia e della cultura e si dà tempo all'amministrazione perché, allo scadere dei dieci anni, se ci sono i requisiti, sia riconosciuta la cittadinanza, senza perdere un giorno in più.
Facciamo in modo che questi dieci anni siano effettivi. Mi sembra che questo percorso sia un'impostazione che può sicuramente, mi auguro, essere accolta, e poi, ripeto, c'è infine la questione dei minori, sulla quale, però, anche qui, credo che sia da tenere molto fermo il principio che il riconoscimento della cittadinanza non incide sul piano dei diritti inviolabili, ma esclusivamente su quello che è il diritto-dovere di appartenenza alla vita politica del Paese, che trova la massima espressione nel diritto di voto, garantito esclusivamente ai maggiorenni.
Mi sembra che questo sia un elemento fondamentale, da non sottovalutare. Signor Presidente, mi auguro, con l'auspicio di questo percorso non di cittadinanza, ma anche del nostro iter parlamentare, che si possa arrivare - credo che il Paese lo richieda - ad una revisione della legge sulla cittadinanza adeguata all'evoluzione dei problemi che il nostro Paese ha su questo aspetto (Applausi di deputati del gruppo Popolo della Libertà).

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PRESIDENTE. È iscritto a parlare l'onorevole Mario Pepe (PdL). Ne ha facoltà, per due minuti.

MARIO PEPE (PdL). Ringrazio la cortesia del Presidente Leone per avermi concesso questi pochi minuti. In queste occasioni bisogna farsi guidare della storia e non farsi trascinare da essa.
La storia dell'Europa è una storia di emigrazione: i nostri antenati si lasciarono alle spalle le tende e i monumenti dei loro tiranni per andare a scoprire il nuovo mondo. È proprio quell'esperienza che ci deve guidare: quando negli Stati Uniti d'America arrivarono individui di razze, lingue e religioni diverse, la scuola si incaricò di fondere in un crogiuolo le diversità per formare il cittadino americano.
Per questo guardo con favore alle proposte di legge che, in effetti, vanno nella direzione di dare la cittadinanza ai minori e non c'è differenza tra quello che è nato in Italia e quello che vi è arrivato a due anni.
Capisco le perplessità della Lega, preoccupata dal diffondersi delle moschee e delle scuole coraniche. In queste ultime c'è ancora qualche fanatico che insegue l'antico sogno dell'Islam di conquista dell'Europa, di trasformare le chiese in moschee, di portare la bandiera verde del Profeta sotto le mura di Vienna, però credo che queste predicazioni coraniche trovino terreno fertile nella sofferenza dei diritti negati.
Onorevole Bertolini, non importa se sono 7, 10 o 11 anni; l'importante è dare certezze ai diritti, perché oggi vi sono immigrati che, dopo 20 anni, non riescono ad avere la cittadinanza, perché gli abbiamo reso la vita difficile con le nostre carte e con le nostre burocrazie.
Per cui lei ha fatto un buon lavoro, onorevole Bertolini, quando ha voluto dare tempi certi alla concessione della cittadinanza.
Concludo, signor Presidente. In Italia vi sono 6 milioni di immigrati che partecipano alla vita produttiva del Paese e sono esclusi dalla vita democratica. Vi sono 3 milioni di cittadini italiani che non hanno rappresentanza parlamentare. Nelle ultime elezioni europee è stato in aumento il voto nullo e il voto bianco; il voto nullo è grave, perché in questo caso il voto viene dato, ma vilipeso con frasi di scherno. Ciò rappresenta un pericolo per lo Stato, perché quando intere fasce della popolazione si allontanano dalla vita democratica, allora lo Stato è in pericolo. Contro l'imperialismo di un nemico esterno allo Stato, lo Stato potrà difendersi con la forza della legge; ma quando il nemico viene dall'interno dello Stato, lo Stato non potrà difendersi: e su ciò vorrei invitare il Parlamento a riflettere, mentre si accinge a varare una legge così importante per il futuro del nostro Paese (Applausi di deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Partito Democratico).

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.

(Repliche relatori e Governo - A.C. 103-A ed abbinate)

PRESIDENTE. Prendo atto che il relatore per la maggioranza, il relatore di minoranza ed il rappresentante del Governo non intendono intervenire in sede di replica, e pertanto il seguito del dibattito è rinviato ad altra seduta.

Per la risposta ad uno strumento del sindacato ispettivo (ore 17,05).

IVANO STRIZZOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

IVANO STRIZZOLO. Signor Presidente, innanzitutto approfitto per formulare a lei e a tutti i colleghi presenti gli auguri per il prossimo Santo Natale e per un 2010 che sia proficuo per quest'Aula e per l'intero Paese.

Pag. 86

PRESIDENTE. Grazie collega, la Presidenza ricambia.

IVANO STRIZZOLO. Vorrei poi sollecitare, signor Presidente, ancora una volta la risposta ad una mia interrogazione di qualche mese fa, che riguarda i disservizi di Trenitalia. Lo faccio perché io, come tanti cittadini di questo Paese, qualche giorno fa ho avuto l'avventura di viaggiare in treno. Capisco che vi era una nevicata, tra l'altro era abbondantemente prevista dagli esperti meteorologici; essa non può però sicuramente cogliere impreparato chi ha il compito di predisporre tutto quanto necessario per fare in modo che un servizio importante come quello ferroviario continui a funzionare. E poi - e concludo, signor Presidente - non mi sembra per niente decoroso e dignitoso (uso questi eufemismi) per l'amministratore delegato di Trenitalia, Ferrovie dello Stato, dire: portatevi un panino, una coperta e dell'acqua. Insomma, non siamo, con tutto il rispetto, in Burundi, ma in Italia; e credo che sia necessario lavorare non solo come Governo, che deve dare le indicazioni strategiche, ma soprattutto l'Ente Ferrovie dello Stato, Trenitalia, deve lavorare meglio rispetto ai problemi che vi sono, e che non sono superati. Per questo la prego di sollecitare da parte del Governo una risposta alla mia interrogazione.

PRESIDENTE. Onorevole Strizzolo, la Presidenza provvederà.

Sull'ordine dei lavori (ore 17,08).

SIMONE BALDELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SIMONE BALDELLI. Intervengo semplicemente per unirmi agli auguri proposti dal collega Strizzolo ai colleghi, alla Presidenza. In particolare, un augurio ed un ringraziamento al personale dell'amministrazione della Camera, che oggi, in quest'ultima seduta del 2009, ci permette di essere qui. Un ringraziamento quindi e un augurio, per l'appunto, all'amministrazione.

