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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione I
1.
Martedì 10 novembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bruno Donato, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 2422 SBAI RECANTE «MODIFICA ALL'ARTICOLO 5 DELLA LEGGE 22 MAGGIO 1975, N. 152, CONCERNENTE IL DIVIETO DI INDOSSARE GLI INDUMENTI DENOMINATI BURQA E NIQAB» E C. 2769 COTA E ALTRI RECANTE «MODIFICA DELL'ARTICOLO 5 DELLA LEGGE 22 MAGGIO 1975, N. 152, IN MATERIA DI TUTELA DELL'ORDINE PUBBLICO E DI IDENTIFICABILITÀ DELLE PERSONE»

Audizione di intellettuali, giornalisti e professori universitari:

Bruno Donato, Presidente ... 3
Santelli Jole, Presidente ... 5 9 10 15 16 17 19 20
Aluffi Roberta, Professore associato di diritto privato comparato presso l'Università degli studi di Torino ... 3
Domianello Sara, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi di Messina ... 5 16 18
Amici Sesa (PD) ... 19
Bertolini Isabella (PdL) ... 17
Giachetti Roberto (PD) ... 17
Hadi Najat, Giornalista pubblicista della rivistaAl Maghribia ... 9
Mazzola Roberto, Professore straordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi del Piemonte orientale ... 10
Reddane Fakhreddine, Giornalista della rivistaAl Maghribia ... 12
Sbai Souad (PdL) ... 19
Ventura Marco, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi di Siena ... 14 17
Vanalli Pierguido (LNP) ... 18
Vassallo Salvatore (PD) ... 17
Zaccaria Roberto (PD) ... 15 16
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE I
AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 10 novembre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DONATO BRUNO

La seduta comincia alle 12,05.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna, sarà assicurata, oltre che attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, anche mediante la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di intellettuali, giornalisti e professori universitari.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca l'audizione di intellettuali, giornalisti e professori universitari prevista dal programma dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame delle proposte di legge C. 2422 Sbai recante «Modifica all'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, concernente il divieto di indossare gli indumenti denominati burqa e niqab» e C. 2769 Cota e altri recante «Modifica dell'articolo 5 della legge 22 maggio 1975, n. 152, in materia di tutela dell'ordine pubblico e di identificabilità delle persone».
Sono presenti, e li ringrazio, Roberta Aluffi, professore associato di diritto privato comparato presso l'Università di Torino, Sara Domianello, professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi di Messina, Najat Hadi, giornalista pubblicista della rivista Al Maghribia, Roberto Mazzola, professore straordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi del Piemonte orientale, Fakhreddine Reddane, giornalista della rivista Al Maghribia e Marco Ventura, professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi di Siena.
Prima di dare la parola agli ospiti vorrei comunicare a tutti i colleghi che gli uffici hanno predisposto due dossier, uno denominato «Il velo islamico e il dibattito internazionale», l'altro «Il velo islamico: il dibattito in Italia e i profili normativi». Vi invito a consultarli, per avere un aggiornamento sul tema che stiamo trattando.
Comunico che alcuni degli esperti presenti hanno provveduto a inviare una relazione. Comunico, altresì, che Camille Eid, giornalista dell'Avvenire, e Alessandro Ferrari, professore associato di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università dell'Insubria, impossibilitati a partecipare all'audizione, hanno inviato una relazione, che sarà allegata agli atti dell'indagine conoscitiva. Tutte le relazioni sono in distribuzione.
Do la parola ai nostri ospiti per lo svolgimento della relazione.

ROBERTA ALUFFI, Professore associato di diritto privato comparato presso l'Università di Torino. Grazie, presidente. Vorrei sapere come regolarmi con il tempo e quanti minuti ho a disposizione.

PRESIDENTE. Noi dobbiamo terminare i nostri lavori alle 13,30. Ritengo che potrebbero essere utilizzati dieci minuti per ogni relazione, per un'ora complessiva, e poi lasciare la possibilità di intervenire ai deputati che volessero porre domande per approfondire il tema.

ROBERTA ALUFFI, Professore associato di diritto privato comparato presso


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l'Università di Torino. Signor presidente, la mia audizione di oggi verte specificamente in merito alle proposte di legge all'esame della Commissione e questo impedisce, forse, di svolgere un discorso sul velo, che sarebbe necessario. Mi limiterò a dire che comprendo molto bene le ragioni del disagio e dell'allarme che il velo integrale suscita nell'opinione pubblica e non ho ragione per simpatizzare con tale uso, ma ciò attiene alle mie scelte personali.
Mi pare di capire che le proposte di legge in discussione abbiano come scopo quello di equiparare nel divieto, posto per ragioni di ordine pubblico, i veli integrali ai caschi e ad altri mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona.
Vorrei pormi alcune domande relative al rapporto tra casco e velo. La legge n. 152 del 1975 parla di casco sulla base di un'esperienza ben consolidata sull'uso di caschi, passamontagna e altro per la commissione di atti di violenza, nonché di terrorismo.
Per quello che attiene alla nostra esperienza, il velo non è, per ora, attestato come modo utilizzato per commettere simili atti, né in Europa, né nel resto del mondo.
Ho svolto, purtroppo con i mezzi limitati a mia disposizione, un'indagine, per esempio, sulle donne terroriste o le donne bomba. Queste ultime agiscono velate in Pakistan, dove essere senza velo costituirebbe un motivo di attenzione da parte della società. Per quanto riguarda, invece, l'atto terroristico al teatro Nord-Ost da parte dei ceceni - lo cito perché le donne erano particolarmente numerose - risulterebbe che le terroriste usavano il velo integrale, ma solo nel momento in cui i terroristi maschi usavano i passamontagna. Di fronte agli ostaggi stavano, invece, a viso scoperto.
A parte questi elementi, procedo a una valutazione dell'uso del velo integrale nel contesto italiano ed europeo. Se li collochiamo in questo contesto, casco e velo hanno un elemento in comune, cioè l'effetto di rendere difficoltoso il riconoscimento di una persona. Il velo ha, in più, anche quello di dirigere le indagini verso un certo ambiente, il che potrebbe essere utilizzato sia per dichiarare una propria adesione a ideali suicidari, ma anche per sviare le indagini.
Ho accennato, parlando del suicidio, al rapporto che esiste tra la diffusione del velo integrale e quella di ideologie jihadiste, per dirla in breve. C'è da chiedersi, però, se questo dato statistico giustifichi una particolare attenzione alle donne, quando ci sono segni maschili che hanno la stessa natura.
Prima di passare all'articolato delle proposte di legge, mi pongo ancora una domanda circa l'applicazione e l'effettività di norme quali quelle che si propongono. Qualcuno forse farà notare che in nessun Paese europeo, né altrove, è stata adottata una legge che bandisca il velo in modo così completo. Sappiamo, per esempio, del bando del velo nelle università, anche in Paesi musulmani, negli istituti di educazione, negli ospedali, negli uffici pubblici.
Il risultato, in Italia, sarebbe quello di vietare l'uso del velo in ogni luogo pubblico, compresa la strada, il che può anche avere una sua logica, ma non, a mio parere, una sua ragionevolezza. È ben difficile disporre dei mezzi che ci mettano in grado di reagire nel modo previsto dalla stessa legge, cioè con sanzioni penali piuttosto elevate, all'eventualità che una donna cammini in una strada indossando il burqa.
Prendendo in esame le due proposte di legge per ordine di presentazione, la proposta Sbai presenta, secondo me, alcuni profili problematici, in quanto, riferendosi espressamente a donne di religione islamica, andrebbe incontro a dichiarazioni di incostituzionalità, in quanto discriminatoria. Rischierebbe, inoltre, anche di non raggiungere il suo scopo, perché vi vengono indicati espressamente i due indumenti che abbiamo in mente, cioè il burqa e il niqab. Questo ha una sua ragione, perché si tratta degli indumenti nominati nei testi di diritto islamico, tuttavia apre la possibilità alle donne di difendersi, sostenendo di vestire un altro indumento. Adesso va di moda il pak chador, la


