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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione I
1.
Giovedì 15 settembre 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bruno Donato, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE COSTITUZIONALE C. 3039 VIGNALI, C. 3054 VIGNALI, C. 3967 BELTRANDI, C. 4144 GOVERNO E C. 4328 MANTINI RECANTI MODIFICHE AGLI ARTICOLI 41, 97 E 118, COMMA QUARTO, DELLA COSTITUZIONE

Audizione di esperti della materia:

Bruno Donato, Presidente ... 3
Santelli Jole, Presidente ... 14 16
Bressa Gianclaudio (PD) ... 15
Calandra Piero, Professore di diritto amministrativopresso la Link Campus University of Malta di Roma ... 3
Calderisi Giuseppe (PdL) ... 14
Luciani Massimo, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblicopresso l'Università degli studi di Roma La Sapienza ... 6
Massa Pinto Ilenia, Professore associato confermato di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Torino ... 9
Rossi Giampaolo, Professore ordinario di diritto amministrativopresso l'Università degli studi Roma Tre ... 11
Sileoni Serena, Ricercatrice dell'Istituto Bruno Leoni ... 12
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A.

COMMISSIONE I
AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 15 settembre 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DONATO BRUNO

La seduta comincia alle 14,15.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione di esperti della materia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in relazione all'esame delle proposte di legge costituzionale C. 3039 Vignali, C. 3054 Vignali, C. 3967 Beltrandi, C. 4144 Governo e C. 4328 Mantini recanti modifiche agli articoli 41, 97 e 118, comma quarto, della Costituzione, l'audizione di esperti della materia.
Sono presenti il professor Piero Calandra, professore di diritto amministrativo presso la Link Campus University of Malta di Roma, il professor Massimo Luciani, professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università di Roma La Sapienza, la professoressa Ilenia Massa Pinto, professore associato confermato di diritto costituzionale presso l'Università di Torino, il professor Giampaolo Rossi, professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università Roma Tre e l'avvocato Serena Sileoni, ricercatrice all'Istituto Bruno Leoni di Torino.
Avverto che il professor Ignazio Musu, non potendo partecipare all'audizione per precedenti impegni di lavoro, ha inviato una relazione scritta che è in distribuzione.
Ringrazio a nome mio e di tutta la Commissione i nostri ospiti e do loro la parola iniziando dal professor Piero Calandra.

PIERO CALANDRA, Professore di diritto amministrativo presso la Link Campus University of Malta di Roma. Grazie, presidente. Illustrerò una breve memoria che poi lascerò alla Commissione sulle problematiche degli articoli 41, 97 e 118 della Costituzione.
Quando si interviene con una riforma costituzionale occorre avere chiari quali siano i principi che la animano e le possibili conseguenze nel sistema. All'epoca della Costituente i termini compromissori dell'articolo 41 sono stati espliciti, e non è necessario ripeterli. Non credo tuttavia che lo scetticismo riguardasse il libero mercato, ma il mercato quale si era strutturato tra oligopoli e monopoli, anche se alla fine si optò per rimuovere solo un tipo particolare di monopolio con provvedimenti singolari di nazionalizzazione.
Oggi le proposte di modifica dell'articolo 41 della Costituzione sono enunciate come manifestazione di una rivoluzione liberale che prevede il capovolgimento di un assetto preesistente divenuto incompatibile con quello che si vuole sostituire, in questo caso il dirigismo a fronte del liberismo. Perciò l'accento forte si pone soprattutto sulla modifica del terzo comma, ma questo è considerato caducato fin dall'entrata in funzione del Trattato di Maastricht, al punto tale che da quel momento in poi si è rinunciato non solo al


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dirigismo, ma forse anche a una politica industriale.
Se dunque l'impatto effettivo dell'abolizione del terzo comma sul sistema economico non appare particolarmente innovativo, l'abrogazione formale può servire però a riaffermare in modo per così dire ideologico, il profilo liberista del regime. Va quindi considerato come si costruisce un regime liberista partendo dalla modifica del primo comma dell'articolo 41 della Costituzione.
Al riguardo, la stessa relazione al disegno di legge governativo conviene che una distinzione tra momento iniziale e successivo (iniziativa e attività economica) rischia di apparire teorica. Ma l'espressione forte: «tutto ciò che non è vietato è permesso», non sembra sufficientemente adeguata per un dispositivo costituzionale. Infatti, non si tratta di gestire soltanto in modo secco la coppia autorità/libertà come sottesa all'altra divieto/permesso.
Tuttora l'enorme fascio dei provvedimenti autorizzatori non può essere automaticamente messo fuori gioco da un'affermazione del genere, tenuto anche conto che sovente si tratta ancora di autorizzazioni a numero chiuso che arieggiano l'istituto concessorio. Tra il divieto e il permesso, quindi, c'è tutta l'area del condizionato. Quanto a spostare tutto in fase di controllo, si rischia sia l'incertezza delle situazioni giuridiche che lo sviluppo di una sorta di mercato dei controlli successivi.
L'altra chiave di volta fa perno sul principio di concorrenza già fissato dal Trattato del 1957 e ribadito dal Trattato di Maastricht. Se il Trattato ha avuto la forza di caducare il terzo comma dell'articolo 41 della Costituzione, dovrebbe avere avuto anche la forza di permeare il sistema. Siamo invece ancora molto indietro. Da ciò nasce l'esigenza di ribadirlo in sede di disciplina costituzionale della libertà economica, che però non è più tanto quella della «libertà da», i vecchi lacci e lacciuoli di Guido Carli, quanto «libertà di», cioè di operare nel mercato.
E la previsione costituzionale non significa automaticamente ottenere libertà di accesso al mercato e libertà di confronto, che vanno entrambe testate nella legislazione ordinaria che in teoria è già pienamente autorizzata dalla disciplina comunitaria a declinare il principio. Si pensi soltanto all'esempio attuale della emananda libertà di accesso a determinati ordini professionali salvo motivi di interesse pubblico, dizione che si presta a limitazioni pretestuose. Ed è per questo che Mario Monti ha chiesto di rivedere e seriamente alcuni di questi progetti di legge.
Ma manca anche una regolazione indipendente dei trasporti con regole trasparenti e non discriminatorie per l'ingresso di nuovi operatori. La liberalizzazione delle Poste non esclude ancora conseguenze sulla concorrenza nel settore bancario, che dal canto suo non è certo immune da stimoli cartellistici, e sul contenimento delle intese anticoncorrenziali anche l'Antitrust ha dovuto più volte rinfoderare gli artigli.
Il collegamento tra l'articolo 3 e l'articolo 41 della Costituzione evidenzia un profilo di ordine sistematico che vorrei sottolineare. In Costituzione, a differenza delle leggi ordinarie, non si possono prevedere rimandi, altrimenti si omologa alle leggi ordinarie. Perciò è accaduto che il principio di concorrenza non appartenente alla sfera statale sia stato introdotto nella sede della disciplina del governo locale senza essere ripresa nell'articolo 41.
Nella relazione al disegno di legge si parla di potenziare l'impianto dell'articolo 41 in raccordo con l'articolo 118 per valorizzare i principi sociali e liberali della responsabilità economica e la concorrenza come valore ordinamentale che ha ispirato le politiche di privatizzazione (molta) e di liberalizzazione (poca). Poca perché si incide su interessi elettoralmente rilevanti che condizionano comportamenti a dir poco elusivi in diversi segmenti dello schieramento politico.
Per questo, mentre un governo da solo riesce ad assumersi la responsabilità di una manovra finanziaria anche se fortemente


