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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione I
1.
Giovedì 30 luglio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bruno Donato, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULLE MODIFICHE AL TITOLO V DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE IN MATERIA DI SOPPRESSIONE DELLE PROVINCE

Audizione di rappresentanti dell'UPI, dell'ANCI e della Lega delle autonomie locali:

Bruno Donato, Presidente ... 3 10
Barducci Andrea, Rappresentante della Lega delle autonomie locali ... 8
Castiglione Giuseppe, Rappresentante dell'UPI ... 5
Guerini Lorenzo, Rappresentante dell'ANCI ... 6
Masoero Renzo, Rappresentante dell'UPI ... 5
Milia Graziano Ernesto, Rappresentante dell'UPI ... 3

Audizione di esperti della materia:

Bruno Donato, Presidente ... 10 27
De Martin Topranin Gian Candido, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico ... 10
Frosini Tommaso, Professore ordinario di diritto pubblico comparato ... 13
Groppi Tania, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico ... 15
Loiodice Aldo, Professore ordinario di diritto costituzionale ... 18
Pajno Alessandro, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato ... 21
Zanon Nicolò, Professore ordinario di diritto costituzionale ... 25

Audizione di rappresentanti del Coordinamento nazionale nuove province (CNNP):

Bruno Donato, Presidente ... 27 30
Maisto Raffaele, Rappresentante del Coordinamento nazionale nuove province ... 30
Santellocco Attilio Francesco, Rappresentante delCoordinamento nazionale nuove province ... 27
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONE I
AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 30 luglio 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DONATO BRUNO

La seduta comincia alle 15,30.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'UPI, dell'ANCI e della Lega delle autonomie locali.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione in materia di soppressione delle province, l'audizione di rappresentanti dell'UPI, dell'ANCI e della Lega delle autonomie locali.
Do la parola ai nostri ospiti.

GRAZIANO ERNESTO MILIA, Rappresentante dell'UPI. Grazie presidente. Dopo di me interverranno anche il presidente Castiglione e il presidente Masoero. Io ho il compito di introdurre alcune argomentazioni intorno alla valutazione dell'UPI sui disegni di legge che sono stati presentati e che sono all'attenzione di questa Commissione.
Esprimo come prima valutazione una sorpresa di carattere generale. Noi riteniamo che l'architettura costituzionale, relativa ai rapporti fra i poteri, non solo nel nostro Paese, ma ovunque, non possa essere affrontata in modo parziale (o meglio, dal nostro punto di vista è sbagliato affrontarla in questo modo). Il ragionamento è da fare - specialmente secondo chi, come me, proviene da un'isola come la Sardegna - in termini di federalismo. Credo che un percorso normale prevedrebbe che uno Stato scelga se essere uno Stato federale o meno e poi affronti il problema del federalismo fiscale. Intendo dire che l'architettura e l'esercizio dei poteri sono elementi complessi.
Per quanto riguarda le province, a noi non sfugge che la discussione sulla loro abolizione nasce da motivazioni diverse. È una discussione che periodicamente ritorna: negli anni 1970 fu La Malfa a sollevare il problema, quando finalmente partirono le regioni; successivamente, quando nacquero le comunità montane, i comprensori, si parlò di possibile abolizione delle province. In realtà, si è sempre ritenuto, giustamente, di affrontare la questione tenendo conto che i territori hanno bisogno di governi sovracomunali, che non possono essere ricompresi dall'operare di una regione, che è comunque un territorio molto più vasto e spesso anche molto distante da una serie di problematiche.
Mi riferisco non solo alle funzioni più particolari che le province esercitano, ma al ruolo di coordinamento, di rapporto che, anche in termini di sviluppo locale, le province riescono a esercitare con le forze vive dei territori che amministrano.
Recentemente, al Comitato delle regioni, a Bruxelles, abbiamo deliberato una proposta di revisione del Libro bianco sulla governance multilivello (relatori Van Den Brande e Delebarre, presidente e primo vicepresidente del Comitato delle regioni).


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In quell'occasione si è riconfermata, anche a livello europeo, la necessità di un governo intermedio che copra la distanza tra le regioni e i comuni. Noi la pensiamo nella stessa maniera. Tra l'altro, il parere è stato espresso all'unanimità, cosa rarissima per il Comitato delle regioni, quindi di tutte le forze politiche e di tutto il mondo delle autonomie ivi rappresentati.
Noi siamo poco convinti - ne parleranno anche i miei colleghi - della motivazione del risparmio che sottende alle proposte di soppressione delle province, risparmio che tra l'altro sarebbe irrisorio e solo apparente.
Cito un solo esempio per tutti. Se tutti i dipendenti delle province italiane diventassero dipendenti regionali, come probabilmente dovrebbe accadere, applicandosi un contratto di lavoro diverso dubito che ci sarebbe un risparmio. Credo che, anzi, si determinerebbero spese superiori. E potrei andare avanti con gli esempi.
Non ci sottraiamo ad un ragionamento legato al risparmio, alla necessità di riavvicinare i cittadini alla politica, anche se non siamo particolarmente convinti che la lontananza dei cittadini dalla politica nasca solo da questi aspetti. Si dice, ad esempio, che i cittadini sono lontani dalla politica perché i parlamentari - scusate se faccio questo esempio - guadagnano troppo. In Finlandia guadagnano molto meno, ma la fiducia dei cittadini nella politica è lo stesso molto bassa.
La verità è che le donne e gli uomini hanno poca fiducia nella politica perché quest'ultima è in difficoltà nell'affrontare i grossi temi e le grosse questioni che si pongono.
Né ci sottraiamo alla possibilità di rivedere il numero delle province. Io vengo da una terra che, purtroppo, si province ne ha fin troppe. Sono molto attento a non usare termini che, se arrivassero ai miei conterranei, potrebbero essere utilizzati contro di me, ma è evidentemente difficile da sostenere l'idea che vi sia una provincia di 55 mila abitanti. Tra l'altro, questo sta diventando chiaro anche per le popolazioni interessate.
Vi invitiamo, invece, a ragionare su tante altre attività che potrebbero essere ricomprese nel ruolo delle province. Penso agli ATO sui rifiuti e sull'acqua, ai consorzi industriali, alle comunità montane, ai consorzi di bonifica, insomma un insieme di enti e funzioni che potrebbero essere tranquillamente sostituiti dall'operare delle province.
Non ci sottraiamo, altresì, a un dibattito sulle competenze, sulle funzioni e sul ruolo, che credo debba essere prevalentemente legato allo sviluppo. Pensiamo, infatti, che da questa crisi si possa uscire solamente se si punta molto sullo sviluppo locale e, a nostro avviso, da questo punto di vista, enti come le province, che mettono insieme i comuni, possono promuovere lo sviluppo locale.
Sono questi, sostanzialmente, gli elementi che abbiamo in mente. Non è solo una questione di competenze; peraltro, oltre a quelle che abbiamo, in materia di strade, di scuole e via dicendo, molte ci vengono trasferite dalle regioni. Credo che al cittadino importi poco se una strada è gestita dalla provincia, dall'ANAS o dalla regione. L'utilità delle province non è questa, tanto per essere chiari.
L'utilità delle province consiste nel contribuire a fare sistema, in una situazione in cui, per esempio, le regioni marcano troppo spesso tentazioni centralistiche che sicuramente non ci sono utili.
Fare sistema e coinvolgere tutto il territorio, con tutte le forze e le energie che abbiamo, è determinante anche per partecipare ad alcuni processi decisionali. Credo, ad esempio, che sia assai discutibile, ormai, che il 70 per cento delle risorse dell'Unione europea vengano spese dal sistema delle autonomie locali, senza che questo partecipi alle decisioni.
Credo, altresì, che come province dovremmo avere più coraggio, nel futuro, e iniziare a ragionare intorno alle macro regioni, idea che qui in Italia, a dire il vero, abbiamo recepito un po' debolmente (forse il recepimento è ai limiti rispetto al dettato dell'Unione europea). Anche su questo possono lavorare le province e già lo stanno facendo, rappresentando quindi