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combinazione di uno chador con il niqab; si può dire che si tratta di una variante del niqab, ma è necessario convincerne il giudice. La questione mi sembra, quindi, complicata. Esistono poi altri indumenti, come l'haik, il velo bianco in uso nel nord Africa, che può essere portato aperto, ma anche chiuso, senza una chiusura fissa, ma all'interno con le mani. Mi è stato riferito, anzi, che l'uso era quello di far vedere solo un occhio.
La prima difficoltà è data, dunque, dalla possibilità di non raggiungere lo scopo, perché la persona può affermare di vestire un indumento diverso.
La seconda difficoltà è che questa disposizione viene inserita alla fine del primo comma del testo vigente della legge n. 152 del 1975, conservando il riferimento al giustificato motivo. Non è, dunque, ben chiaro, ed è anche possibile che l'interessata sostenga di vestire il burqa, ma di avere un giustificato motivo. Non si risolve così il problema che si voleva risolvere con sicurezza.
Per quanto riguarda, invece, la proposta di legge Cota e altri, è individuato lo snodo del giustificato motivo, che viene eliminato. Non esiste, quindi, più la possibilità di invocare un giustificato motivo per vestire, per esempio, le mascherine sanitarie, che in questi giorni sono di uso comune, o quelle di carnevale. Esulando dal problema del velo, leggendo il comma 2 dell'articolo 5 della legge n. 152 del 1975, nel testo della proposta di legge Cota ed altri, che recita: «L'uso di caschi protettivi è consentito solo quando esso è esplicitamente imposto dalla normativa vigente», l'effetto è di rendere vietato il casco per sciare. Sono uno sciatore e so che è obbligatorio per gli infraquattordicenni indossare il casco. Dopo il compimento dei 14 anni, non si avrebbe più la scelta se indossarlo o no, perché sarebbe vietato. Immagino che tutti questi aspetti verrebbero riorganizzati.
Altri problemi, poi - penso che i colleghi che interverranno dopo di me ci si soffermeranno - sono relativi alla definizione di «affiliazione religiosa». Un passaggio che, secondo me, non è chiaro è perché si sia aggiunto all'aggettivo «difficoltoso» anche il termine «impossibile». Si parla, cioè, non solo di rendere difficoltoso, ma anche impossibile il riconoscimento. Dato che ciò che è impossibile è anche molto difficoltoso, probabilmente era già ricompreso in tale aggettivo.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE JOLE SANTELLI

SARA DOMIANELLO, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi di Messina. Consegno alla presidenza un testo scritto di rilievi tecnici che, come la tecnica impone, sono molto serrati e, quindi, pesanti da seguire a voce e da contenere in dieci minuti.
Ho cercato, comunque, di preparare un testo definitivo, che lascerò agli atti della Commissione. Potrete, dunque, perdonarmi se mi limiterò, nei dieci minuti a mia disposizione, a esprimere giudizi che potrebbero sembrare eccessivamente sintetici e soprattutto, quando sono negativi, senza fondamento.
Prima di rispondere alla domanda su quale sia il problema, se esiste, e in tal caso come si può risolvere in modo tecnicamente legittimo, ossia conforme alla Costituzione italiana, al diritto comunitario e a quello internazionale, mi soffermerò molto velocemente - ve ne chiedo scusa, ma rimando al testo scritto - su alcuni rilievi tecnici critici che riguardano, a mio parere, la proponibilità delle modifiche suggerite dai progetti di legge Sbai e Cota.
Comincio dal progetto Sbai, che, a mio parere, è criticabile, dal punto di vista strettamente tecnico-giuridico - vi risparmio la mia opinione su come risolvere il problema e su quale esso sia - soprattutto in tre punti.
Il primo punto è laddove la relazione illustrativa della proposta di legge altera la formulazione testuale dell'articolo 5 della legge n. 152 del 1975, ossia del dato normativo. Quando risponde alla domanda su quale sia il dato normativo di cui si


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propone modifica, cioè l'articolo 5, la proposta commette l'errore di inserire, tra il primo e il secondo periodo, che compongono l'attuale comma 1 dell'articolo 5, la frase «il divieto si applica anche agli indumenti». Tale frase non risulta presente nella formulazione attuale dell'articolo 5 e, a seguito di una mia attenta ricerca, non risulta in alcuna delle formulazioni che si sono succedute da quella originaria fino all'attuale. Il suo inserimento - parlo da giurista - nella premessa illustrativa della proposta non si può interpretare come un casuale refuso, il che potrebbe indurre al sospetto che si tratti di un errore strumentale alla messa in circolazione di una notizia che (è mio dovere dirvelo) in realtà non è vera, ossia è falsa.
Si tratta della notizia per la quale il testo vigente dell'articolo 5 contenga già una specificazione espressa relativa agli indumenti e, quindi, una specificazione ulteriore rispetto a quella espressa sin dalla formulazione originaria relativamente ai caschi protettivi. Tale specificazione riguarderebbe il contenuto - che invece, a onor del vero, è rimasto sempre generico - del divieto di usare qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona.
Il sospetto grave potrebbe essere accresciuto dal totale silenzio che questa premessa illustrativa segue in merito ai tre limiti che l'attuale articolo 5, primo comma, pone in modo chiarissimo all'applicazione del divieto di mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento. In forza di tali tre limiti, il divieto in vigore si deve considerare operativo, come divieto assoluto, soltanto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico - tranne quelli di carattere sportivo che lo comportano - mentre fuori da questa ipotesi applicativa, che era poi l'unica prevista in origine dall'articolo 5 negli anni di piombo, il divieto stesso si deve considerare operativo soltanto (ecco i due nuovi limiti) nei casi in cui l'uso di mezzi atti a ostacolare il riconoscimento avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico e senza giustificato motivo.
Ben conscia di questo limite, la proposta di legge Cota lo ha abolito. Ne consegue, in pratica, che, allo stato attuale, l'articolo 5 vieta in modo assoluto a qualsiasi persona di coprirsi parzialmente o totalmente il volto soltanto, sintetizzando, in due specifici casi: manifestazioni e assenza di un giustificato motivo.
L'attuale formulazione dell'articolo 5 non ci autorizza, pertanto, a considerare introdotto nel nostro ordinamento alcun obbligo generale di presentarsi in pubblico a volto scoperto e depone, anzi, al contrario, a conferma dell'esistenza e persistenza di una regola generale di massima libertà di ogni persona nella scelta dei mezzi con cui coprire le singole parti e l'intero insieme del proprio corpo.
Venendo chiaramente a porsi come eccezione, ossia norma penale eccezionale a questa regola, l'articolo 5 della legge Reale è stato quindi, ben correttamente, sino a oggi, formulato, modificato, interpretato e applicato nei termini rigorosamente restrittivi di una norma speciale, che ha provveduto a introdurre, per via generale e astratta, soltanto due ipotesi ragionevolmente giustificabili, di compressione straordinaria della ordinariamente illimitata libertà personale di coprire il corpo.
Tacere quindi - come fa la proposta Sbai - dell'incidenza che i limiti specificati nel testo dell'attuale articolo 5 esercitano sulla sfera applicativa di questo, e contemporaneamente diffondere la notizia non vera che già l'articolo estenderebbe espressamente agli indumenti tout court l'applicazione del divieto, costituisce un'operazione metodologica che ho il dovere, da giurista, di criticare e sconsigliare.
Rischia, infatti, di rivelarsi strumentale alla creazione di un presupposto solo apparente di legittimità, da spendere a vantaggio di una proposta che poi, negli effetti, si paleserebbe, ben presto, mirata a disattendere, quindi a sovvertire in realtà, tutti e tre i limiti espressamente indicati nell'articolo 5. Essa pretenderebbe, infatti,


