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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione I
1.
Martedì 20 aprile 2010
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Santelli Jole, Presidente ... 3

Sui lavori della Commissione:

Santelli Jole, Presidente ... 3 4
Giovanelli Oriano (PD) ... 3
Volpi Raffaele (LNP) ... 3 4

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DEI PROGETTI DI LEGGE C. 67 STUCCHI E ABB. - SEMPLIFICAZIONE DELL'ORDINAMENTO REGIONALE E DEGLI ENTI LOCALI, NONCHÉ DELEGA AL GOVERNO IN MATERIA DI TRASFERIMENTO DI FUNZIONI AMMINISTRATIVE E CARTA DELLE AUTONOMIE LOCALI

Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale direttori generali enti locali (ANDIGEL):

Santelli Jole, Presidente ... 5 9 12
Bertola Michele, Rappresentante dell'ANDIGEL ... 5 10
Dal Lago Manuela (LNP) ... 9
Giovanelli Oriano (PD) ... 8
Palagi Giuliano, Rappresentante dell'ANDIGEL ... 8 9
Stasi Maria Elena (PdL) ... 9

Audizione di rappresentanti del Coordinamento nazionale province montane:

Santelli Jole, Presidente ... 12 16 17 19
Bressa Gianclaudio (PD) ... 17
Dal Lago Manuela (LNP) ... 16
Maisetti Mario, Rappresentante del Coordinamento nazionale province montane ... 12
Pratola Crescenzo, Rappresentante del Coordinamento nazionale province montane ... 18
Santellocco Attilio Francesco, Rappresentante del Coordinamento nazionale province montane ... 12 15 18

Audizione di rappresentanti dell'Unione nazionale comuni comunità enti montani (UNCEM):

Santelli Jole, Presidente ... 19 22
Borghi Enrico, Presidente dell'UNCEM ... 19

Audizione di rappresentanti della Lega delle autonomie locali:

Santelli Jole, Presidente ... 22 24 25 26
Bugetti Ilaria, Rappresentante della Lega delle autonomie locali ... 22 25 26
Lanzillotta Linda (Misto-ApI) ... 24
Volpi Raffaele (LNP) ... 24 26

Sui lavori della Commissione:

Santelli Jole, Presidente ... 26 27 31
Bressa Gianclaudio (PD) ... 29
Calderisi Giuseppe (PdL) ... 29
Giovanelli Oriano (PD) ... 27
Lanzillotta Linda (Misto-ApI) ... 30
Pastore Maria Piera (LNP) ... 30
Tassone Mario (UdC) ... 26 27
Volpi Raffaele (LNP) ... 26 27

Audizione di docenti universitari:

Santelli Jole, Presidente ... 31 33 45 48 50
Bressa Gianclaudio (PD) ... 47
Calderisi Giuseppe (PdL) ... 46
De Martin Topranin Gian Candido, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico ... 42 50
Giorgis Andrea, Professore ordinario di diritto costituzionale ... 31 48
Groppi Tania, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico ... 33
Lanzillotta Linda (Misto-ApI) ... 47
Pitruzzella Giovanni, Professore ordinario di diritto costituzionale ... 37 49
Rossi Giampaolo, Professore ordinario di diritto amministrativo ... 39 49
Vassallo Salvatore (PD) ... 45
Zanon Nicolò, Professore ordinario di diritto costituzionale ... 41 48
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud/Lega Sud Ausonia: Misto-NS/LS Ausonia.

COMMISSIONE I
AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 20 aprile 2010


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE JOLE SANTELLI

La seduta comincia alle 9,55.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Sui lavori della Commissione.

PRESIDENTE. Prima di dare inizio alle previste audizioni, hanno chiesto di intervenire l'onorevole Volpi e l'onorevole Giovanelli.

RAFFAELE VOLPI. Signor presidente, vorrei affrontare una questione che ritengo importante. Deciderà poi lei, sentita la Commissione, se affrontarla in questo momento o più avanti.
Venerdì ho letto un'agenzia di stampa che riportava la decisione assunta da ANCI, UPI e Conferenza delle regioni e delle province autonome, di non partecipare all'odierna audizione. Lo stesso comunicato aggiungeva che era stata inviata una comunicazione al presidente della nostra Commissione, l'onorevole Bruno, e forniva spiegazioni assolutamente parziali. Ritengo, infatti, che un comunicato stampa non possa essere esaustivo.
Non so se si possa affrontare ora tale questione, oppure se sia il caso di rinviarla al momento in cui si constaterà l'assenza dei rappresentanti delle suddette organizzazioni. Lascio a lei la decisione sull'opportunità o meno di poterne parlare subito e la informo che è mia intenzione richiedere un paio di chiarimenti ed esporle un paio di riflessioni.

ORIANO GIOVANELLI. Signor presidente, anch'io intervengo per riferire, in primo luogo, che il 16 aprile ANCI, UPI e Conferenza delle regioni hanno segnalato l'orientamento, già indicato dall'onorevole Volpi. Probabilmente, si poteva anche provare a compattare l'audizione di coloro che avevano dato la loro disponibilità. Solleciterei a farlo comunque, perché probabilmente quanti devono essere auditi hanno impegnato la mattinata per essere disponibili ed è probabile che, contattandoli telefonicamente, riusciremo comunque a compattare il nostro lavoro.
In secondo luogo, anch'io ritengo, come il collega Volpi, che dobbiamo trovare dieci minuti per analizzare il contenuto della lettera inviata al presidente della Commissione e scambiarci le rispettive opinioni. Avevo già fatto presente che probabilmente il fatto che la Conferenza delle regioni non è nella pienezza delle sue funzioni dopo le elezioni regionali avrebbe comportato alcune difficoltà nel procedere con le audizioni, ma qui si va oltre. Credo, quindi, che ognuno dei gruppi presenti in Commissione abbia il diritto-dovere di esprimersi su tale proposta.

PRESIDENTE. Colleghi, il presidente della Conferenza delle regioni e delle province autonome, Vasco Errani, il presidente dell'ANCI, Sergio Chiamparino e il presidente dell'UPI, Giuseppe Castiglione, in data 16 aprile 2010, hanno inviato congiuntamente al presidente della Commissione affari costituzionali la lettera di


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cui adesso vi do lettura e di cui dispongo la distribuzione: «Caro Presidente, considerata l'estrema importanza del provvedimento in esame, su cui la Conferenza Unificata non ha espresso parere, Le evidenzio che, nonostante lo sforzo unitario di Regioni, Province e Comuni nella definizione di una piattaforma condivisa di modifiche ed integrazioni, come da espressa richiesta del Governo, tali modifiche hanno trovato un accoglimento parziale ed insoddisfacente.
Riteniamo pertanto necessario che il confronto in Parlamento e nell'ambito della Commissione da Lei presieduta avvenga secondo un metodo che consenta di approfondire tutte le rilevanti questioni poste dal disegno di legge che darà attuazione a una parte assai significativa della nostra Costituzione.
In particolare, Le chiediamo di prevedere un confronto, stabile e costante, nelle forme di una sede permanente nell'ambito della Commissione da Lei presieduta con le rappresentanze di Regioni, Comuni e Province presenti nella Conferenza Unificata e il Governo, in modo da giungere a un'impostazione normativa dell'assetto istituzionale ed amministrativo delle Autonomie territoriali che abbia condivisione nelle componenti dell'ordinamento della Repubblica.
Nell'esprimere condivisione per l'esigenza che la Commissione ha voluto rappresentare con la convocazione di un'audizione, riteniamo opportuno in questa fase declinare l'invito, nella certezza che Ella vorrà avviare il confronto secondo modalità che siano assolutamente adeguate a consentire la piena rappresentanza degli orientamenti dei livelli di governo direttamente interessati, in attuazione del principio di leale collaborazione».
Le questioni sollevate dalla lettera dei presidenti della Conferenza delle regioni e delle province autonome, dell'ANCI e dell'UPI potranno essere oggetto di esame nella sede dell'ufficio di presidenza, integrato dai rappresentanti dei gruppi, previsto al termine delle audizioni previste per la seduta odierna.
Per quanto riguarda la specifica richiesta sollevata dal collega Giovanelli, faccio presente che purtroppo è impossibile, visto che è già stata data pubblicità all'ordine dei lavori, modificare gli orari delle audizioni.

RAFFAELE VOLPI. Signor presidente, non voglio assolutamente sollevare polemiche. Credo che l'ufficio di presidenza abbia un compito importante e assolutamente centrale nell'organizzazione dei lavori. Penso, però, che nessuno di noi possa lasciarsi sfuggire che la posizione assunta dalle suddette organizzazioni non abbia a che vedere con la parte organizzativa, ma corrisponda piuttosto a un atteggiamento di riscontro politico.
Se mi permette, presidente, insisto per affrontare subito la questione, oppure nel momento in cui si constaterà l'assenza dei rappresentanti delle tre organizzazioni, perché mi sembra rilevante. Dopodiché, rispetto al contenuto della lettera, credo che non possiamo fare finta che nulla sia successo.
Le voglio anche anticipare una questione, perché credo che sia importante per la riflessione di tutti i colleghi. Credo che nessuno, all'interno di questa Commissione, abbia spirito polemico nell'intervenire su questo tema, ma solo la necessità di capire.
Voglio sperare che le scelte operate dai presidenti di queste organizzazioni siano state almeno condivise con i loro uffici di presidenza, elemento su cui mi permetto di esprimere un dubbio, dato che abbiamo tutti rapporti continuativi con esponenti delle autonomie locali che siedono in quegli organi. Mi permetto, dunque, di sottolineare che si tratta di un elemento politico e non organizzativo.

PRESIDENTE. Collega Volpi, sicuramente la rilevanza politica dell'argomento che lei pone è evidente. Il nostro problema è che, essendo la questione formalmente di tipo organizzativo, nel senso che è stato rivolto un invito da questa Commissione, deciso e programmato in sede di ufficio di presidenza, non possiamo che riferirci a tale data.


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Ad ogni modo, se i colleghi consentono, comincerei con le audizioni previste. Successivamente valuteremo se affrontare in termini formali questa vicenda.

Audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale direttori generali enti locali (ANDIGEL).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame dei progetti di legge Camera 67 Stucchi e abb. - semplificazione dell'ordinamento regionale degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative e Carta delle autonomie locali, l'audizione di rappresentanti dell'Associazione nazionale direttori generali enti locali (ANDIGEL).
Sono presenti il presidente, dottor Michele Bertola, e il dottor Giuliano Palagi, cui do la parola.

MICHELE BERTOLA, Rappresentante dell'ANDIGEL. Signor presidente, ringrazio l'intera Commissione della possibilità di poter ascoltare anche la nostra voce in un momento in cui si comincia ad analizzare l'importante disegno di legge sulla Carta delle autonomie locali. Ringrazio anche il ministro Calderoli per la sua presenza.
Ricordo brevemente che l'ANDIGEL è l'Associazione nazionale direttori generali enti locali, che esiste dal 2003 ed è nata in seguito all'innovazione introdotta negli enti locali dal 1998. Via via che tale esperienza si è diffusa, è emersa l'esigenza di un comune ragionamento. Fin dall'inizio si è configurata come un'associazione che non ha scelto di diventare né una sorta di sindacato, né una corporazione, ponendosi invece come un'opportunità per l'innovazione e per il funzionamento degli enti.
In questo senso, anche negli anni passati, le osservazioni e i ragionamenti che abbiamo svolto hanno sempre rappresentato una voce tecnica a fianco della politica nel processo di innovazione degli enti locali e non tanto la voce di una corporazione di una categoria professionale.
D'altra parte, la scelta, operata nel 1993, dell'elezione diretta dei sindaci e dei presidenti aveva come logica conseguenza l'esigenza di disporre anche di una figura tecnica in grado di coordinare l'intero funzionamento dell'ente, nel momento in cui si andava attuando, dopo l'entrata in vigore della legge 8 giugno 1990, n. 142, e il percorso che oggi porta compiutamente al federalismo in senso forte comporta l'avere una responsabilità diretta sulle risorse che entrano in un ente e sul modo in cui ne escono.
Sostanzialmente, si trattava di portare, oltre al tema fondamentale della correttezza amministrativa, dell'imparzialità e dell'equità, anche elementi di efficacia, economicità ed efficienza che, fin dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, sono stati scritti sulla carta, ma non per questo diventano concreti a partire dal giorno dopo.
Per compiere tale passaggio occorrono alcune scelte non sempre facili, che richiedono che la politica, quindi sindaci e presidenti, siano disposti a compierle.
Sarò un po' brutale e chiaro: quando si tratta di affermare la volontà di portare una macchina da inefficiente a efficiente, da sprecona a risparmiosa, so che tutti saremmo qui ad alzare la mano e acclamare tale iniziativa all'unanimità, ma applicarla in un ente significa andare a modificare alcune abitudini, evitare doppi passaggi che permettono a ciascuno di esprimere un potere, cercare di operare più velocemente che in precedenza, essere più bravi a cercare le risorse sul territorio, compiere diverse azioni che vanno a modificare profondamente la realtà dell'ente stesso.
È del tutto legittimo, a nostro giudizio, che un sindaco o un presidente decidano di farlo e che, perciò, dispongano delle risorse professionali adeguate. È altrettanto legittimo che in altri enti, per diversi motivi, questa non sia l'attenzione principale.
In questo senso, riteniamo che l'autonomia organizzativa degli enti sia l'elemento


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fondamentale. È pienamente nel programma politico voler portare - ripeto, non si tratta di inserire la frase nel programma elettorale; credo che ciò avvenga ovunque e che, come attenzione generale, sia propria di tutti - efficacia, economicità ed efficienza, ma pensare a un'operazione veramente complessa per modificare il modo di lavorare di un ente è un'azione che richiede una responsabilità politica, nonché un'autonomia e una responsabilità che è corretto siano pienamente nelle mani della politica.
Una volta compiuta tale scelta, occorre che ci sia lo spazio autonomo per poterla attuare. In questi anni, come abbiamo verificato con diverse ricerche, siamo andati a capire come funzionano le diverse situazioni e abbiamo intrecciato i pochi dati disponibili, nell'attesa che, con l'auspicato federalismo fiscale, ci siano strumenti di confronto tra il funzionamento degli enti istituzionalmente definiti, basandosi sulle ricerche svolte dal Il Sole 24 Ore, ItaliaOggi e altri centri di ricerca che cercano di misurare l'efficienza delle pubbliche amministrazioni.
Siamo andati a vedere come si collocavano le città, incrociando il dato con la presenza o meno di un'autonomia organizzativa e di una direzione generale esclusivamente dedicata a tale scopo. Abbiamo sempre riscontrato - i dati sono sul nostro sito - una concomitanza di efficacia con la presenza di un'organizzazione forte.
Possiamo discutere se siano gli enti più efficienti che, essendo già tali, si dotano di organizzazione buona o se sia l'organizzazione buona che fa l'efficienza; in ogni caso, nei fatti il rapporto è dimostrato. L'abbiamo analizzato sistematicamente dal 2003 e ormai abbiamo la conferma di tali azioni.
Questa operazione richiede un'autonomia, nonché una responsabilità di fronte ai cittadini, perché avere un'organizzazione forte vuol dire dare pienamente attuazione al principio di distinzione tra politica e dirigenza. Ciò significa che la politica può fare più politica e non meno, perché se se si ha sotto di sé una macchina efficiente in grado di garantire sull'efficacia delle azioni, ci si concentra sull'individuazione delle azioni esatte, sul controllo della loro effettiva attuazione e sui risultati; se, invece, non si ha questa organizzazione, ci si trova purtroppo costretti a entrare nel merito della gestione per paura di non disporre di una macchina efficiente e, in questo modo, si perde di vista la politica.
Su questo percorso di dieci anni sono nate anche alcune difficoltà ed esperienze diverse, che hanno caratterizzato il mondo degli enti locali. Il tema dell'autonomia si lega a quello delle risorse. Siamo in una fase decisiva, da questo punto di vista, perché, in una situazione un po' paradossale, abbiamo avuto un aumento del concetto di autonomia, ma, negli ultimi anni, una diminuzione di autonomia finanziaria e impositiva da parte degli enti. È una macchina che non riesce a camminare: se si toglie questa parte, è difficile esercitare responsabilità senza autonomia.
Riteniamo che la Carta delle autonomie locali debba porsi anche l'obiettivo di tenere insieme quanto sta accadendo dal punto di vista normativo in questi anni, quindi la norma sul federalismo fiscale e sulla sua futura attuazione, la norma «Brunetta» sul lavoro pubblico, la norma sulla nuova contabilità pubblica e, ovviamente, la stessa Carta delle autonomie locali. Occorre che effettivamente si ponga l'attenzione per tenere insieme questi aspetti, altrimenti rischiamo davvero di costruire sistemi diversi.
Sul tema della direzione tecnica degli enti, che ci sta a cuore, perché la riteniamo una delle espressioni principali dell'autonomia organizzativa, abbiamo riscontrato una situazione che ha portato anche recentemente, con il decreto-legge 25 gennaio 2010, n. 2, emanato in seguito alle disposizioni contenute nella legge finanziaria e poi convertito dalla legge 26 marzo 2010, n. 42, a una fibrillazione nata da un problema, che credo di poter riferire onestamente.
Mi riferisco al fatto che la norma sulla direzione generale, che, come sapete, riguardava i comuni sopra i 15 mila abitanti


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e le province, quindi circa 700 enti in totale in tutta Italia, prevedeva questa come figura facoltativa, quale riteniamo che debba continuare a essere. Come sostenevo prima, infatti, l'efficienza non si impone per legge, ma richiede autonomia e responsabilità; se la si vuole mettere in atto, si deve avere la possibilità di farlo, ma non esiste un obbligo in merito.
In questi anni, però, nei comuni più piccoli, usando l'escamotage del comma 4 dell'articolo 108 del Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, la direzione generale è stata assegnata ai segretari degli enti, e ciò è avvenuto in un numero, da quello che ci risulta, molto elevato: più di 1.500 comuni sotto i 15 mila abitanti hanno effettuato una nomina sulla base di un'interpretazione, permettetemi il termine, impropria di tale norma. Si sono verificati sia una dimensione degli enti non adeguata ad avere una figura di questo tipo, sia una caratterizzazione tutta sub giuridica, e, in molti casi, anche incarichi attribuiti con un atto interno poco visibile.
Vi assicuro, invece, per esperienza personale, che, quando un sindaco decide di dotarsi di un direttore generale e di assumerlo, poiché deve anche pagarlo e si tratta di una scelta facoltativa, la vicenda appare certamente sui giornali locali per mesi e mesi e il sindaco risponde di tale scelta. Gli altri tipi di nomine, invece, a volte sono rimasti nascosti e, infatti, sono emersi in modo talora anche scandalistico, anche se dopo mesi e mesi, tanto che la Corte dei conti della Lombardia sta mettendo la lente di ingrandimento su questo tema.
Al contrario, l'esperienza dei direttori esclusivamente dedicati a questo scopo ha portato ai risultati che citavo prima: oggi sono circa 200 in Italia, ovviamente divisi in diverse realtà e tendenzialmente efficaci.
Noi proponiamo, su questo punto, la possibilità di mantenere tale facoltà, ponendo però alcuni paletti, che sono stati i punti deboli di questa esperienza. L'elemento di fiduciarietà, per cui il sindaco possa scegliere una persona di cui ha fiducia, è fondamentale, tuttavia, l'assenza assoluta di prerequisiti professionali rischia di essere un elemento che porta talvolta a nomine, pur effettuate in buona fede, che non danno una garanzia professionale.
Noi rifuggiamo dall'idea di andare a costituire altri albi, corporazioni o agenzie perché riteniamo che il Paese ne abbia già a sufficienza. Abbiamo, però, una proposta originale, che abbiamo già provato a sperimentare e, che, peraltro, in altri Paesi d'Europa viene guardata con attenzione, ossia quella di poter scegliere persone adatte a questo ruolo attraverso una certificazione che venga concessa da un ente terzo, quindi non compartecipato, e che sia periodica, cioè che non valga per tutta la vita, ma che venga sottoposta a verifica ogni tre o cinque anni.
In questo modo, avremmo la possibilità di poter disporre di un elenco di persone, all'interno del quale sindaco e presidente scelgono in termini fiduciari, ma che, contemporaneamente, abbiano un prerequisito in grado di garantirne le funzioni. Ciò, peraltro, permetterebbe ai sindaci e ai presidenti di risolvere il problema, perché non si parte dall'inizio indicando che serve un direttore generale. Non è questo che noi auspichiamo. Un sindaco e un presidente partono da problemi nei loro enti, come un bilancio con la parte corrente in difficoltà, che deve lavorare sull'efficacia; aziende partecipate che l'ente non controlla e che non riesce a far fruttare adeguatamente; rapporti con le associazioni di categoria; lentezza sulle licenze edilizie; esternalizzazione pensata bene in termini di costi e benefici di alcune attività. A fronte di tutti questi problemi, il sindaco e il presidente devono poter contare sui propri dirigenti, ma disporre anche, alla testa dei dirigenti, di qualcuno in grado di coordinarli e di farli lavorare.
Riteniamo che ciò sia nel pieno dell'autonomia organizzativa. Se poi pensiamo a quando, spero nel più breve tempo possibile, avremo a che fare con temi come quello dei costi standard di un servizio, che dovrebbe rappresentare la


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logica con cui arriviamo al federalismo, che cosa succederà? Se ci si trova in un comune che è sopra il costo standard, che cosa si fa? Ci si dovrà pur porre il problema di quali strumenti si possono mettere in campo.
Se quella macchina, con le possibilità di cui dispone, non è riuscita a migliorare, sarà necessario compiere alcune innovazioni. Se eliminiamo la possibilità che esista una persona di fiducia, dotata dei prerequisiti professionali, che si occupi di questo aspetto, ingrasseremo i consulenti, che verranno negli enti a spiegare come si dovrebbe agire. Dopodiché, se sono bravi, riferiscono esattamente che cosa bisogna fare, il che a volte succede e a volte no, poi però resta il problema di chi debba occuparsene.
Da questo punto di vista, chiediamo che sia prestata attenzione, perché, se non si lascia aperta la strada affinché su autonomia e responsabilità qualcuno si faccia carico, all'interno degli enti, di affiancare la politica per garantire l'attuazione del programma, tutte le operazioni sui costi standard, sul piano delle performance della legge «Brunetta» o su altre questioni di questo tipo si risolveranno in carte e consulenze senza risultato.
Noi riteniamo che l'organizzazione degli enti sia un bene troppo importante per rinchiuderlo con scelte che possono risentire di alcune situazioni anomale, che vanno risolte, ma che non possono cancellare quella che per noi è una possibilità utile. Chi ne ha usufruito può ben testimoniarlo.
Peraltro credo che ci siano, in particolare negli enti locali, numerosi dirigenti e funzionari di grandissime capacità e buona volontà, che restano chiusi in tali enti e, se non trovano possibilità di crescita, rischiano di non avere prospettive, anche perché non esiste ancora in Italia un mercato della dirigenza pubblica adeguato. Per esempio, i percorsi formativi o di aggiornamento dei dirigenti sono un altro tema su cui forse non la Carta delle autonomie locali, ma altri provvedimenti devono poter intervenire.
Credo che l'intreccio tra i temi dell'autonomia organizzativa, della Carta delle autonomie locali e del federalismo fiscale meritino più approfondimento. Il collega Palagi svolgerà brevemente questa parte della relazione.