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anche un momento di apertura, non solo di chiusura o, come spesso si dice, di senso di appartenenza a un territorio che rende necessaria la provincia: il sentirsi tutti pisani o tutti catanesi, anche se non si vive nella città capoluogo, che è un tratto storico del nostro senso di appartenenza.
Sempre questo elemento c'è stato, anche nelle architetture istituzionali più prestigiose del passato. Se volessi tornare indietro parlerei delle curatorie bizantine o delle centene merovingiche.
Questi sono i punti che intendiamo sollevare, naturalmente esprimendo ampia disponibilità a discutere e a partecipare, insieme al Parlamento, al dibattito complessivo relativo a un riordino istituzionale e costituzionale.

RENZO MASOERO, Rappresentante dell'UPI. Ringrazio la Commissione per l'opportunità che ci viene data. Io illustrerò soprattutto la parte relativa al risparmio che deriverebbe dell'eliminazione delle province. Ebbene, preciso - su questo concordo con quanto ha detto il collega della provincia di Cagliari - che tale risparmio è impossibile, perché le province (questo è un dato del Ministero dell'economia) incidono sull'ammontare della spesa pubblica statale per il 2 per cento, una cifra sicuramente molto bassa. Inoltre, negli ultimi anni esse hanno prodotto dei risparmi documentabili. Dei 14 miliardi di euro che vengono spesi dalle province, le indennità degli amministratori - che qualora venissero abolite le province non dovrebbero più essere erogate - sono 119 milioni di euro.
Porto l'esempio della provincia che presiedo, Vercelli. È una provincia certamente piccola, ma la situazione è simile ovunque. Per ogni seduta, un consigliere prende 100 euro; noi abbiamo 24 consiglieri, dunque un consiglio provinciale costa 2.400 euro. Se, dunque, in un anno ci riuniamo 15 volte, la cifra che spendiamo è davvero irrisoria.
Come diceva il collega, i costi del personale non verrebbero cancellati, perché il personale dovrebbe passare alle regioni e i contratti dovrebbero essere adeguati a quelli del livello regionale, che sono mediamente il 30 per cento più elevati.
Peraltro, ci sono numerosi enti - su questo richiamo lo schema di disegno di legge del Ministro per la semplificazione Calderoli, presentato al Consiglio dei ministri, che mi trova d'accordo per la gran parte - che svolgono nel territorio provinciale le funzioni che sono riconducibili appunto alle province: gli ATO delle acque, gli ATO dei rifiuti, le comunità montane, i consorzi di bonifica. Si tratta di centinaia di enti che producono - essi sì - dei costi molto elevati e che svolgono funzioni già svolte prima dalle province. Pertanto, non sarebbe nemmeno necessario mettere alla prova le province nello svolgimento di queste funzioni, dal momento che le hanno sempre svolte.
Questi dati economici, che considero importanti, ci fanno concludere che l'abolizione delle province non avrebbe come risultato quel risparmio di cui parla chi sostiene questa necessità.
Faccio presente che questi numeri sono contenuti nel documento che è stato consegnato alla Presidenza.

GIUSEPPE CASTIGLIONE, Rappresentante dell'UPI. Intervengo brevemente anch'io per ringraziare la Commissione per questa audizione. Penso, infatti, che avremmo bisogno di un dibattito più ampio, mentre molto spesso si invoca lo scioglimento delle province quasi come soluzione, come panacea di tutti i mali dell'architettura delle nostre istituzioni.
Ringrazio, dunque, per quest'occasione e sono sicuro che ci saranno anche molti altri dibattiti in cui potremo portare il nostro contributo.
Vorremmo evitare, però, di assumere l'atteggiamento di difesa assoluta di un'istituzione; la difendiamo per le ragioni che sono state appena esposte, ragioni di natura istituzionale e storica, nonché di funzionalità amministrativa.
Penso, ad esempio, ai 2.500 chilometri di viabilità provinciale e mi chiedo quale sarebbe la loro sorte. Oggi è un'organizzazione che funziona, domani non so che cosa potrebbe accadere.


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A proposito del governo dell'area vasta, tutti ne parliamo e intercettiamo la necessità di un raccordo, che stiamo tentando di realizzare in questi mesi, tra livello locale e regionale. Ho sentito parlare di utilizzazione di risorse comunitarie.
Un'esperienza virtuosa che stiamo compiendo in questi giorni è la creazione, in accordo con la regione, di un organismo intermedio che veda nella provincia il cuore dell'organizzazione, delle ipotesi di sviluppo che riguardano la mobilità, la valorizzazione ambientale e culturale e le aree industriali. Non può, dunque, non esistere un governo dell'area vasta basato sulle province.
Vorrei, inoltre, introdurre un piccolo accenno alla mia esperienza nel Parlamento europeo, dove l'architrave istituzionale si basa sui tre diversi livelli di governo. In tutte le regioni d'Europa sono mantenuti i tre livelli: locale, intermedio, regionale. Nell'Europa a 25 stati - abbiamo uno studio al riguardo - ci sono 254 regioni, 112 mila comuni e 1214 province. Siamo, quindi, in perfetta linea con l'Europa.
Vale ribadire le osservazioni svolte dai colleghi: se oggi dovessimo guardare a un risparmio, nel momento in cui proliferano le società partecipate, gli ambiti territoriali ottimali, i consorzi, enti che avrebbero ragione di non esistere più, sarebbe un controsenso. Oggi quello dell'abolizione delle province è un tema puramente demagogico da offrire al dibattito pubblico.
Ritengo, però, che abbiamo ottime ragioni da far valere, non solo per la difesa ma, a mio avviso, per la valorizzazione, per la centralità dell'argomento che portiamo avanti, in un dibattito che spero possa essere il più possibile compiuto, vasto e informato.
In questo modo anche i cittadini capirebbero non solo la centralità, ma anche la validità di un'istituzione storicamente importante come quella delle province.