PRESIDENTE. Ringrazio anche io naturalmente i colleghi Strizzolo e Baldelli per gli auguri. Ci tengo a ribadire, da parte della Presidenza, che auguri veramente sinceri vanno sicuramente portati, come avete già fatto, non solo per il lavoro che svolgono ma per la dedizione che hanno, anche ai funzionari, non solo quelli che sono qui a fianco del Presidente (Applausi), ma all'intera struttura. Auguri anche alle nostre famiglie di buon Natale e per l'anno nuovo, sperando che sia meno faticoso di quello che abbiamo trascorso.

Ordine del giorno della prossima seduta.

PRESIDENTE. Comunico l'ordine del giorno della prossima seduta.

Lunedì 11 gennaio 2010, alle 15:

1. - Discussione del disegno di legge:
Ratifica ed esecuzione dell'Accordo di Sede tra il Governo della Repubblica italiana e il Network internazionale di Centri per l'Astrofisica Relativistica in Pescara - ICRANET, fatto a Roma il 14 gennaio 2008 (2815-A).
- Relatore: Narducci.

2. - Discussione delle mozioni Bernardini ed altri n. 1-00288 e Vietti ed altri n. 1-00240 concernenti la situazione del sistema carcerario italiano.

3. - Discussione della mozione Ghiglia ed altri n. 1-00269 concernente iniziative per la riduzione delle emissioni di gas-serra, con particolare riferimento allo sviluppo delle reti di ricarica dei veicoli elettrici sul territorio nazionale.

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4. - Discussione delle mozioni Iannaccone ed altri n. 1-00265 e D'Antoni ed altri n. 1-00300 concernenti iniziative per favorire l'occupazione nel Mezzogiorno.

La seduta termina alle 17,10.

TESTO INTEGRALE DEGLI INTERVENTI DEI DEPUTATI RAFFAELE VOLPI, PIER FERDINANDO CASINI, SOUAD SBAI E MATTEO MECACCI IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL TESTO UNIFICATO DELLE PROPOSTE DI LEGGE N. 103-A ED ABBINATE