GIULIANO PALAGI, Rappresentante dell'ANDIGEL. Signor presidente, poiché l'intervento del collega Bertola è stato molto esaustivo, credo che la nostra parte introduttiva potrebbe fermarsi qui, per lasciar spazio a questioni che i commissari vogliono porre.
L'unica sottolineatura che vorrei fare è quella della possibilità che, attraverso la Commissione, i lavori parlamentari sulla Carta delle autonomie locali siano caratterizzati dalla massima attenzione sistemica, perché il baricentro della discussione è questo per noi, ossia ciò che servirà agli enti locali per garantire buona politica e buona amministrazione.
Vediamo con alcune preoccupazioni le fughe che si verificano, rispetto al testo, di provvedimenti e di contenuti normativi che stanno all'interno di altri provvedimenti. Mi riferisco ai controlli nell'anticorruzione e alla norma che citava il collega Bertola e che ci riguarda direttamente, ma non è questo il problema. Credo che questa sia la sede principale e importante per trattare di questi problemi.
Ovviamente l'associazione ha compiuto la scelta di essere presente all'audizione anche predisponendo un documento che consegniamo alla presidenza, ed è disponibile, dopo questo momento iniziale, a eventuali successivi confronti in vista dell'approvazione di un provvedimento così importante.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

ORIANO GIOVANELLI. Voglio ringraziare il dottor Bertola e il dottor Palagi per le considerazioni che hanno svolto, che ci confortano sull'approccio che abbiamo cercato di tenere su una figura professionale chiave nel ruolo organizzativo delle amministrazioni locali.


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Poiché nel testo che andremo a esaminare vi è una forte sottolineatura - peraltro da noi condivisa - sulla gestione associata delle funzioni da parte degli enti, sia di quelli piccoli, obbligatoriamente, sia di quelli non piccoli, in forma discrezionale, volevo sapere se ci sono esperienze significative da parte dei direttori generali che hanno curato questo percorso e quanto, dal vostro punto di vista, è importante una figura professionale di questo tipo nel rendere la gestione associata un fatto concreto e non soltanto una sommatoria.
L'altro punto è che noi ci troviamo spesso - da questo punto di vista il nostro atteggiamento è critico - a ricercare nella soglia demografica l'unico parametro con il quale compiere o non compiere determinate operazioni. Vorremmo sapere se, secondo voi, essa rappresenta un parametro sufficiente. Immagino che non lo sia, ma sarebbe utile portare alcune motivazioni a questo proposito nella scelta o meno della figura del direttore generale.

MARIA ELENA STASI. Signor presidente, volevo chiedere qual è il quid pluris del direttore generale rispetto al segretario generale, che molto spesso ha competenza tecnica e capacità vastissima. Specialmente nei comuni del sud, si è verificato che vengano nominati direttori generali persone anche prive di titolo di studio e di esperienze professionali, a fronte della presenza di segretari generali con una comprovata esperienza professionale specifica.

MANUELA DAL LAGO. Vorrei porre due brevissime domande.
Volevo chiedere, cortesemente, se vi è nota la percentuale di quanti sono, nel complesso dei direttori generali, coloro che appartengono alla categoria dei segretari comunali. Nella mia esperienza, in base a quanto ho potuto notare, oggi, come metodologia, la maggior parte dei segretari comunali assume anche l'incarico di direttore generale e non solo al sud. Volevo capire meglio la questione.
Passo alla seconda domanda. Lei, dottor Bertola, poneva prima il problema dell'eventuale certificazione di validità e di un elenco all'interno del quale i sindaci e i presidenti di provincia dovrebbero poi andare a scegliere l'eventuale direttore generale. Non le sembra che ciò vada in contrasto con il discorso che lei poneva all'inizio del suo intervento rispetto all'autonomia, che deve essere principalmente autonomia dell'eletto, più che del dirigente? Il cittadino vota, infatti, il primo e non il secondo.

PRESIDENTE. Do la parola ai rappresentanti dell'ANDIGEL per la loro replica.

GIULIANO PALAGI, Rappresentante dell'ANDIGEL. Sulla gestione associata, in riferimento alla domanda dell'onorevole Giovanelli, esistono esperienze significative. Se possono essere di interesse per la Commissione, le possiamo far conoscere, in termini sia quantitativi, sia qualitativi. Anche questo è un contributo che può essere dato, anche attraverso la figura e il ruolo del direttore generale, alla ricomposizione della situazione, che conosciamo, di molti comuni «polvere» o di molti che non avrebbero, al di là delle dimensioni, la capacità di svolgere efficacemente i servizi che sono loro affidati dalla legge e, soprattutto, richiesti dai cittadini. Sono realtà differenziate, prevalentemente concentrate nel centro-nord, ma comunque, lo ripeto, possiamo farvi conoscere il quadro completo.
Sul discorso della soglia demografica, evidentemente la vediamo con disfavore, ma semplicemente perché, come tutte le regole che tendono a funzionare come un'accetta, rischia di tagliare alcune situazioni in maniera assolutamente non conforme alla pluralità che abbiamo nel nostro Paese, ragion per cui giustamente il collega Bertola ribadiva l'importanza della facoltatività come espressione dell'autonomia, ma anche come capacità di cogliere le esigenze effettive esistenti.
Credo poi che sia indubbio che occorra una soglia minima e - aggiungo personalmente - che sotto una data soglia minima sia inevitabile, naturale, quasi sacrosanto e doveroso avere la figura unica di direzione.


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Nessuno di noi è alla ricerca di spazi per moltiplicare anche gli incarichi. Sarebbe assolutamente fuori luogo. Per il resto, però, è giusto che siano gli enti a decidere dove effettivamente tale figura è necessaria e dove tali funzioni devono essere assicurate in questa forma, oppure se ci si riferisce alla dirigenza intesa nel suo complesso.
Rispetto, invece, alla domanda dell'onorevole Stasi sul quid pluris, è un po' difficile parlare di sé da questo punto di vista, perché dovrebbero essere gli altri a farlo. Le posso dire, onorevole, che una buona percentuale dei direttori generali in carica ha competenze, e non potrebbe essere altrimenti, di tipo giuridico-economico e di scienze dell'organizzazione, perché sono richieste normalmente agli amministratori. Peraltro, le esperienze migliori sono quelle in cui la collaborazione fra direttore e segretario è cementata anche dal fatto di parlare una lingua comune. Non riesco a concepire un direttore generale che non conosca la macchina dove lavora.
Mi rendo conto che un problema istituzionale sia quello della categoria, nonché del numero molto alto dei colleghi segretari, che, in alcuni casi, sono anche fuori sede, o meglio, sono fuori da una sede, sono in disponibilità, ma non hanno una sede effettiva. Credo anche che la possibilità, ricordata da Michele Bertola, attraverso meccanismi nuovi quali la certificazione, di poter ricomprendere le due figure, componendo un dissidio che non è assolutamente naturale, sia la soluzione migliore anche per garantire una gestione più efficiente degli enti.
Credo che sulle altre questioni voglia rispondere il presidente Bertola.

MICHELE BERTOLA, Rappresentante dell'ANDIGEL. Dei 700 enti sopra i 15 mila abitanti, circa 400 hanno nominato il direttore generale; di questi 400, circa 250 sono esclusivamente direttori e 150 segretari o direttori. Si pone, inoltre, quello che vi riferivo essere, per certi aspetti, il problema che ha scatenato l'attenzione, ossia il fatto che nei comuni sotto i 15 mila abitanti, da quel che ci risulta, vi sono 1.500 nomine in più. Se si guarda numericamente, si trova questa situazione, che ha anche dato origine, se volete, alla sensazione di un abuso di tale possibilità.
Dal punto di vista di merito, riteniamo, come è scritto nella proposta in calce al documento che abbiamo consegnato, che effettivamente un incrocio tra fiduciarietà, quindi la scelta autonoma da parte del sindaco e del presidente, e alcuni elementi di prerequisito professionale vada costruito, perché il rischio, raro ma si è verificato, è quello di nomine discutibili dal punto di vista professionale, di persone non all'altezza dei compiti. Su questo bisogna congegnare le due questioni.
La vera differenza, come è scritto nella nostra proposta, sta nell'idea, davvero innovativa e che nel resto d'Europa si attua un po' più ordinariamente, di un albo, di un elenco certificato. Ciò vuole dire che non si diventa di ruolo e si è a posto per la vita, ma che ogni tre o cinque anni si è costretti a dimostrare di avere ancora determinate capacità, e, al di là di esse, se non si viene scelti, si farà altro nella vita.
Il secondo elemento, ancora a proposito di segretari, come ricordava il collega Palagi, in via pratica, in realtà, dove ci sono un buon direttore e un buon segretario, le situazioni funzionano molto bene, perché il segretario è caratterizzato dalla norma come figura portata al tema di correttezza amministrativa, imparzialità ed equità, che sono un aspetto fondamentale dell'azione amministrativa e che, in un equilibrio con chi si orienta a risultati come economicità, efficienza ed efficacia, trova la migliore opportunità.
D'altra parte, nello stesso disegno di legge C. 3118, così come in quello anticorruzione, si riaccentua il ruolo del segretario come forma di controllo sulla correttezza amministrativa. È quasi una posizione di terzietà. Già oggi il segretario nei confronti del consiglio comunale ha il ruolo di garantire trasparenza, partecipazione e via elencando. Il direttore deve attuare il programma del sindaco, che non è in contrapposizione ovviamente con l'altro


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tema, ma non si riesce a fare tutto con la stessa attenzione anche in termini di ruolo interno.
Vi porto un altro esempio: in merito al tema delle valutazioni delle prestazioni dirigenziali, molto forte nei provvedimenti del ministro Brunetta, come quello della contrattazione, è evidente che una figura che sta fuori dal percorso delle contrattazioni nazionali sia nella posizione di essere un buon valutatore. Nel contempo, deve essere pienamente dentro l'organizzazione dell'ente, come la stessa attuazione della legge «Brunetta» richiede. Da questo punto di vista, la posizione adeguata è quella di un direttore, assunto a termine, che risponde al sindaco e che ha questo come compito precipuo, mentre ad altri spetta, per esempio, analizzare il ricorso sul provvedimento e tutte le altre questioni.
So che è molto difficile da comprendere e svolgo una considerazione che può apparire strana. Col tempo bisognerà smettere di incrociare due questioni che si sono incrociate per un puro accidente. Nell'evoluzione della storia degli enti locali, a un certo punto è emerso, con l'elezione diretta del sindaco, il problema di avere una figura professionale che faccia girare la macchina organizzativa. Nel frattempo, si è incrociato un tema altrettanto vero, a cui non tolgo dignità ma che è altro, relativo a che cosa fare del segretario comunale, di origine prefettizia o uomo del Ministero dell'interno, che operava all'interno degli enti con funzioni di controllo. È evidente che il tentativo, che ormai dura da dieci anni, di incrociare tale questione non funziona, perché si tratta proprio di un ruolo diverso.
Dopodiché, senza farne battaglie generali, noi lasciamo comunque la possibilità a un ente che, nell'ambito dell'autonomia, ne ravvisi il bisogno, di effettuare questo incrocio.
Occorre, però, che i sistemi di controllo interno siano certificati. In base all'autonomia organizzativa, ogni ente deve disporre di un sistema di controlli interni ed esterni. Su quelli interni propone un sistema e va benissimo che ci sia un organismo terzo che stabilisca se un sistema regge o non regge. Non va bene, invece, ledere l'autonomia organizzativa degli enti con un sistema che dall'esterno vada a incrociare la situazione interna in modo invasivo.
Personalmente, ritengo che una certificazione di professionalità adeguata alla direzione tecnica dell'ente debba esistere e che debba essere aperta anche a chi ha una provenienza da segretario. Non lo escludiamo: un buon segretario che, per molti motivi, è diventato capace di svolgere una buona gestione tecnica va benissimo e lo si accredita nell'elenco. È difficile che in un ente, almeno da una determinata dimensione in su, possa avere lo stesso ruolo, però se esiste un sistema di controlli interni che viene validato e si riesce a contemplarlo, nulla quaestio.
Dobbiamo far funzionare gli enti spendendo poco e ottenendo il massimo. Non dobbiamo né moltiplicare le figure, né, tantomeno, far finta che correttezza amministrativa sia uguale a efficacia. L'efficacia ha sicuramente come base la correttezza amministrativa, ma la sola correttezza amministrativa non è garanzia di efficacia. Una è necessaria, ma non sufficiente ed entrambe sono auspicabili.
Con riferimento a come la situazione si è evoluta in questi anni, è evidente che l'Italia è grande e le situazioni sono differenti, ma chi ha avuto la possibilità di svolgere ricerche alla mano ha visto i risultati. Oltretutto, quando un sindaco ha sbagliato la scelta del direttore, ne paga le conseguenze, nel senso che, se nomina una persona incapace e dopo due anni il comune va peggio di prima, non lo si può nascondere.
Ho molta paura, invece, di un sindaco che, alla mia osservazione che una figura nel suo ente non funziona, allarga le braccia, come molto spesso accade, e risponde che non può farci niente perché era obbligatoria. Preferisco un sindaco che dica al direttore che, dopo due anni dalla sua nomina, non funziona e lo congedi oppure che è bravo, funziona e che sul mercato c'è un altro sindaco che lo vuole portar via.


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Dobbiamo cominciare a ragionare anche in modo più aperto, altrimenti esiste sempre un alibi, le situazioni non funzionano e nessuno ammette mai di aver sbagliato nel compiere una scelta oppure che ha funzionato perché è stata una scelta positiva. Dobbiamo far qualcosa per superare questo schema, altrimenti rimaniamo incastrati ad albi professionali, agenzie e corporazioni, che davvero non funzionano più.

PRESIDENTE. Ringraziamo i nostri ospiti e accettiamo la loro disponibilità a un ulteriore approfondimento del tema, qualora la Commissione ne dovesse ravvedere la necessità.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti del Coordinamento nazionale province montane.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame dei progetti di legge C. 67 Stucchi e abb. - semplificazione dell'ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative e Carta delle autonomie locali, l'audizione di rappresentanti del Coordinamento nazionale province montane.
Sono presenti l'ingegner Attilio Francesco Santellocco, coordinatore segretario, il dottor Mario Maisetti e l'ingegner Crescenzo Pratola, coordinatori. Do loro la parola.

ATTILIO FRANCESCO SANTELLOCCO, Rappresentante del Coordinamento nazionale province montane. Ringraziamo il presidente della Commissione per averci dato questa opportunità.
L'obiettivo del nostro intervento è quello di rappresentare in maniera sintetica le posizioni e le valutazioni del nostro coordinamento sul tema dell'indagine conoscitiva, con particolare attenzione agli aspetti legati alla governance dei territori montani, in ciò facendo diretto riferimento al disegno di legge governativo C. 3118, con richiamo alle proposte di legge C. 736 Mogherini Rebesani e C. 2062 Giovanelli, in quanto gli unici fra i progetti di legge abbinati a trattare in maniera organica il tema della riforma del sistema delle autonomie locali.
L'intervento si articolerà in due parti, di cui la prima sarà esposta dal dottor Maisetti e la seconda dal sottoscritto.

MARIO MAISETTI, Rappresentante del Coordinamento nazionale province montane. Pur condividendo le finalità e i princìpi generali del disegno di legge C. 3118, come di pressoché tutti gli altri progetti di legge in oggetto, perseguendo l'obiettivo di operare una semplificazione della sede istituzionale e un miglioramento complessivo dell'efficienza e dell'efficacia della pubblica amministrazione, insieme a una riduzione significativa dei costi associati, riteniamo che l'impianto complessivo del progetto di riforma presenti almeno due aree di intervento che andrebbero meglio e più efficacemente indirizzate.
La prima di tali aree è legata al non adeguato recepimento, in alcuni passaggi fondamentali del progetto di riforma, delle disposizioni dell'articolo 44 della Costituzione circa la peculiarità dei territori montani, mentre la seconda è riferibile alle limitazioni introdotte nel processo, pure previsto, di razionalizzazione delle circoscrizioni provinciali.
Con riferimento al primo punto, va notato che, in realtà, nel testo del disegno di legge richiamato non solo non si tiene debitamente conto della specificità e delle particolari esigenze delle aree montane in rapporto al processo di riassetto delle amministrazioni pubbliche a livello locale, ma che la montagna italiana viene, di fatto, praticamente ignorata.
Nell'articolato, infatti, non solo non esistono riferimenti all'articolo 44, secondo comma, della Costituzione italiana o al Trattato di Lisbona, in vigore dal 1o dicembre 2009, che individua nelle aree montane aree «che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici» caratterizzati da sovracosti strutturali permanenti, ma si delineano logiche


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che andrebbero ad accentuare ulteriormente il processo di marginalizzazione di tali aree, come, per esempio, il criterio introdotto dall'articolo 14 del disegno di legge relativo alla razionalizzazione delle circoscrizioni provinciali, basato esclusivamente sull'entità della popolazione residente, sull'estensione del territorio e sul rapporto tra popolazione ed estensione del territorio. In altre parole, si fa riferimento a una densità demografica che, come è a tutti evidente, va a penalizzare quasi esclusivamente i territori di montagna, la cui densità demografica è chiaramente molto inferiore rispetto alle realtà urbane con maggior antropizzazione. Quindi anziché introdurre meccanismi di rispetto e valorizzazioni di tale realtà, queste sono, dunque, ulteriormente penalizzate e marginalizzate.
Non intendiamo con ciò parlare di logiche discriminatorie, ma certo appare quantomeno opinabile e sicuramente poco lungimirante che si progetti una riforma che investe la totalità del territorio nazionale non considerando adeguatamente le caratteristiche e le esigenze di una consistente parte di esso. Il rischio che intravediamo è, sostanzialmente, quello di vanificare un'opportunità storica per un armonico, equilibrato ed efficace riassetto istituzionale e amministrativo del Paese, creando di fatto le premesse per dover necessariamente intervenire successivamente sulle numerose problematiche che riguardano i territori montani, che non interessano solo tali realtà, ma investono, con ricadute e riflessi negativi, l'intero sistema Paese. Anziché, quindi, intervenire in forma organica e strutturata, come sarebbe necessario e possibile nell'ambito del processo di riforma prospettato, si andrebbero a determinare le condizioni per dover intervenire con sequenze di mini-interventi successivi a margine, volti a gestire il malgestito e a far fronte a scenari di provocata emergenza.
Quando si parla di montagna è importante, e lo è tanto più quando si parla di montagna in relazione a una riforma dell'architettura e dell'assetto amministrativo dello Stato, definire con chiarezza il concetto di montanità; con riferimento a questo passaggio fondamentale, si ritiene senz'altro valida e applicabile l'ipotesi di classificazione dei territori montani elaborata dall'EIM, Ente italiano della montagna, basata su aggiornati criteri scientifici, che individua come montani i comuni situati per il 70 per cento della loro superficie al di sopra di 500 metri di altitudine sul livello del mare, ovvero quelli che abbiano almeno il 40 per cento della loro superficie al di sopra dei 500 metri sul livello del mare e nei quali il 30 per cento del territorio presenti una pendenza superiore al 20 per cento. Nelle regioni alpine il limite minimo di altitudine è di 600 metri.
La definizione di tale concetto, attraverso cui si arriva a individuare correttamente i cosiddetti «comuni montani» nell'ambito della riconosciuta complessità e diversità a livello strutturale, socioeconomico, demografico e via elencando della montagna italiana, costituisce il passaggio essenziale per arrivare all'introduzione e alla definizione del concetto di provincia di montagna, basato a sua volta su precisi parametri relativi all'indice di montanità, all'estensione territoriale, alla popolazione interessata, alla distribuzione e al numero delle municipalità ricomprese, al livello di integrazione nel tessuto economico e produttivo, nonché all'omogeneità sociale e culturale del territorio considerato.
Tale necessità deriva dal fatto che i contesti territoriali montani, caratterizzati da elevata complessità e articolazione interna, necessitano di un appropriato livello di governance attraverso cui poter sviluppare un'azione strutturata, integrata, continua e sostenibile, finalizzata a valorizzare le risorse territoriali e a cogliere le opportunità e potenzialità di sviluppo di cui essi sono portatori, e che concretamente contribuisca a superare la visione della montagna che la connota unicamente come territorio svantaggiato, incapace di progettare e attuare autonome politiche di coordinamento e coesione territoriale e di sviluppo sociale ed economico.
Il punto principale che si vuol sostanzialmente rimarcare è legato al fatto che,


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mentre le esigenze di piccole e circoscritte realtà montane possono trovare risposta in una determinata tipologia di interventi, quale l'introduzione di forme associative obbligatorie per le municipalità al di sotto di dimensioni demografiche territoriali minime, un'adozione di sistemi di perequazione volti a tutelare chi vive e lavora in montagna per contesti territoriali montani caratterizzati da quella complessità richiamata in precedenza, tali interventi non risultano essere del tutto adeguati o sono comunque insufficienti.
Una politica efficace per questo tipo di realtà si realizza solo assegnando a esse reale autonomia decisionale, finanziaria, politica e amministrativa, con la previsione e istituzione di un ente che abbia piena autonomia di governo e rappresentanza istituzionale nel territorio, in piena aderenza non solo alle disposizioni dell'articolo 44 della Costituzione, ma anche al principio fondamentale di autonomia dell'articolo 5 della medesima.
La previsione di un tale ente è basata sulla convinzione che, in termini di adeguatezza, funzioni e competenza, esso sia in grado di fornire risposte alle particolari esigenze di governo di tali realtà montane meglio di quanto possano farlo comunità montane, consorzi e agenzie varie, in forza, appunto, oltre che delle funzioni proprie, degli specifici compiti di programmazione e di coordinamento territoriale di gestione e di erogazione dei servizi in rete e di area vasta, che non potrebbero essere svolti in maniera altrettanto efficiente e a minor costo per la collettività né dai singoli comuni, né dalle regioni, né dagli altri enti intermedi citati precedentemente.
Affinché l'azione di tali province montane sia ancora più efficace, si ritiene, anzi, essenziale prevedere l'eliminazione delle numerose sovrapposizioni di ruoli e di competenze tra i diversi livelli di governo locale, facendo in modo che in un medesimo territorio si configuri, nel rispetto di quanto disposto dagli articoli 97 e 118 della Costituzione, un solo livello plurifunzionale per l'esercizio associato alle funzioni che i comuni non sono in grado di svolgere singolarmente, attraverso la soppressione di tutti gli enti intermedi (comunità montane, consorzi di bonifica, bacini imbriferi, e via elencando) fra i comuni e le regioni che insistono sul medesimo territorio, come sostanzialmente prospettato in tutti gli altri progetti di legge abbinati, e il conferimento delle loro funzioni alla sola provincia montana.
Tale specifico intervento di razionalizzazione e semplificazione, ispirato alla logica più generale di ricondurre in capo ai livelli istituzionali di cui all'articolo 114 della Costituzione funzioni e competenze oggi disperse fra una miriade di altri soggetti, oltre a comportare una riduzione dei costi della pubblica amministrazione, va a eliminare gli elementi di debolezza insiti nell'attuale articolazione autonomistica dello Stato e determinati da una proliferazione non controllata di enti e organismi intermedi, che, oltre a creare una congestione istituzionale sui singoli territori con ampie aree di sovrapposizione di ruoli e responsabilità, inducono inefficienza nell'uso delle risorse pubbliche, che risultano particolarmente critiche in territori montani, per i quali le risorse sono già di per sé limitate.
Gli interventi legislativi per la montagna italiana sono stati finora caratterizzati, anche dopo la legge 31 gennaio 1994, n. 97, da logiche assistenzialistiche e settoriali incapaci di garantire efficaci e sostenibili risorse alle problematiche che riguardano tali aree e di sostenere azioni sistemiche di sviluppo, determinando, al contrario, una significativa dispersione di risorse economiche e umane.
Noi riteniamo che oggi la montagna italiana abbia bisogno di un progetto complessivo coerente e innovativo, che preveda un effettivo trasferimento di poteri fiscali, amministrativi e decisionali nei territori montani per godere dello sfruttamento delle risorse locali e un modello di autogoverno capace di valorizzare le potenzialità economiche in piena sintonia con l'impianto federalista del progetto di riforma.
Ribadiamo, inoltre, la necessità che per aree territoriali montane strutturate e


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complesse, che potrebbero essere in grado di programmare e coordinare autonomamente progetti e politiche di sviluppo sostenibile, si arrivi a un nuovo modello di governance locale, basato su un unico ente (la provincia montana) intermedio tra comuni e regioni, con funzioni e competenze forti e potenziate, che, nel quadro del federalismo fiscale, possa contare su risorse certe, stabili e durature.
Solo se si avranno il coraggio e la capacità di operare una tale trasformazione nella logica degli interventi e della politica per la montagna si potranno creare le condizioni non solo per far uscire la montagna italiana dall'attuale condizione di marginalità, ma anche per consentire al sistema Italia di affrontare la sfida della competitività, potendo contare sulla risorsa della montagna, che rappresenta un giacimento tuttora inesplorato di potenzialità e ricchezza per l'economia e la collettività nazionale, troppo a lungo trascurato negli interventi di politica pubblica.