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incisiva, il superamento della struttura per ceti che blocca l'ascensore sociale richiederebbe più larghe coalizioni che neutralizzino o almeno ripartiscano il rischio politico.
Tornando alla concorrenza, essa è stata trattata alla stregua del riparto di materie e convalidata - e non poteva essere diversamente - dalla sentenza della Corte costituzionale del 2007 che ha respinto i ricorsi di costituzionalità delle regioni. Ma se lo Stato l'avesse davvero introiettato come principio fondamentale avrebbe dovuto impugnare tutte le leggi regionali - che non sono poche - che lo disattendono o lo violano.
Per superare indirizzi politici così vischiosi ci si chiede quale potrebbe essere la scrittura di una norma costituzionale. Si potrebbe al riguardo prevedere che le liberalizzazioni devono attuarsi in modo da consentire un più ampio dispiegamento di un mercato concorrenziale, visto che limitarsi a enfatizzare la riduzione del ruolo dirigista dello Stato non coglie il tema, che è piuttosto la chiusura dei mercati.
Penso anche che l'affermazione della libertà di iniziativa economica si potrebbe rafforzare con una integrazione dell'articolo 3, secondo comma, della Costituzione, ove il riferimento al compito della Repubblica di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno svolgimento della personalità potrebbe completarsi con l'inciso «anche agevolando, per ogni iniziativa economica, l'accesso al mercato».
Molto efficace, invece, è l'individuazione della pubblica amministrazione come fattore di competitività, dato che i costi non sono neutri ma ricadono su imprese e consumatori, così come la nuova stesura dell'articolo 118 della Costituzione consentirebbe di valutare l'adeguatezza dell'azione sussidiaria anche alla stregua di un interesse legittimo.
Il principio di sussidiarietà orizzontale deve contribuire in forma significativa alla costruzione di un ordinamento economico-sociale equilibrato nelle sue componenti, mentre sinora si è dato maggiore sviluppo a quella verticale, che consolida una poliarchia tutta istituzionale di apparati non in grado di colmare la distanza che si è creata con le varie espressioni della società.
Sussidiarietà orizzontale e concorrenza devono essere sempre più correlate a vantaggio sia del sistema delle imprese che di tutte quelle espressioni della società civile che consentano a tutte le energie possibili di manifestarsi, coniugando efficienza e qualità della democrazia.
Mi sembra quindi importante valorizzare ogni collegamento che emerge nelle proposte di riforma tra disciplina di mercato e disciplina dell'amministrazione. Così il criterio di semplificazione, che collocato nel titolo della pubblica amministrazione rischia di fare la fine di una clausola di stile, se venisse in qualche modo accorpato alla disciplina di mercato come una delle infrastrutture essenziali, sia pure esterne ma sicuramente coadiuvanti della competitività, fornirebbe certamente stimoli sistemici innovativi.
Positivo appare inoltre l'orientamento di premialità dei comuni virtuosi che si sta consolidando nei vari provvedimenti di manovra finanziaria, premialità che andrebbe diffusa nel sistema prevedendo che la Repubblica stimoli con idonee misure di tipo premiale anche la concorrenza tra pubbliche istituzioni.
Il nostro resta ancora un capitalismo relazionale chiuso ed elitario, tanto è vero che siamo nei rami bassi delle classifiche internazionali sia per libertà di impresa che per investimenti esteri. Assicurare la centralità dell'impresa non è soltanto liberare un mercato in senso statico da vincoli esistenti, ma creare le condizioni per tutti per fare impresa, e in genere per svolgere un'attività economicamente rilevante senza poter opporre che talune di queste attività, non essendo necessariamente esercitate in forma di impresa, non sono liberalizzabili. Solo così l'utilità sociale da limite si può trasformare, attraverso la concorrenza, in un obiettivo.
La cultura che ha trainato l'Europa sia pure tra una frenata e l'altra del colbertismo francese, che è stata anche funzionale


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al nostro dirigismo assistenzialista, è stata quella ordoliberale dell'economia sociale tedesca, che oggi presenta il conto dei suoi risultati virtuosi a chi ha voluto campare al di sopra delle proprie risorse produttive, elemento questo che ha determinato un affievolimento della cultura del rischio e dell'innovazione che caratterizza una genuina cultura capitalista che abbia reale capacità competitiva.
Per immaginare una formulazione costituzionale più incisiva, una possibile stesura potrebbe essere del seguente tenore: «La Repubblica garantisce l'effettivo esercizio di ogni attività economica secondo il principio di concorrenza, rimuovendo gli ostacoli esistenti nella legislazione riguardanti lo Stato, le regioni e gli enti locali. Le funzioni amministrative ai vari livelli di governo e le autorità indipendenti sono organizzate in modo da facilitare il buon funzionamento del mercato, all'insegna della semplificazione procedimentale e della tempestività dell'azione».
In questo modo al buon andamento dell'amministrazione, visto nel suo momento di funzione pubblica tradizionale e protesa all'interesse pubblico, si affianca il compito del buon funzionamento del mercato. Questo comporta che, laddove sono previsti procedimenti autorizzatori e concessori, le relative funzioni debbono tendere a questi risultati.
Sono convinto che l'evoluzione in senso progressivo del sistema possa utilizzare questa contaminazione virtuosa tra i criteri dell'ordinamento giuridico e quelli dell'ordinamento economico, superando un dualismo tra policy e mercato che può considerarsi appartenente a un sistema di relazioni che, forse anche di orientamento diverso, possono convenire di superare.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE JOLE SANTELLI