LORENZO GUERINI, Rappresentante dell'ANCI. Signor presidente, ringrazio la Commissione per quest'occasione autorevole di confronto. Credo che dobbiamo collocare la riflessione odierna, specifica sulle province, all'interno della riflessione più ampia che stiamo tutti insieme compiendo rispetto al futuro assetto istituzionale del nostro Paese, con l'obiettivo - che tutti abbiamo dichiarato e che stiamo perseguendo con fatica, a volte con contraddizioni, a volte con incoerenze - di un sostanziale rinnovamento del sistema istituzionale italiano che si raccordi in maniera più efficace alle esigenze di una società che è mutata e che chiede, quindi, che anche il sistema istituzionale muti per accompagnare tale cambiamento.
Credo che non dobbiamo sprecare l'occasione che ci viene offerta di razionalizzare il quadro istituzionale e amministrativo del nostro Paese, con particolare riferimento a tre criteri che dovremmo perseguire: l'individuazione della titolarità delle funzioni e delle responsabilità che afferiscono a ciascun livello di governo; una migliore capacità di costruire un raccordo efficace tra i diversi livelli di governo; l'equa distribuzione delle risorse - tematica decisiva - tra questi tre livelli.
Credo, quindi, che dobbiamo collocare questa riflessione sul ruolo della provincia all'interno di questo orizzonte di lavoro e di impegno, che dobbiamo sviluppare insieme. Esso dovrebbe dare attuazione a ciò che è contenuto nella riforma costituzionale del 2001 che, pur con alcune contraddizioni, limiti e ambiguità, ha definito un percorso di decentramento di poteri, nei termini di un avvicinamento delle risorse e della responsabilità della loro gestione ai cittadini e ai territori.
Abbiamo, quindi, l'occasione di mettere in ordine il sistema, cercando di distribuire in maniera efficace e coerente compiti e responsabilità. Da questo punto di vista, credo che sia necessario affermare, in quest'autorevole sede, l'esigenza che, una volta approvata la legge delega sul federalismo fiscale - e in attesa dell'emanazione dei decreti attuativi che dovranno essere costruiti, in maniera partecipata tra i diversi livelli di governo e istituzionali del Paese,- dobbiamo incamminarci rapidamente e con decisione sulla strada della


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definizione normativa delle funzioni amministrative degli enti locali e della possibilità di individuare un quadro di risorse assegnate ad essi in maniera stabile e diretta, per permettere loro di assolvere a tali funzioni e responsabilità.
In questo senso, credo che - in estrema sintesi - alle regioni vada riconosciuta una competenza di carattere prettamente normativo e di alta programmazione, ai comuni la tendenziale generalità delle funzioni amministrative e, a un livello intermedio, che ritengo essere quello delle province, le funzioni che richiedono un esercizio più ampio di quello comunale, anche realizzato in forma associata. Penso, per esempio, all'esperienza - decisiva in una regione come quella da cui provengo, la Lombardia - della pianificazione di area vasta, che deve trovare nella provincia un perno fondamentale di governo e di presidio della funzione.
Da questo punto di vista, si potrebbero eliminare - questo sì - una serie di realtà (consorzi e altre strutture richiamate prima dai colleghi amministratori provinciali) che, probabilmente, necessitano di una verifica puntuale e precisa. Dobbiamo cercare, però, di essere fedeli ai princìpi che richiamiamo, in particolare quello di una chiara definizione delle funzioni, delle competenze e delle responsabilità, evitando di pensare che il senso di ogni livello istituzionale vada ricercato nell'allargamento delle funzioni.
Qualche volta, probabilmente abbiamo esagerato - sono stato anche io presidente di provincia, quindi posso affermarlo facendo anche un esame di coscienza - nell'attestare il senso della nostra presenza, esorbitando da funzioni proprie delle province. Penso, per esempio, alle tematiche della cultura e dei servizi alla persona, solo per citarne alcune. Credo che ricondurre ad ambiti più coerenti e razionali un insieme di titolarità, responsabilità e funzioni sia l'elemento decisivo su cui lavorare.
Nel contempo, nell'evidenziarsi del dibattito, in sede politica, intorno all'eliminazione dell'istituzione provinciale, non posso non sottolineare che le decisioni parlamentari si sono spesso mosse in controtendenza rispetto a questo obiettivo. Ritengo, infatti, che la nascita di nuove province, in questi anni, abbia rappresentato, da questo punto di vista, un elemento di lettura un po' schizofrenico, tra l'andamento del dibattito e le decisioni che ne hanno accompagnato gli esiti.
Come diceva precedentemente un collega dell'UPI, credo che, eseguendo anche un rapido raffronto con le esperienze della maggioranza dei Paesi europei, possiamo constatare che un ente intermedio tra regioni e comuni, ossia tra un livello ampio come la regione e quello dell'esperienza municipale, è presente pressoché ovunque nel continente europeo. Probabilmente, questo muove da ragioni sostanziali, che fondano la legittimazione dell'ordinamento che molti altri Paesi hanno assunto.
Il problema, visto dalla esperienza dell'amministratore comunale, è quello di cercare di raccordare sempre di più, e in maniera forte, la vita delle province a quella dei comuni. Credo che questo sia uno degli elementi decisivi su cui dobbiamo cercare di lavorare efficacemente e con impegno, trovando anche, nelle modalità di rapporto tra province e comuni e anche di partecipazione dei comuni ad alcune decisioni che, per loro natura, hanno una ricaduta importante sulla loro vita, uno spazio virtuoso di lavoro che possiamo realizzare insieme.
Si pone, poi, il tema - anche questo deve trovare una sua coerenza in termini di scelte - delle città metropolitane: non possiamo pensare che tale prospettiva, vissuta come esigenza ineludibile per il governo di realtà complesse come le grandi città in Italia, sia definita con la volontà di mantenere, nel contempo, anche le province nello stesso contesto. Credo che questo sia uno spazio su cui dobbiamo lavorare.
In questa prospettiva, con questo impegno di razionalizzazione, possiamo liberare il dibattito da alcune spinte demagogiche che, a mio parere, spesso rappresentiamo all'opinione pubblica, offrendo


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invece un messaggio più chiaro che mostri la volontà di produrre una razionalizzazione dell'ordinamento.
Concludo con un tema che, come ANCI, abbiamo sviluppato, in direzione di una verifica e di una riflessione in ordine alle modalità di elezione degli organi politici della provincia. Si tratta di un elemento che può essere sottoposto all'attenzione della Commissione, come spazio di riflessione comune, di lavoro, di verifica. Non vi è sicuramente la presunzione di avanzare una proposta idonea a risolvere tutti i problemi, però, anche da questo punto di vista, forse si potrebbe svolgere un ragionamento che tenga conto di un protagonismo del livello comunale all'interno della definizione degli organi politici di governo degli enti provinciali.
Al di là di questo aspetto, ripeto che l'occasione che abbiamo di fronte è quella di razionalizzare il sistema istituzionale dei livelli di governo nel nostro Paese. Da questo punto di vista, credo che la presenza di un ente intermedio come la provincia, in un quadro che definisce le competenze e l'impiego delle risorse, debba essere mantenuto come elemento centrale che costruisce, insieme agli altri, l'architrave del nostro sistema.