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che il divieto previsto da tale articolo nell'esclusiva e specifica ipotesi del - cito testualmente - «utilizzo degli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab» si facesse operare come divieto assoluto, cioè senza possibilità di fare appello ad alcun giustificato motivo, anche fuori dall'ipotesi di partecipazione a manifestazioni.
Il secondo punto tecnicamente critico della proposta è quello in cui, quando passa a descriverci non più l'articolo 5 vigente, ma quello vivente, cioè quello interpretato dalla giurisprudenza, la relazione illustrativa diffonde informazioni inesatte, incomplete e fuorvianti. Il dato giurisprudenziale va esattamente nella direzione contraria. Anche in questo caso, è mio dovere di giurista, visto che mi avete chiamato in audizione, esporvi la realtà dei fatti.
Si deve ritenere inesatta l'affermazione contenuta nella relazione illustrativa, secondo la quale sull'articolo 5 attuale si sarebbe formato un orientamento giurisprudenziale non contraddetto che, anche per scongiurare atti - cito testualmente - «di terrorismo internazionale che, ovviamente, comprendono quelli di matrice islamica», solleciterebbe il legislatore italiano a intervenire più incisivamente, puntualizzando il concetto dell'utilizzo residuale di qualsiasi altro mezzo idoneo a rendere difficoltoso il riconoscimento, ricomprendendovi specificamente i particolari indumenti burqa e niqab.
È ancora mio dovere segnalarvi che la giurisprudenza italiana, proprio in riferimento specifico al velo - non ai vetri oscurati della macchina, riguardati dalla sentenza citata nel progetto - ha invece espresso, con giurisprudenza consolidata e costante, che ho allegato al mio intervento, un orientamento nella direzione esattamente opposta. Vale a dire che alla giurisprudenza, come alle forze dell'ordine o alle Procure generali della Repubblica, la genericità con cui è formulato questo articolo va benissimo, proprio quando si parla di velo che copre integralmente il volto.
La sentenza del Consiglio di Stato, che non viene assolutamente citata e che invece ha costituito il centro e anche il passaggio più chiaro di questa giurisprudenza, afferma che la giustificazione che può essere addotta si rinsalda nel momento in cui le persone fermate non rifiutano di farsi riconoscere e, non ostacolando il riconoscimento, non creano alcun problema per l'ordine pubblico. Lungi dal lamentare un'eccessiva indeterminatezza dell'attuale articolo 5, la giurisprudenza sostiene e conferma, dunque, la ragionevolezza della genericità della formula.
Se analizziamo con maggiore attenzione l'evoluzione del dibattito, che soprattutto in questi ultimi anni è sorto intorno all'ambito applicativo da assegnare al divieto dell'articolo 5 della legge Reale, ci si avvede subito che l'esigenza di abbandonare l'originaria preferenza per una formulazione del divieto in termini generici e di integrarlo o sostituirlo con una prescrizione più specificamente dettagliata non è avvertita né dai giudici, né dalle forze dell'ordine o dai pubblici ufficiali. È, piuttosto, un'esigenza - direi meglio un'urgenza - tutta politica, determinata dalla crescente riluttanza di una parte della nostra odierna società a comprendere e a rispettare la ratio di protezione sostanziale dei diritti umani fondamentali, che giustifica e legittima l'imposizione di limiti costituzionali all'uso specialmente decentrato del potere non giudiziario, ma amministrativo.
Depongono a favore di questa mia ultima lettura due dati che ritengo voi dobbiate tenere presenti nel lavorare su queste proposte e che probabilmente già conoscete.
Il primo dato è la registrazione di una perfetta coincidenza tra tutti gli interventi dei giudici italiani - nove o dieci tra TAR, tribunali civili e penali, Cassazione penale, Consiglio di Stato - che si sono espressi in favore dell'irragionevolezza di estendere applicativamente il divieto di cui all'articolo 5 anche all'uso volontario di veli islamici che coprono il volto femminile in tutto o in parte e i tentativi che sono stati


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compiuti, invece (bisogna dirlo in questa sede), nella direzione contraria a livello di prassi amministrative, che tutti ricorderete, da ordinanze sindacali, a cominciare da quella riguardante i lavavetri, che hanno provato a municipalizzare il nostro diritto penale, cavalcando l'onda dell'ampliamento di competenze operato con la legge 24 luglio 2008, n. 125, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, il noto «Pacchetto sicurezza».
Questo dato ci autorizza a concludere che, in tema di estensibilità del divieto dell'articolo 5 all'uso volontario di burqa e niqab, la nostra giurisprudenza ha ripetutamente provveduto sia a escludere la ragionevolezza di interpretazioni estensive, quali che siano, sia a scartare la legittimità di interventi additivi attuati dal potere amministrativo con lo strumento, tecnicamente improprio, delle ordinanze ripenalizzatrici di sindaci sceriffi.
Il secondo dato è conseguenza del primo e si ricava dalla registrazione dello spostamento, finalmente, della questione reale, relativa al divieto d'uso di burqa e niqab, dal piano amministrativo e giurisprudenziale al Parlamento, al piano legislativo. Se bisogna parlarne è questa la sede in cui dovete farlo.
Le proposte di legge di cui noi ci occupiamo, si aggiungono infatti - come vi è senz'altro noto - ai disegni di legge comunicati nel 2008 alla presidenza del Senato, rispettivamente d' iniziativa del senatore Baio, n. 289, che concerne modifiche alla legge n. 152 del 1975, e della senatrice Bianchi, n. 1205, relativo al divieto dell'uso del velo nelle scuole. Questo dato mi induce a trarre la conclusione che, una volta frenata dai giudici l'ondata di protagonismo repressivo dei sindaci, si è finalmente spostata dinanzi al legislatore, l'unica autorità competente, l'istanza di cambiamento che sta in realtà alla radice del nostro dibattito, cioè il vero nodo essenziale sul quale confrontarsi politicamente.
Su questo ultimo punto, ritengo che le due proposte siano passibili di alcuni rilievi critici impegnativi sotto il profilo della loro legittimità e resistenza passiva, sia sul piano del diritto costituzionale, sia su quello del diritto comunitario e internazionale, perché lesive sia delle norme poste a garanzia del rispetto dei diritti umani fondamentali di libertà, a partire da quella di coscienza e in campo religioso, sia delle numerosissime norme antidiscriminatorie che, ai tre livelli summenzionati, impongono la prova di ragionevolezza nell'introdurre trattamenti giuridici differenzianti.
Di certo la sicurezza pubblica non potrebbe essere addotta a ragionevole giustificazione dell'estensione di questo divieto solo a burqa e niqab, non comprendendosi perché mai soltanto l'uso di tali indumenti, per quanto motivato dall'appartenenza culturale, dovrebbe ricevere un trattamento più limitativo di quello che, ragionevolmente, continueremmo a riservare all'uso di fazzoletti, passamontagna, copricapi, sciarpe, bendaggi, mascherine, occhiali da sole e quant'altro possa essere giustificato con ragioni diverse dall'appartenenza a una comunità islamica, nonostante l'uso consentito possa rendere egualmente, e direi addirittura persino maggiormente difficoltoso, il riconoscimento del volto di una persona. Pensate a un ustionato che, nel momento in cui gli viene legittimamente richiesto di farsi identificare, per guarire e non compromettere l'intervento subito non può neanche acconsentire a togliersi il bendaggio. La sua identificazione avviene, quindi, con gli altri mezzi previsti dalla legge per attribuirgli le generalità che gli spettano.
Anche la proposta Cota va incontro a tutti questi rilievi, sui quali il tempo non mi consente di entrare con la stessa incidenza. Purtroppo, non sono riuscita a sintetizzare sufficientemente la prima parte del mio intervento. Tale proposta è ancora peggiore, perché elimina l'inciso «senza giustificato motivo» e introduce l'assoluto divieto di usare ogni mezzo che non renda visibile l'intero volto, inclusi gli indumenti indossati in ragione della propria affiliazione religiosa.
È possibile, secondo me, introdurre una norma che dia tranquillità alla popolazione


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preoccupata, molto spesso ingiustamente, che dietro un velo si celi necessariamente un terrorista, ed è quella - ho allegato anche questa proposta - di garantire alla popolazione che se queste persone, che legittimamente si nascondono dietro questo tipo di indumenti, rifiutano di farsi identificare, incorreranno non soltanto nelle sanzioni già previste dagli articoli 495, 496 e 651 del Codice penale, che valgono per tutti e quindi anche per le donne con velo, burqa e niqab, ma anche, addirittura, in una sanzione che potremmo aggravare, riducendola rispetto all'articolo 5.
Questa potrebbe essere una via ragionevole di intervento. Ritengo che le altre siano tutte irragionevoli e, quindi, incostituzionali.

PRESIDENTE. Ringrazio la professoressa Domianello per i rilievi tecnici. Le ricordo che le esigenze delle aule di giustizia sono un conto e che in questa sede facciamo, legittimamente, politica, perché siamo in Parlamento proprio per questo.