MASSIMO LUCIANI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico presso l'Università degli studi di Roma La Sapienza. Come d'abitudine - non è la prima volta che ho l'onore di essere audito da codesta Commissione - trasmetterò un documento scritto dopo l'audizione.
Non vorrei mancare di rispetto alle altre proposte di legge d'iniziativa parlamentare che sono in discussione innanzi la Commissione, ma è chiaro che il disegno di legge governativo sollecita la maggiore attenzione. Dico subito che questa proposta di revisione dell'articolo 41 della Costituzione, a mio avviso molto sommesso ma altrettanto fermo, non è convincente. Poiché gli studiosi di diritto costituzionale non sono soggetti politici e hanno l'onere della motivazione, debbo spiegare qual è la ragione.
Anche se questa non è la sede per azzardare tentativi di ricostruzione teorica - si mancherebbe di rispetto al Parlamento se lo si facesse -, ho tuttavia l'onere di dire preliminarmente qual è a mio avviso la lettura plausibile dell'attuale articolo 41 della Costituzione. Infatti, se non sappiamo cosa stiamo toccando non possiamo neanche immaginare una sua revisione.
Come primo punto, osservo che l'iniziativa economica privata di cui parla il primo comma dell'articolo 41 è una cosa diversa dall'attività di cui parla il secondo comma.
Quando si parla di iniziativa si parla di produzione orientata allo scambio. L'iniziativa dell'articolo 41 è l'atto di investimento del capitale. L'attività è tutto ciò che consegue all'atto di investimento, ovviamente nel dominio dell'azione economica finalizzata allo scambio.
Il fatto che l'iniziativa economica privata sia dichiarata libera dal primo comma dell'articolo 41 della Costituzione significa, a mio avviso, che l'atto d'iniziativa, cioè l'atto di destinazione del capitale ai suoi impieghi, non può incontrare limiti positivi e che si possono imporre solo limiti negativi.
Invece, all'attività economica privata possono essere imposti anche tutti i limiti che sono funzionali alla protezione dei valori costituzionali elencati nel secondo comma dell'articolo 41, a cominciare dall'utilità sociale.


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Il limite centrale nell'impianto dell'articolo 41 è proprio quello dell'utilità sociale, perché in quel richiamo all'utilità sociale trova precisa traduzione normativa un progetto di emancipazione personale e sociale che è tracciato dall'articolo 3, secondo comma, della Costituzione.
Molte esagerazioni sono state dette sull'articolo 3, secondo comma, della Costituzione. Io penso si debba chiarire un punto: l'articolo 41 della Costituzione dà per scontata l'esistenza di un modo di produzione di tipo capitalistico e ha costruito la scelta a favore di questo modo di produzione come parte costitutiva del patto repubblicano. Tuttavia, la Costituzione ha anche constatato che i meccanismi del modo di produzione capitalistico non sono sufficienti alla realizzazione di quel programma di emancipazione personale e sociale cui ho accennato.
La scelta in favore di un modo di produzione capitalistico è evidente e ritengo sia errata la posizione di una parte della dottrina che anni addietro sosteneva che si sarebbe potuto avere un'evoluzione verso il socialismo senza alcun atto rivoluzionario. Questo però non significa che la Costituzione non avverta l'insufficienza di questo modo di produzione allo scopo di realizzare quel progetto di emancipazione, che è puntualmente identificato dall'articolo 3, secondo comma.
Bisogna stare attenti su questo punto. La Costituzione non ha tentazioni giacobine, non è autoritaria. Non disegna un progetto preciso di società e non dice ai cittadini italiani che vivono oggi quale è la società che devono costruire. La Costituzione rifiuta tutto questo, ma afferma che occorre seguire un processo di emancipazione in cui sono tutti impegnati: la Repubblica, vale a dire lo Stato, le regioni e tutti i poteri pubblici, ma oserei dire in prima persona i cittadini; non bisogna scordarsi del fatto che la Costituzione vuole una cittadinanza consapevole e attiva.
Non possiamo guardare allo Stato come al grande erogatore dei nostri benefici, ma dobbiamo essere i primi soggetti che si impegnano per far sì che lo Stato funzioni. Lo dice l'articolo 49 della Costituzione in modo puro e semplice quando riconosce che sono i cittadini associati in partiti a determinare la politica nazionale. E non è una cosa da poco.
In questo contesto, l'articolo 41, secondo comma, della Costituzione vede nel principio di utilità sociale un vero principio fondamentale, e quando noi studiosi di diritto costituzionale parliamo di principi fondamentali non utilizziamo questa qualificazione a caso. Principio fondamentale vuol dire che si tratta di qualcosa che non è modificabile in sede di revisione della Costituzione.
Questo è il contesto generale in cui si inserisce il disegno di legge del Governo. Cercherò di argomentare la mia posizione - ripeto, a sommesso mio avviso ma non meno fermo - non simpatetica con questo disegno di legge.
Il mio primo dubbio riguarda il fatto che l'iniziativa sia stata assunta dal Governo. Parlando della revisione della Costituzione, sarebbe molto opportuno che le revisioni costituzionali, che debbono coagulare un consenso molto ampio che trascende quello maggioritario, non siano segnate da un'impronta maggioritaria addirittura all'inizio. I Governi dovrebbero astenersi dal formulare iniziative di revisione della Costituzione. Questo accade altrove, in altri sistemi politici nei quali i governi hanno un'altra posizione.
La mia seconda osservazione riguarda il fatto che evidentemente lo stesso Governo ritiene superflua la riforma dell'articolo 41 della Costituzione. Tutti quanti conosciamo - e voi in particolare avete lavorato su quel testo - l'articolo 3, primo comma del decreto legge n. 138 del 2011 di fresca conversione. In questo articolo è scritta esattamente la stessa cosa che sta scritta nel disegno di legge governativo di riforma dell'articolo 41. Si dice che in attesa della revisione dell'articolo 41 della Costituzione (tralascio il turbamento che ha generato nei costituzionalisti questo richiamo della legge ordinaria a un'ipotetica revisione costituzionale futura) l'iniziativa e l'attività economica