ATTILIO FRANCESCO SANTELLOCCO, Rappresentante del Coordinamento nazionale province montane. Passando alla seconda delle aree di miglioria inizialmente identificate, che, a nostro avviso, rappresenta una diretta conseguenza del profilo marginale e limitato della logica e della strategia con cui si è pensato di effettuare la revisione delle circoscrizioni provinciali, riteniamo indispensabile ampliare gli obiettivi dell'articolo 14 del disegno di legge C. 3118 richiamato precedentemente, prevedendo una fase di revisione su scala nazionale delle attuali circoscrizioni provinciali che poggi sull'identificazione di ambiti territoriali realmente omogenei.
Ciò anche al fine di favorire un equilibrato e armonico processo di attuazione dell'articolo 117, comma secondo, lettera p) della Costituzione in tema di individuazione e allocazione di funzioni fondamentali a comuni, province e regioni. Si tratta di ambiti territoriali omogenei che, ovviamente, dovranno essere dimensionati, sulla base di quanto si osservava nel precedente intervento, in modo differenziato in rapporto ai differenti contesti socioeconomici considerati e caratterizzati dall'esistenza di forti rapporti interni di carattere socioculturale, nonché da una forte integrazione e omogeneità del tessuto economico e produttivo.
Tale intervento di revisione delle circoscrizioni provinciali, nell'ambito del quale recepire le proposte di riforma avanzate per contesti territoriali montani, ha, inoltre, a nostro avviso, una valenza di carattere assolutamente strategico, in quanto consentirebbe di rendere pienamente coerente e armonica l'introduzione del federalismo istituzionale con quello fiscale. Tale coerenza rappresenta la condizione indispensabile per garantire la sostenibilità e l'efficacia del federalismo sia in termini generali, sia in rapporto alle logiche della sua attuazione per contesti territoriali montani, come d'altronde delineato in maniera molto chiara agli articoli 11, 13, 16 e 22 della legge 5 maggio 2009, n. 42 sul federalismo fiscale, in cui vengono espressamente richiamati i princìpi di adeguatezza delle dimensioni demografiche territoriali degli enti locali per l'ottimale svolgimento delle rispettive funzioni e per la salvaguardia delle peculiarità territoriali. Vengono richiamati i criteri di perequazione, che per i territori montani dovranno tener conto sia degli obiettivi di compensazione della minore capacità fiscale, sia del maggior costo per l'erogazione dei servizi in tali contesti territoriali. Per ultimo, nella specificità della citata legge sul federalismo fiscale, con cui bisogna assolutamente assicurare una piena coerenza, viene richiamata la specificità dei territori montani in rapporto agli interventi finalizzati al recupero del deficit infrastrutturale e alla promozione dello sviluppo economico e sociale in tali aree.
Quello della revisione delle circoscrizioni provinciali su scala nazionale è un passaggio previsto, d'altronde, in tutti i precedenti progetti di riforma, anche nelle precedenti legislature, dalla XIII all'attuale, tanto al Senato, tanto alla Camera,


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con progetti e disegni di legge presentati da esponenti di entrambi gli schieramenti politici.
In particolare, con riferimento alla Camera richiamavamo prima le proposte di legge C. 2062 e 736, il cui esame è collegato al disegno di legge C. 3118, nei quali questo processo di revisione è più ampio ed è chiaramente delineato e previsto. Il disegno di legge C. 3118, a nostro avviso, dovrebbe essere ampliato in tal senso.
Al fine di recepire le indicazioni e i princìpi esposti precedentemente in entrambi i nostri interventi e riconducibili sostanzialmente alla previsione delle province montane e al processo di revisione su scala nazionale delle circoscrizioni provinciali, sono state formulate alcune proposte emendative, riportate in calce al nostro intervento scritto, che abbiamo trasmesso alla Presidenza, volte a introdurre riferimenti utili all'individuazione di appropriate, efficaci ed efficienti forme di governo dei territori montani, che, all'interno di una corretta visione autonomista e federalista di riforma dello Stato, siano, per rappresentatività e autorevolezza, in grado di garantire per tali territori la sostenibilità istituzionale del federalismo fiscale.
Chiediamo, dunque, che si garantiscano le due ipotesi di revisione che abbiamo formulato, ossia una riduzione dei costi dell'apparato amministrativo pubblico a livello locale e una programmazione, progettazione, coordinamento e realizzazione di interventi a livello socioeconomico e infrastrutturale, oltre a una pianificazione di governo di area vasta e a un'efficiente erogazione di servizi pubblici a rete.
Gli articoli principali, che richiamo, interessati dagli emendamenti che sottoponiamo all'attenzione della Commissione sono l'articolo 3, in cui vengono individuate le funzioni e le attribuzioni aggiuntive per le province montane e l'articolo 14, in cui introduciamo opportuni criteri di flessibilità normativa applicabili, nel caso dei contesti territoriali montani, a rendere coerente tale processo con quello già previsto per le aree metropolitane. Tale intervento consente di adattare l'apparato amministrativo pubblico alle diverse realtà territoriali per rispondere in maniera più efficiente ed economicamente sostenibile alle reali e differenziate esigenze delle popolazioni interessate.
Da ultimo, nell'articolo 17 si introducono e vengono ripresi i parametri identificati dall'EIM, l'Ente italiano della montagna, e gli altri che abbiamo anticipato per la corretta identificazione dei contesti territoriali montani.
Per concludere, riteniamo che il processo di riforma che si sta avviando, finalizzato alla modernizzazione delle istituzioni e a rendere più efficiente e funzionale l'organizzazione dello Stato, possa rappresentare, insieme all'affermazione del principio di responsabilità degli amministratori pubblici e all'effettività del controllo democratico da parte dei cittadini, un momento storico fondamentale per contribuire a dare risposte efficaci a livello strutturale alle problematiche di carattere politico, sociale, economico e istituzionale attuali, ma anche e soprattutto a quelle con cui si dovranno confrontare le future generazioni, di cui fanno parte anche quelle dei territori montani, che né il Governo, né il Parlamento possono trascurare in questa delicata fase di riforme di trasformazione del Paese.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MANUELA DAL LAGO. Signor presidente, volevo ringraziare i nostri ospiti, anche per la relazione scritta, lunga e corposa, che hanno consegnato e che mi riservo di leggere con attenzione.
Volevo porre una domanda. Se ho ben inteso, la vostra proposta complessiva è quella di creare le province montane, eliminando le comunità montane. Collegato al discorso delle province montane, parlate di federalismo fiscale. Mi sembra di aver compreso che sostenete inoltre la necessità di una perequazione, perché, per quel poco che conosco la montagna, visto che anche io arrivo da una provincia


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notevolmente montuosa, da sole le aree montane difficilmente hanno la possibilità di autosostenersi. Non l'hanno da un punto di vista economico, né organizzativo, perché normalmente il numero di abitanti è molto basso rispetto alla generalità. Chiedete, quindi, che le circoscrizioni provinciali siano riviste e parlate di ambiti territoriali omogenei. Vorrei rilevare che tra le altre questioni, nel Codice delle autonomie locali si parla di rivedere le circoscrizioni provinciali in ambiti omogenei.
La domanda che volevo porre è la seguente: ritenete effettivamente che creare le province montane corrisponda a promuovere lo sviluppo della montagna? Non si corre, invece, il rischio che, in un'ipotesi di questo genere, con una fiscalità quasi sicuramente ridotta per la maggior parte delle aree montane, che avrebbe quindi bisogno di perequazione - una perequazione, però, come giustamente sostiene il federalismo fiscale, non continuamente aggiuntiva, ma solo tesa a garantire i livelli essenziali - possa effettivamente produrre un rilancio dell'economia montana?
Ritenete, inoltre, che il problema vero della montagna sia avere province montane e non, invece, in un ambito e in un contesto più ampi, conferire maggiore autonomia agli enti oggi già esistenti, che possono maggiormente incidere sullo sviluppo della montagna?
Non ho capito bene la vostra proposta, nel senso che non vedo dove siano garantiti lo sviluppo e il miglioramento auspicati.

GIANCLAUDIO BRESSA. Personalmente ho apprezzato molto, anche se porrò alcune domande per avere chiarimenti, l'approccio che ci è stato illustrato dai rappresentanti del Coordinamento nazionale province montane.
Per quanto mi riguarda, ho cominciato a parlare di provincia montana già negli anni Settanta, provenendo da una provincia particolare, quale quella di Belluno, che si trova in mezzo a realtà di autonomia speciale. Nella passata legislatura - non ricordo se l'ho firmata anch'io, ma comunque l'ho scritta - presentammo una proposta per condizioni particolari di autonomia per la provincia di Belluno, alla quale poi si agganciarono anche Sondrio, Cuneo e altre province.
Il concetto era, sostanzialmente, il seguente: si cercava di intravedere l'istituzione di una provincia montana e di agganciare tale scelta al terzo comma dell'articolo 116 della Costituzione, forme e condizioni particolari di autonomia.
È vero ciò che sostiene la collega Dal Lago, ma si tratta di capire che tipo di autonomia attribuiamo ai territori montani. Se diamo loro la possibilità di trattenere, non con le percentuali di Trento e Bolzano, ma anche con percentuali inferiori, la metà o il 60 per cento di quanto viene prodotto in termini di ricchezza, si può stare tranquilli che i soldi per le funzioni peculiari di una provincia montana ci sono e anche in abbondanza.
Si tratta, quindi, di capire il tipo di approccio istituzionale che si vuole dare o meno e se si vuole riconoscere alla dimensione della montagna una particolarità che fino adesso, nel corso dei decenni della Repubblica, è sempre stata negletta.
Volevo capire, sulla base dei parametri che voi avete individuato, quali sarebbero le province interamente montane e, per quelle che, invece, non lo sono interamente, come per esempio la provincia di Vicenza, che ha però una parte non piccola di montagna, quale sarebbe la questione della gestione delle politiche della montagna. Come pensate voi che tale problema possa essere risolto?
La terza e ultima domanda è la seguente: nelle province interamente montane, quale rapporto intravedete tra la provincia e i comuni o alcuni consorzi esistenti, che, in alcuni casi, possono essere vere «scemenze» istituzionali, ma in altri gestiscono da decenni servizi molto importanti per la montagna stessa?

PRESIDENTE. Do la parola ai rappresentanti del Coordinamento nazionale province montane per la replica.


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ATTILIO FRANCESCO SANTELLOCCO, Rappresentante del Coordinamento nazionale province montane. Credo che la risposta che si possa dare sia comune, perché i temi posti sono assolutamente identici. Tutto passa nella definizione di provincia montana.
È ovvio, come osservava l'onorevole Dal Lago, che tale concetto non è applicabile per piccole, circoscritte realtà montane, dove non esiste proprio la possibilità di sviluppare autonomamente politiche di crescita, di coordinamento e di progettazione e, quindi, di creare dal basso sviluppo e crescita.
Le province montane si caratterizzano per un'articolazione, una complessità e una struttura interna che fanno sì che di provincia montana parliamo con riferimento; esiste uno studio, che l'ingegner Pratola potrà esporre, secondo cui le province montane sono quelle da lei citate.
Dallo studio svolto mettendo insieme i parametri EIM e quelli che noi abbiamo definito in termini di numero di municipalità, abitanti, presenti, distanza dei capoluoghi precedenti, abbiamo Sondrio, Belluno, Verbano-Cusio-Ossola, Rieti, Isernia, Potenza, tutte province già esistenti. Si tratta soltanto di riconoscere le forme di autonomia particolare a cui facevamo riferimento prima, ossia funzioni di carattere amministrativo, decisionale e fiscale, che vanno riconosciute a queste realtà, molte delle quali hanno a che fare con la realtà di autonomie particolari, soprattutto nel nord. A queste sei province montane già di fatto presenti sul territorio si sommerebbero soltanto altre tre realtà: Val Camonica, una realtà molto complessa, la Marsica - parliamo del 25 per cento, un quarto dell'intera regione Abruzzo - e Ufita-Baronia-Calore-Alta Irpinia. Queste sono le realtà che sono state estrapolate e identificate sulla base della simulazione. In effetti, quindi, si tratta di riconoscere ciò che, di fatto, è già presente.
Per quanto riguarda le politiche di perequazione, è chiaro che tali realtà montane dovranno beneficiarne; d'altronde, sono già previste nella legge per il federalismo fiscale. Non riteniamo, però, che oggi per la montagna italiana si possa perpetuare una politica che, da decenni, anche a seguito della legge n. 97 del 1994, ha creato logiche di assistenzialismo, se non di sussistenza, ha comportato un enorme dispendio di risorse pubbliche economiche, non ha prodotto alcuno dei benefici attesi e non ha creato le condizioni strutturali per lo sviluppo di queste realtà particolari. Noi non riteniamo che si possa continuare a perseguire questa logica, ma che le realtà che ho citato abbiano bisogno di un reale trasferimento di poteri decisionali, fiscali e amministrativi per mettere in moto in maniera autonoma alcune politiche di crescita e di sviluppo.
Oggi la montagna italiana non chiede più assistenzialismo, briciole di spesa pubblica, finanziamenti a pioggia, interventi speciali, assistenza per il primo figlio, assistenza, benefici e incentivi per comprare la nafta agricola. Non sono questi gli interventi di cui la montagna italiana ha bisogno. Spero che sia risultato chiaro che nella realtà montane che presentano una tale complessità vogliamo creare dal basso politiche di sviluppo e di crescita in maniera autonoma. Vogliamo decidere sul futuro nostro e su quello delle nostre future generazioni.

CRESCENZO PRATOLA, Rappresentante del Coordinamento nazionale province montane. Voglio parlare dello studio che è stato eseguito per arrivare alle considerazioni esposte dal collega Santellocco. Ovviamente, si tratta di una simulazione effettuata da noi, che dovrà essere ulteriormente approfondita. Abbiamo basato i nostri risultati in considerazione degli elementi fondamentali che riteniamo debbano esserci per l'istituzione della provincia montana o delle province già esistenti che verrebbero ad assumere il ruolo di provincia montana.
Il collega faceva riferimento alle province. Ho verificato che quella di Sondrio comprende 78 comuni e conta una popolazione di 182 mila abitanti, quella di Belluno un numero di comuni pari a 69 e una popolazione di 214 mila abitanti,


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quella di Verbano-Cusio-Ossola un numero di comuni pari a 77 e una popolazione di 163 mila abitanti.
Per passare poi alle altre tre province del centro sud, Rieti comprende 78 comuni e una popolazione di 160 mila abitanti, Isernia un numero di comuni pari a 52 e una popolazione di 88 mila abitanti e, infine, vi è Potenza.
Queste realtà, che già esistono, rientrano nello schema che stiamo immaginando per la costruzione della provincia montana, perché, quando stabiliamo che la popolazione per l'istituzione della provincia montana debba essere almeno pari a 100 mila abitanti, comprendere un numero di comuni almeno pari a 30 e una superficie pari almeno a 1.500 chilometri quadrati, ci rendiamo conto che non abbiamo fatto altro che raggruppare ed eliminare una serie di iniziative, consorzi, comunità montane, consorzi di bacino, consorzi idrici, che, invece, vengono a sovrapporsi nella stessa provincia.
Passando alle realtà che rappresentiamo, esistono proposte in merito alle istituzioni delle province. Ce ne sono per la provincia della Marsica, della Val Camonica, dell'Ufita-Baronia-Calore-Alta Irpinia. In tutte queste realtà, i comuni che si mettono insieme sono pari, nel caso della Marsica, a 37, con una popolazione di 140 mila abitanti, nel caso della Val Camonica, a 41, con una popolazione di 118 mila abitanti, nel caso dell'Ufita-Baronia-Calore-Alta Irpinia, a 43, con una popolazione di 132 mila abitanti, per una superficie territoriale pari a oltre 1.200 chilometri quadrati.
Ciò significa che, quando si vengono a concretizzare tali realtà, gli stessi comuni non hanno la necessità di continuare ad appartenere a una provincia e contemporaneamente a una comunità montana, a un consorzio o ad altri enti esistenti sul territorio.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti dell'Unione nazionale comuni comunità enti montani (UNCEM).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame dei progetti di legge C. 67 Stucchi e abb. - semplificazione dell'ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative e Carta delle autonomie locali, l'audizione di rappresentanti dell'Unione nazionale comuni comunità enti montani (UNCEM).
Ringraziamo della loro presenza il presidente, Enrico Borghi e il dottor Andrea Cirillo, vicepresidente vicario.

ENRICO BORGHI, Rappresentante dell'UNCEM. Signor presidente, vorrei ringraziare sentitamente il presidente della Commissione affari costituzionali e tutta la Commissione di questa occasione, che noi giudichiamo importante e significativa, di poter esporre le nostre posizioni e tesi e, quindi, affermare come non condividiamo una posizione espressa da una parte significativa del sistema della rappresentanza delle autonomie locali, che, nella circostanza, ha deciso di non partecipare a quest'audizione. Riteniamo, in linea generale, che il Parlamento sia la sede competente e opportuna nella quale discutere e proporre le nostre tesi e che, nello specifico, ci sia bisogno, al contrario, di una discussione di merito molto forte e serrata, proprio perché le questioni che sono oggi oggetto di discussione necessitano di momenti di concertazione e approfondimento.
Svolta questa osservazione preliminare, che per noi assume un valore non soltanto di metodo, ma anche di merito, entriamo nello specifico della posizione che la nostra associazione, la quale raggruppa tutte le comunità montane e la stragrande parte dei comuni montani nel nostro Paese, intende sottoporre.
Vorremmo innanzitutto sottolineare come il disegno di legge cosiddetto «Carta delle autonomie locali» manchi di una


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visione complessiva. A noi pare, più che altro, una somma di diverse impostazioni e che su un punto specifico, quello della definizione del sistema di governance di una parte significativa come quella del territorio montano del nostro Paese, sia vittima di alcune posizioni che definirei schizofreniche.
Del resto, è storia di questi mesi che su tale tema ci sia stata una produzione legislativa serrata e spesso contraddittoria, nonché diversi pronunciamenti della Corte costituzionale in ordine alle competenze delle regioni, che in alcuni punti hanno anche obbligato il Governo a dover fare retromarcia rispetto ad alcune visioni originarie. Mi riferisco al testo, poi convertito in legge, del decreto-legge n. 2 del 2010, che è stato emendato in funzione delle sentenze della Corte costituzionale.
Noi crediamo che, rispetto a questo tema, occorra riprendere una visione di insieme, anche perché francamente non condividiamo la filosofia che è stata inserita all'interno del citato decreto-legge n. 2 del 2010, che risolve il problema della governance locale all'insegna di un taglio e di una cosiddetta razionalizzazione.
Il punto, a nostro avviso, è esattamente l'opposto, ossia la necessità di mettere al centro, in base al principio di sussidiarietà, adeguatezza e differenziazione, il comune come entità fondamentale di costruzione del meccanismo di governance del nostro Paese e discutere attorno al ruolo, alla funzione, alla natura del livello della municipalità, arrivando soltanto alla fine a una discussione dal punto di vista della determinazione degli organi e dei livelli di governo.
Partendo da questo ragionamento, per quanto attiene alla questione che riteniamo fondamentale - scusate il bisticcio di parole - cioè la determinazione delle funzioni fondamentali, vorremmo sottolineare come non figuri tra quelle comunali il tema della promozione dello sviluppo socioeconomico in ambito locale.
Per noi questo è un elemento assolutamente fondamentale. Privare i comuni di una competenza come quella dello sviluppo socioeconomico del proprio territorio di riferimento significa modificare strutturalmente la natura dell'ente comune in quanto tale.
Su questo punto occorre che il legislatore sia coerente rispetto alla natura dell'ente comune e, in maniera particolare, dei piccoli comuni. A che cosa pensiamo nel riordino della democrazia locale del nostro Paese? Pensiamo a un comune che sia quello descritto dalla Costituzione all'articolo 114, cioè equiordinato rispetto a tutti gli altri livelli di governo e quindi, in questo senso, con un compito universale e generalista, oppure a un soggetto esclusivamente erogatore di alcuni livelli di servizio e di funzioni?
Appare di tutta evidenza che, se la funzione fondamentale dello sviluppo socioeconomico, cioè della crescita, dell'occupazione, della programmazione, degli investimenti, non è più afferente alla responsabilità del livello di governo comune, avendola trasferita altrove, cambia strutturalmente la natura e la soggettività di tale ente e, di conseguenza, si modificano anche le forme con le quali è presente sul territorio. È di tutta evidenza che, se un ente esiste non più in funzione di una rappresentazione di una soggettività propria di una determinata collettività, ma esclusivamente sulla base dell'erogazione di servizi e di funzioni, il proprio ambito si modifica, la propria governance può tranquillamente essere definita in maniera diversa, ma esce in qualche misura dall'alveo della rappresentanza per entrare in quello della tecnocrazia.
In merito occorre un dibattito molto più consistente, perché anche all'interno del sistema delle autonomie locali è in atto una discussione. Ci siamo confrontati con ANCI e UPI e, per esempio, su questo punto la proposta-risposta che ci è arrivata è che si potrebbe introdurre una soglia demografica al di sotto della quale il comune non ha più la titolarità allo sviluppo socioeconomico, come se esistessero un livello di serie A e uno di serie B, sulla base del quale alcuni comuni possono programmare lo sviluppo - realizzare le aree industriali, intervenire nei processi di riallocazione delle concessioni