RAFFAELE VOLPI. Affrontiamo oggi la discussione sul tema della cittadinanza. E voglio dire subito che l'argomento è stato dibattuto in Commissione con una serie di contributi veramente importanti di tutti i colleghi. Un approfondimento serio, composto, sostenuto certo nelle differenze ma sempre con il riconoscimento reciproco di un'onestà ideale ed intellettuale delle motivazioni che non ha lasciato spazio a speculazioni di alcun tipo. Lo dico perché al di fuori della Commissione mi pare non vi sia stata la stessa compostezza, la stessa consapevole riservatezza che un tema importante e delicato come questo richiedeva. Credo che la serenità della discussione di chi se ne è occupato da quasi un anno, nella I Commissione dovrebbe essere esempio di un modo di fare politica che non cerca l'eclatante, ne la superficialità del proclamo. Ma il tema della cittadinanza era ghiotto. Accertata la sua rilevanza mediatica forse qualcuno non ha potuto resistere alla tentazione di utilizzarlo. «A tutto si può resistere meno che alle tentazioni» per dirla come Wilde o più genuinamente tradotto: «Piatto ricco mi ci ficco». Penso che ci fossero soggetti titolati ad esprimere i loro pareri e le loro sensibilità ma penso anche che argomenti di tale portata e di tale incidenza sulla vita delle persone non possano, invece, essere usati per avere vetrine personali, per marcare riposizionamenti politici o come strumenti di strategia relazionale partitica o correntizia.
Credo che la responsabilità della politica si esprima al suo meglio nel massimo organo di partecipazione popolare e cioè in Parlamento. Un Parlamento che va difeso anche riconoscendo, dal suo interno, il lavoro dei suoi organi come il lavoro svolto dalla Commissione. Una Commissione di donne e uomini con ideali e sentimenti e che con questi principi saldi non si è fatta comunque influenzare dai messaggi mediatici e dai suggerimenti eterodiretti.
Detto questo, nel ringraziare la relatrice Bertolini, per un lavoro non facile ma che ha portato un prodotto che condividiamo appieno, voglio subito ricordare che la Lega non ha cercato pubblicità su questo tema. Lo dico con chiarezza perché non si dica che noi utilizziamo la paura della gente per cercare consenso. Non abbiamo voluto noi che si parlasse di cittadinanza, secondo la Lega non vi era necessità. Non solo ma ribadiamo che l'argomento non è nel programma di Governo sottoscritto dai partiti della maggioranza. Ma nella discussione non ci siamo sottratti alla doverosa espressione delle nostre idee anche se pensavamo e continuiamo a pensare che servisse una maggiore fase di approfondimento o, se volete, di maturazione, prima di giungere in aula.
Le nostre idee le abbiamo espresse con la serenità e la pacatezza di un movimento che ha ragionato le sue motivazioni e le abbiamo esposte da subito senza ambiguità o incertezze a prova della stima personale e politica verso i colleghi delle altre parti politiche.
Ho ascoltato con attenzione gli interventi dei colleghi che sino ad ora hanno espresso le loro posizioni e mi permetto di riflettere in particolare su un aspetto sottolineato dal collega Bressa. Bressa affida l'introduzione ai fondamenti dell'articolo 3 della Costituzione ed ai concetti di uguaglianza e di godimento di diritti che in esso sono garantiti. Ma dice di più: che solo con la cittadinanza si possono «restituire i diritti» agli immigrati regolari nel nostro Paese. Con la massima stima per il collega ne contesto l'affermazione. Credo che abbia volutamente confuso il tema Pag. 88della cittadinanza con quello altrettanto importante delle applicazioni pratiche che la Costituzione garantisce nel godimento reale di diritti. Sarà legittimo per le parti politiche aprire un dibattito sul tema dei diritti, in quel caso si dovrà discutere anche di quelli degli Italiani (interessante l'intervento del collega Paroli sulla sperequazione ormai evidente di diritti in favore degli stranieri), garantiti dalla Costituzione. Ma quel dibattito deve ora restare disgiunto dalla discussione sulla concessione della cittadinanza.
È giusto ricordare peraltro che la Costituzione risulta applicata in un più ampio capitolo di discipline e richiami costituzionali riferiti anche alla categoria dei diritti inviolabili che attraverso la giurisprudenza ha traguardato anche oltre la Carta costituzionale affermando un diritto che si è consolidato.
Ricordiamo ad esempio la giurisprudenza legata alla tutela giurisdizionale avverso provvedimenti illegittimi. E ancora ricordiamo quanto espresso e poi consolidato riguardante il diritto al segreto della corrispondenza, tutta la parte riguardante il diritto di famiglia, il diritto a professare la religione, i diritti dello straniero imputato e l'eventuale riparazione degli errori giudiziari, la carcerazione preventiva, la libertà di associazione (sappiamo ora che in alcuni casi dietro un certo associazionismo si nascondono momenti organizzativi di dubbia legalità legati anche al terrorismo internazionale), la libertà di pensiero. Ma ancora tutta la parte che riguarda i diritti dei minori ed il diritto alla salute ed all'assistenza. Sono chiaramente solo alcuni esempi a supporto di una situazione di diritto che, vogliamo sottolinearlo, è riferita in modo esplicito al non cittadino italiano e che si compendia nella sua continua riaffermazione con quanto previsto dalla Costituzione.
Vi è un altro aspetto che ci sentiamo invece di opporre all'affermazione più volte richiamata in questa discussione in Commissione che lega la cittadinanza all'integrazione, quasi una ricetta alla ricerca della pace sociale. Ebbene va ricordato che l'esperienza di altri Paesi, a volte legata alla loro storia e alle loro vicende coloniali, dove la Cittadinanza in vario modo è concessa quale mezzo ritenuto di riconoscibilità non solo formale di appartenenza, non ha prodotto gli sperati risultati, ne queste casistiche possono essere iscritte nel novero dei successi in favore dell'integrazione e della reciproca riconoscibilità e l'esempio della Francia è palese.
Mi sembra importante rispetto al capitolo dei diritti introdurre nel dibattito il tema della reciprocità nella concessione della cittadinanza ma anche dei diritti goduti dagli stranieri soggiornanti. Ritengo che questo tema ci consentirà di porre diverse riflessioni sia nella distinzione tra le varie forme e motivazioni di presenza di stranieri nel nostro Paese sia per un utile confronto, che risulterà positivo per l'Italia, con altri paesi. Confronto a nostro favore (rispetto a diritto, cittadinanza e libertà personali) anche ed inaspettatamente con paesi occidentali ritenuti ad alto grado di democrazia.
Sarà importante anche affermare che nella lettura delle reciprocità per concessione di cittadinanza e di godimento di diritti si rilevino le motivazioni che si legano a forme di immigrazione ma che palesemente non sono convinzioni per l'acquisizione della cittadinanza.
Il collega Bressa ha parlato di diritti e di doveri ma anche di chi veramente crede al massimo passo di libertà e democrazia riferita alla persona: il rinunciare ad una cittadinanza e richiederne un'altra. Cioè rinunciare ad un'identità complessiva e scegliere di essere altro ed altrove. Ebbene colleghi chi immagina un passaggio così forte, chi non lo fa per convenienza o per contingenza, chi lo fa con forti motivazioni e convinzioni è anche chi facilmente si integra e che con serena partecipazione al processo di concessorio non teme i dieci anni per essere nuovo cittadino.