ANDREA BARDUCCI, Rappresentante della Lega delle autonomie locali. Sono Andrea Barducci, presidente della provincia di Firenze, e intervengo a nome della Lega delle autonomie locali.
Condividendo molte delle osservazioni espresse dai colleghi che mi hanno preceduto, in un'estrema rapidità vorrei partire da una considerazione di ordine politico generale per esprimere il disappunto, a nome della Lega delle Autonomie locali, rispetto alle modalità con cui questa discussione si sta svolgendo.
Stiamo discutendo dell'eventuale abolizione di un ente intermedio, come le province, a partire da un risparmio sui costi della politica. Noi riteniamo che questo approccio sia sbagliato, perché i costi della politica sono, semmai, la conseguenza di una situazione. Pensiamo, invece, che si debba discutere nel merito delle responsabilità e delle competenze che si assegnano a ogni livello istituzionale e in base a questo tipo di riflessione - che ancora non ci risulta essere stata svolta compiutamente nella politica e nemmeno ai massimi livelli istituzionali, a partire dal Parlamento - fare discendere scelte ragionate e, soprattutto, consapevoli. Consentitemi, quindi, di sottolineare con rammarico una certa dose di propaganda, anche di infimo livello, che si cerca di portare avanti, intorno a questo tema, da parte di alcuni settori della politica.
Credo, invece, che per svolgere una discussione seria dovremmo partire dallo stato attuale della situazione. Ci accorgiamo, allora, che in questi anni in cui ha ripreso spessore il dibattito intorno all'abolizione delle province, in realtà le competenze loro assegnate sono via via aumentate. Questo è il punto, molto semplice ed elementare, dal quale dobbiamo partire.
Per fare degli esempi, possiamo parlare di viabilità, del sistema della mobilità e dei trasporti, dei servizi connessi al lavoro, all'occupazione e alla gestione dei Centri per l'impiego, della gestione delle scuole medie superiori o, ancora, delle questioni connesse allo sviluppo locale e alla programmazione territoriale.
Per quanto riguarda determinate regioni - penso alla Toscana, dalla quale io provengo - le province gestiscono anche tutta la formazione derivante dal Fondo sociale europeo e, quindi, competenze importanti dal punto di vista anche della quantità di risorse gestite quotidianamente. Le province hanno, quindi, aumentato il livello delle proprie competenze e responsabilità, anche recentemente.
A questo, se vogliamo fare una discussione seria, dobbiamo aggiungere un altro punto: il problema, tipicamente italiano, non è la quantità dei livelli con cui si costruisce la piramide istituzionale, ma il sistema di assegnazione delle competenze e delle responsabilità. Il tema del chi fa che cosa e perché è il punto sul quale costruire una riforma vera del sistema, non solo delle autonomie locali, ma di tutto l'impianto istituzionale.


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Anche per questo motivo, ci appare francamente deludente e, tutto sommato, superficiale, la discussione che si sta costruendo intorno alla questione delle province. È vero che, come è stato sottolineato, se guardiamo all'esperienza europea a noi più vicina o alla quale di solito si fa riferimento, ci accorgiamo che in realtà, dal punto di vista del sistema delle autonomie locali, i livelli sono tre: un livello comunale, che gestisce il sistema di prossimità dei servizi, cioè quelli più vicini alle esigenze della comunità e del cittadino; un livello di alta programmazione e addirittura legislativo, che spetta indiscutibilmente alla regione, nella dinamica federale e un livello intermedio, a cui dobbiamo guardare con sempre maggiore attenzione, che riguarda la gestione di tutti gli interventi e di tutte le priorità sul territorio che non sono risolvibili su una scala territoriale compresa nella municipalità e che hanno bisogno, invece, di un riferimento territoriale di più ampio.
Come si pensa di poter risolvere i problemi connessi oggi alla mobilità o ai trasporti - punto di grande criticità in tutte le principali città italiane - se non si costruisce una scala territoriale di riferimento che superi la dimensione municipale, senza identificarsi necessariamente con quella regionale? Abbiamo bisogno di lavorare su sistemi territoriali omogenei e credo che la provincia possa rappresentare, in modo intelligente, un punto di riferimento e di lavoro su questo versante.
Ritengo, quindi, che noi possiamo confermare la validità di questo ente, nell'ambito di un disegno che si avvicina sempre di più a un'idea di Italia federalista e, al tempo stesso, prevedere la riorganizzazione di deleghe e competenze.
Per concludere, mi sia consentito di sottolineare un altro aspetto e in questo mi rivolgo soprattutto ai colleghi rappresentanti delle altre grandi associazioni delle autonomie locali. Il punto non è dimostrare qual è, fra tutti, l'ente meno utile. Ritengo, per esempio, che ci sarebbe da discutere sulle comunità montane e che troppo facilmente si possa identificare in questi enti non solo la fonte del risparmio, ma l'inutilità o i cosiddetti rami secchi da tagliare. Ci sono senz'altro aspetti e parti dell'organizzazione istituzionale sul territorio che possono essere rivisti e corretti. Se mi consentite un esempio, vorrei ricordare i consorzi di bonifica, tenuti in piedi da una legge del 1937 - se non ricordo male - che ci costringe periodicamente a chiamare un certo numero di cittadini materialmente a votare. Bisogna conoscere questi fatti. Togliamo e tagliamo, dunque, ciò che è giusto, ma a maggior ragione riavvicineremo al livello provinciale, se questa sarà la strada, ulteriori competenze e responsabilità.
Credo che, proprio a partire da queste considerazioni, ci accorgiamo che, naturalmente, non solo dobbiamo insistere da questo punto di vista, ma confermare, in un quadro anche diverso, le competenze delle province.
Credo anche che, rispetto al modo in cui la normativa più recente ha innovato negli ultimi anni le modalità di elezione, sia importante continuare a considerare le province espressione diretta della volontà popolare. Escluderei con decisione ogni ipotesi o suggestione che guardi a un livello intermedio di secondo grado. Questo ci troverebbe assolutamente contrari.
Finisco indossando, per così dire, la giacchetta di presidente della provincia di Firenze; sono consapevole che Firenze, insieme ad altre sette, fa parte di quelle che dovrebbero diventare le province metropolitane, in base alla legge delega sul federalismo fiscale. Su questo versante dobbiamo procedere con determinazione.
Abbiamo bisogno di uno sforzo più concreto da parte del legislatore in questa direzione, perché ciò che conosciamo non è sufficiente per delineare un percorso.
Tuttavia, a dimostrazione del fatto che non c'è nessun retropensiero da parte nostra e che il sistema delle autonomie locali è in grado di discutere con serenità una propria riorganizzazione - eventualmente da pari a pari e con la necessaria considerazione e, soprattutto, con il necessario rispetto, il che non sempre avviene, soprattutto da parte del Governo - vorrei dire che, a questo riguardo, la


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provincia di Firenze ha proposto che, nella costituzione della città metropolitana, si immagini addirittura che essa sia individuata nel territorio delle tre province di Firenze, Prato e Pistoia.
È, quindi, ben altro che accrescere i costi della politica e la burocrazia istituzionale! Si tratta, invece, di uno snellimento, perché l'idea della città metropolitana fiorentina presuppone che si eliminino tre province per costituirne una più efficiente e in grado di rispondere meglio ai problemi che abbiamo di fronte.
Ci vogliamo augurare, quindi, che il vostro dibattito tenga conto di queste nostre considerazioni.