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idroelettriche, tanto per proporre alcuni riferimenti molto concreti - e altri, invece, si debbono mettere in fila e non si capisce bene a quale livello chiedere di poter essere auditi e successivamente trovare i loro portavoce. Stiamo parlando, però, di questioni assolutamente fondamentali e centrali.
Vorrei solo riportare un esempio. Quest'anno stanno per essere ridiscusse alcune significative concessioni idroelettriche nel territorio delle Alpi: se passasse un disegno di legge di questa natura, tali comuni non avrebbero più alcuna potestà per poter intervenire nel merito della discussione sulla riallocazione di partite così significative e importanti.
Noi, al contrario, crediamo che il tema dello sviluppo socioeconomico sia da inserire tra le funzioni fondamentali dell'ente comune. Da qui discende la discussione sul livello ottimale attraverso il quale sia possibile attribuire tale genere di funzione.
In proposito abbiamo una proposta che tiene insieme quello che, dal nostro punto di vista, è l'elemento fondamentale: mi riferisco al tema del mantenimento, all'interno della Carta delle autonomie locali, di una specificità, peraltro contemplata e garantita da un articolo della Costituzione, ossia l'articolo 44, il quale prevede che la legge disponga provvedimenti per le zone montane e contemporaneamente venga incontro alla necessità di un'aggregazione dei livelli municipali che, soprattutto nei territori montani, sono caratterizzati da una forte polverizzazione.
Rispetto a questo tema, la nostra proposta è che nella Carta delle autonomie locali - che peraltro noi pensiamo come normativa generale, di princìpi e non come strumento normativo di dettaglio nel rispetto delle prerogative statutarie degli enti locali - ci sia la previsione di un unico livello sovracomunale obbligatorio per una serie determinata di funzioni fondamentali: le funzioni fondamentali spettano al comune sulla base del principio di sussidiarietà, poi scattano l'adeguatezza e la differenziazione. Per noi non è uno scandalo, anzi, è un elemento per risolvere il noto problema della pletora di enti, società, organismi, consorzi che governano, presidiano e spesso si affastellano sul livello sovracomunale.
Crediamo che poter prevedere un unico livello sovracomunale obbligatorio per determinate funzioni, che contenga al proprio interno per le aree montane anche la previsione costituzionale di specificità, tutela, salvaguardia e sviluppo delle zone montane, sia un modo per evitare la schizofrenia cui facevamo riferimento in precedenza e compiere un passo in avanti dal punto di vista dell'efficienza del sistema.
Se così non fosse, allora si porrebbe il tema della ridiscussione delle circoscrizioni comunali, nel qual caso crediamo che il legislatore debba porre con chiarezza e con conseguenza tale questione. Oggi in Italia si pensa che il dimensionamento municipale, così come è storicamente portato, sia insufficiente o sia un cascame del passato? Se così è, bisogna dirlo e imboccare una strada di tipo diverso, che porta a conseguenze anche molto chiare sotto il profilo della rappresentanza e della riorganizzazione.
Noi crediamo che sia possibile mantenere il livello comunale così come esso è, affidando naturalmente alla libera discrezionalità delle collettività locali i processi di fusione, e creare un livello funzionale sovracomunale in grado di assicurare e garantire lo sviluppo socioeconomico del territorio e la capacità di erogazione di servizi efficienti nei confronti della platea di riferimento.
Siamo pronti a un confronto di merito per giungere a un'equilibrata logica di sistema, partendo anche dal lavoro che sin qui è stato svolto e che ha portato alla significativa riorganizzazione funzionale e operativa delle comunità montane effettuata da 13 regioni a statuto ordinario su 15 nel 2008. Questo processo non nasce dal nulla; non stiamo parlando di una palingenesi, come Minerva che nasce dalla testa di Giove. In realtà, sul territorio si sta lavorando da tempo per


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cercare di incardinare, nel rispetto delle specificità territoriali, una risposta a questi temi.
È evidente, inoltre, che, se discutiamo di piccoli comuni, il piccolo comune in Piemonte è profondamente diverso da quello in Sicilia, dal punto di vista della dimensione, dell'organizzazione, nonché della strutturazione della propria macchina burocratica. Pensare a un'articolazione di competenze regionali in questo senso significa anche riuscire a tarare meglio la capacità di risposta, senza immaginare una legislazione nazionale che omogenei situazioni che, allo stato, non sono omogenee.
Noi crediamo che si possa partire dall'esperienza compiuta per poter introdurre alcune modifiche al testo del disegno di legge che, quindi, non è da noi evidentemente accettato nel testo attuale. In questo senso, c'è stata una specifica espressione del nostro congresso nazionale, che si è tenuto a Trento nel mese di febbraio di quest'anno, e consegniamo agli atti anche l'ordine del giorno che riassume queste nostre posizioni.
Nel concludere quest'illustrazione e nel rimanere a disposizione della Commissione per eventuali delucidazioni, ribadiamo il tema dell'unico livello associativo sovracomunale obbligatorio riconosciuto come ente locale, che abbia nelle aree montane la funzione fondamentale dello sviluppo economico e sociale e della gestione del territorio e, di conseguenza, chiediamo di modificare l'impianto del provvedimento secondo le indicazioni esposte.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa l'audizione.
A questo punto, colleghi, l'ordine del giorno prevedeva l'audizione in successione dei rappresentanti dell'UPI e dell'ANCI che, a seguito della lettera dei presidenti di quelle due organizzazioni, scritta congiuntamente al presidente della Conferenza delle Regioni e delle province autonome di cui ho dato comunicazione in precedenza non sono presenti. Passiamo, quindi al punto successivo.

Audizione di rappresentanti della Lega delle autonomie locali.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame dei progetti di legge C. 67 Stucchi e abb. - semplificazione dell'ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative e Carta delle autonomie locali, l'audizione di rappresentanti della Lega delle autonomie locali.
Do la parola a Ilaria Bugetti, sindaco del comune di Cantagallo.

ILARIA BUGETTI, Rappresentante della Lega delle autonomie locali. Vi ringraziamo per l'opportunità che ci avete dato con questa audizione. La Lega delle autonomie ha il piacere di consegnare alla presidenza un documento che abbiamo realizzato insieme all'UNCEM per quanto riguarda la Carta delle autonomie locali. Riteniamo che questa sia una straordinaria occasione per dare uno slancio al federalismo.
La situazione attuale per i comuni è diventata molto critica. Io rappresento anche un piccolo comune montano, di cui sono sindaco, e, quindi, mi preme sottolineare questo aspetto, perché idealmente rappresento tutte le piccole realtà montane che oggi vivono la difficoltà della morsa della crisi economica e della criticità dei servizi sociali, a cui dobbiamo garantire risposte adeguate.
Il nostro documento parte da una riflessione legata all'attuazione del Titolo V della parte seconda della Costituzione, che, a nostro avviso, deve procedere insieme alla riforma del federalismo e a quella della Carta delle autonomie locali. Riteniamo che sia un argomento molto serio e importante e che non si possa prescindere dal tenere una discussione a livello parlamentare, in un confronto con tutti gli enti chiamati in causa.
È una riforma per la quale dobbiamo scegliere tra due strade. Se continuiamo con gli atti che questo Governo fino a oggi ha messo in campo, rischiamo di uscire da


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questa compagine in maniera veramente tragica. Invece, secondo noi, si tratta di un'opportunità grande e importante, che deve metterci tutti insieme per riflettere su quello che vogliamo fare di questo Paese; a seconda di come sceglieremo di riformarci, saremo vincenti o perdenti anche nel sistema della crisi economica e nell'affrontare le questioni della modernità e del futuro del Paese.
I piccoli comuni, quelli montani e anche quelli medi sono oggi un presidio fondamentale per la democrazia e per le risposte che i cittadini ci chiedono. Siamo tutti i giorni in trincea per cercare di dare risposte.
Il Patto di stabilità è stato il primo elemento che ci ha creato grossi problemi, anche per i comuni che non l'hanno ma che lo vivono indirettamente, perché non riescono ad avere fondi dagli enti superiori, dalle province o anche per collegamenti e convenzioni con enti più grandi. Già questo è un elemento critico per noi.
Riteniamo, quindi, che prima di tutto si debbano affermare l'autonomia e la dignità di tutti gli enti, un elemento dal quale non si può prescindere per prendere in mano qualsiasi riforma si voglia attuare. Senza la cultura dell'autonomia degli enti locali non possiamo varare nessuna riforma.
Insieme a questo punto, ci preme sottolineare alcune questioni importanti. Dobbiamo principalmente pensare ai princìpi, ribaditi anche negli articoli 117 e 118 della Costituzione, della sussidiarietà, dell'adeguatezza e della differenziazione. Sussidiarietà vuol dire, per noi comuni piccoli e medi, avere le giuste garanzie da parte delle regioni o dello Stato per poter esercitare le nostre funzioni. Cito anche l'elemento del livello minimo di servizio che dobbiamo garantire e che dobbiamo concordare insieme, perché, senza di esso, non possiamo essere messi in grado di avere funzioni certe, in quanto non abbiamo certezza di finanziamenti.
Siamo disposti a valutare la riforma dei comuni e degli enti pubblici. Uno dei punti importanti, per quanto riguarda i comuni, è quello principale dell'associazione dei servizi, che noi riteniamo obbligatorio. In alcuni casi, comuni come il mio stanno già provvedendo all'attuazione dei servizi associati: noi ne abbiamo ben 15, ma nella regione Toscana di tratta di un sistema che abbiamo adottato già da anni. La regione ci ha creduto, vi ha stanziato alcune risorse e ciò fa sì che si sia ottenuta un'economicità e una qualità dei servizi molto alta.
Contestiamo, invece, il fatto che spesso, quando si parla di piccoli o medi comuni, si prende come criterio solo quello della popolazione, mentre dobbiamo valorizzare anche altri criteri importanti. Penso principalmente al territorio, perché spesso i piccoli e medi comuni, ancorché montani, sono molto grandi ed estesi territorialmente e hanno l'incapacità di avere risorse per gestire i propri territori. Quello della popolazione non può essere, dunque, l'unico criterio da prendere in esame; dobbiamo considerarne altri.
A questo proposito, vorrei fare un inciso. La legge regionale 27 luglio 2004, n. 39, della regione Toscana è un bell'esempio di come si deve trattare un ente pubblico. In questa legge, la regione Toscana ha compilato un elenco di piccoli comuni in situazione di disagio, prendendo a riferimento alcuni criteri: l'incidenza della popolazione anziana, della popolazione giovanile e delle politiche sociali, il reddito dei cittadini, la montanità del territorio. Questo esempio deve essere un fondamento per tutti noi, perché dobbiamo valutare che ci sono 6 mila comuni in Italia che arrivano a 5 mila abitanti e che rappresentano un asse portante di tutto il Paese. Senza una struttura vera per questi comuni salta tutto il sistema. Soprattutto per quanto riguarda la difesa del suolo, le ultime vicende ci mostrano che, se non riusciamo a garantire nella montagna il sistema di difesa del suolo e dell'assetto idrogeologico, che sicuramente ha risvolti anche in pianura, i disastri aumenteranno.
L'altra questione che mi preme sottolineare riguarda la democrazia e le funzioni fondamentali dei comuni. Contestiamo il fatto che spesso la questione dei


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costi della politica e di questi enti viene semplicemente liquidata come un costo, come una situazione di emergenza, nella sola logica del risparmio, mentre si tralascia un elemento fondamentale, quello della democrazia e della funzione di questi piccoli enti.
Si riduce il numero dei consiglieri comunali e degli assessori: va tutto bene, però questo non è un costo della politica, perché a fianco dobbiamo considerare la funzione democratica che tutte queste persone svolgono. Un gettone di presenza in un comune medio-grande è di 17 euro e un assessore percepisce 150 euro al mese: è un'attività di volontariato, ma queste persone si incontrano, parlano e svolgono una funzione civica di democrazia con una grande quantità di cittadini, il che è fondamentale per la partecipazione attiva di questo Paese e per migliorare la qualità di vita dei cittadini stessi.
Dobbiamo, quindi, sederci a un tavolo, perché i criteri fondamentali non possono essere quelli dell'emergenza, dei costi della politica e del risparmio. Il nostro obiettivo deve essere quello di varare una riforma che duri tanti anni, che sia seria e che preveda uno zoccolo duro. Non si può lasciare ai piccoli comuni o agli enti la libera scelta: dobbiamo dare alcuni punti fermi, ma lo Stato e le regioni devono essere messi in condizione, insieme ai comuni, di riformare in maniera vera e seria tutto il sistema.
Riteniamo che la Carta delle autonomie locali sia fondamentale in questo e, quindi, anche la nostra posizione sul difensore civico e sulle funzioni fondamentali del comune è ben chiara e descritta nel nostro documento. Per esempio, per quanto riguarda l'urbanistica, abbiamo bisogno di avere certezze su che cosa significhi questo termine. Certo non vogliamo lasciare che i comuni continuino a programmare i propri bilanci prevedendo solamente gli oneri di urbanizzazione come unica fonte di entrata, perché rischiamo drammaticamente di attuare uno sfruttamento del territorio ingiusto ed eticamente non corretto. Le certezze che dobbiamo avere, quindi, sono altre.
Mi preme sottolineare che anche le comunità montane per noi rappresentano un elemento fondamentale. Devono essere riformate. Le regioni possono e devono svolgere un ruolo importante in questo senso e devono diventare la gestione dei servizi associati per i piccoli e medi comuni e, quindi, individuare ambiti territoriali ottimali. Questa è la logica su cui dobbiamo lavorare, sugli ambiti territoriali ottimali. Non si possono aggregare comuni che geograficamente non hanno nulla a che spartire, ma si deve considerare, in una logica di adeguatezza, l'ambito territoriale ottimale, che prendiamo in considerazione anche per quanto riguarda le comunità montane.
Abbiamo subito una drammatica e drastica riduzione dei fondi, che concretamente è ricaduta sui comuni, nel senso che non abbiamo più fondi per la difesa del suolo, per la bonifica di fiumi e per i movimenti franosi che avvengono sui territori. Questi sono elementi concreti a cui non abbiamo più risposta.
Dobbiamo avere, a questo punto, un'altra risorsa. È vero che il 30 per cento di tali fondi sono stati resi ai comuni, ma la somma resta troppo piccola per poter fronteggiare la complessità di questi problemi.
Chiediamo di poter svolgere la nostra funzione in maniera adeguata, dignitosa e civile, partendo subito con una riforma seria e con una discussione approfondita.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti e formulare osservazioni.

RAFFAELE VOLPI. Intervengo semplicemente per ringraziare i rappresentanti della Lega delle autonomie locali della loro presenza all'audizione. Credo che, a prescindere dai commenti contingenti che svolgiamo al momento della discussione, questo sia l'esempio di come non ci si sottragga strumentalmente alle discussioni di questo genere.

LINDA LANZILLOTTA. Anch'io mi associo ai ringraziamenti.


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Volevo formulare una domanda, perché è una questione su cui ho avuto modo di pormi delle questioni. In particolare, mi interessa il rapporto funzionale di tutela e interventi sul territorio tra le comunità montane e i consorzi di bonifica, che incassano diritti dai cittadini che operano in tali territori.
Poiché credo che uno dei problemi di raccordo tra i diversi interventi sia quello di consolidare le risorse esistenti sul territorio, dal momento che siamo in una fase di finanza pubblica molto complessa, volevo capire, partendo anche dal punto di vista dell'esperienza della regione Toscana da cui lei proviene e che è una regione in quest'ambito particolarmente avanzata, se esiste una riflessione e come si valuta la questione. Si tratta di uno dei problemi della proliferazione di soggetti che operano nello stesso ambito funzionale con flussi di risorse pubbliche, perché comunque si tratta di contribuenti. Mi interessa sapere se esiste un modo di ottimizzare queste diverse realtà proprio sulla materia principe dei piccoli comuni, cioè la tutela e la salvaguardia del territorio.

PRESIDENTE. Do la parola ai rappresentanti della Lega della autonomie locali per la loro replica.

ILARIA BUGETTI, Rappresentante della Lega delle autonomie locali. La regione Toscana sta già compiendo una razionalizzazione in questo senso. Abbiamo diminuito i consorzi di bonifica e abbiamo chiesto, fra l'altro, che venissero prevalentemente affidati alle comunità montane, quindi inglobati nel sistema delle comunità montane.
Ricordo che la tassa che i cittadini pagano per il consorzio di bonifica è di circa 20 euro a famiglia all'anno, che incide nelle comunità montane, almeno per quanto ci riguarda, in una percentuale che è più o meno del 10 per cento, ossia in una percentuale molto bassa. Il bilancio di una comunità montana come la mia è di circa 2 milioni di euro e voi capite che, se la regione Toscana non investe risorse adeguate, si riesce ben poco a far fronte a questo problema.
È giusto trovare una razionalizzazione di questi strumenti, perché vengano inglobati nel sistema più generale delle comunità montane. A nostro avviso, ciò deve rientrare nelle competenze della comunità montana e non essere attribuito alle province, perché siamo noi sul territorio; si effettua un passaggio di deleghe dalla regione e dalla provincia alle comunità montane, che poi appaltano i lavori.
Possiamo discutere su questo punto, ma non sulla funzione e sulla natura. Questo è vero e sicuramente è da rivedere, ma l'importante è salvaguardare la funzione di questo consorzio di bonifica.
Quest'anno siamo riusciti a effettuare circa un milione di euro di lavori che hanno salvaguardato il territorio anche in stagioni molto difficoltose. Se non avessimo avuto la garanzia di questi consorzi, che hanno salvaguardato il territorio anche in stagioni molto difficoltose. Se non avessimo avuto la garanzia di questi consorzi, che lavorano puntualmente tutto l'anno, avremmo veramente avuto grossi danni, aggiuntivi a quelli già abbiamo avuto

LINDA LANZILLOTTA. Il tutto con quel 10 per cento di cui parlava.

ILARIA BUGETTI, Rappresentante della Lega delle autonomie locali. No, si tratta di una piccola entrata, ma non è la sola. La regione Toscana stanzia altre risorse e la provincia altre ancora.
Il dramma adesso è che la provincia per questo anno, il 2010, non ha previsto risorse, perché, con il Patto di stabilità e altre difficoltà, non può stanziarne. È uno degli elementi a rischio, però fino al 2009 abbiamo avuto risorse aggiuntive, che non sono semplicemente quelle della comunità montana, ma sono state messe a disposizione dalla regione e dalla provincia.

LINDA LANZILLOTTA. Stiamo parlando di una legge, ossia il Codice delle autonomie, che alloca le funzioni tra gli enti costituzionalmente identificati dall'articolo 114.


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ILARIA BUGETTI, Rappresentante della Lega delle autonomie locali. La regione Toscana direttamente, nella propria autonomia e nella differenziazione, potrebbe...

LINDA LANZILLOTTA. Questa è una funzione fondamentale, che deve allocare la legge dello Stato, quindi tra province e comuni. È questo che le chiedo, poiché dobbiamo compiere un'operazione di allocazione delle funzioni amministrative, non legislative - la regione si occupa di funzioni legislative - di tutela e salvaguardia dei territori, compresi quelli montani, tra provincia e comune, dal momento che ci chiede di farlo la Costituzione con legge dello Stato.
Volevo allora sapere, in primo luogo, se non si pone un'esigenza di semplificazione degli enti che si occupano di questa materia in forma associata tra i diversi consorzi e comunità montane e, in secondo luogo, se la funzione amministrativa spetti al comune o alla provincia.

ILARIA BUGETTI, Rappresentante della Lega delle autonomie locali. A nostro avviso, spetta al comune, che poi sceglie, attraverso un organismo, di delegarla sia alla comunità montana, sia ai consorzi. Questi ultimi, a mio avviso, vanno razionalizzati con l'unione dei comuni, perché, indifferentemente dal fatto che li si chiami unione dei comuni o comunità montana, voi sapete che, fino ad alcuni anni fa, in virtù del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, la comunità montana era ritenuta un'unione speciale dei comuni, laddove ci fosse la montagna. Se, quindi, prendiamo per valida l'unione dei comuni, le rispondo che i comuni sono la sede dove allocare la funzione, perché, attraverso di essa, riusciamo a gestirla.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa l'audizione.

Sui lavori della Commissione.

PRESIDENTE. Per i motivi già preannunciati, l'audizione di rappresentanti della Conferenza delle regioni e delle province autonome, prevista ora dall'ordine del giorno dei nostri lavori, non avrà luogo.
Ha chiesto di intervenire l'onorevole Volpi.

RAFFAELE VOLPI. Signor presidente, se la presidenza e i colleghi fossero d'accordo, mi permetterei, rispetto all'argomento che avevo già sollevato all'inizio della seduta a proposito della posizione assunta dalla Conferenza delle regioni e delle province autonome, dall'ANCI e dall'UPI, di chiedere se potevamo condividere alcuni minuti di riflessione su questo punto, rinviando ovviamente qualsiasi tipo di decisione e valutazione di merito rispetto alla programmazione dei lavori all'ufficio di presidenza.

PRESIDENTE. La sede più appropriata per la discussione, come già detto, è l'ufficio di presidenza. Se i colleghi però vogliono intervenire sull'ordine dei lavori, è evidente che si tratta di una loro facoltà.
Ha chiesto di intervenire sull'ordine dei lavori l'onorevole Tassone.

MARIO TASSONE. Intervengo, visto e considerato che sono stato incoraggiato dall'onorevole Volpi, perché la presidenza mi aveva detto informalmente che non si poteva intervenire.

PRESIDENTE. Onorevole Tassone, abbiamo esaminato il punto in questione all'inizio della seduta. Lo riferisco per i colleghi che erano assenti...

MARIO TASSONE. Non voglio fare polemica, ma lei sta ribadendo continuamente che l'ufficio di presidenza...

PRESIDENTE. Onorevole Tassone, sto riferendo per i colleghi che erano assenti che a inizio seduta; ho dato lettura della lettera che ci è pervenuta da ANCI, UPI e Conferenza delle regioni e delle province autonome.
Ho spiegato che, ovviamente, il tema poteva essere affrontato solo in ufficio di


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presidenza per le eventuali decisioni e che avremmo rinviato al momento in cui erano previste le audizioni dei rappresentanti delle organizzazioni in questione gli interventi sull'ordine dei lavori. Questa è l'organizzazione dei lavori che abbiamo concordato all'inizio della seduta.