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privata sono libere ed è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge.
Questo vuol dire che lo stesso Governo evidentemente pensa che sia possibile prevedere qualcosa del genere attraverso un atto con forza di legge e con legge ordinaria di conversione, senza nessun bisogno di aspettare il nuovo articolo 41 della Costituzione. Oppure vuol dire che il Governo, pur ritenendo necessaria e indispensabile la riforma dell'articolo 41 della Costituzione ha consapevolmente adottato un atto costituzionalmente illegittimo. Debbo scartare questa seconda ipotesi, che sarebbe evidentemente inaccettabile, e debbo ritenere praticabile soltanto la prima.
In terzo luogo, il fatto che ciò che non è vietato sia permesso è nel nostro ordinamento del tutto ovvio per la ragione molto semplice che il principio di legalità esclude la possibilità di vietare in via amministrativa ciò che non è vietato dalla legge. È chiaro che è così sicché una simile previsione non aggiunge assolutamente niente in termini di garanzia dei privati.
In quarto luogo, a tutto concedere è stato osservato da qualcuno dei primi commentatori che una previsione costituzionale del genere peserebbe semmai sul potere interpretativo del giudice. L'amministrazione è già adesso vincolata dal principio di legalità, sicché la nuova previsione obbligherebbe il giudice a leggere le norme limitative in modo molto restrittivo.
Anche questo in realtà è già implicato dal principio del favor libertatis che il nostro ordinamento pacificamente riconosce e che la giurisprudenza applica. Anche per questo profilo non comprendo quale utilità normativa possa avere.
Vi è un'ulteriore osservazione. Il disegno di legge confonde iniziativa e attività economica privata, abbandona quella distinzione tra l'iniziativa libera del primo comma e l'attività economica controllata e limitata dai valori costituzionali del secondo comma. Paradossalmente - esiste l'eterogenesi dei fini - questo va contro le intenzioni del proponente e va a detrimento della libertà di iniziativa, perché il primo comma dell'articolo 41 della Costituzione lascia libera l'iniziativa e non tocca l'attività. Invece in questo modo, parlando indifferentemente di iniziativa e di attività, si raggiunge un intento a mio avviso esattamente opposto a quello che si intende perseguire.
Il principio di fiducia e di leale collaborazione poi lo si predica solo dei rapporti fra pubbliche amministrazioni e cittadini. E di norma (si scrive con una formula molto ambigua), sono previsti solo controlli successivi. Poiché, però, vale il principio che il legislatore quod voluit dixit, quod tacuit noluit, oppure incoerente con questa statuizione l'implicito assunto che i cittadini possano essere tra loro sleali o non collaborativi. Se postulo un principio di leale collaborazione e di fiducia tra cittadini e pubblica amministrazione, evidentemente non lo postulo tra i cittadini. E se i cittadini sono infatti, intesi come soggetti tra loro non leali o non collaborativi, non si capisce per quale ragione i controlli debbano essere soltanto successivi.
Si richiamano, accanto all'utilità sociale, gli altri principi fondamentali della Costituzione. Apparentemente anche questo è un ovvioma, ma non è innocente. Che quei principi debbano essere rispettati non c'era bisogno di dirlo. Se lo si è fatto, io penso che si debba imputare alla volontà di svalutare il principio dell'utilità sociale, che è posto a confronto con gli altri principi in contrasto con la fondamentalità che lo caratterizza.
Infine, dire che tutto ciò che non è espressamente vietato è permesso non risolve il vero problema al quale siamo di fronte, un problema che non ha la maggioranza o l'opposizione, ma che appartiene sia alla maggioranza sia all'opposizione, vale a dire il problema della politica di elaborare le scelte strategiche e gli interessi generali che giustificano la limitazione delle attività dei privati. È quindi lecito dubitare che la revisione costituzionale abbia un'utilità diversa dall'effetto annuncio. Gli strumenti per agire la politica li ha già.


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In conclusione, questa iniziativa governativa può essere interpretata come un tentativo che non è in grado di esprimere contenuti normativi automaticamente innovativi, ripetendo cose che sono già contenute nella Costituzione. Se fosse così, sarebbe inutile.
Però si potrebbe anche ritenere che essa implichi un vero e proprio rovesciamento dell'impianto costituzionale, rendendo secondario il limite dell'utilità sociale e palesando il convincimento che l'iniziativa dei privati basti a se stessa e che ci sia un'originaria coincidenza tra interesse individuale e interesse generale, come qualcuno pensava tra Seicento e Settecento. Se così fosse, questa iniziativa non sarebbe inutile, ma illegittima. Non vedo quale terza lettura si possa fornire.
Aggiungo un'ulteriore osservazione. Questa iniziativa mi sembra postulare anche una riduzione del ruolo delle politiche pubbliche e con esse del soggetto che dovrebbe elaborarne almeno le grandi linee, e cioè del Parlamento, di fronte a una delle cui articolazioni ho l'onore di parlare in questo momento. Queste politiche pubbliche vengono infatti confinate in una posizione residuale.
Se tale iniziativa - questo è un punto cui tengo molto - si unisce a quella di riforma degli articoli 53 e 81 della Costituzione allo scopo di introdurre in Costituzione, rispondendo a una sollecitazione venuta dall'estero, il vincolo del pareggio di bilancio, abbiamo la conseguenza che lo spazio per le politiche pubbliche sembra essere ridotto sostanzialmente a zero. Eppure, proprio adesso abbiamo massimo e vitale bisogno di politiche pubbliche e di politiche pubbliche - permettetemi una valutazione di opportunità - anticicliche di stampo keynesiano. Ma questo non riguarda direttamente la mia specializzazione di costituzionalista ed in qualche misura è un apprezzamento personale.
Se le politiche pubbliche sono tendenzialmente ridotte a zero nella tenaglia della riforma dell'articolo 41 e dell'articolo 81 in combinato disposto con il 53, viene spontaneo chiedersi quale margine, quale ragione d'essere residui per lo stesso Parlamento, le cui prerogative sono sempre più erose dall'alto e dal basso, mentre è proprio il Parlamento che è il protagonista dell'identificazione almeno delle grandi linee delle politiche pubbliche.
È per questo che spero che il Parlamento di fronte al quale ho l'onore di parlare ritenga non convincente questa iniziativa.