PRESIDENTE. C'è stato un passaggio, da parte di qualcuno di voi, che lasciava quasi intendere che la Commissione potrebbe occuparsi più proficuamente di altre materie.
Devo sottolineare che la Commissione, in base al Regolamento della Camera, ha degli obblighi precisi: se, in seguito alla richiesta di un gruppo parlamentare, la Conferenza dei presidenti di gruppo iscrive un determinato provvedimento nel programma dei lavori, la Commissione competente ha l'obbligo di esaminarlo.
Il confronto con voi credo rafforzi, nei componenti della Commissione, e nel presidente in particolare, la certezza delle validità delle posizioni già espresse da parte di tanti nel corso dell'esame in sede referente dei provvedimenti. Credo che i suggerimenti che avete offerto verranno tenuti in debita considerazione.
Vi ringrazio e dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di esperti della materia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione in materia di soppressione delle province, l'audizione di esperti della materia.
Ringrazio i nostri ospiti per aver accettato l'invito a partecipare a questo incontro e do loro subito la parola.

GIAN CANDIDO DE MARTIN TOPRANIN, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico. Signor presidente, ringrazio per l'invito a questa audizione, nella quale cercherò di esporre molto sinteticamente alcune considerazioni, facendo per il resto rinvio a una memoria scritta che ho messo a disposizione della Presidenza.
Devo dire, in premessa, che in un certo senso sono un po' sorpreso per questa serie di iniziative legislative concernenti la soppressione delle province nel nostro sistema.
Da un lato, condivido sostanzialmente i due obiettivi di fondo che sono indicati nelle relazioni che accompagnano le proposte: la semplificazione istituzionale e la riduzione dei costi. Ritengo, tuttavia, che la soluzione non sia assolutamente quella di rimettere in discussione il quadro costituzionale, sopprimendo le province, bensì quello di attuare, finalmente e coerentemente, il disegno autonomistico prefigurato nella riforma costituzionale del 2001, che sviluppa il principio fondamentale dell'articolo 5 della Costituzione - sempre, ovviamente, che ci si riconosca in questo principio fondamentale - che dà forma allo Stato repubblicano.
Detto questo, svolgo alcune considerazioni per sviluppare in particolare due aspetti: la provincia mi sembra elemento ineludibile dell'architettura della Repubblica delle autonomie e, in secondo luogo, la nuova provincia mi sembra un elemento essenziale proprio per semplificare il quadro istituzionale e ridurne i costi.
Sul primo punto, sottolineo che la nuova provincia, in sintonia con i princìpi dell'articolo 118, va collocata nell'ambito di un sistema a quattro livelli. Parlo di un sistema in cui dallo Stato al comune, o per meglio dire dal comune allo Stato vi sono quattro livelli istituzionali territoriali, due dei quali sono caratterizzati soprattutto dalla funzione legislativa, ripartita tra Stato e regioni, e due da funzioni di carattere amministrativo, ossia comuni e province.
Ciò serve anche a riqualificare il ruolo della regione che, nel tempo, è diventata soprattutto un ente di amministrazione, piuttosto che di legislazione.


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La provincia, in particolare, si collega alle funzioni locali cosiddette di «area vasta», sia fondamentali che proprie; un complesso di compiti e di servizi amministrativi, in una serie di campi, che vanno tenuti distinti dalle funzioni di base, quelle che spettano quindi ai comuni.
Le funzioni di area vasta scaturiscono non solo da alcuni compiti storici delle province, ma da una serie di attribuzioni che, soprattutto con le riforme amministrative degli anni '90, hanno incrementato il ruolo istituzionale degli enti provinciali e che, naturalmente, alla luce della riforma costituzionale del 2001, dovrebbero ulteriormente essere incrementate.
Ciò, d'altra parte, si ricava dagli schemi che erano stati predisposti in attuazione della legge n. 131 del 2003, la cosiddetta legge La Loggia, nella XIV legislatura, sino al recentissimo schema di disegno di legge governativo che il Consiglio dei ministri, il 15 luglio, ha approvato in via preliminare, nel quale si elencano ben 18 funzioni fondamentali della provincia, rispetto alle 21 elencate per i comuni. E altre funzioni dovrebbero derivare alla provincia dalla soppressione di una serie di enti che, in questo schema di disegno di legge, si prevede di sopprimere.
Si tratta di funzioni che, per la loro dimensione, non possono essere evidentemente gestite in modo efficace dai comuni, né singoli né associati, né dovrebbero essere gestite dalla regione, se non altro perché verrebbe meno il principio costituzionale della valorizzazione delle autonomie locali e del decentramento. Queste funzioni di area vasta esigono un ente di governo rappresentativo in grado di prendere decisioni - quindi non un ente di secondo grado - in dialogo anche con i soggetti economici e sociali che, non a caso, nel nostro sistema repubblicano operano in gran parte proprio a livello provinciale.
A voler rendere effettivi i princìpi di autonomia e di decentramento fissati dall'articolo 5 della Costituzione, nella prospettiva della sussidiarietà, e richiamando, se si vuole, anche la Carta europea dell'autonomia locale, si deve considerare, a mio giudizio, la provincia - o la variante città metropolitana, naturalmente nelle aree a forte conurbazione - come un livello istituzionale essenziale, perno imprescindibile di un sistema policentrico, volto a valorizzare il più possibile il rapporto e la possibilità di partecipazione dei cittadini. La provincia, in questo senso, dovrebbe essere considerata la «regista» dello sviluppo locale sul piano operativo, sul piano dell'esercizio di funzioni e di servizi amministrativi.
Naturalmente, faccio riferimento alla provincia come espressione istituzionale rappresentativa di una comunità territoriale, che ha quindi un suo radicamento, a mio giudizio ormai consolidato nel tempo: nata con la legge Rattazzi del 1859, anche se inizialmente con funzioni piuttosto limitate, è rimasta sempre nell'architettura istituzionale della Repubblica.
A parte i fenomeni fuorvianti di proliferazione di nuove province un po' artificiali, che si sono avute negli ultimi anni - addirittura in Sardegna di punto in bianco si sono raddoppiate le province - e che vanno combattuti, in realtà la provincia è un ente che ha un solido riconoscimento nella comunità locale, la quale identifica se stessa non solo nella dimensione comunale, ma anche in quella provinciale, prima di arrivare alla dimensione regionale. Credo che ciascuno di noi si richiami a un'identità in cui anche la dimensione provinciale ha il suo peso.
Non si tratta di organizzare a tavolino un reticolo di enti formati in base a parametri astratti, bensì di riconoscere una dimensione che storicamente si è andata definendo e che è tendenzialmente stabile, salvo le modifiche a norma degli articoli della Costituzione che rendono possibili, ma solo in casi eccezionali, queste modifiche.
D'altra parte - aggiungo e chiudo su questo punto - in Europa, non a caso, tutti gli Stati di dimensione simile a quello italiano hanno un'articolazione territoriale su tre livelli. Da questo punto di vista, dunque, sia pure con diverse denominazioni, la triade di enti istituzionali territoriali