MARIO TASSONE. Ne prendo atto, presidente. Il mio non voleva esser un appunto, ma semplicemente una sottolineatura. Poiché non credo che il dato vero possa essere semplicemente non dico confinato, ma affidato soltanto all'ufficio di presidenza, si apre un tema estremamente interessante e forte.
Sono arrivato in ritardo, ma ho letto la lettera in questione. Credo che sia il caso di suggerire all'ufficio di presidenza di tenere un'audizione dell'UPI, della Conferenza delle Regioni e delle province autonome e dell'ANCI per spiegarci il testo della lettera, perché onestamente non l'ho compreso. Non è una battuta; al di là della scorrettezza istituzionale, che è enorme e non ha precedenti, suggerisco di non confinare il tema soltanto in sede di ufficio di presidenza, ma di riprendere il dibattito all'interno della Commissione, perché sia la Conferenza delle Regioni, sia l'UPI, sia l'ANCI hanno assunto una posizione che ha scarsi precedenti, a quanto posso ricordare, nella vita parlamentare, ma soprattutto per la dignità, non soltanto della Commissione, ma del Parlamento nel suo complesso.
La mia proposta è questa. La lettera è criptica per alcuni passaggi: non è chiaro il motivo per cui non vengono in Parlamento e in Commissione. Manderanno le seconde e terze figure, ma chiedo che vengano a spiegarci il senso della lettera. Questa è una mia proposta formale, signor presidente.

PRESIDENTE. Hanno chiesto di intervenire, sull'ordine dei lavori, l'onorevole Giovanelli, l'onorevole Volpi, l'onorevole Bressa, l'onorevole Calderisi, l'onorevole Pastore e l'onorevole Lanzillotta.

ORIANO GIOVANELLI. Credo che effettivamente nella mancata adesione al nostro invito da parte di queste associazioni vi sia un elemento di scorrettezza formale, che probabilmente non è stato ben valutato dai firmatari della lettera.
Tengo, quindi, a ribadire in modo chiaro che noi vogliamo costruire questa legge in modo serio in Parlamento, riconfermando fino in fondo che la sede dove si costruisce la legge è il Parlamento, con le sue Commissioni, e non luoghi separati dove magari si stabiliscono corsie preferenziali tra il Governo e le associazioni per poi presentare soluzioni in qualche modo preconfezionate.
Detto ciò, la lettera contiene considerazioni anche significative e importanti, al di là del fatto che siano fattibili sotto il profilo formale. La prima è che non c'è stato un parere della Conferenza unificata, un dato rilevante non solo politicamente, ma anche nel merito.
La situazione si complica perché, a questo punto - come ho già sottolineato un'altra volta - manca formalmente il parere della Conferenza delle regioni e io non credo che nessuno di noi voglia arrivare alla stesura definitiva di questo provvedimento senza un parere formale da parte della Conferenza unificata. Serve un punto fermo in tal senso.
In secondo luogo, l'interlocuzione - lo leggo in termini positivi - che ci deve essere tra il Parlamento e le associazioni rappresentative del sistema delle autonomie locali e delle regioni non può essere episodica. Auspico, quindi, che possano essere previsti anche momenti successivi in cui il nostro lavoro, quello del Parlamento, in qualche modo si interfacci rispetto alle opinioni maturate all'interno delle associazioni rappresentative del sistema delle autonomie.
Personalmente, sarei venuto qui a sostenere queste posizioni e non avrei mandato una lettera che presenta profili di scarsa attenzione nei confronti del ruolo del Parlamento che già i colleghi segnalavano.

RAFFAELE VOLPI. Riprendo quanto ho cominciato a dire all'inizio della seduta, ringraziandola nel contempo per la conduzione


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dei lavori, nonché per la prospettiva di ricondurre all'interno dell'ufficio di presidenza le determinazioni che saranno utili alla Commissione per riannodare - credo che si tratti di questo - un giusto rapporto istituzionale con chi ha una rappresentanza delle autonomie locali.
Tutto ciò fatto salvo il merito della discussione, che a me sembra fosse molto chiaro, perché stiamo parlando di un'indagine conoscitiva. E qual era la sede più qualificante per essere presenti in Commissione affari costituzionali che quella di un'indagine conoscitiva?
Vorrei eccepire, innanzitutto, il metodo. Credo che sia stato improprio per tutti i commissari, almeno per quelli che ne avevano avuto l'opportunità, conoscere venerdì, attraverso un comunicato stampa delle tre organizzazioni, che esse non sarebbero venute. I contenuti del comunicato, di fatto, corrispondono alla lettera che la Presidenza ha letto e posto in distribuzione nella seduta odierna.
Le ripeto quello che ho detto a inizio seduta, presidente, e voglio ripeterlo anche ai colleghi. Spero veramente che l'iniziativa della firma dei tre presidenti, per quanto nell'autonomia delle loro organizzazioni, sia il frutto almeno di una condivisione con gli uffici di presidenza, ma le posso già ribadire che non solo ho il dubbio che non sia così, ma che mi permetto di presentarlo come dubbio esclusivamente per il rispetto che ho di quelle organizzazioni che non sono il Parlamento.
Pur avendo compreso l'intervento del collega Giovanelli, condivido buona parte dell'intervento dell'onorevole Tassone. Non faccio il parlamentare per fare il decriptatore di messaggi segreti che arrivano scritti in questo modo. Capisco benissimo e sarebbe stato non solo lecito, ma legittimo, appellarsi a quello che è scritto nel primo paragrafo della lettera, che a me sembra chiarissimo.
Ne do lettura: «L'accoglimento è stato parziale e insoddisfacente. Riteniamo che non vi sia l'opportunità, in questo momento, di continuare il dialogo» Quindi, la conclusione è il non venire all'audizione. Va benissimo. Rappresentano forse il pensiero delle loro organizzazioni al completo, il che andrebbe verificato con molta delicatezza, perché le sensibilità sono diverse, ma sicuramente non è il modo per rapportarsi al Parlamento.
Con riferimento alla seconda parte della lettera, che è quella criptata fino a un certo punto, ha ragione il collega Giovanelli quando parla - lo sapevamo e ce l'eravamo detti in Commissione - del problema del rinnovo degli organi della Conferenza delle regioni e, quindi, di una nuova rappresentanza; però mi sembra improprio che si venga a dire che ci sono modi e luoghi più adeguati per avere un confronto con il Parlamento nel momento in cui questo Parlamento, con il consenso di tutte le parti politiche, si fa carico, giustamente e con la massima trasparenza, di aprire un'indagine conoscitiva per assumere le posizioni delle organizzazioni rappresentative delle autonomie territoriali e di chi ha chiesto di essere audito,. Abbiamo ascoltato, ad esempio, i dirigenti degli enti locali, che sono venuti, hanno rappresentato la loro posizione. Non ci possiamo poi inventare noi organi parlamentari non previsti dai regolamenti. Chiedo che mi si spieghi che cosa si intende per sede permanente. Noi siamo permanenti finché non ci mandano a casa o non andiamo a casa da soli; non so se siano permanenti loro e se rappresentino tutti.
Credo che non si possa in questo momento travisare alcuni contenuti politici, perché penso che l'onestà intellettuale che vige in questo Parlamento vada riconosciuta a tutti i gruppi politici, che, specialmente e particolarmente in questa Commissione, si sono sempre confrontati con grande chiarezza e onestà intellettuale. Ovviamente non possiamo essere sempre d'accordo su tutto, ma porsi in questa posizione non è un approccio positivo, perché c'è un piccolo passaggio nella lettera di organizzazioni così importanti di cui mi stupisco : credo che si confonda il Governo con il Parlamento. Forse sarebbe meglio spiegare loro la differenza, perché noi rappresentiamo,


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tutti insieme, tutti i cittadini italiani. Il Governo, invece, è un qualcosa di particolare che amministra in questo momento. Loro non venivano a parlare col Governo, ma con il Parlamento.

GIANCLAUDIO BRESSA. Pur non essendo stato presente al momento della lettura della lettera, credo che la proposta avanzata dalla presidente Santelli fosse la più sensata per evitarci di trasformare questa sede in un'occasione di polemica che, credo, invece, non debba essere.
Noi dobbiamo essere assolutamente e totalmente rispettosi dell'autonomia delle associazioni che vengono invitate in audizione e accogliere qualsiasi decisione esse assumano. Nel caso particolare, non si tratta di associazioni di privati cittadini, ma di associazioni che rappresentano le regioni, le province e i comuni. Non dovremmo mai dimenticare questo punto. L'ufficio di presidenza, tuttavia, era la sede più propria perché questa lettera, al di là dei modi e delle forme con cui è stata presentata, pone alcune questioni vere, che anche la nostra Commissione avrebbe il compito e il dovere di affrontare.
Da questa lettera - non c'è bisogno di un'audizione per decriptarla, perché è molto trasparente - emerge un problema di relazione con il Governo, il che, come è stato detto, è più che spiegabile e plausibile. Inoltre, si pone, il che riguarda direttamente noi, un problema serio di rapporto tra rappresentanti di associazioni che rappresentano istituzioni costituzionalmente garantite e il Parlamento per quanto riguarda l'attività legislativa.
È un tema serio, soprattutto se immaginiamo che uno degli interlocutori è la Conferenza delle regioni, che ha, al pari di noi, un «potere legislativo». Si tratta di un segnale che dichiara l'esistenza di un malessere forte dal punto di vista del modo con cui si affrontano le leggi. È inutile anticipare discorsi che svolgeremo se e quando affronteremo il tema della riforma costituzionale e del perché in questa Repubblica, una volta modificato il Titolo V della parte seconda della Costituzione, sia indispensabile il Senato federale.
Non banalizzerei la questione dal punto di vista della forma, a mio modo di vedere sbagliata, con cui è stata presentata questa lettera; è sbagliata perché, come giustamente ricordava il collega Volpi, noi qui rappresentiamo il Parlamento e non il Governo, e questo è esattamente il luogo, quando è in corso un'indagine conoscitiva, dove si viene e si spiegano le proprie ragioni e valutazioni.
Ciò detto, le questioni poste da questa lettera sono serie e di sistema e sarebbe banale derubricarle a una polemica sulla forma con cui è stata presentata la lettera stessa, che io, al pari di altri colleghi che sono intervenuti, considero assolutamente inadeguata e inappropriata. Per questo motivo ritenevo che la discussione sarebbe stata più utile e proficua all'interno dell'ufficio di presidenza, ma, avendo tutti preso la parola, ho pensato di dover esprimere anch'io alcune considerazioni.

GIUSEPPE CALDERISI. Ritengo che la discussione vada svolta in sede di ufficio di presidenza e che la questione non sia secondaria e che vada affrontata anche alla presenza del presidente Bruno, che, in questo caso, è anche relatore del disegno di legge in questione.
Alle osservazioni che sono state esposte vorrei soltanto aggiungere un piccolo elemento di valutazione: i soggetti che fanno parte della Conferenza unificata dovrebbero rendersi conto che il Parlamento ignora totalmente quanto viene discusso in sede di Conferenza unificata stessa. È vero che la Conferenza unificata ha assunto ormai poteri di carattere politico-legislativo anziché di raccordo amministrativo, come quando era nata, ma l'aver apportato una riforma al Titolo V della parte seconda della Costituzione senza aver contestualmente previsto la sede di raccordo, ha comportato queste piccole conseguenze relative a una sede politico-legislativa. Di fatto, grazie alla giurisprudenza della Corte emanata per rimediare ai guasti del Titolo V, questo organo è stato trasformato da organo di raccordo amministrativo


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a organo politico-legislativo, ma assolutamente privo di qualunque trasparenza, democraticità e responsabilità.
Vorrei che i rappresentanti di tali enti si rendessero conto che il Parlamento ignora il dibattito che avviene in tale sede e che, quindi, un'audizione forse sarebbe stata una sede idonea per consentirci di comprendere i loro problemi di rapporto con il Governo che, evidentemente, noi non possiamo conoscere se non attraverso informazioni parziali e narrazioni giornalistiche.

MARIA PIERA PASTORE. Intervengo anch'io per svolgere alcune brevi precisazioni. I rappresentanti di ANCI e UPI sono stati sempre - da quando io sono in questa Commissione - interlocutori di tutta la I Commissione, tanto che sono stati invitati, ascoltati e auditi più volte su diversi temi che riguardano le autonomie locali.
Peraltro, proprio ANCI e UPI hanno spesso a disposizione i testi dei disegni di legge ancor prima che questi vengano trasmessi alla Commissione competente, perché sono il primo interlocutore del Governo. Proprio sul disegno di legge in oggetto hanno avuto un rapporto costante con il Governo.
Dopodiché mi permetto anch'io di porre il dubbio sulla paternità di questa lettera. A quanto mi risulta, gli uffici di presidenza degli organi che ho menzionato non erano a conoscenza della lettera. Ciò non mi sembra corretto nei rapporti interni alle associazioni degli enti locali.

LINDA LANZILLOTTA. Non ho elementi sulla genesi di questa lettera. Voglio, però, svolgere alcune riflessioni.
Trovo questa lettera alquanto inappropriata. Noi trattiamo un provvedimento di iniziativa del Governo in un ambito che attiene all'esercizio delle competenze esclusive dello Stato e riguarda la definizione delle funzioni fondamentali degli enti locali, su cui credo che il Governo e il Parlamento debbano esercitare in autonomia le proprie prerogative, pur andando a un confronto e a un'acquisizione dei punti di vista delle altre istituzioni.
Peraltro, la sede della Conferenza unificata si è via via trasfigurata nella sua missione, a mio avviso determinando un'alterazione dei rapporti istituzionali tra esecutivi e assemblee elettive ai diversi livelli istituzionali, il che rappresenta uno dei problemi che il Parlamento dovrà affrontare per rendere più funzionale, rappresentativo ed equilibrato il sistema multilivello che la Costituzione ha delineato.
Ricordo che, con una norma che io ho a lungo contestato, si è addirittura prevista un'intesa ai fini della previa presentazione dei decreti delegati in materia di federalismo fiscale tra Governo e sistema delle autonomie, con ciò, a mio parere, depotenziando in modo significativo anche il ruolo del Parlamento nel processo di adozione di tali provvedimenti e si tende, credo, a precostituire una situazione in virtù della quale il Senato federale, quale che sia l'assetto che si andrà configurando, in qualche misura sarà anch'esso delegittimato e depotenziato. La sede della costruzione dell'intesa politica tra livelli istituzionali anticiperà, infatti, la fase parlamentare, portandola e consolidandola nella Conferenza unificata e minando alla radice anche il processo di riforma costituzionale che il Parlamento sta avviando.
Tutto ciò è rafforzato dal fatto che il sistema elettorale delle regioni rafforza in modo enorme gli esecutivi rispetto alle assemblee elettive e credo che, se vogliamo potenziare in prospettiva il Senato federale, dovremo, nello stesso tempo, riflettere sul sistema elettorale delle regioni e sulla forma di governo regionale.
In assenza di una riflessione di questo tema, qualsiasi ridefinizione del circuito istituzionale Stato-livelli substatali e assemblee elettive-esecutivi nell'ambito dei diversi livelli istituzionali sarà, a mio avviso, parziale e destinata all'insuccesso.
Ritengo che la creazione di un organismo che sostanzialmente tende a riprodurre il comitato che è stato istituito nell'ambito della legge sul federalismo e che dovrebbe creare una sede permanente di consultazione tra bicamerale e sistema delle autonomie come proiettato da questo


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comitato debba essere contrastata, perché altera profondamente e in modo tendenzialmente irreversibile il rapporto tra livelli istituzionali e tra organi nell'ambito di ciascun livello istituzionale.
Oltre al fatto della sgradevole scortesia istituzionale che ravvedo in questa lettera, credo che si debba innestare una nostra riflessione più profonda su tutti i temi che la nuova forma di Stato e, in prospettiva, anche di Governo ai diversi livelli devono presentare come oggetto della riflessione e poi, eventualmente, della decisione del Parlamento.

PRESIDENTE. Colleghi, come ho già detto, il tema verrà ripreso in ufficio di presidenza.
Sospendo brevemente la seduta.

La seduta, sospesa alle 12,10, è ripresa alle 12,20.

Audizione di docenti universitari.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva deliberata nell'ambito dell'esame dei progetti di legge C. 67 Stucchi e abb. - semplificazione dell'ordinamento regionale e degli enti locali, nonché delega al Governo in materia di trasferimento di funzioni amministrative e Carta delle autonomie locali, l'audizione dei docenti universitari.
Sono presenti i professori Gian Candido De Martin Topranin, Andrea Giorgis, Tania Groppi, Giovanni Pitruzzella, Giampaolo Rossi e Nicolò Zanon.
Comunico che il professor Luca Mezzetti non potrà prendere parte all'audizione di oggi, in quanto impegnato in attività all'estero; il professor Cesare Pinelli, invece, a causa del blocco dei voli, non riuscirà a partecipare all'incontro.
Do, pertanto, la parola per primo al professor Andrea Giorgis.

ANDREA GIORGIS, Professore ordinario di diritto costituzionale. Prima di iniziare, volevo ringraziare per l'invito.
Anticipo subito che le mie saranno considerazioni un po' disordinate, non essendo facile esprimere un'analisi puntuale su un testo così articolato. Vorrei, tuttavia, mettere in chiaro alcuni profili di indeterminatezza del disegno di legge C. 3118.
Comincio da una parte del testo di carattere sostanziale, cioè quella relativa all'elencazione delle funzioni fondamentali di cui alla lettera p), comma secondo, dell'articolo 117 della Costituzione. A questo proposito, mi sembra apprezzabile che non si sia operato attraverso lo schema della delega e che le Camere abbiano cercato di definire in maniera puntuale tali funzioni. Mi sembra, però, che l'elenco cristallizzi e riprenda il sistema vigente e, soprattutto, che non riesca a risolvere alcune difficoltà interpretative che hanno dato e danno tuttora origine a un acceso dibattito tra gli studiosi e a un serrato confronto anche in giurisprudenza.
Chiedo scusa per la sinteticità con la quale mi esprimo. Ritengo però che, pur attraverso una non articolata esposizione, si comprenda a che cosa intendo fare riferimento. Penso, per esempio, all'annoso problema della distinzione tra governo e gestione, quindi a quello di definire quale sia specificamente la funzione che viene attribuita agli enti locali nella partecipazione alla garanzia dell'erogazione di quei servizi che, per tradizione e per legislazione, si sogliono tuttora distinguere tra servizi a rilevanza economica e non a rilevanza economica. A questo proposito, l'articolato parrebbe fare propria tale antica distinzione e, quindi, attraverso l'uso di alcune espressioni molto chiare, tipo «gestione», attribuire, per quanto riguarda i servizi che si sogliono definire non a rilevanza economica, come quelli sociali e culturali, la competenza in capo all'ente locale e il compito di gestirli direttamente.
Non altrettanta chiarezza sembra, però, accompagnare la definizione degli altri servizi. È vero che il problema è stato trattato in altro luogo e che la ridefinizione dell'articolo 113 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, con l'articolo


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23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112, convertito, con modificazioni dalla legge 6 agosto 2008, n. 133, ha ridefinito il problema delle modalità attraverso le quali gli enti locali possono gestire i servizi essenziali. Pur tuttavia, sarebbe forse opportuno che il tema venisse trattato in maniera organica e non così distinta.
Sottolineo ciò per non accennare ad altri aspetti che sono molto noti e di difficile soluzione, dai quali tuttavia non si può prescindere, perché il problema della definizione delle funzioni fondamentali non può essere disgiunto da quello della definizione dei costi standard e da quello dell'attuazione dell'articolo 119 della Costituzione, ovviamente.
Dare seguito all'impianto del Titolo V della parte seconda della Costituzione è un'operazione molto impegnativa, che tuttavia può contribuire a una maggiore razionalizzazione dell'attuale sistema e a una chiarificazione delle rispettive competenze solo se viene condotta in maniera organica e complessiva. Altrimenti, si rischia di dover discutere di profili che non sono risolvibili senza che si affrontino altre questioni.
Nel caso di specie, l'elencazione delle funzioni fondamentali dovrebbe essere accompagnata, per esempio, dall'esplicitazione dei tipi di servizi e delle loro modalità di gestione, nonché da tutta una parte relativa al finanziamento. Un nodo da sciogliere è quello relativo a come si ritiene di interpretare l'articolo 119 della Costituzione, laddove prevede espressamente che tutte le funzioni attribuite agli enti locali siano integralmente finanziabili.
Tale previsione rinvia al problema della distinzione tra funzioni fondamentali e ulteriori e richiederebbe che, nell'ambito di tali funzioni, si definisse anche in maniera molto puntuale - come pure nella relazione introduttiva viene espresso - quali sono i rapporti tra i diversi livelli istituzionali, e che si cercasse di definire in maniera chiara alcune competenze di carattere esclusivo, in modo da evitare contrapposizioni, conflitti e incertezze su chi deve fare che cosa.
A questo riguardo e nell'ambito di questo tema, insisto nel sostenere che sia molto importante che lo stesso testo, lo stesso impianto normativo che dà attuazione all'articolo 119 della Costituzione, che definisce le funzioni fondamentali e quelle ulteriori, stabilisca anche come possono essere gestiti i servizi ed espliciti attraverso una previsione legislativa la distinzione tra servizi a rilevanza economica e non a rilevanza economica, distinzione peraltro non così netta, anche se, in via di prassi, gli enti locali ne danno un'interpretazione abbastanza condivisa.
Gli altri aspetti del disegno di legge mi paiono essere di contenuto più incerto. So che è una critica che gli studiosi costantemente evidenziano, ma, per quanto sia ormai una «litania» che ripetono tutti i costituzionalisti, credo che valga comunque la pena riprenderlo: mi riferisco al problema dell'indeterminatezza dei princìpi e dei criteri direttivi. Tutta la parte relativa alla riorganizzazione degli enti, alla soppressione delle comunità montane o la stessa delega relativa alla definizione del Codice delle autonomie appare, perlomeno a prima lettura, una delega piuttosto in bianco. Non sono chiari infatti quali sono i princìpi e i criteri direttivi che il Governo dovrebbe seguire nel realizzare questo codice, che - lo si dice espressamente - ha una portata innovativa non soltanto di carattere formale, ma anche sostanziale.
Questo è un punto che, in termini di stretto diritto costituzionale positivo, non può non essere evidenziato. Secondo quanto disposto dalla nostra Costituzione, il Parlamento può delegare al Governo l'esercizio della funzione legislativa, ma solo attraverso la definizione di princìpi e criteri direttivi, peraltro indispensabili per poi misurare la conformità del decreto delegato alla delega del Parlamento. In questo caso, mi pare che sia difficile dall'articolato trarre indicazioni chiave e, quindi, un modello di attuazione del Titolo V.
Emerge, poi, un tema, sul quale immagino interverranno i colleghi, relativo alla questione della netta definizione delle competenze, cioè della precisa indicazione


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di che cosa deve fare ciascun livello. La ratio dell'articolo 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione è quella di garantire, attraverso l'intervento statale, il ruolo degli enti locali da una possibile eccessiva ingerenza delle regioni. Il senso di tale riserva di legge statale è da ricercarsi, dunque, in una garanzia delle prerogative degli enti minori da un'eccessiva ingerenza delle regioni nelle materie che l'articolo 117 della Costituzione attribuisce loro.
Non è chiaro in questa delega in che cosa potrebbe poi tradursi tale funzione di programmazione delle regioni e fino a che punto esse si possano spingere nelle materie di propria competenza a orientare l'attività e l'esercizio delle funzioni amministrative riconosciute agli enti minori.
Anche questa è una questione decisiva, perché ha a che vedere con il tipo di attuazione del Titolo V che si intende prefigurare e, in sostanza, con il prendere sul serio fino in fondo oppure mitigare l'intuizione di carattere molto semplice e chiara che vedrebbe l'ente minore titolare di tutte le funzioni che possono da esso essere svolte in maniera efficace e al livello superiore solo quelle che non possono essere realizzate dal primo.
Da questo punto di vista, tale indicazione non pare essere condotta fino alle sue estreme conseguenze, soprattutto laddove si attribuisce alle regioni un significativo potere di indirizzo e di definizione puntuale delle modalità di attuazione delle scelte legislative. È un profilo importantissimo da risolvere perché, di nuovo, ha a che vedere con l'esigenza assolutamente fondamentale di una netta e chiara definizione delle rispettive competenze, dei costi di gestione e di organizzazione dei diversi servizi e dei livelli in cui si radica la responsabilità politica in capo a coloro che sono chiamati a compiere le scelte discrezionali che l'intero impianto riserva loro.
Dietro questi aspetti di incertezza vi è una fondamentale esigenza, che non è solo quella di rendere conoscibili all'osservatore le rispettive sfere di competenza, ma di rendere possibile l'attuazione del principio di responsabilità che dovrebbe, secondo i modelli di organizzazione federale, rendere anche facilmente definibile dove si radicano le eventuali inefficienze gestionali e a chi deve essere attribuita la responsabilità di una gestione poco efficiente, che potrebbe essere sottoposta a valutazione politica da parte degli utenti.