NAJAT HADI, Giornalista pubblicista della rivista Al Maghribia. Buongiorno a tutti. Chiedo scusa se non so parlare bene l'italiano, cercherò di esprimermi meglio che posso.
Quella che voglio esporre oggi è la testimonianza della mia storia di donna musulmana, una storia fatta di violenza. Poi ho trovato la forza e il coraggio di ribellarmi.
Mi chiamo Najat Hadi, sono una donna di origine marocchina e sono arrivata in Italia per vacanza nel 1987. Ho conosciuto un uomo egiziano. Ci siamo sposati qui in Italia. Prima ci siamo sposati nella moschea e poi con il rito civile italiano.
Quando ho conosciuto mio marito, vestivo normalmente. Dopo abbiamo avuto dei figli. La mia prima figlia è nata nel 1989 e, dopo tre settimane dal parto, mio marito ha cominciato a picchiarmi. Sono stata in ospedale per 15 giorni. Dopo un anno, è nato anche il mio secondo figlio, nel 1990, e mio marito ha cominciato a picchiarmi ancora di più. Nel 1995, una volta, mi ha picchiato tanto e poi mi ha rinfacciato che io non indossavo, neanche nel mio Paese, né il velo né il niqab. Mi ha costretto a indossare il niqab e l'ho indossato.
Una volta è tornato a casa dal lavoro, mi ha trovata scoperta al balcone e mi ha ammazzato di botte con un bastone pieno di chiodi. Sono stata in ospedale 25 giorni. Con quel bastone mi ha lasciato numerosi segni e cicatrici sia sul seno destro che su quello sinistro. Alla fine, quando sono uscita dall'ospedale, è scattata una denuncia ai carabinieri. Quando sono tornata a casa, lui mi ha costretto a ritirarla, altrimenti mi avrebbe portato via i figli. In quel momento ne avevo soltanto due.
Ho ritirato la prima denuncia nel 1995, perché volevo che i miei figli rimanessero con me. Dopo ho pensato che, forse, essendo lui egiziano, mentre io venivo dal Marocco, non conoscevo la sua tradizione. Sono andata fino al suo Paese per conoscerlo meglio, anche per stare con i miei figli. Siamo tutti e due musulmani. Non sapevo dove andare o con chi parlare in quel momento.
Alla fine, una volta mi sono recata da un suo parente e lui ha fatto entrare a casa mia un'altra donna, che è diventata sua moglie, però col matrimonio Orfi.
Quello che ho realmente subito dentro quella casa, come donna musulmana, mi vergognavo a raccontarlo, mi vergognavo di tutto: gli insulti, le botte, soprattutto quando non volevo fare niente da mangiare. Io preparavo da mangiare ai miei figli, in quel momento ne avevo quattro. Quando non preparavo niente da mangiare per lui o per lei, lui cominciava a dire parole veramente brutte. Mi ricordo tutto di quel periodo, perché vivevo con lui, lei e i miei quattro figli dentro una casa - ho ancora adesso il contratto di affitto - di 45 metri.
Ha aumentato le violenze, perché io non volevo fare da mangiare. Dico la verità e può darsi che qualcuno mi dirà qualcosa, però questo l'ho subito io, insieme ai miei figli. Non sono venuta oggi per piangere, però quello che abbiamo


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subito io e i miei figli, anche quelli che ora non sono adesso con me, è molto brutto.
Alla fine, ho dovuto denunciarlo. Mi ha aiutato mia figlia Fatima, che adesso vive con me, e non ho voluto ritirare la denuncia. Giorno e notte andavo dai carabinieri, ma non ritiravo la denuncia. Portavo anche mia figlia Miriam, che adesso vive con lui. Mia figlia andava in una scuola che si trova a Centocelle, in terza elementare, aveva quasi otto anni e indossava il velo per forza, mentre voleva essere come le altre bambine.
Lo stesso vale anche per la mia figlia grande. Mio marito lasciava mia figlia con il velo, però, quando lui è andato via, mia figlia Fatima è stata la prima a toglierselo. Adesso fa il secondo anno dell'università. Anche io sono musulmana, ma lui ha obbligato le mie figlie a indossare il velo.
Mia figlia andava in classe e i bambini la prendevano in giro. La maestra aveva detto che dentro la classe doveva stare senza velo, però quando usciva lo metteva, perché ogni tanto il padre andava a prenderla per portarla a casa.
Ho portato avanti la mia denuncia e, alla fine, i carabinieri gli hanno imposto l'allontanamento da casa. Lui ha portato via due dei miei figli, in Egitto. Questo è successo nel 2007. Da quel momento non ho più avuto notizie dei miei figli.
È andata avanti anche la causa. Adesso ho anche una sentenza.
Dopo due anni e mezzo ho sentito la figlia che non stava con me. L'ha portata via, era una bambina all'epoca. Aveva quasi undici anni, adesso ne ha quattordici. Il bambino aveva sette anni e adesso ne ha dieci.
L'ho sentita l'ultima volta nell'agosto di quest'anno, del 2009. Lei vuole scappare via, però non sa dove andare, da chi andare e sta ancora là, in Egitto.
Adesso due figli vivono qui con me mentre gli altri due stanno con lui. Non ho nessuna notizia di loro. Dopo due anni e mezzo ho sentito mia figlia. Non so come lui sia uscito dal Paese. I carabinieri lo hanno cercato per due mesi e io ho ancora adesso con me il suo passaporto e quelli dei bambini, oltre al suo permesso di soggiorno. Non so come abbia fatto. All'ambasciata egiziana mi hanno detto che lui è in Egitto. Non so come abbia fatto ad entrare con due bambini.
Adesso aiuto le donne, soprattutto musulmane e arabe. Molte subiscono violenze, anche peggiori delle mie, e anche la poligamia. Le conosco, sono mie amiche.
Qualche volta ho sentito qualcuno dire che non ci sono casi di poligamia, ma esistono, io conosco delle donne che vivono in quella situazione, però non possono parlare. Dico la verità. Ne conosco due a Roma e altre due vivono a Milano.
Finalmente ho conosciuto un'associazione e lavoro con loro. Da quando sono andati via i miei figli, mi aiutano, e io aiuto anche le donne che subiscono le violenze.

PRESIDENTE. Signora Hadi, la ringrazio per la sua toccante testimonianza. Le auguriamo tutti di poter vedere al più presto i suoi figli.

ROBERTO MAZZOLA, Professore straordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi del Piemonte orientale. Devo dire che il mio compito è doppiamente difficile, in primo luogo perché molti aspetti di carattere giuridico sui quali ho intenzione di intervenire e di riflettere sono già stati anticipati dai miei colleghi, e in secondo luogo perché, dopo una testimonianza di questo tipo, indubbiamente ritornare su argomenti tecnico - giuridici porta ad avvertire un certo stridore.
Mi limiterò a svolgere alcune osservazioni di carattere giuridico - politico, emerse dalla lettura delle due proposte di legge.
La prima è una osservazione comparata, nel senso che taglia trasversalmente entrambe le proposte di legge, sia la proposta di legge Cota e altri, sia la Sbai-Contento, e riguarda una perplessità relativa al fatto di inserire una norma come quella relativa al burqa e al niqab all'interno dell'impianto normativo della legge Reale del 1975, successivamente modificata con la legge 8 agosto 1977, n. 533 e


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poi con la legge 31 luglio 2005, n. 155, di conversione, con modificazioni, del decreto-legge 27 luglio 2005, n. 144. Tutte queste leggi avevano una finalità e una ratio diversa rispetto a quella che, invece, caratterizza le due proposte di legge.
Mi sono semplicemente domandato se le due ratio siano compatibili e giungo, senza esaminare tutti i possibili passaggi, alla conclusione che le motivazioni che ispiravano la legge Reale del 1975 e le sue successive modificazioni erano legate a una situazione di contingenze, dal punto di vista storico, ben precise, ossia a fenomeni legati a un certo tipo di eversione. Utilizzo specificatamente questo termine, in quanto l'eversione ha come finalità quella di sovvertire e scardinare le istituzioni dello Stato, perché questi erano gli obiettivi di un certo tipo di terrorismo, che ha caratterizzato la storia dell'Italia degli anni 1970. Il fatto di voler inserire, all'interno di questo quadro - giuridicamente bisogna sempre leggere una norma all'interno del contesto in cui viene inserita - probabilmente non giova nel capire e nel risolvere esattamente i problemi.
Ritengo che la questione relativa al niqab e al burqa parta da una problematica che non è di ordine pubblico e che non va letta in termini sicuritari, ma di individuazione di strumenti normativi molto più sensibili e complessi che non quelli della legge Reale che, invece, è riuscita ad adempiere perfettamente alle sue funzioni, data la ragione per la quale era stata proposta, e che non possa, quindi, essere risolta attraverso l'utilizzo di uno strumento di tipo penale come quello che viene suggerito nelle due proposte di legge.
In particolar modo - questo è il secondo punto - individuo sia nel primo comma dell'articolo 5 della legge Reale nel testo della proposta di legge Cota, nel capoverso finale, sia nel testo della proposta di legge Sbai, profili di violazione dell'articolo 3 della Costituzione, ossia del principio di eguaglianza, in particolar modo, nel primo caso, laddove si fa riferimento esclusivamente a un'affiliazione di tipo religioso e, nella seconda proposta, laddove si fa esclusivamente riferimento alla religione islamica.
È evidente che, dato anche il nostro sistema, che individua nel principio di laicità un aspetto della forma dello Stato, così come formalizzato dalla Corte costituzionale a partire dal 1989, queste due particolari norme potrebbero essere facilmente suscettibili, nel momento in cui un giudice a quo le dovesse applicare, di veder sollevata una questione di legittimità costituzionale.
Il terzo aspetto riguarda il fatto che - mi riferisco in particolar modo alla proposta Cota - scompare la clausola del «senza giustificato motivo», che non appariva nel testo originale del 1975 ma appare, invece, nella modifica del 1977 e viene conservato con la legge del 2005. Quest'ultima si colloca storicamente dopo l'11 settembre del 2001, e ha sicuramente la prospettiva di porre argini e combattere il fenomeno del terrorismo internazionale, e tuttavia conserva l'inciso e la formula del «senza giustificato motivo» per quanto riguarda l'utilizzo degli indumenti che possono coprire, in tutto o in parte, il viso delle persone, al di fuori delle ipotesi delle manifestazioni pubbliche, in luoghi pubblici o aperti al pubblico.
Il problema è interrogarsi su come si debba interpretare il «senza giustificato motivo». Le ipotesi sono due. Si può dare un'interpretazione restrittiva a questa clausola e si parte, quindi, dal presupposto che sussiste un divieto generale di utilizzo del niqab o del burqa, o comunque di indumenti di tipo religioso che possano coprire le sembianze del volto della persona. Si devono allora individuare i casi eccezionali in cui, invece, tale tipo di comportamento non viene a concretizzare una fattispecie di tipo criminoso. Oppure, viceversa, si parte dal presupposto che, al di fuori delle manifestazioni pubbliche, in generale l'uso del niqab o del burqa è legittimo. Bisognerà allora individuare i casi in cui è assolutamente vietato avere il viso coperto.
Tra questi due tipi di interpretazioni, ritengo che - questa è la mia opinione