ILENIA MASSA PINTO, Professore associato confermato di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Torino. Anch'io, tra le moltissime riflessioni che le proposte di revisione in discussione suscitano, vorrei attirare l'attenzione solo su un aspetto in particolare, di cui già i professori che mi hanno preceduta hanno parlato. Mi riferisco alla disposizione che il disegno di legge di iniziativa governativa vorrebbe introdurre nel primo comma dell'articolo 41 della Costituzione, vale a dire la clausola secondo la quale è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge. Vorrei indicare quelle che a mio parere potrebbero essere le implicazioni giuridico-costituzionali di questa clausola.
Siamo di fronte alla proposta di costituzionalizzare quella che è stata chiamata la norma generale esclusiva. La prescrizione secondo la quale è permesso tutto ciò che non è espressamente vietato dalla legge ha l'effetto di introdurre nell'ordinamento una vera e propria norma secondo la quale tutti i comportamenti che non sono espressamente disciplinati da una norma particolare devono ritenersi esclusi dalla disciplina di quella norma. Sarebbero quindi non oggetto di uno spazio giuridico vuoto, ma disciplinati dalla norma generale esclusiva.
La gran parte dei commentatori e anche chi mi ha preceduto ha ritenuto che questa clausola in realtà non aggiunge nulla nell'ordinamento e che quindi sarebbe inutile perché non apporterebbe alcuna novità, alcun contenuto normativo nuovo oppure che sarebbe «innocente» perché di fatto si risolverebbe nella previsione di una riserva di legge. Vorrei


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esprimere qualche dubbio su queste osservazioni.
Ci si è chiesti retoricamente come funzionino oggi le cose. Avevamo oppure no il permesso di lavarci i denti dato che nessuna norma ce lo vieta? A me le cose sembrano un po' più complicate. Solo per accennare a un esempio recente che ha toccato il nostro ordinamento, in modo altrettanto retorico dovremmo chiederci se abbiano il permesso di sposarsi gli omosessuali, visto che non esiste una norma che esplicitamente lo vieta loro.
Eppure, la recente sentenza della Corte costituzionale - qui è il punto - con un complesso apparato argomentativo ha dimostrato che le cose sono un po' più complicate e che non è vero che se non esiste il divieto espresso il comportamento è permesso. La ragione è che la norma generale esclusiva, se non è espressamente prevista nell'ordinamento, non vige.
Il punto sul quale vorrei soffermarmi è proprio questo. Le norma generale esclusiva è gravida di molteplici conseguenze giuridico-costituzionali. Una norma generale esclusiva sul piano delle fonti del diritto implica come conseguenza più ovvia che tutto ciò che non è vietato da una determinata fonte viene da quella medesima fonte qualificato come permesso, perciò non potrebbe essere legittimamente vietato da una fonte inferiore. In altre parole, se la Costituzione non vieta espressamente un certo comportamento, il legislatore non potrà vietarlo perché è sottinteso che la costituzione ha inteso renderlo possibile. Lo stesso vale nel rapporto tra le fonti primarie e le fonti secondarie.
Secondo me il problema non è l'introduzione di una riserva di legge. La Corte costituzionale in più di un'occasione ha sostenuto che l'articolo 41 della Costituzione, anche se si fa esplicito riferimento alla riserva di legge solo nel terzo comma, in realtà la implica anche nel secondo. Credo che i problemi vadano oltre la previsione di una riserva di legge.
Vi sono alcuni punti sui quali occorre focalizzare l'attenzione.
Non tutti gli ordinamenti prevedono una norma di chiusura nel senso di una norma generale esclusiva. E non è vero che gli ordinamenti che non la prevedono la possiedono implicitamente per la semplice ragione che permesso non equivale a non vietato. È stato ormai spiegato in modo estremamente chiaro che permesso può significare due cose: permesso in senso forte, quando esiste la norma particolare che lo riconosce, come nel caso di una disposizione costituzionale che riconosce una libertà. Il permesso è invece in senso debole quando non esiste una norma che vieta il comportamento. Tuttavia, questo significa non che il permesso è sottinteso, ma che esiste una lacuna normativa, e le lacune normative aprono un problema di interpretazione su come colmarle.
Se ne deve dedurre che non tutti gli ordinamenti prevedono una norma generale esclusiva. Il nostro la prevede esclusivamente nel settore del diritto penale, in base a quanto disposto dall'articolo 25, secondo comma, della Costituzione e dall'articolo 1 del Codice penale.
A mio avviso l'implicazione giuridica più importante che deriverebbe dalla costituzionalizzazione della norma generale esclusiva consisterebbe nell'obbligo, nell'imposizione ai giudici di impiegare sempre e comunque l'argomento letterale o a contrario.
Oggi, in tutti gli ordinamenti nei quali non vige la norma generale esclusiva, è appannaggio dell'interprete colmare le lacune normative ricorrendo alla norma generale esclusiva attraverso l'argomento a contrario ovvero attraverso la cosiddetta norma generale inclusiva, che invece consente l'utilizzo dell'argomento analogico.
Nel nostro ordinamento non esiste una gerarchizzazione degli argomenti interpretativi, non esistono meta-norme che impongano ai giudici di utilizzare un argomento piuttosto che un altro. L'unico orientamento che esiste per l'interprete è l'interpretazione conforme a Costituzione, ma per realizzare un'interpretazione conforme a Costituzione potremmo utilizzare in un caso l'argomento a contrario e in un altro l'argomento analogico o i più