Un ulteriore elemento di riflessione rispetto alla concessione della cittadinanza riguarda l'Unione europea. È un fatto che la cittadinanza di uno Stato membro è genesi della cittadinanza europea e questa responsabilità noi la sentiamo forte ed è uno dei motivi per cui non condividiamo Pag. 89la semplificazione di percorsi che si sono attuati in alcuni paesi membri e le proposte in questo senso che sono in discussione anche in questo dibattito. Abbiamo sentito più voci dire che la legislazione sulla cittadinanza del nostro Paese è più arretrata e severa di molte altre esperienze e scelte giuridiche.
Abbiamo già detto che storie diverse hanno maturato prodotti diversi ma dal nostro punto di vista, pur intuendo e vivendo le trasformazioni ed i cambiamenti della nostra epoca, anzi anche per questo riteniamo che una condizione severa (aggettivo né sminuente né negativo) sia una posizione contemporanea, realistica e responsabile prima verso il nostro Paese e parimenti verso l'Unione europea.
Ripetiamo qui con convinzione che i tentativi di formali equiparazioni sociali attraverso la concessione della cittadinanza, con percorsi facilitati, non agevolano una consapevole necessità all'integrazione e sono dal nostro punto di vista esperimenti che risulterebbero negativi non trovando, spesso, nei richiedenti una vera e profonda convinzione nell'accesso ad un nuovo ed esclusivo status. Molti studi hanno peraltro analizzato questo binomio teorico cittadinanza-integrazione senza darne un definitivo giudizio sulla reale bontà ed anzi spesso hanno prodotto riflessioni negative provenienti dall'analisi di situazioni già realizzate.
Di fatto l'esperienza può dimostrare, come in casistiche attenzionate da indagini sociologiche, che un troppo facile accesso allo status della cittadinanza induce non tanto ad una consapevole e convinta integrazione ma spesso ad una straordinaria e non prevedibile percezione d'attesa di diritti non codificabili, inaccessibili o indisponibili anche con la particolarità attiva della cittadinanza.
Parlando invece della «collocazione giuridica» della cittadinanza non vi è dubbio che essa segua le evoluzioni dei concetti prima di popolo poi di Nazione e di Stato. Considerando lo Stato come ordinamento generale della società civile noi consideriamo lo stesso come evoluzione propria di una stretta colleganza tra appartenenza, popolo, nazione in tutti suoi spetti costitutivi di cultura, concetto di legge, modello di società, consuetudini e tradizioni e non certo da ultimi i valori.
Ovviamente rigettiamo in modo deciso le elaborazioni teoriche che congiungono la cittadinanza come riconoscimento di un'appartenenza etnica ma riconosciamo invece la cittadinanza come un insieme di concezioni e convinzioni di appartenenza e di valori che nel loro insieme hanno costituito la fase di generazione di quel passaggio da popolo-nazione a stato-ordinamento e che stiamo per altro vivendo in un significativo momento riformatore nelle sue forme organizzative (federalismo).
Per noi non vi è dubbio che la cittadinanza nel suo rapporto con la riconoscibilità di un popolo-nazione-stato (anche nelle forme da noi intese con il federalismo e quindi anche nelle peculiarità sociali e territoriali) abbia l'importante aspetto di essere un bene di riferimento e quindi di inevitabile determinata consapevole appartenenza. Proprio per questo concetto si deve, secondo noi e secondo la nostra posizione, considerare la cittadinanza come un riconoscimento reciproco, consapevole ed esclusivo tra l'individuo e l'appartenenza ad un ordinamento complesso storico e sociale come lo Stato nella sua forma più espressiva di una comunità con valori fondanti certi e non contrattabili.
La cittadinanza non è e non può essere passeggera o momento di compromesso o ancora via di fuga per risolvere problematiche sociali poiché si sminuirebbe nel suo valore di status e si sfuggirebbe alla ricerca di soluzioni di problemi reali in campo. D'altra parte ancor peggio sarebbe immaginare la concessione della cittadinanza come un mezzo per normalizzare e quindi quietare disagi che possono insorgere dalla presenza di non cittadini sul territorio dello Stato ricalcando le peggiori esperienze che risulterebbero per altro antistoriche in quanto utilizzate nei secoli spesso solo nei casi di conquiste territoriali dove la pax si produceva concedendo cittadinanza e creando nuove élite locali. Pag. 90
Certamente superata la fase storica dell'assioma appartenenza-sudditanza è stata indotta una diversa e rinnovata percezione in cui gli istituti democratici superano la sudditanza (da noi come sarebbe percepita oggi una definizione pari a: «suddito di sua maestà»?) e trasformano la cittadinanza in partecipazione pur restando fermo ed immutato l'esclusivo rapporto tra appartenenza e riconoscibilità (restano retaggi della sudditanza legati unicamente ad alcune fattispecie, ad esempio, tradimento, ma chiaramente collegati ad un riferimento forte al concetto di appartenenza).
Ho voluto in questo intervento già sottolineare con una precisa definizione la cittadinanza usando la parola status.
Noi riteniamo sarebbe un grave errore considerare la cittadinanza alla stregua di un mero rapporto giuridico in quanto la stessa (cittadinanza) non può trovare momenti di contrattualità.
La cittadinanza, per noi, va considerata status e quindi situazione giuridica legata quindi a precisi fatti e requisiti non trattabili. Requisiti che sono situazioni di fatto e quindi mai in nessun caso meri rapporti.
Su queste basi appare evidente perché dal nostro convinto ed inderogabile punto di vista la cittadinanza come status (situazione giuridica) si acquisisca e si trasmetta attraverso lo jus sanguinis considerando lo jus soli come una marginale e sempre molto ponderata funzione correttiva.
Pensiamo che il criterio di trasmissione della cittadinanza per discendenza sia il più adeguato all'attribuzione di un bene esclusivo di riferimento come lo status di cittadino.
A confortare la nostra tesi (e non solo nostra tesi peraltro riferita alla dottrina classica) tra la gerarchia fra jus sanguinis e jus soli vi è l'articolazione di alcune proposte alla nostra attenzione che prevedono una inconcepibile precarietà della cittadinanza acquisita con percorsi diversi (se non fai il bravo te la ritogliamo!) e considerando casi che prevedono la revoca della stessa dimostrando che qualsiasi forma diversa dallo jus sanguinis non porta con se i valori centrali di uno status esclusivo ma la contrattualità di un rapporto giuridico.
La Lega Nord rigetta con fermezza qualsiasi compromesso sulla concessione della cittadinanza e quelle forme di precaria acquisizione che di fatto andrebbero verso un declassamento inaccettabile di uno status esclusivo come quello della cittadinanza stessa.
La disponibilità alla discussione non deroga al principio dei dieci anni per poter acquisire la cittadinanza ma si limita alla verifica delle casistiche particolari ed alla certezza dei tempi procedurali.
Ci stupirebbe se al di fuori dei programmi sottoscritti dai partiti della maggioranza di Governo spuntassero pulsioni di facilitazioni nell'agevolare l'individuazione di nuovi percorsi per la cittadinanza e ancor più ci stupirebbe se dalla maggioranza di cui la Lega Nord fa parte vi fossero condivisioni o comuni proposte su questo importante argomento con parti dell'opposizione. Non capiremmo, non condivideremmo, non ci adegueremmo.