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substatali è presente in tutte le realtà nazionali del contesto europeo dei 27.
Su questo rinvio, oltre che alla mia memoria, al volume, curato dall'associazione Astrid, Semplificare l'Italia che contiene una tabella puntuale che enuncia questi elementi.
Vengo rapidamente al secondo punto, ossia la nuova provincia come elemento essenziale per semplificare il quadro istituzionale e ridurre i costi. A me sembra che, realizzando il riassetto delle funzioni amministrative secondo il disegno costituzionale vigente, si dovrebbero valorizzare e responsabilizzare, sul piano amministrativo, essenzialmente i due livelli territoriali, comunale e provinciale, eliminando o ridimensionando drasticamente la pletora di organismi e soggetti settoriali, strumentali e via dicendo, che sono proliferati nel tempo, a tutti i livelli locali.
Sono oltre un migliaio quelli di dimensione paraprovinciale e oltre 500 quelli pararegionali. Si tratta di organismi, a mio giudizio, in gran parte da sopprimere, o comunque da rivedere in una prospettiva in cui le funzioni amministrative siano allocate ai due livelli comunale e provinciale.
La riallocazione delle funzioni, secondo questo disegno costituzionale, consentirebbe quindi di attuare meglio anche l'articolo 119, che rappresenta la cartina di tornasole della tenuta del sistema sul piano finanziario, secondo un principio di responsabilità nella gestione delle funzioni, con un nesso con le risorse, basate sui costi e fabbisogni standard, senza privilegi per le regioni speciali.
In tal senso, mi sembra urgente ridefinire il quadro delle funzioni per poter procedere anche a un'effettiva attuazione della legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, che in realtà ha impropriamente preceduto l'attuazione dell'articolo 118, rischiando di congelare l'attuale assetto delle funzioni amministrative, senza riduzione delle sovrapposizioni e della polverizzazione delle funzioni.
D'altra parte, è appena il caso di sottolineare che la riduzione dei costi che deriverebbe dall'ipotizzata soppressione delle province sarebbe del tutto teorica e, per molti versi, assai modesta. Verrebbero meno solo i costi degli organi rappresentativi, le indennità degli amministratori, che mi sembra il Ministro dell'economia abbia quantificato in meno di 200 milioni sul totale degli oneri dell'ente provincia nel sistema nazionale. Non verrebbero assolutamente meno, però, i costi per la gestione delle funzioni di area vasta, che qualcuno dovrebbe comunque esercitare. Soprattutto, non si inciderebbe nella direzione utile per una effettiva riduzione dei costi, ossia quella della soppressione o del ridimensionamento degli enti e organismi, spesso fuori controllo, che agiscono con apparati assai onerosi e spesso anche poco responsabili.
In conclusione, chiedendo venia per la sommarietà delle considerazioni che ho cercato di svolgere, la strada per semplificare e ridurre non passa per la soppressione di un livello istituzionale che, invece, mi pare essenziale per l'equilibrio di un sistema, ma piuttosto per un'organica e coerente attuazione della riforma costituzionale che, finalmente, determini le funzioni fondamentali locali, i presupposti per la Carta delle autonomie e per l'attuazione delle città metropolitane, in modo da evitare una serie di contraddizioni, che emergono anche dalla legislazione di questi ultimi anni, così come l'accentramento regionale che persiste, con frequenti confusioni e sovrapposizioni di competenze.
In questo senso, lo schema di disegno di legge governativo a cui facevo prima riferimento, che pure ha una serie di limiti sui quali si dovrebbe ragionare, si muove, sul piano del metodo, in una direzione utile.
Il Titolo V va verificato in concreto, sul piano applicativo, prima di ipotizzarne il superamento. Semmai, il Titolo V va completato con altre riforme costituzionali, di cui pure si discute, come è noto, in questo periodo, soprattutto per rappresentare le autonomie al centro e rafforzare la tenuta unitaria del sistema.


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TOMMASO FROSINI, Professore ordinario di diritto pubblico comparato. Ringrazio lei, presidente, e la Commissione, per avermi fatto l'onore di invitarmi nuovamente per sentire la mia opinione.
Prendendo spunto dalla precedente indagine conoscitiva, che si è tenuta circa un mese fa a proposito di un'ipotesi di modifica all'articolo 132, vorrei offrire una breve definizione metodologica rispetto al tipo di lavoro che credo stia impostando il legislatore costituzionale: l'ipotesi di una riforma del Titolo V realizzata per pezzi, verificando cioè, in primo luogo, la possibilità di modificare l'articolo 132 e poi quella di espellere dal testo costituzionale tutti i riferimenti letterali alle province.
Mi chiedo, e lo chiedo ovviamente alla Commissione, se non sia piuttosto il caso di sviluppare un ragionamento complessivo sul Titolo V, vale a dire se la metodologia di un'operazione di manutenzione stop and go sia favorevole per rivedere l'assetto dei rapporti tra Stato e regioni, e quindi l'intero Titolo V, o se non sia più opportuno, visto che vengono avanzate proposte di modifiche e di riforma, svolgere un ragionamento complessivo e predisporre una manutenzione generale del Titolo V stesso. Peraltro, come sappiamo tutti, essa è molto avvertita, anche in alcuni articoli della Costituzione, che però adesso non mi sembrano all'ordine del giorno dei lavori parlamentari. Mi riferisco essenzialmente all'articolo 117, che sappiamo essere fonte di contenzioso di fronte alla Corte costituzionale, che ha imposto a quest'ultima di mettervi mano, quasi in sostituzione del legislatore, per regolare al meglio i rapporti fra Stato e regioni.
Vengo, quindi, al tema delle province. Ho letto con attenzione tutti i progetti di legge che sono stati presentati e ho l'impressione - ma sul punto potrei, naturalmente, essere smentito - che la ratio alla base di tutti sia soprattutto quella di voler contenere la spesa pubblica per il tramite dell'abolizione delle province.
Quello delle province pare essere, dunque, un problema esclusivamente di bilancio dello Stato: secondo questa idea, eliminando le province si può far rientrare una fetta del bilancio pubblico, perché le spese che le riguardano non verranno più effettuate dopo che saranno state eliminate.
Mi chiedo se sia opportuno cambiare la Costituzione soltanto per un problema di bilancio pubblico, ossia se è il caso di mettere mano, in maniera peraltro così frammentaria, alla Costituzione, asportando con un bisturi ogni occorrenza della parola «province» dal testo costituzionale, solo ed esclusivamente, o comunque prevalentemente per garantire una maggiore efficienza finanziaria del nostro Paese. Credo che sia un po' riduttivo.
Mi sembra che esistano molti altri enti non normati costituzionalmente che potrebbero essere aboliti, se l'obiettivo fosse quello di restituire una maggiore virtuosità economico-finanziaria del Paese. Non credo che le province possano essere definite, al pari di tanti enti substatali, enti inutili. Siamo certi dell'inutilità delle province al punto che conviene espungerle dal testo costituzionale?
Il dibattito della Costituente è interessante, perché, proprio in quel periodo, le province non vennero inizialmente prefigurate nel progetto originario di Costituzione. L'ente provincia fu introdotto nella Costituzione successivamente, in Assemblea. Ho riletto quel dibattito e vi ho trovato una frase molto significativa - e fu la frase che poi consentì di normare costituzionalmente le regioni - pronunciata in Assemblea costituente dall'onorevole Piccioni, il quale dichiarò che facendo scomparire la provincia si correva il rischio di creare l'accentramento nel decentramento. Può sembrare un paradosso o un gioco di parole, ma aveva un suo significato, laddove la provincia era pensata come cuscinetto fra la regione e il comune.
Insomma, si può cambiare la Costituzione per motivi di bilancio pubblico, se oggi è questo il problema riguardante le province, come parrebbe emergere dalla lettura dei progetti di legge, soprattutto dalle relazioni introduttive? Proverei, se non a smentire, comunque a ridurre l'idea