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diversi canoni interpretativi che la cultura giuridica ha elaborato da centinaia di anni.
Questa previsione comporterebbe un'inaccettabile gerarchizzazione degli argomenti interpretativi e ridurrebbe fortemente la possibilità di ricorrere a tutti gli altri canoni che la cultura giuridica ha riconosciuto da tempo sia nell'ipotesi in cui si intendesse riferire la norma generale esclusiva all'attività interpretativa delle disposizioni legislative alla luce delle disposizioni costituzionali, ma ancor di più se si intendesse utilizzare la norma generale esclusiva nel caso dell'interpretazione delle disposizioni costituzionali stesse. Questo significherebbe di sicuro assegnare un ruolo recessivo alle disposizioni costituzionali.
Soprattutto è la natura stessa delle disposizioni costituzionali di principio a essere incompatibile con la norma generale esclusiva. I principi costituzionali, tra cui rientra anche la libertà di cui all'articolo 41, devono essere attuati dalla politica attraverso la legislazione ordinaria compiendo un'attività di bilanciamento, come insegna la Corte costituzionale, con altri principi. I limiti di cui al secondo comma dell'attuale articolo 41 della Costituzione non sono altro che un modo di tutelare altri principi costituzionali.
È stato detto che, se è vero che l'attuale formulazione dell'articolo 41 della Costituzione non ha impedito alcuna legge di semplificazione, nessuna legge di complicazione ha però potuto essere dichiarata incostituzionale grazie all'articolo 41. Questo non è vero perché la giurisprudenza costituzionale è ricchissima di pronunce nelle quali, attraverso il cosiddetto «sindacato di ragionevolezza» sui bilanciamenti politici compiuti dal legislatore, la Corte costituzionale è intervenuta per dichiarare l'incostituzionalità di leggi - ossia di bilanciamenti politici - nei quali la libertà ex articolo 41 della Costituzione era stata eccessivamente compressa.

GIAMPAOLO ROSSI, Professore ordinario di diritto amministrativo presso l'Università degli studi Roma Tre. Dirò poche cose e consegnerò un breve testo scritto. Il mio sarà un approccio diverso, poiché parlerò come amministrativista anziché come costituzionalista, quindi con una maggiore attenzione alle ricadute operative delle norme.
Mi porrei, ad esempio, il problema se l'approvazione di queste norme - faccio riferimento al disegno di legge di iniziativa governativa - comporti la caduta per incostituzionalità sopravvenuta di leggi vigenti e di quali. A me sembra di no; a me sembra che le norme proposte costituiscano un adeguamento del testo costituzionale all'evoluzione che vi è stata in questi decenni di quella che Mortati chiamava la costituzione materiale.
L'idea di programmazione statale delle attività economiche degli anni Settanta e Ottanta, enfatizzata dalla dottrina, ha perso progressivamente rilievo. Non c'è una programmazione delle attività economiche nemmeno indiretta e tanto meno costrittiva.
Sul versante dell'articolo 97 della Costituzione, l'evoluzione della cultura giuridica ha portato a erodere le posizioni di privilegio della pubblica amministrazione e a configurare la sua attività come posta a servizio dei cittadini. Ho da poco terminato di scrivere un testo di diritto amministrativo in cui sostengo che già è così.
C'è allora da chiedersi se le modifiche proposte mutino effettivamente il diritto positivo vigente. Anche se certamente le norme costituzionali hanno valore emblematico, il loro tenore letterale potrebbe, anche in futuro, essere utilizzato per contrastare eventuali evoluzioni regressive. Però questa è una valutazione politica più che tecnico-giuridica.
Vorrei, invece, richiamare l'attenzione della Commissione su due profili che hanno anche una valenza tecnica. Attualmente il vincolo alle attività economiche private non deriva da norme di divieto, che sono pochissime. È già vigente nel diritto positivo - sono d'accordo in questo col professor Luciani - il principio secondo cui è lecito tutto ciò che non è vietato. I vincoli, che credo tutti ormai


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avvertiamo come troppo forti all'attività economica, derivano da due fonti: in primo luogo, le norme di regolazione anche comunitaria in larga misura, e poi statali, regionali e comunali che sono poste a tutela di certi interessi. Il problema è fare una scelta, perché non c'è nessuna norma di regolazione che non tuteli un qualche interesse o alla salute o all'ambiente o all'affidamento del consumatore. Se si vogliono tutelare tutti gli interessi, si crea un ingorgo normativo che impedisce una sufficiente libertà di iniziativa.
Sono norme amministrative e sono norme civili. Non sono d'accordo con la professoressa Massa Pinto: il matrimonio omosessuale attualmente non è possibile non perché c'è una norma che lo vieta, ma perché esiste una norma che regola il matrimonio, che è un contratto tipico regolamentato. Come sapete, alcuni contratti sono tipici nel senso che si possono fare o non fare, ma le cui conseguenze giuridiche sono stabilite dalla norma. La norma regolatoria che disciplina il matrimonio in un certo modo produce implicitamente l'effetto di divieto su attività diverse da quelle conformate da quella stessa norma regolatoria.
L'altro vincolo è rappresentato dalle norme di pianificazione non più delle attività economiche, che come ripeto non esistono, ma di assetto del territorio. Ai piani urbanistici che avevamo nel 1942 si sono aggiunti piani di vario tipo - ambientali, agricoli, idrici, sanitari, paesaggistici - che complicano notevolmente l'attività dei privati.
Se l'intento della politica è diminuire lo spessore dei vincoli che si sovrappongono all'attività di iniziativa, si deve agire sulla regolazione, non deregolando tutto perché nessuno lo vorrebbe ma diminuendo lo spessore della regolazione e quindi sacrificando alcuni interessi o diminuendone la tutela. È una scelta politica.
Ancor prima, occorrerebbe una semplificazione procedimentale che si ottiene solo con la semplificazione organizzativa. Se tanti enti hanno un potere sul territorio e ciascuno di essi interviene nella regolazione e detta norme, si sovrappongono le discipline e i procedimenti si complicano. Bisogna dunque prestare attenzione ai profili di regolazione e di pianificazione del territorio.
Da ultimo, la dottrina finora aveva interpretato l'articolo 41 della Costituzione nel testo vigente come conferente una pari dignità all'attività economica privata e a quella pubblica. Mi chiedo se nel testo proposto ci sia la volontà di un diverso indirizzo, nel senso di togliere ogni legittimazione all'attività economica pubblica. Forse non c'è, ma si potrebbe dedurre.
Si tenga presente a questo riguardo che oggi il principio della pari dignità tra impresa pubblica e privata è ormai acquisito e pacifico nell'ordinamento europeo. Se ci si vuole adeguare all'ordinamento europeo non è necessario togliere legittimità all'impresa pubblica.