PIER FERDINANDO CASINI. Agli inizi del Novecento, un secolo fa, gli abitanti dell'Europa occidentale rappresentavano il 17 per cento della popolazione mondiale. Oggi sono il 7 per cento. Nel 2050, scenderanno, anzi scenderemo, al 5 per cento. Questo significa che se già oggi l'Europa conta pochissimo negli equilibri mondiali, nel futuro sarà destinata a contare sempre meno se non saprà modificare i propri tassi di natalità da una parte e accogliere ed integrare i migranti extracomunitari dall'altra.
La debolezza demografica del nostro continente fa sì che il nostro benessere stesso dipenderà sempre di più dalla capacità di attrarre ed integrare lavoratori stranieri, e non, al contrario, di respingerli.
Anche perché le stime delle Nazioni Unite dicono che da qui al 2050 gli uomini e le donne che faranno il loro ingresso nel mondo del lavoro saranno 438 milioni e il 97 per cento saranno persone nate in Paesi in via di sviluppo. Pag. 91
L'Italia avvertirà l'esigenza di integrare la propria forza lavoro con persone provenienti dall'estero ancora di più degli altri Paesi europei perché i nostri tassi di natalità sono drammaticamente bassi. Siamo il secondo paese più vecchio al mondo dopo il Giappone. Gli uomini in Italia vivono attualmente in media 78,3 anni, le donne 83,8: ormai il 20 per cento degli italiani ha più di 65 anni, e il 5,3 per cento più di 80 anni. Agli inizi del Novecento la vita media in Italia era di 42 anni. Nel 2050 sarà più del doppio, 86 anni.
Ecco perché se non si invertirà il trend del nostro tasso di natalità, tutti i demografi sono concordi nel ritenere che dovremo accogliere ogni anno per i prossimi quarant'anni trecentomila nuovi immigrati se vogliamo mantenere i tassi di sviluppo che avevamo raggiunto prima della crisi globale.
Peraltro non possiamo trascurare il fatto che se ci chiudiamo a riccio nei nostri confini, chiudiamo anche la possibilità per le nostre imprese ed i nostri prodotti di affermarsi su mercati in grande espansione lasciando il campo alle aziende degli altri Paesi europei nostri competitori. Negli ultimi anni i Paesi del Mediterraneo, dell'Africa e del Medio Oriente sono cresciuti a ritmi ben superiori rispetto all'Europa e anche in questa fase di recessione continuano a crescere più rapidamente di noi. Sono mercati che, considerando anche il Golfo Persico, già oggi rappresentano il 10 per cento del totale delle nostre esportazioni e che si apprestano ad arrivare a rappresentare oltre il 5 per cento della produzione del PIL mondiale.
Di fronte a questi dati incontrovertibili, esistono due modi di affrontare la realtà dell'immigrazione dunque. Uno ha il senso della realtà, è politico perché prova a governare e guidare i processi, l'altro è populistico e demagogico, lancia slogan ma non produce nessun risultato. Punta tutto sulle paure, fa credere agli italiani che gli immigrati siano assai più di quelli che sono - secondo un recente sondaggio si pensa siano il 25 per cento della popolazione residente in Italia quando sono il 7,2 per cento - li si illude di poter risolvere il problema dell'immigrazione clandestina respingendo le carrette del mare - che in realtà rappresentano appena il 10-15 per cento del totale degli arrivi, mentre 1'85 per cento-90 per cento arrivano in gran parte con regolari permessi turistici che vengono lasciati scadere senza più uscire dall'Italia o per transitare verso altri Paesi europei.
Una demagogia ipocrita che si riempie la bocca con la promessa di aiutarli a casa loro, quando la realtà è che l'Italia destina assai meno dello 0,7 per cento del suo PIL annuo al sostegno e allo sviluppo dei Paesi poveri, e che il vero sostegno semmai lo forniscono proprio i migranti che vengono a lavorare in Italia con le loro rimesse verso i Paesi di origine.
In pratica sono proprio i nuovi poveri della nostra società a tendere la mano ai poveri del Terzo mondo.
E d'altro canto mentre si fanno discorsi farneticanti di ronde, medici e presidi spia, di cassa integrazione ridotta per gli stranieri, di referendum per dire no a moschee e minareti, di reato di clandestinità, di immigrati che verrebbero in Italia per ammazzare quando ormai sono quattro milioni i lavoratori extracomunitari regolari che danno un contributo essenziale alla nostra economia, mentre si esaltano sui mezzi di informazione disposti a fare da grancassa gli straordinari risultati ottenuti con i respingimenti, la verità è che nel solo 2008 sono arrivati in Italia altri 460 mila immigrati, più del doppio di quelli che si aspettava l'Istat.
Ma una scelta tra la demagogia e la responsabilità, tra le chiacchiere a vuoto e la realtà si impone anche di fronte ad un puro calcolo egoistico tutto italiano: l'Italia è il paese dell'Ocse con il più alto livello di spesa pensionistica, pari al 14 per cento del Prodotto interno lordo nel 2005. Nel decennio 1995-2005 la spesa previdenziale è aumentata del 23 per cento. Solo Giappone, Corea, Portogallo e Turchia hanno avuto aumenti simili (o superiori). La spesa pensionistica assorbe il 30 per cento del bilancio dello Stato. Quasi il doppio rispetto alla media degli altri paesi OCSE Pag. 92che è del 16 per cento. E i contributi pensionistici in Italia raggiungono quasi il 33 per cento dei guadagni, contro una media del 21 per cento negli altri paesi OCSE.
Può un Paese con un sistema pensionistico così a rischio, con una demografia così drammatica, permettersi di rinunciare all'apporto di quattro milioni e mezzo di lavoratori stranieri in regola?
Possiamo pensare di rinunciare al 10 per cento del nostro Pii di punto in bianco, solo perché dovremmo dare ragione a chi urla e strepita contro lo straniero? Possiamo dire che i 5 miliardi e 600 milioni di tasse che versano ogni anno al nostro fisco, lo stesso introito del tanto decantato scudo fiscale più o meno, non ci servono?
E ancora. Possiamo dire ai 7 bambini su 10 nati in Italia da figli immigrati che in questo momento frequentano le nostre scuole dell'infanzia, che domani si iscriveranno alle nostre scuole elementari, che poi prenderanno il nostro diploma di licenza media e magari superiore e la laurea, che non li vogliamo perché dobbiamo difendere il manifesto dello ius sanguinis?
Possiamo trattare questi bambini come un problema di sicurezza, negare loro diritti, presente e futuro? E quale sarebbe l' interesse per noi di questa scelta? Che cosa guadagneremmo dalla presenza sul nostro territorio di centinaia di migliaia di nuovi emarginati?
Le grandi trasformazioni sociali del nostro tempo e la crescente realtà cosmopolita delle nostre società ci inducono a considerare la necessità di politiche di integrazione che favoriscano, in modo equilibrato, l'acquisizione dei diritti di cittadinanza, nel rispetto dei principi fondamentali della Costituzione, dei diritti umani e della coesione sociale. Infatti, il massiccio fenomeno immigratorio degli ultimi anni, le difficoltà del dialogo interculturale ed interreligioso, gli sviluppi del processo di unificazione europea e gli scenari della globalizzazione dei mercati hanno creato dizioni diverse da quelle che, nel 1992, portarono alla definizione del quadro normativo sulla cittadinanza attualmente in vigore.
L'Unione di Centro da tempo considera l'opportunità di intervenire legislativamente per adeguare la disciplina attualmente vigente al mutato contesto economico e sociale, caratterizzato dalla multietnicità derivante dalla convivenza tra cittadini e persone immigrate di breve e lungo periodo: una situazione, questa, che implica un'attenta riflessione sul concetto di cittadinanza e sul significato stesso di identità nazionale. Fermo restando l' apprezzamento per lo sforzo compiuto in Commissione dal relatore, al fine di realizzare una sintesi delle diverse proposte di legge presentate, permangono tuttavia questioni irrisolte.
Nel dibattito attuale sul tema della cittadinanza, degli anni necessari per chiederla, del contesto entro il quale si deve favorire l'appartenenza per sangue o per territorio ad una determinata identità nazionale, non sembra che sia stato fino ad ora adeguatamente approfondito l'aspetto concernente il rapporto tra regole della cittadinanza, identità nazionale e nuova epoca della cosiddetta «globalizzazione».
Se, infatti, si prende finalmente atto che siamo in presenza di un periodo storico radicalmente nuovo, anche le regole della cittadinanza dovranno essere collocate in una nuova ottica.
Di fronte a questo fenomeno straordinariamente nuovo si possono infatti assumere sostanzialmente due atteggiamenti: di radicale chiusura egoistica basata sulla consanguineità (il criterio dello ius sanguinis attribuisce, infatti, la cittadinanza sulla sola base della situazione giuridica di filiazione) o di presa d'atto della globalizzazione, nella ricerca di un nuovo equilibrio tra identità nazionale e globalizzazione medesima.
Per quel che concerne l'Italia è questo dunque il momento di andare oltre, potenziando il meccanismo dello ius soli che attribuisce la cittadinanza a colui che nasce nel territorio dello Stato, indipendentemente da quella dei genitori. Pag. 93
D'altra parte è l'intero orizzonte culturale e politico a suggerire una radicale capacità di adeguamento degli istituti anche giuridici della vecchia statualità nazionale alle nuove sollecitazioni dell'epoca attuale.
Occorre, inoltre, partire dal concetto che la cittadinanza non è di per sé un fattore di integrazione, bensì l'arrivo di un percorso di integrazione culturale. Essa, infatti, non costituisce soltanto il riconoscimento di una lista di diritti, ma rappresenta qualcosa di più strettamente connesso con i principi fondamentali e con i valori fondanti la nazione.
Il nostro ordinamento, anche grazie alle regole del diritto internazionale e dell'Unione europea, garantisce oggi a tutte le persone residenti nel suo territorio, a prescindere dalla cittadinanza, i diritti umani fondamentali, diversi strumenti di protezione sociale (che, per i minori, comprendono anche il diritto all'educazione scolastica), nonché il pieno godimento dei diritti sociali a tutti coloro che in maniera regolare e con un reddito sufficiente lavorano in Italia.
Per queste ragioni, non è la cittadinanza l'unica garanzia di tutela giuridica: ecco perché, in tale visione, lo Stato nel concederla e nel riconoscere uno status che comporta una piena partecipazione alla vita pubblica (compresi i diritti politici) debba pretendere che sia stato effettuato un certo percorso culturale e a determinate condizioni.
Si profila pertanto necessaria, come giustamente evidenziato nella relazione alla proposta di legge Sarubbi, una svolta paradigmatica nella concezione del meccanismo di attribuzione, passando da un'ottica «concessoria» e «quantitativa» a un'ottica «attiva e qualitativa».
La cittadinanza deve diventare per lo straniero adulto un processo certo, ricercato e formativo: il punto di arrivo, come già precedentemente sottolineato, di un percorso di integrazione sociale, civile e culturale, nonché punto di partenza per il suo continuo approfondimento.
L'idea fondamentale è, da un lato, quella di fornire tutti gli strumenti idonei a favorire il processo che porta al pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza a chi dimostri di volersi integrare nel tessuto sociale e civile della nazione che lo ospita; dall'altro, quella di non far scattare automatismi laddove questa volontà non sia espressa in modo esplicito.
È difficile sostenere, infatti, considerata l'entità dei flussi, che le vigenti norme sulla cittadinanza abbiano costituito un incisivo deterrente contro l'immigrazione nel nostro Paese: inefficaci in questo, esse rischiano, invece, di costituire un poderoso argine contro il processo di integrazione, con ricadute dirette sulla stabilità sociale e, quindi, sulla sicurezza reale e percepita dei cittadini.
L'argomento cittadinanza non è nel programma di Governo, ma è nel programma ineludibile dell'Italia e degli italiani: non perdiamo tempo e andiamo avanti verso una condivisione di valori e di ideali che devono caratterizzare il senso comune di appartenenza ad una comunità nazionale.