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personale - alla luce del dettato costituzionale, soprattutto nel rispetto dell'articolo 13 della nostra Costituzione e dell'assetto costituzionale che emerge dai princìpi fondamentali, l'utilizzo del burqa o del niqab in spazi pubblici o aperti al pubblico debba essere considerato un diritto e che, soltanto in determinati casi - mi aggancio, più che a un principio di sicurezza e di ordine pubblico, a un principio di buon funzionamento della pubblica amministrazione - esistano alcune ipotesi, che dovrebbero essere previste dalla normativa, in cui effettivamente, per garantire il funzionamento delle istituzioni, sarebbe necessario, anzi obbligatorio, che il viso rimanga scoperto.
La penultima considerazione riguarda la parte delle due proposte di legge relativa alla previsione della sanzione. Non scendo nei dettagli, in quanto non sono un penalista, tuttavia sollevo alcune perplessità sulla questione del principio di effettività della pena, al quale il legislatore deve attenersi, nella misura in cui deve legiferare soprattutto in materia penale.
Ho seri dubbi che una legge costruita in questo modo possa essere resa effettivamente esecutiva, soprattutto per quanto riguarda l'utilizzo di questi indumenti in luoghi pubblici o aperti al pubblico.
Infine il contenitore in cui le due proposte di legge si inseriscono ha una sua architettura, che è indubbiamente basata principalmente su una logica di sicurezza dell'ordine pubblico, ed è chiaro che un suggerimento come quello che sto per proporre sarebbe poco compatibile con una ratio di norma come questa. Tuttavia, proprio prendendo spunto da determinati modelli che si sono consolidati su questioni inerenti i problemi dell'integrazione e del multiculturalismo - è all'interno di questo contesto che bisognerebbe rivedere, ridisegnare e rielaborare questa norma - esiste una giurisprudenza consolidata, soprattutto in materia minorile, che prevede, accanto all'applicazione delle norme e al rispetto del principio di legalità, contemporaneamente anche la possibilità di individuare soluzioni di soft law, cioè di normative che non hanno una forza incisiva pari a quella di una legge.
In base al principio di sussidiarietà, che ormai caratterizza gli assetti costituzionali contemporanei degli Stati liberali e che vede una pluralità di soggetti deputata a garantire una governance di determinati fenomeni, mi sembra che, da questo punto di vista, la società civile - e forse la testimonianza della signora che mi ha preceduto ne è una prova - pensare che il legislatore possa, da solo, governare e risolvere problemi su questioni ormai tanto complesse, è probabilmente il frutto di una concezione ancora un po' ottocentesca del modo di governare la modernità.
Da questo punto di vista, suggerisco la possibilità di individuare percorsi educativi e di mediazione, che consentano un graduale processo di presa di consapevolezza del fatto che, indubbiamente, l'uso di questi indumenti costituisce un disvalore, soprattutto per quanto riguarda i diritti fondamentali della donna. Più che passare attraverso un obbligo di tipo normativo, ritengo che si debba passare attraverso un processo di mediazione e di educazione, in modo tale che la scelta sia sempre libera e non imposta da parte delle istituzioni.

FAKHREDDINE REDDANE, Giornalista della rivista Al Maghribia. Vorrei prima precisare che sono arrivato in Italia solo da un anno e chiedo scusa per il mio italiano.
Signor presidente, onorevoli deputati, in questi giorni sono state dette molte parole nel dibattito esploso sulla possibilità in Italia di introdurre il divieto di indossare il burqa e il niqab, il velo che copre interamente la figura della donna, lasciandone scoperti solo gli occhi.
Una volta iniziato a lavorare per la testata Al Maghribia, sono stato testimone di molte tristi storie di violenza e segregazione femminile, molte delle quali incentrate sull'imposizione del niqab. Quando ero in Marocco, non sospettavo neanche l'esistenza di questa parola, non la conoscevo.


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Una volta giunto in Italia, purtroppo, ho tristemente scoperto che la realtà dell'immigrazione ha troppo spesso il volto della segregazione, dell'emarginazione, e dell'esclusione dalla vita sociale del Paese.
Ciò accade perché, all'interno delle comunità musulmane, spesso e volentieri i diritti e la dignità delle donne sono sistematicamente violati per ritrovare un senso di appartenenza e di identità. Gli immigrati cadono nelle mani di personaggi senza scrupoli, che li manovrano e li indottrinano, utilizzando argomentazioni e presunte tradizioni religiose che nulla hanno a che vedere con la vera fede musulmana.
In questo contesto si inserisce il tema dell'uso del burqa. Da quando sono in Italia, il mio vocabolario s'è arricchito di questa nuova, triste e nera parola. Il burqa e il niqab sono un'usanza praticata presso alcune tribù di Paesi con spiccate tendenze radicali, che vivono ancora all'ombra di un Islam arretrato, che vuole imporre la sua ideologia oscurantista e rappresentano un'epidemia che sta erodendo la nostra comunità, sia all'interno, sia all'esterno.
Negare la donna, impedirle di esistere, non può e non deve essere tollerato. A tal proposito, vorrei ricordare le recenti dichiarazioni del grande Imam Tantaoui, dell'Università di Al Ahzar, in Egitto, che, in visita presso la stessa università, ha dichiarato che il burqa e il niqab sono, appunto, un'usanza tribale che non ha nulla a che fare con l'Islam e ha fatto togliere il niqab a cento ragazze dell'università.
Citerò anche l'intellettuale marocchino Tahar Ben Jelloun che, un po' di tempo fa, si era espresso, in un suo articolo intitolato «Le donne velate sono un insulto all'Islam», dichiarando che «questo comportamento, che è etnico e non religioso (non è infatti assolutamente musulmano), è la prova della paura della donna. La si rende invisibile per impedirle di esistere socialmente, sessualmente ed economicamente. È anche prova di grande ignoranza».
Dice sempre lo scrittore che Allah, Dio, ha dato all'uomo non solo il suo libero arbitrio, ma lo ha anche reso responsabile delle sue azioni. Così, il marito che rende sua moglie un fantasma nel nome dell'Islam è un ignorante che offende la parola di Dio. Pensa, coprendo sua moglie, di essere devoto all'Islam. «Errore, è devoto al visibile, all'apparenza che fa della donna una schiava del suo desiderio; uccide in lei ogni libertà, cosa che Dio non gli perdonerà».
Il paradosso è questo: in molti Paesi islamici, la legislazione si sta evolvendo per garantire maggiori diritti alle donne, mentre in Europa si va in senso contrario.
Il caso più eclatante è quello del Marocco. Il regno nordafricano, dal 2004, ha un codice della famiglia, la mudawana. A questo codice hanno lavorato insieme accademici, teologi ed esperti di giurisprudenza, per quella che è stata considerata una rivoluzione nel mondo arabo. Hanno lottato per decenni le donne marocchine, come racconta - cito un altro nome - Fouzia Assouli, femminista e militante di vecchia data, presidente della Ligue démocratique pour les droits de la femme, (Lega democratica per i diritti delle donne), che guarda con preoccupazione a quello che sta succedendo in Occidente. A una domanda che riguardava il fatto che in Europa la condizione delle immigrate sembra a volte essere peggiore di quella delle loro compagne nei Paesi d'origine, come il Marocco, ha risposto che il problema non è culturale o religioso, ma è dovuto alla strumentalizzazione politica della religione. Si cerca di utilizzare la religione per reprimere le donne.
In merito al tema della riconoscibilità delle persone in luoghi pubblici o aperti al pubblico, la legge n. 152 del 1975, all'articolo 5, sulla pubblica sicurezza, è chiara. Oltre alla questione della parità dei diritti delle donne, sanciti dalla Costituzione italiana, la salvaguardia dell'incolumità pubblica deve fare in modo che, così come non è possibile stare in pubblico con un casco in testa, allo stesso modo non si possa indossare il burqa o il niqab.