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secondo la quale nel binomio federalismo-Stato federale non ci sarebbero le province, o comunque sarebbe più opportuno non averle, perché quello federale è uno Stato tendenzialmente strutturato sulla base delle grandi autonomie territoriali, che in Germania sono i Länder e in Italia diventerebbero le regioni.
Innanzitutto, vorrei in parte integrare ciò che diceva prima il collega De Martin, perché l'esperienza del Belgio, uno Stato inizialmente regionale e centralistico che successivamente si è costituito come federale, prevede le province; non prevede i tre livelli di governo che sono stati citati, ma quattro, come nel nostro Paese: Stato, regione, provincia e comune.
Un altro Stato molto significativo ai fini della comparazione con l'Italia, la Spagna, un Paese basato sul regionalismo differenziato, se non proprio sul federalismo, prevede le province. L'idea che in un sistema federale non debbano esserci le province, in quanto ente di ingombro rispetto a una semplificazione del rapporto fra lo Stato, le regioni e il comune per quanto riguarda l'attività amministrativa cittadina, è in parte smentita dall'esperienza comparata. Ho citato, non a caso, due Paesi, uno prettamente federale e l'altro a tendenza federale, e in entrambi è prevista la figura delle province.
Quali interventi si potrebbero, dunque, attuare? Credo che venga richiesto anche a noi di ragionare su ipotesi alternative per chi, come me, è tendenzialmente non favorevole a eliminare le province attraverso un'operazione, per così dire, di «sbianchettamento» della Carta costituzionale. Si può intervenire sicuramente con legge ordinaria. Esiste il Codice delle autonomie, di cui il Ministro Calderoli ha già predisposto un testo approvato in via preliminare dal Consiglio dei ministri. Onestamente, non ne conosco i contenuti, ma, sulla base dei resoconti che ho letto, ho intuito che il Codice preveda un forte dimagrimento degli organi della rappresentanza politica delle province, ovvero il numero dei consiglieri provinciali e dei componenti della Giunta e così via.
Mi pare interessante, invece, l'ipotesi, adombrata, nel corso del dibattito in questa Commissione sulle proposte di legge concernenti la soppressione delle province, dall'onorevole Vassallo, di immaginare una rappresentanza di secondo grado nell'ambito delle province. È un'ipotesi interessante perché conferirebbe loro una propria dignità, elevandole a laboratorio costituzionale. Mi spiego meglio: se oggi le province costituiscono un problema prevalentemente dal punto di vista finanziario, perché non sfruttare anche questo problema dibattuto per immaginare le province come una sorta di laboratorio costituzionale, ossia prevedere un loro funzionamento alternativo rispetto ai tradizionali meccanismi della rappresentanza politica?
Credo che il punto sia anche questo: le province debbono, al pari delle regioni e dei comuni, godere di una legittimazione di tipo elettorale popolare? Non mi pare che questa esigenza sia fortemente avvertita dall'elettorato. Non mi pare, cioè, che l'elettorato si senta rappresentato dai consiglieri provinciali al pari non del Parlamento nazionale, ovviamente, ma nemmeno del consiglio regionale o di quello comunale, che è naturalmente l'ente più vicino al cittadino.
Una rappresentanza di secondo grado, cioè composta dai sindaci dei comuni che appartengono a una determinata provincia, potrebbe, da un lato, prefigurare un nuovo modo di governare il territorio attraverso una rappresentanza non diretta, non proveniente cioè dal voto popolare, ma piuttosto filtrata, e darebbe, dall'altro, anche la possibilità di realizzare un'organizzazione della governance - per così dire - provinciale molto più forte, in quanto gestita dagli stessi sindaci dei comuni rappresentanti la provincia.
Credo che questo sia un percorso interessante, sul quale il legislatore possa intervenire, peraltro nella sua disponibilità della legislazione ordinaria, nell'ambito della quale tutto ciò potrebbe essere realizzato. La Costituzione impone, infatti, l'elezione popolare soltanto per il consiglio regionale e per la giunta. Il resto è a


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discrezione del legislatore, per il tramite di una legge ordinaria. L'ipotesi sarebbe, quindi, di lavorare non tanto sulla legislazione costituzionale, ma piuttosto su quella ordinaria: per il tramite di una modifica della legge - a partire dalla legge n. 142 del 1990, con tutte le modifiche e le novelle che nel frattempo si sono aggiunte nel settore degli enti locali, in particolare per quanto riguarda le province - e attraverso l'esame e il ripensamento del ruolo del consiglio provinciale quale rappresentanza di secondo grado, ovvero costituita da sindaci dei comuni, si potrebbe passare - per dirlo in una battuta - dalla rappresentanza all'amministrazione.
Peraltro, credo che ci sarebbe anche un beneficio economico, considerato che questo è uno dei problemi più avvertiti, perché naturalmente i sindaci potrebbero non godere dei rimborsi di cui godono i consiglieri provinciali, avendone già di propri all'interno del loro mandato. Si potrebbe prevedere per loro, per esempio, un gettone.
La struttura amministrativa potrebbe essere quella utilizzata dai singoli comuni, anziché avvalersi di personale addetto alle province. Le spese delle province derivano, infatti, dai consiglieri provinciali, dalle giunte e dall'apparato amministrativo che presiede alla loro organizzazione. Non credo che vi siano altre fonti di spese significative in capo alle province. In questo modo, tali spese verrebbero assorbite attraverso un meccanismo, che sarebbe anche intelligente e interessante, che l'Italia potrebbe offrire come proposta alternativa - non voglio esagerare - di gestione del potere locale, per il tramite di una rappresentanza che non sia solo ed esclusivamente quella tradizionale, fondata sulla volontà del corpo elettorale.
La provincia ha un suo senso nel pluralismo territoriale, se mi è consentito esprimermi in tal modo. Nell'ambito del pluralismo, che è poi il meccanismo sul quale si dispiega l'intero assetto costituzionale, essa funziona laddove ci possono essere enti di autonomia territoriale che ne consentano una maggiore libertà di azione. In questo modo, la provincia verrebbe a essere una sorta di camera di compensazione del confronto tra comune e regione; essa sarebbe rappresentata dai sindaci dei comuni che dialogherebbero con la regione, ai fini di una maggior funzionalità e di un maggiore sviluppo, eventualmente accrescendo alcuni poteri che oggi, effettivamente, sono modesti.
Chiudo il mio intervento citando una ricerca condotta dal CENSIS nel maggio 2009, per conto dell'Unione delle province italiane, dalla quale emerge un utilizzo concreto del sistema provincia anche ai fini della capacità di contenere la crisi economico-finanziaria. Mi sembra che questo prodotto offerto dal CENSIS possa servire anche per un ripensamento, in luogo di una soppressione costituzionale, delle province.