SERENA SILEONI, Ricercatrice dell'Istituto Bruno Leoni. Non ho bisogno di ricordare alla Commissione che l'articolo 41 della nostra Costituzione in tutta la vita repubblicana è stato estremamente generoso nei confronti delle più svariate interpretazioni. Vigente lo stesso articolo, abbiamo avuto un sistema economico dove c'era l'IRI, dove gli italiani compravano occhiali prodotti dallo Stato o viaggiavano su aerei dello Stato, e siamo poi passati invece a un sistema più aperto e più fiducioso nei confronti del mercato, con la spinta della Costituzione economica europea.
Forse è davvero opportuno modificare l'articolo 41 della Costituzione nel senso di conferirgli un significato più preciso. Se è la svolta liberale che si vuole - consentitemi di dire che dal punto di vista dell'Istituto Bruno Leoni che rappresento sarebbe opportuno, perché credo che fino adesso l'esperienza repubblicana abbia consegnato più i fallimenti dello Stato che non i frammenti del mercato, e i problemi di spesa pubblica ne sono ora l'esempio più urgente -, bisogna verificare se le proposte di legge che sono state depositate all'attenzione della Commissione e il disegno di legge di


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iniziativa governativa vanno in tale direzione o se sono semplicemente operazioni di restyling con un valore simbolico o chiarificatore in certi termini, ma anche fonte di maggiore complicazione interpretativa sotto altri punti di vista.
Mi pare che tanto il disegno di legge costituzionale quanto le altre proposte di legge costituzionale che sono state depositate non colgano il dato che davvero manca in Costituzione. Se si vuole stabilire in Costituzione che l'iniziativa economica privata è di norma fonte di utilità sociale, ma non deve contrastare con il fondamentale e fondante principio della solidarietà sociale e dell'uguaglianza sostanziale di cui all'articolo 3 della Costituzione, a me pare che in tutte le proposte avanzate manchi un principio molto semplice da inserire, vale a dire il fatto che l'intervento pubblico è consentito, ma soltanto se non fa concorrenza all'intervento privato.
In altri termini, se esistono forze private che dal basso possono soddisfare le stesse esigenze che dovrebbe soddisfare lo Stato e possono farlo, come la storia repubblicana ci ha insegnato, forse in maniera più efficiente ed efficace, allo Stato e agli altri enti pubblici, compresi quelli territoriali, è fatto divieto di intervenire. Questo a mio parere è il principio che manca in Costituzione.
Ogni altro principio e ogni altra regola che leggo nelle proposte e nel disegno di legge depositati mi pare che già sia presente in Costituzione, quali ad esempio il principio di semplificazione, il principio per cui tutto ciò che non è vietato è consentito, come è stato autorevolmente detto prima, o il principio di sussidiarietà.
Il principio del divieto di un intervento pubblico in economia concorrente a quello privato mi sembra coerente non soltanto con il comma 1 dell'articolo 41 vigente, che recita che «L'iniziativa economica privata è libera», ma soprattutto con quel principio di sussidiarietà orizzontale di cui tanto si parla, ma che ancora oggi, a distanza di dieci anni dalla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, fatica a farsi spazio.
A mio avviso, le linee direttrici da seguire sono l'esplicitazione del divieto per gli enti pubblici di fare concorrenza al privato, pur con il diritto, nell'ottica della solidarietà costituzionale, di intervenire nelle dinamiche private laddove le forze imprenditoriali private non sono in grado di attivarsi con efficienza ed efficacia, così da tutelare i consumatori, gli utenti, ma soprattutto i cittadini. Ciò implicherebbe il divieto di interventi retroattivi per una garanzia di certezza del diritto, che è un principio già oggi riconosciuto implicitamente nel nostro ordinamento.
Ovviamente questo intervento statale o pubblico in sussidiarietà orizzontale nei confronti delle capacità di intrapresa economica privata deve essere sottoposto a una riserva rinforzata di legge che ne valuti le condizioni di ammissibilità.
Questa visione all'apparenza può sembrare eccessivamente liberale o eccessivamente fiduciosa nei confronti del mercato. In realtà, a ben guardare implica semplicemente, alla stregua del principio di sussidiarietà orizzontale, che lo Stato arretri dove i cittadini riescono a fare da soli. A questo si dovrebbe accompagnare l'abrogazione del comma secondo dell'articolo 41 della Costituzione, laddove si parla di dignità, sicurezza e utilità sociale. Sono interessi degni della massima considerazione costituzionale, ma anche senza quel comma l'articolo 41, letto sistematicamente con gli altri articoli della Costituzione, ci consegnerebbe la stessa interpretazione.
Non è un caso che la parola dignità compaia in Costituzione non solo all'articolo 41, secondo comma, ma anche all'articolo 36 sulla giusta retribuzione dei lavoratori. Anche se dovessero mancare il secondo comma e una dichiarazione di contemperamento dell'iniziativa economica privata con la dignità umana, per il salario del lavoratore ci sarebbe pur sempre l'articolo 36, così come i profili di sicurezza sarebbero già coperti


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dall'articolo 32 della Costituzione che tutela la salute non soltanto come diritto fondamentale e interesse collettivo, ma estensivamente anche come tutela dell'ambiente. È un comma, quindi, che replica quello che la Costituzione è già, vale a dire un bilanciamento di diritti e di interessi.
A mio avviso, anche il terzo comma dovrebbe essere abrogato perché, come è stato detto, ha concluso il suo corso storico. Assieme all'abrogazione della pianificazione e programmazione economica, dovrebbe essere abrogato anche l'articolo 43 della Costituzione per dare coerenza a una riforma della costituzione economica e dell'iniziativa economica privata che dia fiducia ai cittadini, agli imprenditori e alle forze economiche, garantendo a tutta la popolazione i diritti sociali e civili basilari in armonia con il fondamentale principio di uguaglianza sostanziale.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendono porre quesiti o formulare osservazioni.