SOUAD SBAI. Signor Presidente! Onorevoli colleghi! Innanzi tutto vorrei ringraziare la relatrice e la I Commissione. Oggi il nostro Paese, da sempre accogliente e attento alle diverse sensibilità presenti sul suo territorio, si avvia verso una stagione in cui l'apertura al diverso non è negoziabile.
Inizia qui un cammino lungo e pieno di speranza: è il cammino per la costruzione di un'Italia multietnica e multiculturale, un'Italia sicura e integrata in cui gli italiani e gli immigrati possano camminare fianco a fianco verso un futuro prospero di pacifica convivenza e di armonioso sviluppo culturale, sociale, economico, politico.
Le ultime stime dicono che l'Italia si colloca tra i primi Paesi di immigrazione dell'Unione europea con oltre 4 milioni e mezzo di stranieri. Lo stima il rapporto 2009 sull'immigrazione della Caritas/Migrantes. In un'Italia sempre più disomogenea, occorre disciplinare l'acquisizione Pag. 94della cittadinanza per favorire una piena integrazione che avrà conseguenze importanti sulla nostra società.
Posto che alla dovuta acquisizione dei diritti corrisponda lo speculare rispetto dei doveri posti dal Patto di cittadinanza che gli stranieri si impegnano ad abbracciare e rispettare, essi possono rappresentare una grande risorsa per il nostro Paese, specie per quanto riguarda le seconde generazioni.
Condividere i valori su cui si fonda la Repubblica, la nostra cultura e la nostra Costituzione, apprendere la lingua italiana, frequentare e superare il percorso scolastico obbligatorio per i bambini, portare amore e rispetto verso la loro futura nuova Nazione: questi sono i punti essenziali su cui dobbiamo lavorare. Queste sono le tappe del percorso di integrazione alla fine del quale può essere acquisita la cittadinanza.
Servono, allora, politiche efficienti di governo e di sostegno per gli immigrati nel rispetto dei principi democratici, dell'eguaglianza e della solidarietà, ispirate ai valori della laicità e del dialogo. Occorre dunque affiancare alla repressione contro gli atti criminosi, una serie di misure ampie e diversificate, capaci di influenzare l'educazione civica della comunità, al fine di scoraggiare, da una parte, la ghettizzazione identitaria entro i confini delle comunità d'origine e, dall'altra, promuovere la cultura e i valori della cittadinanza.
Serve un impegno concreto e reale dello Stato in un processo di scolarizzazione e di alfabetizzazione per gli immigrati. Serve ispirarsi a un obiettivo di reale inclusione. Serve lavorare sodo: non è auspicabile pensare che l'impegno politico si arresti con la presentazione di questa proposta di legge, ma bisogna sincerarsi che il processo di integrazione ed inclusione vada a buon termine. Bisogna far leva sulla forza e sulle energie delle seconde generazioni, la cui presenza si manifesta in ritardo rispetto agli altri Paesi Europei: ciò può essere il punto di forza di un' Italia che non ha ancora ben delineato il proprio modello, ma che, per questo motivo, può apprendere dagli errori degli altri e proporre un modello vincente, facendo tesoro delle sconfitte altrui.
Non vogliamo che gli immigrati restino attaccati alle sottane della mediazione culturale e linguistica, che li inquadra ex ante come qualcuno cui deve essere affiancato un tutor a vita! Non vogliamo che essi siano costretti ad uno status di cittadini minori cui viene riconosciuta una tale diversità da attribuire loro le discriminatorie attenuanti culturali! Non vogliamo dare spazio a un'ideologia relativista incapace di riconoscere che la dignità umana, la sacralità della vita, la solidarietà e il rispetto dell'altro sono valori universalmente riconosciuti. Non possiamo permettere che venga posto il principio per cui ogni cultura, anche quella più odiosa e brutale, debba essere compresa e rispettata, nonostante, sul piano etico, le culture non siano ugualmente valide. Noi vogliamo che gli immigrati prendano davvero in mano il proprio destino e siano messi nelle condizioni più idonee per sviluppare la pienezza delle proprie potenzialità.
In questa ottica ritengo sia molto importante valorizzare la Carta di soggiorno di lungo periodo, perché dà allo straniero la necessaria serenità per intraprendere il proprio percorso di cittadinanza, senza timori e senza paure. Al tempo stesso credo che, a fronte di queste iniziative, debba essere posta la possibilità di revocare la cittadinanza a quanti sono venuti meno al patto di fedeltà con lo Stato: penso a chi si sia macchiato del reato di terrorismo internazionale o a chi abbia posto in atto dichiarazioni mendaci. Ecco perché, a fronte dell'impegno delle istituzioni, è necessario un impegno concreto degli immigrati a volersi integrare, a sposare in toto i valori su cui si fonda la nostra Repubblica e le sue regole.
Onorevoli colleghi, oggi il Parlamento inizia a scrivere le pagine di una nuova Storia, di cui forse ancora non cogliamo bene tutti i risvolti, ma che cambierà il volto della nostra Repubblica, aprendolo al diverso, all'altro da sé, in uno spirito di concordia e di condivisione. Solo affrontando un percorso strutturato di cittadinanza Pag. 95che comprenda il completamento del ciclo di studi obbligatori, investendo nella cultura e nella formazione, promuovendo lo studio della lingua e delle leggi italiane, diffondendo i principi che regolano i diritti e i doveri nel nostro Paese, potremo costruire questa nuova Italia. Molti paesi europei, tra cui la Francia o la Germania, sono alle prese con il disagio di una generazione, la terza di immigrati, che ha manifestato violentemente la propria rabbia per essere rimasta corpo avulso dal resto della società, per vivere quotidianamente il grande dramma di un'integrazione mai compiuta. Non possiamo, con coscienza, prestare il fianco a un modello di multiculturalismo innegabilmente fallito, perché orientato a una pericolosa forma di laissez faire che ha prodotto non un'integrazione, ma una marginalizzazione in grado di minare la coesione e la tenuta di diverse società. La politica, allora, deve cogliere, repentinamente, questo segnale: agire oggi per prevenire domani; agire oggi per far sì che questi immigrati possano sentirsi nuovi italiani a tutti gli effetti.
Il mondo sta cambiando e il nostro dovere è quello di gestire questo cambiamento nell'ottica del bene comune delle nostre società. L'Italia di oggi è diversa da quella di ieri e da quella di domani: ma noi oggi abbiamo la possibilità di gettare le basi di un futuro di conoscenza, rispetto e integrazione.