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Oggi, da uomo, collaboro anche con un'associazione femminile che protegge le donne dalle violenze dentro e fuori le mura domestiche.
Concludo, augurandomi che teniate nel giusto conto questa mia testimonianza, affinché l'Italia promuova una vera parità tra uomo e donna e garantisca la sicurezza di tutti. Inoltre, vi chiedo di aiutarci a realizzare questo grande sogno di libertà.

MARCO VENTURA, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi di Siena. Presidente, onorevoli deputati, il velo integrale rappresenta non tanto una sfida alla sicurezza e all'ordine pubblico, quanto alla civiltà.
Credo che questo sia un aspetto fondamentale da mettere in rilievo e che sia strettamente collegato all'esercizio della sovranità del Parlamento e della vostra responsabilità politica, nonché - da giurista, devo dirlo - alla costruzione di strumenti giuridici adeguati alla rilevanza del compito.
Il velo integrale è una sfida per il suo disvalore, culturale e sociale, perché racconta un Islam separato, una separazione tra puro e impuro, tra donna e donna, tra donna e uomo, una pretesa di superiorità dell'appartenenza religiosa rispetto alla cittadinanza e anche della legge religiosa rispetto a quella civile del Paese.
Il velo integrale è anche un segno di disvalore rispetto alla dimensione geopolitica del fenomeno, che supera le frontiere nazionali e parla di derive fondamentaliste, di uno scenario internazionale in cui non possiamo più pensare di rinchiudere un fenomeno all'interno di una frontiera.
Per questi motivi, ritengo che un divieto del porto di velo integrale sia una risposta adeguata all'allarme dell'opinione pubblica. Vorrei essere chiaro su questo: mi riferisco al divieto di porto di velo integrale in luogo pubblico, non al problema dell'identificabilità di chi lo porta. Si tratta di un aspetto dirimente dal punto di vista giuridico e, naturalmente, anche politico.
Il divieto di indossare un velo integrale in luogo pubblico è, per questi motivi, un atto grave, una decisione molto grave, sia dal punto di vista dei valori e dei princìpi sui quali incide, ossia sia la libertà personale sia, nella misura in cui il porto del velo può essere collegato a una religione, anche la libertà religiosa, ed è un atto grave per il nostro Paese perché inevitabilmente lo espone, sulla scena internazionale, a una particolare visibilità.
La gravità delle implicazioni dell'atto, anche dal punto di vista politico, rende necessario, a mio avviso, che esso sia inquadrato con chiarezza all'interno di parametri di duplice natura, innanzitutto di principio, di compatibilità con i valori costituzionali e con quelli europei, i diritti fondamentali contenuti nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, e anche, in seconda dimensione, a parametri di efficienza dello strumento giuridico che si delineerà.
Rispetto al primo aspetto, quello di tenuta rispetto ai grandi princìpi, è fondamentale che un divieto del porto di velo integrale non sia configurabile né rispetto alle sue motivazioni, né rispetto alla sua confezione, come una strizzata d'occhio alla xenofobia, al razzismo, all'islamofobia. Tutto questo sarebbe fortemente controproducente rispetto all'obiettivo che si intende perseguire.
Non solo, è anche fondamentale che un simile divieto faccia parte di un approccio complessivo positivo alla religione, e all'Islam in particolare. Un intervento settoriale limitato, che non sia incluso in una rosa di misure positive per l'Islam - penso, per esempio, alla riattivazione di un canale di consultazione sul modello di quello della Consulta per l'Islam italiano - è uno strumento più debole.
Vi sono anche elementi specifici affinché un divieto di velo integrale tenga effettivamente nel confronto con i grandi princìpi. Non deve essere configurato come discriminazione per motivi religiosi, né come una regolazione unilaterale dell'Islam, che il nostro articolo 8, terzo comma, della Costituzione vieta, in assenza di un'intesa.
Poi vi è la seconda dimensione, per la quale deve essere uno strumento efficiente,


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che tecnicamente funziona. Vi prego di considerare questo appunto non come un tentativo surrettizio da parte di un tecnico di limitare la vostra sovranità, ma come un invito a considerare l'importanza del fatto che lo strumento giuridico, una volta uscito da qui, ha inevitabilmente una sua autonomia e una sua logica - perché il diritto è questo - tanto più in un contesto giuridico complessivo, in cui uno strumento fabbricato qui deve tenere rispetto a giurisdizioni sovranazionali, alla Corte di Strasburgo ed eventualmente anche alla Corte di Lussemburgo. Vi è un imperativo di efficienza tecnica che vi prego di considerare.
Da questo punto di vista, ritengo che le due proposte che oggi esaminiamo abbiano gravi lacune, non tanto, come intendete dallo sviluppo del mio ragionamento, rispetto alla coerenza tra ragioni dell'intervento e intervento per legge, quanto per come sono configurate tecnicamente - oserei dire, perdonatemi, al di là dell'intenzione degli estensori - per come funziona il meccanismo giuridico.
Ho articolato meglio, nella relazione che ho già depositato, ciò che intendo. Vorrei qui semplicemente richiamare due aspetti per le due proposte. Per esempio, la proposta Sbai non incide sul problema del giustificato motivo. È vero che aggiunge ed esplicita che anche quel tipo di indumenti deve essere considerato nella portata della legge, però, poiché nulla dice sul giustificato motivo, si presta, per l'autonomia tecnica del diritto, a essere contrastata con tale strumento. Si potrà, cioè, sostenere e far valere in qualsiasi istanza che anche quella clausola, ossia il riferimento a tali indumenti, deve essere sottoposta alla valutazione se vi siano o meno giustificati motivi. Questo, a mio avviso, al di là dell'intenzione dell'estensore, rende fragile la proposta.
Oltretutto, nella misura in cui colpisce direttamente indumenti che vengono collegati a donne di religione islamica, essa si presta indubbiamente a un rilievo, come dicevo prima, di costituzionalità, rispetto al fatto che si identifica una specifica religione unilateralmente. Anche questo, rispetto alla tenuta costituzionale, è, a mio avviso, un problema oggettivo.
La proposta Cota, invece, ha peraltro la sua fragilità nella rimozione completa, in radice, del giustificato motivo. Funziona, può magari funzionare rispetto al divieto del velo, ma è controproducente, perché finisce con il creare un allarme presso la generalità della popolazione, perché è comunque tecnicamente suscettibile di colpire chiunque si copra il viso per qualsiasi motivo. Capisco che questo suoni al non tecnico come un'assurdità, però il diritto ha una sua autonomia e, se si elimina la clausola del giustificato motivo, si crea potenzialmente questo effetto. Si mette, quindi, in mano all'interprete uno strumento inadeguato.
Concludo con la mia proposta, che troverete articolata nella relazione che ho consegnato alla Presidenza, che è, invece, quella di intervenire sul problema direttamente, incidendo sulla formulazione della clausola del giustificato motivo. Propongo di precisare che - cito - «non rientra tra i giustificati motivi, di cui alla presente disposizione, l'uso di indumenti indossati per ragioni etnico-culturali, politiche o religiose».
Questo significa una norma, a mio avviso, compatibile con il quadro generale dei princìpi, applicabile, efficiente e idonea a rispondere ai gravi problemi con cui ci troviamo a confrontarci.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

ROBERTO ZACCARIA. Vorrei ringraziare gli intervenuti. Le audizioni sono per noi particolarmente utili. Quando si riesce, attraverso questi interventi, a mettere a fuoco meglio - ciascuno di noi può farlo individualmente come crede e con gli strumenti che ha - la distinzione tra l'esistenza del problema e il modo di darvi una risposta, questo naturalmente è un lavoro tipico del Parlamento.
Non ho capito bene quando la presidente è intervenuta dopo la conclusione