TANIA GROPPI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico. Prima di tutto grazie dell'invito. Ho predisposto un testo scritto a mano, ragion per cui non sono in grado, al momento, di consegnarlo alla presidenza.

PRESIDENTE. Ne approfitto, professoressa, per fare presente anche agli altri professori intervenuti che, qualora vorrete consegnare o trasmettere alla Commissione note scritte, queste saranno molto gradite.

TANIA GROPPI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico. Siamo di fronte a un disegno di legge complesso, come sosteneva il collega Giorgis, volto a dare attuazione a molti aspetti del Titolo V della parte seconda della Costituzione modificato nel 2001.
Prima di giungere ad affrontare alcuni nodi problematici - il nostro ruolo di esperti in questa sede è sempre quello di evidenziare le criticità, aspetto che mi sembra il più costruttivo; dato che credo che sia inutile sottolineare le parti su cui non ci sono problemi o che si apprezzano - che avrei distinto in due parti, relative rispettivamente a profili di metodo e contenuto, con riferimento ad alcuni aspetti puntuali credo si debba ricordare che la forma di Stato italiana che è stata disegnata nel 2001 è un unicum nel diritto comparato.
Accanto a regioni forti, dotate di potestà legislativa ampia, si collocano nel testo costituzionale gli enti locali, comuni e province, ai quali è garantita una sfera di autonomia, il cui ordinamento e le cui funzioni fondamentali restano disciplinati dalla legge dello Stato e non dalla legge della regione - qui parliamo proprio della


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lettera p) del secondo comma dell'articolo 117 della Costituzione - come avviene invece negli Stati federali, dove il sistema di Governo locale è disegnato e disciplinato dagli Stati membri. Tali enti locali sono protagonisti dell'esercizio delle funzioni amministrative tramite il principio di sussidiarietà.
Si tratta, quindi, di un sistema che è stato definito, a mio parere correttamente, un sistema policentrico e multilivello, secondo quanto è sintetizzato dall'articolo 114, primo comma, della Costituzione dove si parla della Repubblica, che si articola in diversi soggetti, tra cui lo Stato.
È una disposizione dalla quale è difficile ricavare un preciso significato normativo, ma che senz'altro ha un valore simbolico nella definizione di questa complessa forma di Stato. Peraltro, tale forma complessa e policentrica, che ho definito un unicum, si colloca anche in continuità con quella che ormai potremmo definire una tradizione italiana, perché già i costituenti nel 1947 si erano mossi su un sistema a più livelli quando avevano introdotto le regioni in un ordinamento che conosceva soltanto i comuni e le province.
Pertanto, l'attuazione della lettera p), che mi sembra il tema centrale del disegno di legge C. 3118, diventa uno snodo cruciale dell'intero assetto istituzionale italiano. Mi pare che ciò sia ancora più vero se si considera come in Italia la costruzione di un sistema di questo tipo, policentrico su più livelli, sia legata oggi, come già in passato, nella storia repubblicana, all'esigenza di riformare l'amministrazione pubblica nel suo complesso. Già negli anni Settanta e Novanta, i due temi del decentramento e della riforma dell'amministrazione andavano di pari passo. Si tratta, quindi, di uno snodo cruciale non solo per precisare i confini di questa complessa forma di Stato, ma anche per creare un'amministrazione pubblica efficiente.
Giungo al primo dei due aspetti, ossia i problemi di metodo. Se siamo di fronte a una disciplina così cruciale ed essenziale, mi sembra che rischiamo in realtà di perdere un'occasione. Si tratta infatti, ancora una volta, di un intervento parziale sull'insieme del sistema degli enti territoriali in Italia, che si viene a sommare a tanti altri che ci sono stati, a partire dalla legge sul federalismo fiscale, la legge 5 maggio 2009, n. 42. Mi sembra, anzi, che in parte il problema sia la frammentazione degli interventi, la mancanza di un intervento organico che si prenda cura di tutti gli aspetti di questo ordinamento policentrico e ne chiarisca tutti gli snodi.
A mio avviso aver cominciato con il tema della finanza regionale e locale non ci aiuta, perché molte scelte di tipo ordinamentale sono già implicate dal tipo di decisioni adottate in tale sede. Pertanto oggi, nel momento in cui ci troviamo ad affrontare la riforma di tutto l'ordinamento locale, alcune scelte sono già compiute.
Al di là della citata legge n. 42 del 2009, come è ben noto alla Commissione, numerosi altri interventi sono andati a incidere sull'ordinamento locale: si è intervenuti in sede di legge finanziaria per il 2010, c'è stato il decreto-legge n. 2 del 2010; in definitiva il testo unico del 2000, ancora in vigore nella sua quasi totalità, è stato toccato in diversi punti.
A me sembra invece che, da questo punto di vista, ci fosse un'indicazione importante nel vecchio articolo 128 della Costituzione, che è stato abrogato, il quale parlava di una legge generale della Repubblica sull'ordinamento dei comuni e delle province.
La legge generale della Repubblica era stata letta all'epoca dalla dottrina anche, ma non solo (vi erano anche altre letture) come una disciplina di tipo organico, ordinamentale, addirittura da stabilizzare attraverso i tentativi che si erano attuati di sottrarla ad abrogazioni e a modifiche puntuali. Forse vi ricordate che la legge n. 142 del 1990, con norme poi riprodotte nel testo unico, aveva proprio cercato di porre limiti agli interventi puntuali e settoriali da parte di leggi successive.
Ci troviamo di fronte, dunque, anche in questo testo, che pretende di essere il più organico tra quelli intervenuti in materia, a un intervento frammentario. Mi sembra che un rimedio a tale frammentarietà non


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possa essere fornito dalla delega, contenuta nell'articolo 13 del testo, per la Carta delle autonomie locali, perché mi sembra che, al di là di questo nome evocativo, non siamo di fronte ad altro che a un testo unico. Qualora così non fosse, ci sarebbero seri problemi quanto a princìpi e criteri direttivi della delega, come è stato poco fa evidenziato. Mi sembra, quindi, che questo sia il problema centrale: la disorganicità e frammentarietà dell'intervento normativo.
Va rilevato che alcune questioni sono davvero complesse, soprattutto quanto alla determinazione delle funzioni che mi sembrano dipendere in gran parte da un aspetto irrisolto, su cui manca una decisione chiara. Forse tale mancanza deriva dal testo costituzionale, ma questa legge non aiuta. Come si sviluppa il rapporto tra diversi livelli di governo? Qual è il ruolo della regione, in altre parole, nell'ambito del sistema policentrico?
A mio avviso, dunque, questa sarebbe stata l'occasione per un intervento organico. Nel nostro ordinamento continua a mancare una fonte intermedia tra la Costituzione e la legge ordinaria, continua a mancare la legge organica e, dato che siamo di nuovo in clima di riforme costituzionali, forse questo sarebbe un punto necessario da trattare per creare discipline dotate di stabilità e organicità.
È inutile che mi soffermi sui benefici della stabilità e dell'organicità della disciplina in termini di efficienza e di certezza del diritto per tutto il sistema.
Passo ai punti problematici. Ne indico alcuni molto rapidamente. Si pone il problema di che cosa si intende - lo ricordava il collega Giorgis - per funzioni fondamentali. La dottrina ha cercato, a mio avviso senza successo, di mettere a fuoco il rapporto tra l'articolo 117, comma secondo, lettera p), e l'articolo 118 della Costituzione, tra funzioni proprie e funzioni fondamentali, funzioni attribuite, conferite e via elencando.
La scelta che si compie nel testo è quella di considerare sia funzioni fondamentali, sia funzioni strumentali nelle prime lettere di ognuno degli articoli coinvolti, dalla a) alla g), sia funzioni operative attinenti a specifiche materie in tutte le lettere successive. Ci si è mossi, dunque, su un doppio binario.
Mi pare, però, che tutto ciò complichi di molto il quadro e lo renda poco coerente. Se si esaminano gli articoli 6, 7 e 8 del testo, tenendo a mente quali sono le funzioni fondamentali definite nei primi articoli, che sono di due tipi - porto solo due esempi: c'è anche la normazione sull'organizzazione e sullo svolgimento delle funzioni accanto al coordinamento delle attività commerciali, quindi sono considerate funzioni fondamentali, sia l'esercizio della potestà regolamentare sulle funzioni fondamentali medesime, sia diverse funzioni sostanziali operative - alla luce di questa scelta, mi sembra che emerga un quadro del tutto incoerente.
Che cosa vuol dire, nell'articolo 8 - solo per fare un esempio - che l'esercizio delle funzioni fondamentali è obbligatorio per l'ente titolare quando si fa riferimento alla normazione sull'esercizio delle funzioni?
Mi sembra, inoltre, che ci sia anche il rischio di una compressione dell'autonomia degli enti locali se leggiamo questo modo di interpretare le funzioni fondamentali alla luce, per esempio, dell'articolo 117, sesto comma della Costituzione, perché si va, per esempio, con l'articolo 6, da parte della legge statale o regionale a disciplinare l'esercizio delle funzioni fondamentali, che oggi invece sono disciplinate dagli enti locali nell'esercizio della loro autonomia regolamentare, con la sola eccezione dei princìpi.
Questo è lo stato secondo il testo unico, da prima del sopravvenire dell'articolo 117, sesto comma. Nel testo in esame, invece, non c'è più un riferimento al fatto che lo Stato e le regioni debbano adottare solo i princìpi, ma piuttosto si torna a un intervento a tutto campo delle fonti primarie, statali o regionali.
Ancora, mi sembra che in questo quadro l'articolo 5, per esempio, volto a consentire alle regioni, nelle materie concorrenti e residuali, di rendere flessibile il sistema dando alle province ciò che è dei comuni o ai comuni ciò che è delle province


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secondo questa normativa, in realtà crei un'ulteriore rigidità e, in ultimo, un'irrazionalità, consentendo questo scambio, peraltro a seguito di un accordo in sede di Conferenza unificata che non si capisce bene che funzione abbia, dal momento che, a quel punto, se una singola regione compie tali scelte, sarebbe sufficiente un accordo con i suoi enti locali coinvolti, senza bisogno che su tale tema si pronunci la Conferenza unificata.
Vi è, dunque, un insieme di elementi che, secondo me e come affermava il collega prima, invece di chiarificare il quadro forse lo confondono ulteriormente rispetto ai problemi già posti dall'interpretazione delle nozioni costituzionali.
Un'altra serie di problemi sempre collegati a questa mancanza di una visione sul ruolo dei diversi livelli di Governo e soprattutto delle regioni in relazione all'ordinamento locale - porto alcuni esempi - si ritrova nell'articolo 8.
In tale articolo, come già rilevato, si vanno a riconoscere alcuni spazi alla legge regionale, ma, nello stesso tempo, la si obbliga al rispetto dei commi 2 e 3 per quanto riguarda l'esercizio delle funzioni in forma associata. Mi sembra, quindi, che si vada a invadere la competenza, per esempio legislativa, delle regioni.
Tra l'altro si torna a disciplinare direttamente con norme statali l'unione di comuni, così come nel testo unico del 2000, quando la dottrina aveva dato - esiste ben poca giurisprudenza costituzionale che possa essere d'ausilio su questi temi ed è essenzialmente quella in materia di comunità montane - che tutto il tema delle forme associative, ivi comprese le unioni dei comuni, ricadesse nella potestà legislativa residuale delle regioni e non fosse materia di lettera p). In questo punto, invece, ci si muove di nuovo sull'onda del testo unico.
Nella stessa ottica, è problematico anche l'articolo 11, almeno sotto due punti di vista. Innanzitutto non riesco a capire il ruolo di un'intesa con la Conferenza unificata e non con la sola conferenza Stato-regioni, a prescindere dalla problematicità di vincolare l'iniziativa legislativa governativa a un'intesa. Poi vi è il mancato coinvolgimento della Conferenza Stato-regioni, al comma 2, nell'adozione dei decreti del presidente del Consiglio dei ministri.
Problematico è anche l'articolo 12 sulla legislazione regionale, in cui l'intervento sostitutivo governativo previsto dall'articolo 8 della legge 5 giugno 2003, n. 131, per l'adeguamento della legislazione regionale alla disciplina statale e la soppressione degli enti mi sembra chiaramente in contrasto con l'articolo 120 della Costituzione. Si prevede un potere sostitutivo in capo al Governo nei confronti del legislatore regionale.
Allo stesso articolo, al comma 3, si vincolano le regioni, nell'allocazione delle funzioni nelle materie di loro competenza, ad accordi con gli enti locali, nonché alle norme sull'esercizio associato delle funzioni, senza riferimento al fatto che si tratti di funzioni fondamentali. Anzi, mi sembra che in questo caso siamo chiaramente fuori dalle funzioni fondamentali.
Infine, mi sembrano emblematiche della mancata chiarificazione di quello che deve essere il ruolo delle regioni nel nuovo Titolo V riguardo al sistema di governo locale e della tendenza di ricalcare, invece, il testo unico, che - non ce lo dimentichiamo - veniva dalla legge n. 142 del 1990 e da un diverso assetto costituzionale, le norme sulla soppressione delle comunità montane, ossia il fatto che le regioni dal 2010 possano sopprimere le comunità montane come se, in assenza di questa previsione nella normativa statale, non potessero farlo. Questo elemento mi sembra sintomatico di una tendenza.
Tornando alle mie considerazioni iniziali, mi sembra che tutti questi profili problematici discendano dal mancato carattere organico della normativa in esame. Manca, quindi, un quadro di insieme. Ci sono difficoltà, è vero e le comprendo, poste sia da situazioni contingenti, dal contesto politico, nonché dallo stesso testo costituzionale, ma probabilmente il Parlamento dovrebbe cogliere quest'occasione, come in fondo era stato fatto, a mio


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avviso, nel 1990, seppure con grande ritardo nell'attuazione della Costituzione del 1948.

GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore ordinario di diritto costituzionale. Grazie, presidente. Ringrazio tutti gli autorevoli componenti della Commissione per avermi invitato a prendere parte a quest'audizione.
A me pare che il difetto di organicità di cui parlava la collega Tania Groppi sia da ricollegare al vizio di origine, se mi permettete l'espressione forte, del processo di federalizzazione, di costruzione di un assetto federale, che è in corso nel nostro Paese. Il vizio di origine che, a mio parere, si ritrova nella riforma del Titolo V, parte seconda della Costituzione, del 2001 è la creazione di un sistema che non è federale, ma multilivello, come è stato ricordato, estremamente complicato e caotico, che crea necessariamente sovrapposizioni, interferenze, confusioni e incertezze sulla ripartizione delle competenze.
Abbiamo garantito in Costituzione non solo le regioni, secondo una, a mio parere, corretta spinta verso la costruzione di un assetto che attribuisca loro un ruolo fortissimo, ma anche i comuni, le province, le città metropolitane. Nel frattempo, a livello legislativo, già prima del 2001 e poi in seguito, si sono introdotti diversi altri enti.
In realtà, infatti, ci sono tante funzioni che il comune da solo non può svolgere, la provincia forse era inadeguata per ragioni strutturali e allora si sono create nuove forme di raccordo. Si pensi all'esperienza degli ambiti territoriali ottimali nel settore dell'idrico e dei rifiuti, realtà forti e corpose dal punto di vista sia amministrativo, sia della dimensione finanziaria.
Si tratta, dunque, di un sistema che, a mio parere, può essere definito di policentrismo istituzionale esasperato. In questo contesto, incontriamo forti difficoltà, in primo luogo il decisore politico, ma poi tutti, la dottrina, la giurisprudenza costituzionale, gli operatori economici e i cittadini - questi ultimi sono entrambi il punto di riferimento delle nostre azioni - nello stabilire realmente chi fa che cosa, a livello non soltanto della singola competenza amministrativa, ma soprattutto della definizione del ruolo. Qual è il ruolo della regione, della provincia, del comune, e via via dipanandosi lungo tali rami istituzionali?
A me pare che tutto ciò determini alcune incertezze, che sono un ostacolo fondamentale alla crescita economica del Paese. Quando si discute con un operatore economico non nazionale, che deve compiere un grosso investimento in Italia e chiede, in una lingua che non è la nostra, come l'inglese, dove tutte le nostre sfumature sono difficili da tradurre, a chi si deve rivolgere, cosa gli si risponde? Di rivolgersi alla regione? Allo Stato? Si tratta di tematiche fortissime.
Pensiamo ai rigassificatori. Oltre allo Stato, alla regione e al comune, c'è anche la provincia, perché ha anche competenza in materia militare, ed è difficilissimo dare vere indicazioni e, soprattutto, stabilire in che tempi si compie un'operazione. Non sappiamo a monte chi la compie, figuriamoci i tempi. È un ostacolo molto rilevante alla competitività del sistema Paese.
Tutto ciò, peraltro, ha un'altra conseguenza. In questi giorni, Sartori, con la sua «sovrabbondanza» letteraria, ha posto, in due articoli sul Corriere della sera, l'accento sui rischi del federalismo sotto il profilo della crescita della spesa pubblica. Si tratta di un tema importantissimo, nel momento in cui stiamo finalmente realizzando l'articolo 119 della Costituzione.
Se il sistema è frammentario, se non conosciamo i ruoli, inevitabilmente le risorse necessarie cresceranno e, indipendentemente da qualsiasi legge sul federalismo fiscale, si profila il rischio di continui buchi, che avranno ripercussioni negative sulla qualità della vita, sull'economia e via elencando.
Mi permetto di osservare che il disegno di legge C. 3118, sia pur pregevole in tante parti - anche io, come la collega Groppi, ritengo importante evidenziare le criticità e non ciò che va bene, altrimenti questi incontri non sono utili - a mio parere risente della difficoltà di dare volto, forma,


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sostanza a quel policentrismo istituzionale esasperato. Per esempio, quando si vanno a individuare le funzioni fondamentali del comune e della provincia, a mio avviso, resta indeterminato il ruolo dell'uno e dell'altra.
Riporto alcuni esempi. Chi si occupa di materie centrali come il governo del territorio, per usare una terminologia costituzionale? Trovo scritto che il comune, tra le funzioni fondamentali, ha quelle in materia di edilizia, compresa la vigilanza e il controllo territoriale di base. La provincia si occupa della pianificazione territoriale e provinciale di coordinamento. Il comune si è sempre occupato dell'urbanistica, che è un po' diversa dall'edilizia, ma non c'è traccia di tutto ciò. A rimanere fermi a queste formulazioni rimarremmo un po' sorpresi.
Pensiamo ai servizi pubblici. Parlare di servizi pubblici di rilevanza sovracomunale, provinciale o comunale costituisce un insieme di formule che, dal punto di vista operativo, dicono poco.
Quando parliamo di igiene ambientale oggi, che significa? Chi cura la raccolta prima ancora dello smaltimento? Su quest'ultimo, per esempio, si prevede lo smaltimento dei rifiuti a livello provinciale: ma se alcune regioni, nella loro autonomia, volessero realizzare termovalorizzatori, perché la competenza è provinciale? Non deve servire più province? Ogni provincia deve avere il suo termovalorizzatore? È un unicum al mondo, ma restando all'organizzazione dello smaltimento, vorrei capire meglio che cosa spiegare ai miei interlocutori che vogliono realizzare un termovalorizzatore in Italia.
Lo stesso discorso vale per i trasporti. Oggi è difficile separare con l'accetta una dimensione provinciale, una comunale e una regionale, perché la complessità della tecnica, dell'organizzazione del lavoro, dell'economia impedisce, a mio parere, tale operazione.
Noto altrettanti equivoci quando ci si occupa di scuola. Con la lettera r) dell'articolo 2 e la lettera r) dell'articolo 3, innanzitutto si dispone che il comune e la provincia si occupino dell'organizzazione della gestione dei servizi scolastici. Lo Stato che cosa fa? E la regione? Dell'organizzazione della scuola si devono occupare il comune e la provincia? Si vuole andare verso un assetto di federalismo spinto? Può occuparsene la regione, ma dubito che ogni municipio e ogni campanile si debba organizzare il servizio scolastico come crede.
Non solo, manteniamo ferma l'edilizia, ma vorrei capire perché dell'edilizia delle scuole primarie si occupa il comune e appena si passa alla scuola media se ne occupa la provincia, soltanto per riflettere un assetto amministrativo cristallizzato e fonte di sprechi. A questo punto, se bisogna occuparsi di edilizia scolastica, creiamo un'unica struttura amministrativa che, nella stessa città, si occupi della scuola primaria e del liceo. Non vedo quale ragione ci sia, quale razionalità ci sia per fare diversamente.
In tutto ciò, a mio sommesso parere, è piuttosto indefinito il ruolo della regione, il che è strano. Andiamo verso il federalismo, il regionalismo forte - chiamiamolo come vogliamo, non è questione terminologica - ma la regione non è padrona dell'organizzazione amministrativa al proprio interno.
Le clausole di flessibilità di cui parlava la professoressa Groppi sono difficilissime a realizzarsi, se stiamo con i piedi per terra e non in un mondo ideale. Bisogna andare in Conferenza unificata per cambiare tutto ciò. Pensate che iter gravoso si deve affrontare.
La regione non può far nulla. D'altra parte, abbiamo un meccanismo dove, quando la regione può fare qualcosa, ne aveva già facoltà. È fin troppo noto che poteva intervenire sulle comunità montane: perché scriverlo nella legge?
In conclusione, a mio sommesso parere, il disegno di legge contiene certamente alcune previsioni importanti, che non ho citato, ma sono tutte quelle che riguardano la soppressione e l'abrogazione relativa a enti e organismi. Vi sono elementi pregevoli laddove si ridisegna l'organizzazione, intervenendo sulle strutture dei consigli e delle giunte, ma sul tema cruciale,


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la definizione del ruolo di tali enti territoriali e dei rapporti tra i diversi livelli territoriali di governo, corriamo il rischio di aggravare la situazione caotica già esistente.
Ciò potrebbe avere conseguenze negative anche quando si metterà mano ai decreti legislativi, che sono già in corso di elaborazione, sui costi standard, perché nel caos il federalismo fiscale corre il rischio di diventare poco funzionale rispetto alla responsabilizzazione dei livelli di Governo, che dovrà essere uno degli obiettivi del federalismo fiscale.