MATTEO MECACCI. Il tema che è in discussione oggi non riguarda solo una proposta di riforma della legge sulla cittadinanza, ma riguarda il tipo di società, il tipo di paese e di nazione che il Parlamento vuol contribuire a formare e a costruire. Perché vedete colleghi le decisioni che si prendono qui, ma anche gli argomenti, la retorica, le accuse e le imputazioni che si fanno, non sono separate o scollegate dalla realtà del paese; sono parole e provvedimenti che hanno un effetto diretto nella vita concreta di milioni di persone dei cittadini che ci ascoltano. Siano essi labili o sani di mente.
Questo vale ricordarlo perché nel corso di questa legislatura il tipo di dibattiti che abbiamo avuto in Parlamento, ad esempio sui temi della sicurezza e dell'immigrazione, sono stati proprio caratterizzati da decisioni e provvedimenti che hanno portato, non dimentichiamolo, alla criminalizzazione del semplice status di immigrato clandestino; altro che nuova cittadinanza, in questo paese cioè si è incriminati, non solo perché si offenda, si ferisca, o si danneggi qualcuno o i suoi beni, ma anche solo perché si è un clandestino, cioè non si è in grado di ottenere un permesso di soggiorno.
Abbiamo avuto poi provvedimenti come quelli che hanno portato alla politica dei respingimenti dei barconi di immigrati verso la Libia che, a differenza di quanto ha affermato il collega Bocchino questa mattina, sono stati definiti illegali e illegittimi non dall'opposizione, tanto più che il Partito democratico ha votato a favore del trattato con la Libia, ma dall'UNHCR che si occupa dei rifugiati e dell'Ufficio sui diritti umani dell'ONU. Insomma, provvedimenti che hanno portato sia alla criminalizzazione tecnica che all'emarginazione sociale di un'intera categoria di persone, quella degli immigrati clandestini, che spesso sono nel nostro paese solo per lavorare, e che devono farlo nell'illegalità non per loro scelta, ma perché così stabiliscono le nostre imprese anche a causa delle norme che regolano il mercato del lavoro. Da un lato, quindi si richiedono sempre più i servizi degli immigrati, e dall'altro si nega loro una condizione sociale legale e riconosciuta dallo Stato.
Ma c'è un'altra vicenda di cui non si parla e che va inserita in questo dibattito sulla cittadinanza e che riguarda una premessa fondamentale per diventare cittadini in Italia, e cioè la questione del rinnovo dei permessi di soggiorno. Secondo Il Sole 24 Ore sono infatti, oltre settecentomila, gli immigrati in attesa del rinnovo del permesso di soggiorno.
L'articolo 5 del Testo unico sull'immigrazione prevede che «il permesso di soggiorno è rilasciato, rinnovato o convertito entro venti giorni dalla domanda». Oggi invece si deve aspettare dai sette ai Pag. 96quindici mesi anche solo per il rinnovo di un permesso della validità di un anno.
La conseguenza incredibile e misconosciuta è che centinaia di migliaia di persone che lavorano, studiano, crescono i propri figli in Italia, si ritrovano così ciclicamente nella totale incertezza, in preda alla paura di essere espulsi da questo paese, non perché siano dei criminali, ma perché lo Stato li tratta come un fastidio, come una cosa di cui liberarsi, e a cui va resa più difficile la vita, e non facilitata, come ha spiegato stamattina il presidente dei deputati della Lega Roberto Cota.
Per chiedere il rispetto della legge in tema di rinnovo dei permessi di soggiorno un dirigente radicale, Ouattara Goussou, originario della Costa d'Avorio e da 29 anni in Italia, ha iniziato dal 12 dicembre uno sciopero della fame e a lui si sono uniti oltre trenta esponenti delle comunità di immigrati di tutta Italia. Non per varare una nuova legge, ma perché sia rispettata quella esistente.
Allora, quando si denuncia un clima politico caratterizzato dall'odio non si può non ricordare che questo tipo di politiche incitano alla paura nei confronti degli stranieri e sollecitano i peggiori istinti di difesa e di chiusura che risiedono in ciascuno di noi.
Discutere oggi di cittadinanza ad ormai quasi venti anni dall'ultima riforma nel 1992, impone di farlo analizzando e prendendo nota di quanto è avvenuto nel corso di questi anni, non solo in Italia ma in tutto il mondo, a partire dai paesi europei a noi più vicini che hanno vissuto il fenomeno dell'immigrazione e che si sono assunti la responsabilità di decidere come governarlo. E tutti questi paesi, in un modo o nell'altro, hanno adottato il principio dello ius soli per l'attribuzione della cittadinanza.
Ma se invece si guarda alla realtà italiana e l'analisi che se ne trae è quella del presidente dei deputati della Lega Roberto Cota c'è poco da fare, se non - come fa il testo presentato dalla relatrice - inasprire e rendere più difficile, il percorso di integrazione sociale degli stranieri. Se l'analisi è infatti che l'Italia non ha bisogno di immigrati, se si ignorano i dati sulla ricchezza prodotta dagli immigrati regolari nel nostro paese, con quasi ormai il 10 per cento del prodotto interno lordo, se si dice che occorre stringere le maglie e non dare messaggi sbagliati, se si rende più difficile rinnovare i permessi di soggiorno agli immigrati regolari, se si dice che i respingimenti illegali vanno bene, se si fanno comizi contro l'inserimento di un principio di civiltà come quello dello ius soli che attribuisce la cittadinanza, non solo in base al sangue o alla razza, ma anche in base al contributo concreto che una persona dà allo sviluppo di un paese, quali che siano le sue origini; se queste sono le premesse, la mia convinzione è che occorre prepararsi a battere politicamente e apertamente queste tesi, sapendo che non sarà facile, sfidando la demagogia e la paura e gettando una luce sulla vita di milioni di persone, perché se non sarà così, di fronte alla negazione dei diritti e della legalità ci sarà presto anche e non solo la strage del diritto ma anche la strage di vite umane.