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dell'intervento della professoressa Domianello, facendo un riferimento alle aule di giustizia. È chiarissimo che siamo in Parlamento e che il giurista debba ricordare che, con riferimento alla struttura normativa della legge Reale, i giudici hanno dato risposte convincenti applicando i princìpi costituzionali.
Adesso si pone il problema di intervenire - e mi pare che sia stato detto - a livello amministrativo, con ordinanze dei sindaci, con altri tipi di strumenti, o con la legge. Dal momento in cui si parla della legge, credo che sia giusta l'osservazione che ha svolto, da ultimo, il professor Ventura. Noi dobbiamo essere molto orgogliosi della funzione che svolgiamo, ma non presuntuosi, e pensare che questo tipo di funzione esaurisca ogni momento successivo.
Quando licenziamo un testo, esso vive nell'ordinamento e non ne siamo più padroni. Siamo padroni delle conclusioni e dei risultati se lo formuliamo bene. In tal caso, evidentemente, il problema dell'efficienza non si pone.
Questo è il motivo per il quale io, la collega Amici e altri colleghi presenti volevamo ascoltare gli esperti intervenuti oggi, per convincerci della necessità di presentare un'autonoma proposta di legge in questa materia. Sarebbe auspicabile un intervento più organico, come qualcuno ha sottolineato: qualcuno parla della libertà religiosa, qualcuno di un testo unico più generale sull'immigrazione. Se si dà anche una risposta puntuale, essa deve rispondere a determinati canoni. Non si può essere strabici.
Ogni legge risponde a una finalità. La finalità di ordine pubblico o di sicurezza pubblica è una, e la legge Reale pensava essenzialmente a questa. C'è poi una finalità collegata alla dignità della donna, quindi all'applicazione di princìpi costituzionali che sono nel nostro ordinamento. Proprio perché l'onorevole Sbai mi guarda e assente, le dico che, assentendo, lei non può proporre quella legge parlando dell'Islam o di abbigliamenti che vi appartengono, perché è palesemente incostituzionale.
Dobbiamo, quindi, partire da un'impostazione diversa, riconoscendo che esiste un bilanciamento di valori costituzionali. Non è soltanto una finalità di ordine pubblico, ma tesa a evitare la separatezza e il fatto che nei luoghi pubblici o aperti al pubblico si possa girare in condizioni di non riconoscibilità.

PRESIDENTE. Onorevole Zaccaria, le ricordo che alle 13,30 dovremmo chiudere l'audizione e bisognerebbe porre domande. Faremo il dibattito politico tra di noi in Commissione.

ROBERTO ZACCARIA. Vorrei che fosse chiaro che ci sono modi diversi di reagire sulle audizioni: si può porre una domanda o svolgere considerazioni. Posso anche domandarmi se ho colto il senso delle osservazioni e chiedere ai professori il loro giudizio in merito. Questa è, quindi, la domanda, anche se mi pare un po' banale: c'è bisogno di presentare, per rispondere al problema, una diversa proposta di legge, che chiarisca meglio le finalità politico-costituzionali a cui viene ispirata?

PRESIDENTE. Onorevole Zaccaria, mi sembrava ovvio che ho risposto alla professoressa Domianello semplicemente perché ella ha sottolineato il fatto che non si sentiva l'esigenza di questa legge nelle aule di giustizia, ma semplicemente in sede politica. Dal momento che siamo in Parlamento, sentiamo l'esigenza in sede politica e, quindi, nella sede idonea. Questa era la mia sottolineatura.

ROBERTO ZACCARIA. L'ho rilevato perché è stata l'unica nota di commento agli interventi. La professoressa Domianello ha affermato che in quel campo non si sente l'esigenza, ma che in Parlamento si fa bene a occuparsene. La sua, presidente, è un'osservazione che non ho capito.

SARA DOMIANELLO, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi di Messina. Io - faccio un'interpretazione autentica del


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mio pensiero - ho denunciato, nella premessa illustrativa della proposta di legge Sbai, una metodologia grave dal punto di vista giuridico, perché tale proposta sostiene che la giurisprudenza - l'ho citata testualmente - vuole un'integrazione dell'articolo 5.

PRESIDENTE. Professoressa, l'ho ringraziata per il suo contributo tecnico, meno per le valutazioni politiche.
Hanno chiesto di intervenire, sull'ordine dei lavori, l'onorevole Vassallo e l'onorevole Bertolini.

SALVATORE VASSALLO. Presidente, vorrei intervenire per ringraziare tutti gli esperti intervenuti e per ribadire, così come in parte ha già fatto il collega Zaccaria, che è piuttosto consueto che i nostri ospiti, che invitiamo perché ci forniscano un parere tecnico, esprimano anche pareri sull'opportunità o inopportunità dell'intervento legislativo.
Nel caso specifico, la professoressa Domianello ha ribadito, riprendendo un contenuto della proposta, che non si pone un'esigenza di ulteriore chiarezza rispetto alla normativa esistente, perché nella giurisprudenza tale richiesta non esiste.
Devo ulteriormente ribadire, come ha in parte già fatto l'onorevole Zaccaria, che è, invece, alquanto inusuale - e anche un po' sgradevole - che i nostri ospiti vengano rimbeccati con lezioni su che cosa si faccia o non si faccia in quest'Aula parlamentare.

ISABELLA BERTOLINI. Vorrei dire ai colleghi che nessuno ha rimbeccato nessuno. Siamo presenti e ringraziamo i nostri ospiti per i pareri che ci hanno portato. Siamo molto poco - o meglio, per nulla - interessati alle loro opinioni politiche. Dal momento che la professoressa è, a un certo punto, scaduta nel giudizio sui sindaci sceriffi e su tutte le norme che sono state votate di recente, le confermiamo che non siamo interessati a questo tipo di valutazioni - lo dico con chiarezza anche ai colleghi - mentre lo siamo molto alle valutazioni tecniche che, in questa audizione come in tutte le altre, ci vengono apportate.
Con grande sensibilità e delicatezza, forse troppa, la presidente aveva richiamato la professoressa. Credo che questo sia un argomento di polemica che non serve assolutamente a nessuno.

PRESIDENTE. Do la parola agli altri colleghi che hanno chiesto di intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

ROBERTO GIACHETTI. Vorrei porre una domanda al professor Ventura.
Personalmente non sono d'accordo con il divieto, tuttavia, da quanto ho capito del suo intervento - la prego di correggermi se sbaglio - lei non contesta l'ipotesi di porne uno, ma l'aggancio a una normativa che non ha nulla a che vedere con l'argomento in questione. Insomma, prevalgono altre ragioni e altre motivazioni.
Per quanto mi riguarda sono consapevole e mi pongo il problema - lo dicevamo anche con alcuni colleghi - di che cosa significhi il velo dal punto di vista culturale, della sottomissione della donna. Mi riferisco a diversi aspetti difficili da regolare attraverso la modifica di una legge che era stata prevista per il terrorismo.
La mia domanda è la seguente: eventualmente, pur atteso che sono contrario a un divieto, se dovesse immaginare un punto legislativo nel quale inserire un divieto di questo tipo, a quale situazione penale lo aggancerebbe, atteso che mi pare di capire che anche lei concordi col fatto che la legge Reale del 1975 non è congrua per agganciarvi una norma del genere?

MARCO VENTURA, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi di Siena. La formulazione che ho proposto riguarda la legge Reale e l'articolo 5. Ritengo, quindi, che sia uno strumento utilizzabile per l'intervento, purché configurato in modo da evitare i limiti di applicabilità tecnica, da un lato, e di rispetto dei princìpi, dall'altro.


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In questo senso, dunque, rinvio alla formulazione, incidendo con precisione sulla parte relativa ai giustificati motivi.
Non può, però, trattarsi dell'unico intervento. Credo che sia fondamentale che, in particolare rispetto all'Islam e al punto della libertà religiosa - questa, ovviamente, lo preciso, non è una considerazione tecnica e, quindi, la lascio con umiltà alla vostra valutazione - vengano rimossi alcuni ostacoli rispetto alla regolazione delle minoranze religiose in generale, e di quella islamica in particolare, che oggi sono suscettibili di far suonare un intervento sulla legge Reale come contrario ai princìpi fondamentali.

PIERGUIDO VANALLI. Vorrei ringraziare anche io il professor Ventura, perché alla fine del suo intervento ci ha fornito anche un'indicazione pratica di come si potrebbe, in parte, risolvere il problema.
Tutti hanno contestato il modo con cui si va a cercare di risolvere un problema, che però tutti hanno evidenziato. Vi chiedo dunque se siete tutti consapevoli che il fatto che gli uomini possano obbligare le donne musulmane a indossare il burqa - in questo caso abbiamo questa conoscenza, non credo che si sappia di donne cristiane obbligate a fare altrettanto - sia riprovevole e che, quindi, bisogna trovare il modo, legittimo e legislativo, per risolvere il problema.
Detto questo, magari non sarà la legge Reale ma sarà qualcos'altro a renderlo possibile.
Pensate che si potrebbe risolvere il problema con una legge nuova, che non si innesta sulla legge Reale e che, quindi, prenda in considerazione l'ipotesi del professore sulla possibilità legittima di girare, in alcune occasione, mascherati, e via dicendo, o, invece, non ritenete che esista il problema? Stando ai vostri interventi, mi sembra di aver capito che riteniate che esista.