GIAMPAOLO ROSSI, Professore ordinario di diritto amministrativo. Dieci minuti mi costringeranno a svolgere considerazioni un po' drastiche, senza motivarle sufficientemente.
Il disegno di legge si pone gli obiettivi di perseguire la semplificazione e lo snellimento e di evitare la sovrapposizione delle competenze, obiettivo decisivo in un contesto che precede il federalismo fiscale, basato sull'idea dell'individuabilità delle responsabilità. Se non si raggiungono tali obiettivi, diventa problematico anche l'impianto del federalismo fiscale.
Si dovrebbe svolgere un ragionamento di fondo sul perché sono 20 anni che le leggi, tutte le leggi, si pongono l'obiettivo della semplificazione e però, dopo 20 anni, continuano a porselo. Evidentemente non è stato raggiunto e il primo problema da esaminare è se questa legge lo raggiunga.
Le ragioni sono tante e, secondo me, ve n'è una culturale: non si rinuncia al garantismo, al partecipazionismo, inteso come aspetto negativo della partecipazione, che è invece un valore, e, quindi, aumentando questi, il risultato è che, fatte 100 funzioni che servono a far qualcosa, le competenze sono 160-170.
I procedimenti si appesantiscono e non si riesce a individuare le responsabilità. Se non si rinuncia al garantismo e al partecipazionismo, è inutile porsi il problema della semplificazione.
Il disegno di legge C. 3118 non sceglie la soluzione della soppressione delle province, che era presente in alcuni programmi dei partiti politici e anche del Governo, ma opta per introdurre alcune misure che, devo dire, sono anche incisive e coraggiose. Non fa solo finta di semplificare. Gli organi degli enti territoriali sono alleggeriti e alcuni enti vengono soppressi, quindi c'è un tentativo, un inizio di semplificazione. Sta al Parlamento valutare se sia sufficiente.
Vengo ai profili problematici, che, a mio avviso, sono due. Il primo è il fatto che alcune competenze restano a tutti gli enti, come accennava il collega Pitruzzella, come la protezione civile. Già oggi, in materia di protezione civile, stando ai decreti delegati Bassanini, la competenza è del comune, della provincia, della regione e dello Stato, il che spiega poi perché bisogna ricorrere, ad esempio, a Bertolaso, ossia unificare «bypassando» tutte le competenze. Secondo questo disegno di legge, la competenza resterebbe dei comuni, delle province, delle regioni e dello Stato.
Lo stesso vale per il commercio, la pianificazione urbanistica e i trasporti. Il disegno che emerge, nonostante questa anche coraggiosa semplificazione, lascerebbe comunque i comuni, le unioni dei comuni, le convenzioni che possono determinare anche modi di organizzazione, altri eventuali accorpamenti che restano nella competenza delle regioni, quindi le province e le regioni, oltre che lo Stato e l'Unione europea. Questo è un primo profilo, secondo me, da approfondire. Forse bisogna essere più drastici e non affidare di nuovo tutto a tutti.
La questione che mi sembra, però, più problematica in termini istituzionali - sono culturalmente un convinto sostenitore delle autonomie comunali, quindi considerate pure un difetto avere una convinzione marcata quando si voglia apportare un contributo di carattere scientifico; posso sbagliare per questa mia convinzione - è la diminuzione delle autonomie comunali nei confronti delle regioni.
Le competenze dei comuni e delle province agli articoli 2 e 3 sono stabilite «ferma restando la programmazione regionale». Esiste, quindi, un potere di programmazione


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delle regioni in materie che sono di competenza dei comuni e delle province. Oltre a ciò, sappiamo che il termine programmazione è confuso fin dai tempi di Giannini. Che cosa vuol dire, infatti, programmare?
Porto un esempio: programmazione delle attività di istruzione professionale vuol dire individuare solamente i macro settori, se è meglio formare nell'edilizia, nel commercio con l'estero o questioni del genere? Oppure vuol dire approvare, con atto che si chiama di programmazione, l'elenco minuto di tutti i corsi di formazione professionale, come fanno, in effetti, attualmente quasi tutte le regioni? La competenza che, in genere, è stata delegata alle province, in realtà compie due passaggi: va alla provincia ma decide la regione, che li ripassa alla provincia e la situazione si ricomplica.
Il termine programmazione è, dunque, equivoco, anche perché non individua la fonte giuridica: è un atto normativo, una legge, o un atto amministrativo? Può essere l'uno e l'altro, quindi si metterebbero i comuni sotto un potere amministrativo delle regioni.
Passo al secondo aspetto di diminuzione dell'autonomia comunale. La stessa allocazione delle competenze fra comuni e province è suscettibile, seppure previo accordo, di essere modificata dalla regione, la quale può dare ai comuni le competenze delle province e alle province le competenze dei comuni; quindi, i comuni e le province non hanno competenze proprie.
Ancora, l'articolo 8 dispone, per i comuni sotto i 3 mila abitanti, che tutte le funzioni gestorie - le altre sono solo strumentali, come è già stato ricordato - devono essere gestite in forma associata con la formula dell'unione e anche i comuni fino a 100 mila abitanti possono essere obbligati, con atto della regione, a gestire in forma associata le competenze. Solo i comuni con più di 100 mila abitanti non sono obbligati e hanno un potere proprio; gli altri comuni fino a 100 mila abitanti, e quindi quasi tutti, possono essere obbligati con atto della regione.
Infine, il terzo profilo della diminuzione delle autonomie comunali riguarda la disciplina regionale delle materie a competenza ripartita, ossia quasi tutte. Tutte le competenze dei comuni e delle province rientrano, infatti, nelle materie in cui vi è competenza ripartita Stato-regioni.
Il fatto che la legge statale deve attribuire le funzioni fondamentali di comuni, province e città metropolitane non significa che tali enti ruotano nell'orbita dello Stato. La riserva di legge è lo strumento della garanzia per le libertà civili. Il costituente, in questo caso, ha voluto stabilire che i comuni e le province hanno competenze proprie. Altrimenti, significa che semplicemente si individuano quali sono, ma poi le loro competenze sono decise dalla regione? Questo è l'aspetto che mi sembra problematico.
Per finire, mi sembra molto apprezzabile l'idea delle unioni dei comuni. Ho partecipato, come consulente, alla prima unione dei comuni in Emilia-Romagna: è stata una bellissima esperienza. Ho il timore che stabilire che la presidenza spetterà a rotazione tra i comuni renderà molto difficile il formarsi di alcune unioni, perché i comuni più grandi non accetteranno di unirsi con quelli piccoli. Riporto quest'aspetto come oggetto di riflessione.
Se è vero quello che affermava il collega Pitruzzella, che nel testo del disegno di legge è scritto che l'organizzazione e la gestione della scuola spetti ai comuni fino alla scuola media e alle province per le scuole superiori, mi sorge una richiesta di chiarimento: se si vuole trasferire ai comuni e alle province l'organizzazione e la gestione della scuola, secondo il dettato del disegno di legge, bisogna dirlo, perché è una questione molto importante, che va esplicitata chiaramente. È un dubbio che mi è sorto; se invece non si vuol trasferire la scuola, è sufficiente dirlo.
In conclusione, anche in termini enfatici, se, riprendendo il disposto già vigente nel Titolo V della Costituzione e ribadendolo ben due volte nel disegno di legge, spettano ai comuni tutte le funzioni che non richiedono interventi di enti superiori, allora non si può contemporaneamente


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indebolire il comune nei confronti di altri enti territoriali e della regione in particolare.

NICOLÒ ZANON, Professore ordinario di diritto costituzionale. Vi ringrazio dell'invito. Molte considerazioni sono già state svolte. Su alcune fondamentalmente concordo, magari su altre potrei cercare di sviluppare un ragionamento parzialmente diverso.
Cercherò di sintetizzare al massimo. È chiaro che l'approvazione di questo atto normativo è finalizzata a consentire l'attuazione della legge n. 42 del 2009 in tema di federalismo fiscale. Si comprende molto bene che la distinzione tra funzioni fondamentali e non fondamentali è indispensabile a questo fine, perché solo per le spese riconducibili alle funzioni fondamentali sarà assicurato il finanziamento integrale.
Comprendo profondamente le esigenze della politica, che deve scegliere questa strada, però, come rilevato già dai colleghi intervenuti, in particolare dal collega Pitruzzella, probabilmente un'opera più organica avrebbe dovuto essere differente.
Questo disegno di legge sconta le improprietà e i difetti del Titolo V. Non dico che li aggrava, anzi, cercherò di apportare un contributo innovativo rispetto alle osservazioni già avanzate: mi pare che in qualche misura proprio il ruolo delle regioni, che qualcuno trova eccentrico, sia, invece, dovuto al tentativo di rimediare ad alcune letture radicali di quanto emerge dal Titolo V.
Capisco che possa sollevare dubbi di costituzionalità, per esempio il fatto che, come disposto in alcuni articoli - 2, 3 e 4 - si fa salva la programmazione regionale; capisco che possa risultare eccentrico in un ambito che dovrebbe essere, tramite il riferimento dell'articolo al 117, secondo comma, lettera p), della Costituzione, riservato agli enti locali, ma probabilmente il legislatore si è reso conto che bisognava dare comunque un ruolo di governo generale alla regione per evitare i rischi di un eccessivo localismo frammentario.
Torno a ribadire che probabilmente un'opera organica - mi rendo conto che sia profondamente impolitico, però l'osservatore lo può affermare senza problemi, proprio perché non ha funzioni decisorie, ma di mera osservazione, per quanto riesca a comprendere - avrebbe dovuto ripartire da una modifica sensata delle scelte contenute nel Titolo V, che si sono rivelate, nonostante l'opera meritoria della giurisprudenza costituzionale, profondamente in contrasto con alcune esigenze di competitività. È stato evocato il sistema Paese, parola che non ripeto, perché sarebbe del tutto inutile.
Probabilmente il disegno di legge, da una parte, cristallizza l'esistente, ma, dall'altra, proprio inserendo un ruolo regionale, cerca di ovviare ad alcuni rischi che un'attuazione integrale del Titolo V comporterebbe. Le competenze regolamentari degli enti locali, addirittura, secondo alcune letture, dovrebbero potersi esprimere senza alcun vincolo legislativo, in nome dell'articolo 114 della Costituzione. Esistono in dottrina letture di questo tipo e francamente trovo che sarebbero letali per tutto quello che è già stato ricordato prima.
Da questo punto di vista, oltre alla parziale cristallizzazione dell'esistente, c'è anche il tentativo di fornire all'ente regionale un ruolo di governo della pluralità dei livelli di governo presenti sul suo territorio per attenuare tali danni. Questa è la prima osservazione di carattere molto generale che mi sentirei di svolgere.
Poi si pone un problema di eterogeneità degli argomenti trattati e di assenza di coordinamento con le norme già in vigore. Credo che ciò balzi agli occhi proprio dal punto di vista di chi legge il disegno di legge C. 3118 per cercare di capire e per provare a riferire elementi utili a chi ascolta.
Molte norme del disegno di legge intervengono - è già stato detto - su aspetti disciplinati dal Testo unico degli enti locali, dalla legge sul federalismo fiscale, dalla finanziaria del 2010 e dal recente


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decreto legge n. 2 del 2010, che contiene interventi urgenti concernenti enti locali e regioni.
È vero che l'articolo 31 del disegno di legge detta l'abrogazione esplicita di molte norme e che il comma 4 dello stesso articolo prevede anche l'abrogazione delle norme incompatibili con la presente legge, ma rimangono situazioni di incertezza interpretativa, che ora non posso dettagliare per mancanza di tempo. Ho alcuni appunti, che proverò a trasformare in qualcosa di organico in modo da poterli trasmettere successivamente. Permangono, dunque, in diversi casi, come anche la scheda di lettura predisposta dagli uffici della Camera mette in evidenza, situazioni di incertezza dovute alla contemporanea vigenza di norme che hanno lo stesso oggetto, che disciplinano la stessa materia, ma che danno soluzioni che non coincidono.
D'altra parte, all'articolo 13 vi è una delega al Governo che presenta i problemi, già indicati dal collega Giorgis, per l'adozione dalla Carta delle autonomie locali, che dovrà successivamente riunire e coordinare tutte le norme statali relative agli enti locali. Forse valeva la pena di farlo ora; anziché normare proceduralmente, il Parlamento poteva compiere scelte coerenti in questa sede fin da adesso.
L'articolo 5 dispone che, nelle sole materie di competenza legislativa regionale concorrente e residuale, le regioni possono modificare il quadro delineato dalla legge statale nell'attribuzione di funzioni fondamentali, previo accordo con gli enti interessati e in sede di Conferenza unificata. Questo è un elemento proceduralmente piuttosto irragionevole, probabilmente. Le regioni possono modificare l'attribuzione fatta al comune o alla provincia o viceversa. Colgo, da un lato, forse l'applicazione del principio di sussidiarietà, ma, dall'altro, molto più semplicemente e concretamente, il tentativo, sia pur proceduralmente complicato, di riattribuire un ruolo all'ente regionale perché ci si rende conto che una lettura integrale del Titolo V porterebbe a risultati di ulteriore frammentazione e polverizzazione dei livelli di governo.
Aggiungo infine una considerazione. Per quanto riguarda l'unione dei comuni, a parte il fatto che il Testo unico degli enti locali prevede diverse forme associative mentre qui se ne riproducono soltanto due - un classico esempio delle incertezze interpretative che, perlomeno da qui a due anni, quando sarà adottata la Carta delle autonomie locali, impegneranno gli interpreti - una volta che si creano le unioni di comuni, non sarebbe stata questa l'occasione, non so se dico una sciocchezza dal punto di vista politico, per riconoscere che in questi casi forse la provincia serve a poco e che avrebbe potuto non essere più prevista?
Naturalmente, anch'io mi sono concentrato sugli aspetti critici, sui quali ci sono perplessità, ma ci sono anche numerosi contenuti buoni. Ho, però, l'impressione che sia un'occasione che andrebbe forse colta più in profondità, per fare di più e in modo più efficace, altrimenti il rischio è che, anche in termini di ricaduta sul federalismo fiscale, gli effetti di spesa siano dirompenti e diano ragione a osservatori come Sartori, che prevedono sconquassi per la finanza pubblica.

GIAN CANDIDO DE MARTIN TOPRANIN, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico. Desidero in primo luogo ringraziare per l'invito.
Cercherò di fornire, nel tempo previsto, un sintetico contributo, evitando di interloquire su questioni che sono già emerse e sulle quali non sempre sono d'accordo con quanto prospettato. Al di là dell'appunto che ho già consegnato alla presidenza, mi riservo poi di far pervenire osservazioni scritte più puntuali.
Con il disegno di legge C. 3118 riprende finalmente il processo riformatore indispensabile per attuare la riforma del Titolo V, nella prospettiva di una valorizzazione delle autonomie territoriali, responsabili e anche di una effettiva semplificazione, per quanto possibile, del sistema istituzionale, che riduca i costi e


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renda anche possibile l'attuazione del cosiddetto federalismo fiscale, evitando la compromissione del disegno riformatore, che, dopo nove anni di disattenzioni, tentativi falliti o interventi spesso contraddittori con i princìpi, corre effettivamente alcuni rischi: il neocentralismo e gli interventi di tipo gerarchico a cascata sono, infatti, frequenti. Mi pare che anche di recente siano state registrate innovazioni opinabili come nell'ultima legge finanziaria, nonché nel decreto legge n. 2 del 2010 e nella relativa legge di conversione.
Senza entrare nei dettagli e lasciando sullo sfondo anche un'altra questione, che qui è stata appena accennata, cioè quella del rischio di uno svuotamento anche dell'autonomia locale legato alla proliferazione di amministrazioni straordinarie e di interventi emergenziali, credo che si possa affermare che questa ripartenza può essere utile, sempre che si intenda realizzare coerentemente quella che si può chiamare la via italiana al federalismo, basata su un policentrismo a quattro livelli, che richiede certamente un forte impegno, non solo politico, ma anche tecnico, per riuscire a decentrare il sistema, distinguendo tendenzialmente il ruolo legislativo di Stato e regioni da quello amministrativo di comuni e province.
In questa prospettiva, mi pare essenziale aver chiaro che si tratta di un disegno processuale, di un percorso complesso, che richiede ovviamente anche altri interventi, al di là di quelli di cui stiamo parlando in questa sede. Mi riferisco da un lato agli interventi di completamento e perfezionamento della riforma costituzionale del 2001, che tutti abbiamo presente, e dall'altro, naturalmente, anche al versante degli interventi delle regioni, che fin qui sono in larga misura mancati, nonostante lo spazio che esse, per certi versi, potevano gestire in materia.
Mi limito naturalmente a considerare il ruolo del legislatore statale in questa fase del processo riformatore, concentrando l'attenzione solo su alcune questioni generali e sottolineando l'esigenza di una forte condivisione, di una concertazione sul piano procedurale ai fini della tenuta della riforma.
Mi riferisco essenzialmente, in tal senso, alla necessità di riprendere l'impostazione del protocollo interistituzionale del 2002, che aveva sancito un metodo nell'affrontare l'attuazione della riforma costituzionale attraverso la creazione di un luogo interistituzionale, come quello ora previsto nella legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, in cui si è prefigurato un comitato interistituzionale che potrebbe essere ripreso anche ai fini del federalismo istituzionale.
Affronto rapidamente tre punti per cercare di cogliere alcune questioni di fondo legate anche al disegno di legge C. 3118, al di là della questione della disorganicità della proposta, che è già stata evidenziata da altri auditi. I tre punti sono: chiarificazione delle funzioni locali, semplificazione istituzionale e Carta delle autonomie locali.
Per quanto riguarda la chiarificazione e l'effettiva riallocazione delle funzioni ai comuni e alle province su due livelli (funzioni di base o legate ai servizi personali e funzioni di area vasta), a cominciare da quelle cosiddette fondamentali, che sono uno snodo essenziale per definire le invarianti di sistema e, quindi, anche le premesse per attuare l'articolo 119 della Costituzione (il quale peraltro richiede di finanziare integralmente non solo le funzioni fondamentali, ma anche le altre attribuite agli enti locali), credo che il progetto in discussione possa essere valutato positivamente quanto all'approccio per le funzioni fondamentali. Il tentativo di una definizione diretta, senza delega, mette finalmente sul tappeto la possibilità di definire un primo nucleo, uno zoccolo essenziale delle funzioni di comuni e province.
Al di là di questa valutazione positiva sul metodo, credo che residuino osservazioni su alcune sfasature, sovrapposizioni o lacune negli elenchi sia dell'articolo 2, sia dell'articolo 3, nonché sulla commistione


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tra funzioni ordinamentali e materiali, che ritengo sarebbe preferibile evitare.
Ciò premesso, sussistono perplessità rilevanti, a mio giudizio, per quanto riguarda l'attuazione non tanto dell'articolo 117, secondo comma lettera p) per le funzioni fondamentali, quanto dell'articolo 118 della Costituzione, da parte sia del legislatore statale, sia, ancor più, di quello regionale.
Per la parte che riguarda il legislatore statale, l'articolo 11 ha soprattutto due limiti, da un lato la previsione di un disegno di legge, senza garanzia di un termine, e non di una vera e propria delega al Governo, dall'altro un meccanismo a cascata, a mio parere inutilmente lungo e che corre il rischio di non avere un seguito nel rapporto tra regioni ed enti locali.
Per quanto riguarda, invece, il versante che coinvolge il legislatore regionale, l'articolo 12 prevede un meccanismo in cui sono assenti garanzie sia sul piano temporale, sia su quello procedurale nonché un potere sostitutivo, in caso di inerzia delle regioni. Noi tutti siamo testimoni che, dalla legge n. 142 del 1990 in poi, uno dei nodi irrisolti è stato quello di riuscire a rendere effettivo il ruolo regionale di riallocazione delle funzioni amministrative agli enti locali.
Aggiungo, però, che ci sono due nodi - per così dire - territoriali che pesano sulla questione delle funzioni: uno riguarda i comuni, l'altro le province. Se non si chiariscono in via prioritaria tali questioni, diventa difficile anche definire il quadro delle funzioni spettanti all'uno e all'altro livello locale del sistema.
Per i comuni esiste la questione delle città metropolitane, che lascio sullo sfondo, ma che va finalmente affrontata. Poi c'è la questione dei piccoli comuni. La soluzione delle unioni obbligatorie, prefigurata almeno per gran parte delle funzioni fondamentali, mi sembra da condividere, proprio per rendere effettiva l'autonomia comunale.
Si avverte un certo favor per le forme associative nel disegno di legge, però su questo terreno bisogna indubbiamente, a mio parere, compiere molta altra strada e aggiungere previsioni puntuali per rafforzare la dimensione delle unioni polifunzionali per i piccoli comuni, a parte lo stabilire se la soglia sia di 3 o 5 mila abitanti. In altre norme del disegno di legge si afferma, infatti, che i piccoli comuni sono quelli sotto i 5 mila, qui invece si definiscono come tali quelli sotto i 3 mila.
In ogni caso, credo che la soluzione delle unioni polifunzionali obbligatorie possa essere facilmente utilizzata anche per le zone montane, prevedendo che le comunità montane diventino automaticamente unioni obbligatorie in questo contesto territoriale ed evitando, quindi, tante querelle e complicazioni che stanno impegnando, a vario titolo, legislatori e commentatori sulla sorte delle comunità montane.
Per quanto riguarda le province, invece, mi limito a osservare che l'ipotesi di un riordino generalizzato per razionalizzare e ridurre mi pare assai problematica, anche in rapporto alle previsioni dell'articolo 133 della Costituzione.
Già in questa sede, nel corso di un'altra audizione, ho avuto occasione di esprimere il mio punto di vista sulla necessarietà dell'ente provincia e sull'esigenza di una sua valorizzazione. Credo, quindi, che, più che immaginare una revisione generalizzata, si tratti di mettere un fermo alla creazione di nuove province e di porre in cantiere una revisione delle province dopo l'istituzione delle città metropolitane.
In merito alla semplificazione istituzionale, si tratta di un'occasione preziosa per ridefinire l'assetto di alcuni soggetti strumentali o dipendenti creati nel tempo dal legislatore statale o regionale o dagli stessi enti locali. Da questo punto di vista, esprimo un giudizio positivo sull'articolo 7, che contiene una disposizione di salvaguardia che impedisce l'esercizio di funzioni fondamentali da parte di soggetti strumentali statali o regionali; mi pare però un approccio assai opinabile quello del Capo V del disegno di legge, in cui vi è un elenco molto eterogeneo, che si è