CONSIDERAZIONI INTEGRATIVE DELL'INTERVENTO DEL DEPUTATO EUGENIO MAZZARELLA IN SEDE DI DISCUSSIONE SULLE LINEE GENERALI DEL TESTO UNIFICATO DELLE PROPOSTE DI LEGGE N. 103-A ED ABBINATE

EUGENIO MAZZARELLA. Visti i tempi non si può chiedere alla politica di essere, come la filosofia, lo chiedeva Hegel, il proprio tempo appreso con il pensiero. Le si può ben chiedere, però, di essere almeno il proprio tempo governato con ragionevolezza. Ora è ragionevole affrontare un problema epocale come quello dei migranti e degli immigrati, in cui l'Italia è pienamente coinvolta, con l'approccio minimalista del testo unificato sulla cittadinanza in discussione?
Il minimo comun denominatore proposto agli articoli 1 e 2 tra le proposte agli atti del Parlamento è talmente minimalista da segnare persino un arretramento rispetto Pag. 97alla legge del 1992, e da in niente rispondere alla Convenzione europea sulla nazionalità del 1997, che raccomandava che lo Stato faciliti nel suo diritto interno l'acquisto della cittadinanza «per le persone nate sul territorio e ivi domiciliate legalmente e abitualmente».
Questo perché il testo si muove in un'ottica meramente concessoria e quantitativa della cittadinanza, e non in un'ottica di sostegno attivo a processi di integrazione che da un lato evitino i limiti di politiche legate a modelli multiculturali, passibili di effetti di autoesclusione da un'effettiva integrazione sociale, e dall'altro i rischi respingenti di modelli basati su politiche dure di assimilazione oggi improponibili.
Sempre più per il futuro, e già oggi, l'appartenenza ad una comunità nazionale, come integrazione e adesione ai suoi valori e alla sua legalità costituzionale, non si fonda più solo sul lignaggio, sullo ius sanguinis, ma in misura sempre più significativa su dinamiche di aggregazione ad una comunità nazionale che il vivere accolti, e non respinti, su un suolo nazionale, un habitat di opportunità e di cultura, facilita.
Questo imporrebbe piuttosto di legiferare in un'ottica di ius soli temperato e condizionato dalla stabilità del nucleo familiare in Italia o dalla partecipazione del minore a un ciclo scolastico formativo, come chiedono le proposte dell'opposizione e il testo Sarubbi-Granata.
Ora è del tutto evidente che gli articoli 1 e 2 del testo unificato sono all'antitesi di questa esigenza di governo dei processi di immigrazione. L'articolo 1, in particolare, che nega ai minori anche nati in Italia fino alla maggiore età l'opportunità di acquisire la cittadinanza, è un potente incubatore di estraneazione per chi è nato sul suolo italiano, ed è costretto a viverlo come formalmente straniero e non come patria, senza che gli sia concessa per tempo, nell'età della costruzione della propria identità personale, che è anche identificazione con modelli valoriali, culturali e sociali, la possibilità di amare il Paese dove vive e vivrà.
I processi di integrazione sono complessi e definiscono profili non marginali di quella che Ulrich Beck ha definito «società del rischio»: e certo nella società del rischio ci vuole saggezza e prudenza; ma il rischio peggiore è fare della società del rischio la società della paura; perché questo aumenta i rischi dell'insolvenza delle nostre responsabilità di governo dei processi complessi delle nostre società, inserite senza possibilità realistiche di trarsene fuori, se non in analisi sociopolitiche dei processi di globalizzazione viziate da pregiudizi ideologici e da meschini calcoli di mercato elettorale.
Il paradosso è che i maggiori ostacoli ad una seria legge sulla cittadinanza vengono da una forza politica che sottotraccia non manca talora di adombrare, per i propri obiettivi politici, un percorso di uscita dalla cittadinanza italiana! Se si vuole difendere la nazionalità fondata sul lignaggio, sull'appartenenza etnica, tanto cara alla sensibilità padana, sarebbe più onesta ed opportuna una politica di incentivazione della natalità della famiglia italiana, anziché porre ostacoli a poter dare l'Italia a chi la ama, a chi ha il coraggio di far famiglia e figli nonostante le difficoltà, come gli immigrati, concorrendo in modo determinante ai bisogni socio-economici del sistema Italia, precondizione materiale perché ci sia e duri un organismo culturale, e spirituale, che si chiama Italia. Si può diventare un'espressione geografica anche per insipienza e mancanza di coraggio nell'affrontare le sfide del futuro. E il coraggio del futuro è credere in noi stessi ma anche in quelli che a noi si affianchino nel credere alla grandezza culturale e morale che come nazione siamo stati ed abbiamo da essere.