SARA DOMIANELLO, Professore ordinario di diritto canonico ed ecclesiastico presso l'Università degli studi di Messina. Vengo da un territorio, quello della Sicilia, in cui, come sapete bene, esistono tante storie di segregazione e sofferenza familiare delle donne, in tante forme e in tradizioni di famiglie. Non approvo, quindi, storie come quella della signora Hadi, come non approvavo quelle.
Per questo, ritengo giusto che ci interroghiamo. La signora Hadi ha ragione. Del resto, non sarei in questa sede, avrei osservato da semplice dottrina, come ho sempre fatto, pubblicando i miei commenti, senza bisogno di intervenire.
Se sono qui e ho accettato di venire, perché mi avete chiamato, è proprio perché ritengo che questa sofferenza meriti di ricevere un aiuto. Tuttavia, insieme ai miei colleghi, sto provando a dirvi con quali strumenti lo si possa fare.
Lo strumento è importantissimo, perché se lo sbagliamo, come ritengo che facciamo con questo tipo di interventi sulla legge Reale, avremo effetti di rebound, nati dall'applicazione di queste norme, le quali passeranno tra le mani dei giudici, della pubblica amministrazione e di chi le dovrà attuare.
In proposito, la Francia ha avuto un'esperienza significativa. Dove è andata la ragazza col velo buttata fuori dalla legge? Si è tolta il velo nelle scuole pubbliche? No. La ragazza oppressa è sparita, non la vedete più lì. È andata a finire o chiusa in casa o in una scuola cattolica, privata, che le consente di tenere il velo. Se avesse voluto toglierlo, e avrebbe potuto, perché non era oppressa, se lo sarebbe tolto comunque.
Seguite un attimo il mio ragionamento, che non è politico, di contrasto con un'idea. Nel mio intervento precedente ho contestato un metodo che mi è sembrato gravemente offensivo dell'intelligenza delle persone che leggono. Avevo il dovere di dirlo, essendo un esperto e conoscendo bene tale giurisprudenza.
Siamo nella sede giusta per discutere dei problemi giusti e degli strumenti, però confrontiamoci su tali strumenti. L'effetto dannoso potrebbe essere, per esempio, quello di aumentare la segregazione. Se avessimo offerto alla signora Hadi e alle sue figlie una norma che stabiliva, come


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vorrebbero questi progetti, che non dovessero circolare all'esterno completamente velate, pensate che si sarebbe ridotto il numero di bastonate che avrebbero ricevuto in casa?
Pensate che questo tipo d'uomo che - credetemi - non è l'Islam a produrre, perché io ne ho conosciuti di siciliani così, possa fermarsi di fronte a una norma? Negli studi legali molto spesso difendiamo donne che non sono oppresse dall'Islam. Certo, accade sempre meno, perché noi, a differenza di quegli Stati siamo un ordinamento liberaldemocratico.
Il marito della signora, probabilmente, era stato condannato con una sentenza di violenza privata passata in giudicato e se ne è dovuto andare dall'Italia. È scappato perché lo avevano condannato. Per le percosse e per la violenza privata, l'ordinamento e la norma penale hanno dunque funzionato, non perché fosse islamico, ma perché chiunque commette tali atti va punito. È sacrosanto.
Dobbiamo stare molto attenti allo strumento che usiamo, perché produce effetti distorsivi. Pensiamo a un altro contrasto, lasciamo da parte l'Islam. Sono ecclesiasticista e, quindi, penso anche ad altri campi. Prendiamo il caso dell'obiezione di coscienza al servizio militare da parte dei testimoni di Geova, quando non c'era la legge sul servizio volontario. Il testimone di Geova si rifiutava anche di svolgere il servizio alternativo. Dove finiva? In galera.
C'è voluta la Corte costituzionale per farlo uscire, perché, ogni volta che usciva riobiettava e ogni volta che riobiettava lo rimettevano in carcere e si creava la famosa spirale delle condanne. La Corte Costituzionale l'ha interrotta stabilendo che, dopo la prima incarcerazione, la persona aveva assolto alla chiamata di leva. Si era fatta, sostanzialmente, la leva in galera e aveva pagato il suo prezzo per la differenza.
In questo caso, si tratta di aspetti anche più gravi, ovviamente. Non voglio paragonare le due questioni, però siamo sicuri - e questa è la domanda che giro a voi - che, se avessimo avuto la norma che vogliono introdurre i due progetti, la figlia della signora Hadi sarebbe all'università? O sarebbe piuttosto rimasta chiusa in casa ammazzata a bastonate se voleva uscire di casa col volto scoperto?

SOUAD SBAI. Forse la professoressa non ha capito la storia della signora Hadi. Solo quando è andato via il padre, la ragazza ha potuto andare senza velo all'università.
Mi sembra di tornare indietro nel 2007, quando discutevamo della legge contro l'infibulazione. Sentivo le stesse identiche parole, secondo cui le donne sarebbero andate a infibularsi clandestinamente, che sarebbero andate all'estero, e via dicendo. In Italia, dopo la legge, si è verificato un solo caso di infibulazione.
Mi dispiace che non si vada in profondità su questi temi. Secondo me, c'è qualcuno che non ha mai visto una donna che porta il velo, neanche quello semplice, senza parlare del burqa o del niqab.
Dietro a quel burqa e a quel niqab c'è tanta violenza, che non ha niente a che vedere con l'Islam, né con le donne siciliane, che si sanno difendere e anche bene.
Dietro a quel burqa c'è tanta violenza, che avanza perché avanza un estremismo integralista che obbliga le donne a portare questo velo, come sosteneva anche il signor Reddane.
Siamo pronti ai cambiamenti e a tutto, però andate a conoscere queste donne e a parlare con loro. Si lascia intendere che si conoscono queste donne, ma ho l'impressione che chi parla non abbia mai visto una donna con il burqa.

PRESIDENTE. Ha chiesto di intervenire, sull'ordine dei lavori, l'onorevole Amici.

SESA AMICI. Intervengo molto sinteticamente. Anch'io ringrazio gli intervenuti, perché hanno offerto uno spaccato molto preciso. Invito la collega Sbai, che è relatrice e presentatrice di una delle proposte di legge, a tener conto delle considerazioni che sono state svolte senza confondere due piani.


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Il primo piano consiste nell'intervenire su un fenomeno di conoscenza culturale, piuttosto che su una legge, come la legge Reale, che riguarda l'ordine pubblico. Ho ascoltato con attenzione l'intervento del signor Reddane, il quale effettivamente ci richiamava a un substrato culturale, dentro il quale va svolto un ragionamento molto più complesso.
Il secondo piano è che molti relatori ci hanno sottoposto elementi di efficacia della norma, tecnico-giuridica, ma anche riflessioni, di cui credo dobbiamo tener conto.
È molto difficile - e mi dispiace che questo sia avvenuto oggi - che, quando si trattano temi così sensibili, che hanno avuto nel corso di questi anni un'eccessiva ideologizzazione e anche politicizzazione, non ci sia nemmeno la pazienza di ascoltare i giudizi, che non possono essere scissi fra il tecnico-giuridico e l'impatto politico. Non è mai successo.
Abbiamo avuto - e lo dico alla presidente Santelli - audizioni su temi non così preminenti, che impattano su questioni che riguardano la condizione delle donne e la differenza che avviene sulla base della questione religiosa. In alcune indagini conoscitive, come, ad esempio - la cito, perché è quella che ricordo meglio - in quella svolta nell'ambito dell'esame della proposta di legge costituzionale di revisione dell'articolo 132, sono intervenuti giuristi, come il professor Frosini e il professor Luciani, che, nelle loro relazioni, ci hanno detto che la modifica proposta era del tutto sbagliata; nessuno si è azzardato a dire che stessero esprimendo un giudizio che a loro non competeva.
Lo dico, perché, dal momento che martedì avremo un'altra serie di audizioni, l'atteggiamento dei parlamentari deve essere quello di ascoltare. La logica vuole che quando si invitano delle persone in audizione, esse vengano ascoltate e che si svolgano le valutazioni di merito. Tuttavia, non possiamo aprire un dibattito sull'espressione di opinioni.
Del resto, dovremmo ragionare del niqab e del burqa insieme alla questione della cittadinanza. Non sembrano argomenti tra loro scissi, ma sono evidentemente collegati a temi che aprono grandi discussioni.
È bene forse che ci diamo adeguate modalità nella maniera in cui ci comportiamo con gli ospiti.

PRESIDENTE. Nel ringraziare i presenti per la disponibilità manifestata, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,45.

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