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anche ridotto nel tempo, di enti e organismi che dovrebbero essere soppressi.
Credo che, piuttosto che seguire un elenco, dovrebbe essere definito un criterio generale da sancire con molta chiarezza, in base al quale tutti i soggetti strumentali, locali, regionali o statali che operino in campi riconducibili alle funzioni fondamentali o proprie degli enti locali dovrebbero essere soppressi o comunque ricondotti al quadro di riferimento degli enti territoriali riconosciuti in Costituzione. Di conseguenza, dovrebbero essere previsti alcuni termini entro i quali ridefinire la sorte di tali enti con poteri sostitutivi e anche misure drastiche, come la soppressione delle risorse finanziarie per tutti i soggetti che operino in campi rientranti nelle funzioni locali, ovviamente se si vuole affrontare in maniera seria la questione della semplificazione.
Infine, sulla Carta delle autonomie locali, mi limito a osservare che in materia esiste, a mio giudizio, il forte rischio di un equivoco. La Carta delle autonomie locali dovrebbe essere, per certi versi, il punto di approdo, il faro del processo riformatore, ma se intesa correttamente, non come una sorta di nuovo testo unico, di codice aggiornato di quello attualmente vigente. In realtà, la Carta dovrebbe essere il luogo che garantisca maggiormente la condizione di autonomia degli enti locali, e cioè contenere le sole disposizioni statali nelle materie di competenza del legislatore statale, quelle sancite dal secondo comma dell'articolo 117 della Costituzione riguardanti gli enti locali. Il resto dovrebbe essere al di fuori della portata di questa Carta, che dovrebbe, invece, valorizzare adeguatamente l'autordinamento, gli autocontrolli, ossia l'autonomia statutaria regolamentare, che la Costituzione, non a caso, riconosce espressamente ai comuni e alle province.
Concludo rilevando che il disegno di legge contiene indubbiamente alcuni elementi positivi interessanti e alcuni stimoli, ma mi sembra che, in larga misura, abbia nodi ancora aperti e che forse sarebbe il caso anche di acquisire contenuti di altre proposte. Mi permetto di segnalare a tal fine la maggiore sintonia col mio punto di vista della proposta di legge C. 2062 Giovanelli e altri, che mi sembra abbia caratteristiche di organicità non presenti in questo disegno governativo.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

SALVATORE VASSALLO. Volevo sottoporre un quesito forse non semplice da risolvere in poche parole sollecitato soprattutto da alcuni passaggi degli interventi dei professori Pitruzzella e Zanon su un punto col quale mi trovo in particolare sintonia.
Entrambi, ma anche altri docenti che abbiamo audito, sottolineano come ci sia uno sforzo di semplificazione sugli enti e sugli organi di comuni e province, ma manchi, invece, una semplificazione sulle funzioni, che è quanto ci si sarebbe aspettati, perché questa poteva essere l'occasione per cominciare a compiere, sostanzialmente, un'operazione sulle province, anche in vista di una loro trasformazione.
Sono perfettamente in sintonia con questo approccio e penso che questa sarebbe l'occasione nella quale ridurre in maniera significativa le funzioni, per passare come minimo a un organo di secondo grado. Tuttavia, in particolare nelle parole del professor Pitruzzella, ho trovato un'ambivalenza forse inevitabile. Da un lato, si afferma che è difficile indicare a qualcuno che deve compiere un investimento in Italia con chi bisogna parlare, dall'altro, che non è facile tagliare con l'accetta la distinzione delle competenze in alcune materie.
Il problema concreto con il quale noi dovremmo fare i conti, anche laddove volessimo provare a introdurre l'argomento durante l'esame di questo provvedimento, è dove, invece, si deve intervenire con l'accetta. Alcune limature sono state effettuate su beni culturali, flora e fauna, parchi, servizi sanitari, forse in alcuni casi anche in relazione a funzioni che, di fatto, non vengono più esercitate dalle province.
Vi chiederei quindi se avete già alcune indicazioni sulle materie su cui lavorare.


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Su quali delle materie che continuano a presentare una ridondanza (pianificazione territoriale, difesa del suolo, protezione civile, ambiente, rifiuti, traffico, trasporti, servizi scolastici, servizi per il lavoro e via elencando) si può incidere per assottigliare significativamente le competenze delle province?

GIUSEPPE CALDERISI. Più che porre una domanda, svolgo una breve considerazione. Ringrazio i docenti universitari intervenuti a portarci il loro contributo; condivido in particolare l'intervento di alcuni, che hanno sottolineato la difficoltà, se non forse, a mio avviso, l'impossibilità, di pervenire a un'attuazione del Titolo V, stante il modo in cui si configura. Esso è affetto da tanti difetti e in particolare uno: la totale dissociazione tra dimensione territoriale e processi economico-sociali da governare.
Questo è il problema, al di là del fatto che le competenze legislative sono state ripartite per materie, come se fosse possibile dividere per materie e non per funzioni, e di tutti gli altri problemi del sistema multilivello, che ha completamente ignorato che uno dei difetti fondamentali del nostro Paese non è solo quello del centralismo, ma anche quello del localismo, della frammentazione, della duplicazione. Penso alla moltiplicazione delle università, degli aeroporti, delle zone commerciali, delle zone industriali e via elencando.
Chi dovrebbe avere il compito di infrastrutturare il territorio, se non un organo come la regione? Non parlo certo di tutte le regioni nelle loro dimensioni attuali, evidentemente. Si pone anche questo problema. Tuttavia, se ci facciamo caso, vediamo che la competizione globale è sempre più fra sistemi regionali: consideriamo il Galles, le zone dell'Irlanda, Tolosa, la Valle del Reno settentrionale, per non parlare di San Diego, la Silicon Valley, la zona di Osaka o altre.
Come pensiamo di poter avere un sistema competitivo in un quadro di polverizzazione delle competenze come quello che viene dal Titolo V e che non riesco a capire? Personalmente, non sarei capace di dare attuazione al Titolo V; apprezzo lo sforzo compiuto dal Governo nel tentativo di razionalizzare alcune situazioni, pur con i limiti e i difetti che sono stati pure rimarcati e su cui si può tentare di provvedere in sede di emendamenti. Vi è, evidentemente, una polverizzazione che rende indecifrabile il groviglio delle competenze nel sistema che è stato creato, con un eccessivo numero di livelli di governo, oltre che con tutti gli enti che sono proliferati e che conosciamo bene.
La mia era semplicemente un'osservazione. Mi auguro che quest'audizione possa servire alla Commissione e anche al Governo per capire come procedere e mi interrogo su come e se sia possibile, rispettando una tempistica già incardinata nel processo di attuazione del federalismo fiscale, arrivare a un disegno più razionale di riordino anche del Titolo V della parte seconda della Costituzione. Vorrei inoltre impegnare il Governo nello sforzo di farsi carico, al di là dell'altra riforma costituzionale, anche del problema della sede di raccordo.
Il maggiore difetto nel varare il Titolo V è stato, infatti, quello di non aver previsto contestualmente la sede di raccordo. La soluzione non può essere quella di compiere un passaggio da un sistema di bicameralismo perfetto a uno di tricameralismo di fatto, per cui avremmo la Camera, sede del rapporto fiduciario, la Conferenza Stato-regioni, che ha assunto poteri politico-legislativi senza avere alcuna trasparenza, e poi, in aggiunta, un Senato cosiddetto federale, che non si capisce che funzione dovrebbe avere.
Del resto, penso che sia assolutamente impossibile realizzare un disegno del genere. Non aver previsto la sede di raccordo come quella in cui si decide chi fa che cosa ha costituito un difetto enorme. L'attuazione di quel Titolo V, a mio avviso, è sostanzialmente una mission impossibile e, quindi, vi chiedo di capire lo sforzo che vorrei tentare di compiere. Mi auguro che il Governo sia disponibile a questo e a conciliare la programmazione, i tempi previsti per l'attuazione anche del federalismo


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fiscale, con un rimettere mano al Titolo V nelle parti di criticità che sono ormai emerse, in dieci anni di attuazione.
Sono passati dieci anni e i difetti sono emersi, perché la Corte ha posto sicuramente rimedio a molti guasti provocati dal Titolo V, ma ha creato problemi non di poco conto. Non fosse altro il fatto che a prendere decisioni di natura prettamente politica sia la Corte costituzionale medesima. Basti pensare a come essa interviene per decidere l'adeguatezza. Il principio di adeguatezza e di sussidiarietà è demandato, di fatto, alla decisione della Corte costituzionale.
È mai possibile che un Parlamento si espropri di questo potere e demandi a un organo come la Corte costituzionale di prendere tali decisioni? Si parla spesso di problemi di funzione e ruolo del Parlamento e di esproprio delle sue funzioni, ma di questo sembra che non ci si sia resi conto fino in fondo.
Esprimo considerazioni frammentarie, ma credo che debbano essere messe agli atti e poi riprese evidentemente in sede di dibattito di questo disegno di legge del Governo.

GIANCLAUDIO BRESSA. Non intendo in alcun modo affliggere i nostri ospiti con una mia personale audizione sul Titolo V. Li ringrazio, invece, per aver fornito alcuni spunti di assoluto interesse, che consentiranno a questa Commissione, nel tempo che ha a disposizione, non tanto di riformare il Titolo V, quanto di attuare una delega meno pasticciata di quella che il testo attuale potrebbe indurci a realizzare.
Vi ringrazio, comunque, dell'assoluta qualità e chiarezza dei vostri interventi.

LINDA LANZILLOTTA. Mi associo anch'io ai ringraziamenti per le valutazioni degli intervenuti che, complessivamente, mi sembra sollevino preoccupazioni in merito al percorso di attuazione di questo che è, comunque, un disegno costituzionale. Esprimo un elemento di preoccupazione a cui vorrei associare due domande, alle quali auspico venga data risposta anche in seguito.
La mia preoccupazione sta nel fatto che, come è stato sottolineato, l'assetto prefigurato dal disegno di legge è una semplice cristallizzazione dell'esistente, nella quale si rinuncia a una vera razionalizzazione e specializzazione delle funzioni, così com'era ipotizzato dal Titolo V. Credo che ciò avvenga per una sostanziale debolezza politica rispetto a quello che definisco un corporativismo istituzionale, in cui ciò che si difende non è l'utente finale, ma il complesso dei soggetti che concorrono alla decisione e alla gestione delle funzioni.
Vorrei innanzitutto sapere se è stata realizzata e simulata in dottrina un'analisi delle funzioni sulla base dei criteri indicati dalla Costituzione, ossia proporzionalità tra funzione e dimensione del soggetto a cui si attribuisce la competenza e appropriatezza. Chiedo quale sarebbe l'esito di una riallocazione ottimale delle funzioni in base ai criteri indicati dalla Costituzione e se, infine, questo esercizio non debba partire dal risultato, piuttosto che dai soggetti.
Una riflessione che mi è capitata di svolgere più volte è relativa al fatto che l'impostazione di diritto amministrativo e ordinamentale si focalizza sulla garanzia, sul garantismo nei confronti dei soggetti, piuttosto che dei destinatari. Chiedo se non sia possibile, usando la leva dei criteri di proporzionalità e adeguatezza, riclassificare le funzioni dal punto di vista dell'output, piuttosto che del soggetto.
Vorrei, inoltre, sapere se i nostri interlocutori non ritengano che, qualora non si svolgesse l'esercizio di specializzazione delle funzioni e, quindi, di semplificazione e asciugamento anche dei procedimenti e degli apparati, la cristallizzazione della realtà così com'è, come viene disegnata da questo disegno di legge, non pregiudichi la fattibilità del federalismo fiscale e la sua sostenibilità.
Quando è stata emanata la legge sul federalismo fiscale, si è rinviata l'operazione della ridefinizione delle funzioni in base ai princìpi costituzionali e, quindi, alla loro economicità, a una gestione più economica, oltre che più efficiente delle


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funzioni. Se tale operazione non si compie, come si traduce ciò in termini di sostenibilità del federalismo fiscale? A me sembra una situazione molto preoccupante e che dalle audizioni risulti che le premesse siano molto negative. Non so come si potrà compiere l'operazione che la legge sul federalismo fiscale presuppone.

PRESIDENTE. Do la parola ai professori auditi per la loro replica.

ANDREA GIORGIS, Professore ordinario di diritto costituzionale. Svolgo solo un rapidissimo intervento, perché le domande offrono l'occasione per affrontare aspetti che, nella necessità di sintesi, ho trascurato.
L'impressione che veniva adesso esplicitata dall'onorevole Lanzillotta mi sembra molto puntuale e calzante. Questo disegno di legge sostanzialmente registra l'esistente e - non vorrei esprimere valutazioni di carattere politico - rinuncia a innovare o, invece, rafforza e tutela. Si può dire che fotografa l'esistente e non apporta pressoché alcuna innovazione.
L'esempio - veniva ricordato prima dai colleghi - paradigmatico è il tema dell'edilizia scolastica. In proposito, l'esistente è esattamente quello che il disegno di legge certifica, perché oggi essa è di spettanza dei comuni per quanto riguarda le scuole fino alla media e delle province per quanto riguarda le scuole superiori.
Ovviamente, da un punto di vista dell'efficienza e delle economie di scala che si potrebbero realizzare, nonché del rapporto tra i diversi livelli istituzionali, non è facile trovare giustificazione all'attuale assetto. Eppure, il testo ripete espressamente la legislazione vigente. Vi è, insomma, una durezza della tradizione, una forza del consolidato che viene ulteriormente formalizzata. Questa è un'osservazione.
Per certi aspetti, anche la domanda dell'onorevole Vassallo trova una parziale risposta in questo tipo di osservazione, perché, soprattutto nel rapporto tra comune e provincia, una più coraggiosa applicazione del principio di sussidiarietà e di adeguatezza potrebbe portare a un progressivo trasferimento di funzioni provinciali, specie laddove si dà attuazione alle città metropolitane o alle unioni di comuni. Sarebbe ragionevole normare un progressivo trasferimento di tutte le funzioni cosiddette di area vasta, laddove l'area vasta sia, in conseguenza dell'unione di comuni o dell'attuazione delle città metropolitane, in grado di realizzare tali funzioni.
Peraltro il Titolo V della parte seconda della Costituzione è suscettibile, come gran parte delle norme costituzionali, di essere attuato in una pluralità di modi. Per esempio, se si offre una lettura dell'articolo 118 che insiste prioritariamente sul primo comma e, quindi, sui princìpi di sussidiarietà, proporzionalità e adeguatezza e poi, in conseguenza di tale scelta interpretativa, si cerca di leggere le altre disposizioni in maniera coerente, allora sfuma anche il problema della garanzia costituzionale delle prerogative degli enti locali e si accentua, invece, un'esigenza di maggiore razionalizzazione ed efficienza dal punto di vista delle prestazioni e dei servizi agli utenti. Bisogna, naturalmente, offrire una lettura del Titolo V che sia coerente con un'esigenza di complessiva semplificazione e complessivo chiarimento di chi è competente a fare che cosa. Che il Titolo V dia la possibilità di questa semplificazione è sicuro, che la prescriva e, quindi, renda illegittima una diversa disciplina è, invece, più incerto.

NICOLÒ ZANON, Professore ordinario di diritto costituzionale. Intervengo molto brevemente per ricollegarmi all'esempio dell'edilizia scolastica e rispondere a una delle domande dell'onorevole Vassallo.
Sto curando per un'associazione una ricerca sulla scuola. Ci siamo occupati anche degli aspetti edilizi, proprio degli edifici scolastici. Da tali studi emergeva una situazione paradossale per cui, in alcune realtà, esistono scuole che comprendono sia la scuola media che quella superiore, unificate nel medesimo edificio. In alcuni casi, per esempio, il comune virtuoso cura bene l'aspetto edilizio, poi si


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passa nell'altro corridoio dove la provincia non se ne occupa ed è un disastro. I dipendenti, da una parte, sono dipendenti comunali, dall'altra, provinciali e questo crea confusione.
È un esempio, neanche tanto piccolo, perché la scuola è una delle reti che tengono insieme un Paese. Al cospetto di una realtà che si sta spezzettando, la scuola dovrebbe essere uno degli elementi che la tiene insieme. Si potrebbe forse compiere un piccolo sforzo e cercare una sistemazione diversa, sulla base di un principio di buon senso, prima ancora che di adeguatezza.

GIAMPAOLO ROSSI, Professore ordinario di diritto amministrativo. Noi svolgemmo una ricerca sulle funzioni con la Commissione Giannini. Eravamo circa 80 o 90 professori; io all'epoca ero assistente. Andammo a vedere tutto ciò che andava compiuto, quali leggi lo reggevano e, quindi, che cosa andava in capo alla provincia, alla regione e al comune.
Non fu un lavoro perfetto, però fu seguito questo metodo. Non si può scindere l'autonomia istituzionale dalle funzioni. Sono collegate. L'autonomia è un valore finalizzato a uno scopo. Certo, andrebbe svolto un lavoro di questo tipo, che richiede tempo e impegno. In modo tecnico, si dovrebbe andare a vedere tutto ciò di cui si occupano gli enti e operare alcune scelte.

GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore ordinario di diritto costituzionale. Intervengo in maniera molto rapida, proprio per dare una veloce risposta.
Innanzitutto, credo che nella vita individuale e in quella collettiva i problemi possano essere trasformati in opportunità. Noi ci troviamo di fronte a un problema derivante dal sistema multilivello caotico, ma oggi abbiamo la possibilità di compiere una razionalizzazione, magari con una lettura più adeguata del Titolo V. La strada maestra sarebbe la riforma del Titolo V, ma potrebbe essere politicamente impraticabile. Cerchiamo allora di attuare il Titolo V in modo da superare i problemi che abbiamo di fronte, visto che li individuiamo.
In primo luogo, è stato detto che occorrerebbe partire dalle funzioni piuttosto che dai soggetti. In questo caso, procedendo magari con molto buon senso, al di là delle tecniche più astratte di scienza dell'amministrazione, eviterei innanzitutto la sovrapposizione di competenze tra provincia e comune, perché alla fine non si sa mai chi fa che cosa.
Oltre agli esempi che ho portato prima e che hanno riportato i colleghi sull'edilizia scolastica, sull'organizzazione dei servizi scolastici, ce ne sono molti altri. Si pensi, per esempio, alla sicurezza urbana, che spetta al comune, e alla polizia provinciale, che spetta alla provincia. Questo che significa? Il sindaco, per far attuare i provvedimenti che, sulla base della legislazione vigente, può adottare, poi si deve rivolgere alla provincia? È una complicazione che nel testo esiste.
Si pensi poi ad altri casi, come il discorso che svolgevo in precedenza sull'urbanistica. Il governo del territorio, nel bene e nel male, è stato una delle funzioni fondamentali dei comuni. La pianificazione territoriale di coordinamento provinciale è molto impalpabile, ma creerà ulteriori sovrapposizioni. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi.
Si pensi poi ad altri due fattori presenti nel testo. La provincia è responsabile dello sviluppo economico del territorio provinciale, mentre del comune non si dice nulla. Non credo, però, che lo sviluppo economico si possa attribuire alla competenza dell'uno o dell'altro ente, perché taglia trasversalmente tutti, solo che, se diamo un riconoscimento alla provincia, poi si crea il titolo per intromissioni, vale a dire per confusioni.
Si parta, dunque, dalle funzioni e si evitino soprattutto, al di là del fatto che, dal punto di vista ingegneristico, sia meglio metterle più in basso o più un alto, le sovrapposizioni gratuite.
In questa prospettiva, ove ci fossero le condizioni politiche, mi permetterei di affermare che si potrebbe anche approfittarne per sfoltire la provincia in un eventuale


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futuro assetto più semplice. Personalmente, vedo soltanto due poli: il comune e la regione. Credo che le regioni dovrebbero essere maggiormente padrone dell'organizzazione, perché ciò che va bene in Lombardia non è detto che vada altrettanto bene in Umbria, che è una regione diversa, o in Calabria.
Aggiungo che esiste il gravissimo rischio - concordo con le osservazioni formulate al riguardo - che tale confusione possa portare non dico a un fallimento, ma perlomeno a cattivi esiti dell'attuazione della legge delega sul federalismo fiscale.

GIAN CANDIDO DE MARTIN TOPRANIN, Professore ordinario di Istituzioni di diritto pubblico. Vorrei svolgere una breve considerazione, rispetto a quanto emerso nei vari interventi.
Partiamo dalle funzioni, ma, aggiungo io, da quelle amministrative. Del resto, il problema che si cela in alcuni interventi è proprio la non distinzione tra funzioni normative e amministrative.
È vero che la riforma del Titolo V è stata attuata da nove anni, ma solo sul versante del riparto della potestà legislativa, con tutte le questioni connesse, mentre è rimasta totalmente sulla carta la questione della riforma dell'amministrazione conseguente a quanto previsto in Costituzione.
La legge 5 giugno 2003, n. 131, la legge La Loggia, il progetto di legge n. 1464 della XV legislatura e la Commissione Vari istituita dal Ministero dell'interno sono prova di tentativi che non hanno avuto un seguito concreto.
Il problema oggi, fermo restando che non si può svuotare l'impianto istituzionale del Titolo V, ma semmai perfezionarne il riparto, è quello di attuare finalmente il versante della definizione delle funzioni amministrative nel sistema.
Ribadirei ciò che ho accennato nel mio precedente intervento, ossia che bisogna distinguere il ruolo regionale da quello locale. Il ruolo regionale dovrebbe essere essenzialmente legislativo, programmatorio e di coordinamento per le politiche e per la definizione, quindi, degli orientamenti generali. Il ruolo operativo e amministrativo, invece, non può che essere degli enti locali, se si vuole essere coerenti con l'impianto costituzionale.
Anche se alcuni miei colleghi non sono in sintonia, ribadisco che, se si vuole effettivamente decentrare la regione e spostare il quadro delle funzioni regionali sul versante degli enti locali, in sintonia con quanto previsto dall'articolo 118 della Costituzione, la provincia non può che ricoprire un ruolo addirittura crescente rispetto all'attuale situazione, che pure non la vede come un ente privo di rilevanza.
Naturalmente concordo anche sulla necessità di rivedere gli elenchi e di trovare alcune razionalizzazioni e intese. Se si vuole tener conto del quadro costituzionale, tuttavia, vi sono due livelli locali tra i quali distribuire l'amministrazione. Credo che ciò sia imprescindibile.

PRESIDENTE. Nel ringraziare nuovamente i nostri ospiti della disponibilità manifestata, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14,05.

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