GIUSEPPE CALDERISI. Innanzitutto ringrazio gli auditi per i loro interventi, che credo saranno certamente di ausilio per i lavori della Commissione.
Vorrei porre una domanda, premettendo che come impostazione mi sento in sintonia più con l'ultimo intervento che con gli altri. Io ritengo che questa materia sia fondamentale. Nella misura in cui sono sotto gli occhi di tutti i problemi del debito pubblico e della assenza di crescita, abbiamo l'esigenza imprescindibile di ridurre il peso dello Stato e l'area dell'economia intermediata dalla mano pubblica.
Per risolvere il problema del debito pubblico è indispensabile e imprescindibile ridurre la pressione fiscale al fine di favorire la crescita. Siamo ormai di fronte a decisioni di governance economica europea già prese, decisioni che ci impongono di ridurre il debito dal 120 al 60 per cento in venti anni. Non credo che esistano manovre economiche capaci di realizzare questi obiettivi, raggiungibili soltanto se partiamo da quella che a mio avviso è di fatto una modifica della forma di Stato.
Questo aspetto viene prima della riforma della seconda parte della Costituzione e del problema di come ripartire i poteri fra Stato centrale e periferia, fra governo e Parlamento o della riforma del bicameralismo. Bisogna prima ridefinire i rapporti tra pubblici poteri e libertà civili, politiche e soprattutto economiche dei cittadini. Mi sembra quindi che il problema centrale sia la modifica della forma di Stato nella prima accezione che è discussa nei manuali di diritto pubblico.
Il disegno di legge costituzionale all'esame ha questo merito, anche se io concordo sul fatto che non offra soluzioni sufficientemente adeguate. Occorre la volontà politica, questo è certo. Senza volontà politica anche i principi costituzionali possono rimanere lettera morta. L'opera di riduzione del peso dello Stato a cui accennavo si fa soltanto se è sorretta dalla volontà politica. Credo però che norme e principi costituzionali adeguati possano favorire un'operazione di questa natura.
Io sono del tutto favorevole - e ho già preparato alcune bozze di emendamenti - all'introduzione di un vero e proprio principio di sussidiarietà orizzontale, che si potrebbe collocare nell'articolo 118 della Costituzione o altrove, tale per cui Stato, regioni, città metropolitane, province (sperando di riformarle e toglierle dal testo costituzionale) e comuni «svolgono le attività di produzione di beni ed erogazione di servizi solo qualora le stesse non possano essere svolte adeguatamente dai cittadini singoli o associati». La formulazione potrebbe essere più o meno di questo tenore.
Ricordo che nella discussione in seno alla Commissione bicamerale fu proprio l'onorevole Bressa a proporre una formula analoga, che poi si perse per strada diventando il quarto comma dell'attuale articolo 118 della Costituzione. In realtà, tale formulazione non c'entra assolutamente nulla con la sussidiarietà orizzontale, e


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anzi può essere interpretata in una direzione esattamente opposta, ovvero quella di incrementare la spesa pubblica e l'intervento della mano pubblica.
Qui bisognerebbe riprendere il pensiero di Sturzo, ma credo che anche recuperare nell'articolo 41 della Costituzione qualcosa della formulazione che proponeva Einaudi sia utile e, in combinato disposto, possa ulteriormente rafforzare il concetto di sussidiarietà orizzontale.
Si potrebbe quindi prevedere un'ipotesi di questo tipo, su cui chiedo eventualmente il parere degli auditi: «La legge e i regolamenti disciplinano le attività economiche unicamente al fine di impedire la formazione di monopoli pubblici e privati o di tutelare situazioni di fondamentale interesse pubblico». Sarebbero qui compresi anche tutti quei problemi di sicurezza, di dignità e via dicendo oggi previsti all'articolo 41 della Costituzione.
Credo che il combinato disposto di queste due proposizioni avrebbe un valore molto più significativo e potrebbe assistere una volontà politica. Sul piano culturale, nel nostro Paese tutti si dicono liberali, ma in concreto io ne vedo pochi. Tuttavia, se ci fosse l'effettiva volontà di andare in questa direzione, norme di questo tipo potrebbero davvero servire a un'opera di riduzione del peso dello Stato nonché a un'attività di deregolazione.
Io credo che abbiamo bisogno di deregolare. Poco importa al cittadino di avere una legge nazionale o statale o un regolamento. Il problema è che molto va deregolato e lasciato alla libera iniziativa dei cittadini singoli e associati. Se il disegno di legge assumerà queste caratteristiche, a mio parere sarà un disegno di legge di estrema importanza, che giustamente precede la riforma della seconda parte della Costituzione relativa agli aspetti che disciplinano il rapporto di poteri tra Stato centrale e autonomie, fra governo e Parlamento, tra le Camere e via dicendo.
La mia è quindi una valutazione di questa ipotesi molto significativa di riforma di aspetti della questione economica e, non lo nego, di modifica della nostra forma di Stato.

GIANCLAUDIO BRESSA. Innanzitutto voglio ringraziare gli intervenuti per la qualità degli apporti che ci sono stati forniti. Ci consentono di compiere una valutazione molto attenta di ciò che stiamo per fare.
Io concordo con l'impostazione seguita da tutti i relatori. Il testo al quale riferirsi è il disegno di legge del Governo. Le riflessioni indotte dagli interventi che abbiamo appena ascoltato fanno capire come, dietro l'apparenza di una risistemazione che, secondo l'interpretazione che il Governo stesso vorrebbe dare, sarebbe di adeguamento alla Costituzione materiale, ci sia in realtà molto di più. Questo mi preoccupa perché l'approccio con cui si è affrontato il tema è puramente e squisitamente ideologico.
Io ringrazio il collega Calderisi per aver ricordato quel mio contributo durante i lavori della Commissione bicamerale D'Alema. Voglio però ricordargli, dato che forse ha smarrito il filo che mi condusse ad avanzare quella proposta, che l'introduzione del principio della sussidiarietà orizzontale era in quel caso interna al processo di emancipazione della dignità della persona e faceva esplicito riferimento al secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione.
Quella proposta era parte di una visione della comunità come possibile attore che si aggiunge agli altri nel processo di emancipazione della dignità della persona. È qualcosa di sensibilmente diverso da ciò che, per esempio, ha ricordato l'avvocato Sileoni nel suo intervento assolutamente lucido e di grande qualità.
Anche per via del ritmo forsennato che la conferenza dei Capigruppo ha affidato ai lavori dell'Aula, temo che non avremo la possibilità di comprendere esattamente la portata delle eventuali scelte che potremmo essere portati a fare. Siamo troppo prigionieri di una visione economicistica del nostro tempo. Le Costituzioni durano molto di più dei cicli economici e,


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anche se si possono nutrire delle teorie economiche, non possono essere la trasposizione giuridica di una teoria economica, la cui durata nel tempo è molto più effimera.
Credo che quanto ci avete detto oggi sia di grande utilità per fare riflettere questa Commissione e poi l'Aula della Camera al fine di non assumere decisioni affrettate o apparentemente moderne e di modernizzazione della nostra Carta. Probabilmente in questo settore c'è bisogno di maggiore riflessione e di maggiore capacità di discernere cosa serve davvero cambiare e cosa invece va mantenuto.

PRESIDENTE. Ringrazio gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,25.

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