TANIA GROPPI, Professore ordinario di istituzioni di diritto pubblico. Anch'io ringrazio per la possibilità di essere qui. All'inizio della mia esposizione, vorrei svolgere qualche considerazione sulle ragioni che mi sembrano essere alla base di questa nuova tornata di tentativi di soppressione delle province.
Il tema - ho letto i resoconti dei lavori della Commissione e i dossier predisposti dagli uffici - è classico, si pone nel nostro Paese fin dal Regno d'Italia, ritorna in Assemblea costituente e, ancora, con la creazione delle regioni ordinarie. È un tema che ha un andamento «carsico»: a volte emerge e a volte sparisce, e questa volta appunto ricompare.
Leggendo le relazioni che accompagnano i disegni di legge costituzionale, mi sento di dover dissentire dalle osservazioni del collega Frosini: non mi sembra che dietro di essi ci siano soltanto esigenze di bilancio e di contenimento della spesa pubblica. Mi pare, piuttosto, che vengano richiamati gli argomenti classici avanzati dai sostenitori della soppressione della provincia anche in Assemblea costituente. Se riprendiamo, per esempio, gli interventi di Lussu, che sono forse i più significativi in questa direzione, vi troviamo argomenti come il carattere artificioso della provincia,


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la mancanza di radicamento storico e di un'identità propria, l'inadeguatezza delle circoscrizioni provinciali, ritagliate secondo il modello geometrico dei dipartimenti francesi, l'assenza di legami con le realtà socioeconomiche sottostanti, l'appesantimento dei processi decisionali, la scarsa importanza delle funzioni provinciali, la confusione tra provincia come ente locale e come sede di decentramento statale, l'ambiguo rapporto con la regione. Sussistono, dunque, tutti gli argomenti classici dei sostenitori dell'abolizione delle province.
Emergono, certamente, in questa tornata anche alcuni argomenti nuovi, ad esempio la necessità di semplificare i livelli di governo in un sistema in cui tali livelli si moltiplicano sempre di più (dobbiamo considerare anche l'Unione europea, oltre ai livelli nazionali), la proliferazione del numero delle province, che è sotto gli occhi di tutti negli ultimi anni, nonché la scarsa partecipazione dell'elettorato alle elezioni provinciali (anche questo è un fenomeno sottolineato e nuovo). Dopodiché, anche l'argomento dei costi viene evidenziato nei disegni di legge.
Se guardiamo ai sostenitori della provincia e leggiamo i loro interventi, sia nelle sedi politiche, sia nella dottrina del diritto costituzionale e di quello amministrativo, troviamo anche in questo caso argomenti ormai consueti. Mi sembra che essi si basino, da un lato, sull'esigenza di evitare un nuovo centralismo regionale e di frapporre un ente intermedio tra il livello comunale eccessivamente frammentato e quello regionale, soprattutto per la gestione dei servizi di area vasta, dall'altro sul radicamento nel territorio. I sostenitori del mantenimento delle province sostengono, infatti, che se tale ente poteva essere artificioso all'inizio, ormai si è radicato. Si cita, inoltre, la valorizzazione delle funzioni ad opera della legislazione più recente - a partire dalla legge n. 142 del 1990, seguita dalle leggi Bassanini - in conseguenza della quale la provincia è ormai un ente titolare di numerose funzioni e che si occupa di molteplici attività.
Mi permetterei, sommessamente, di rilevare che, a mio avviso, questi argomenti a favore del mantenimento delle province confondono i diversi piani del discorso: da un lato, si confonde l'esigenza di avere un ente intermedio con quella di conservare la provincia; dall'altro, si sovrappone l'aspetto descrittivo - le province esistono, svolgono tante funzioni e sono utili - con un aspetto prescrittivo, per il quale ci troviamo qui a discutere di progetti di legge costituzionale che non prendono semplicemente atto della realtà, ma pretenderebbero di modificarla.
Vorrei ora cercare, in estrema sintesi - consegnerò una più ampia nota scritta alla Presidenza - di ragionare sul tema della soppressione delle province sul piano del diritto costituzionale. Vorrei mostrare essenzialmente due aspetti, svolgendo una sintesi, che spero sia efficace: in primo luogo, come la soppressione delle province sia in armonia con il nuovo Titolo V e, in secondo luogo, come tale soppressione non chiuda, però, il problema dell'ente intermedio, ma, al contrario lo apra e necessiti di una soluzione che mi sembra, invece, assente nei disegni di legge costituzionale.
Del resto, abolire le province significa aprire spazi per altri soggetti, ossia per le regioni.
Ebbene, quanto al fatto che l'abolizione delle province sia in armonia con il nuovo Titolo V, bisognerebbe tornare molto indietro, alla tradizionale equiparazione tra comuni e province che percorre il nostro sistema istituzionale fin dall'articolo 74 dello Statuto Albertino, passando per il testo originario della Costituzione del 1948, in particolare l'articolo 128. Bisognerebbe esaminare i problemi che tale equiparazione - il fatto che comuni e province siano enti con un rapporto diretto e privilegiato con lo Stato, avulsi da qualsiasi competenza regionale sul proprio ordinamento - ha creato con l'istituzione delle regioni ordinarie. Bisognerebbe riprendere i tentativi di queste ultime di organizzare gli enti locali sul loro territorio, i comprensori, le associazioni intercomunali, e comprendere perché tali tentativi sono falliti.


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Ometto tutto ciò per arrivare direttamente alla posizione dei comuni e delle province nel Titolo V, come riscritto nel 2001. Sostanzialmente, nel 2001 si mantiene la tradizionale equiparazione tra comuni e province, ma si introducono due elementi di novità. Il primo è la città metropolitana, su cui non mi soffermo. Il secondo - questo va richiamato - è il principio di sussidiarietà, contenuto nell'articolo 118. Tale principio valorizza il ruolo del comune in un modo del tutto inesistente nel Titolo V precedente, che prevedeva davvero una totale equiparazione di comuni e province, salvo riguardo alla modifica delle circoscrizioni, aspetto questo che meriterebbe qualche parola, ma non in quest'occasione. L'articolo 118 dispone, infatti, che è il comune l'unico ente locale dotato di funzioni generali e che ad esso dovrebbero essere attribuite tutte le funzioni amministrative, salvo che non sia necessaria una gestione unitaria.
Da un lato, nel nuovo Titolo V si trova per la prima volta, mi sembra, nella nostra storia costituzionale, un segno di scardinamento della perfetta equiparazione. Dall'altro, però, bisognerebbe allargare un po' il discorso, perché ci troviamo a discutere non solo della soppressione o del mantenimento delle province, ma anche dell'insieme del sistema istituzionale e amministrativo italiano. Bisognerebbe considerarlo, dunque, nel quadro della forma di Stato disegnata dalla riforma del Titolo V.
Tale riforma delinea, come è noto, un modello di «federalismo all'italiana», basato sulla valorizzazione, da un lato, delle regioni come soggetti titolari della potestà legislativa e delle scelte politiche e, dall'altro, del ruolo dei comuni - si parla a volte di neomunicipalismo - in virtù del principio di sussidiarietà.
Ebbene, in questo quadro normativo ed entro questa forma di Stato - se ed entro si conviene che sia quella delineata dalla riforma costituzionale del 2001 - a me sembra che, in fin dei conti, la presenza delle province sia un retaggio del passato: un elemento che ci si è trascinati dietro perché è ormai parte della tradizione italiana, (e più in generale dei Paesi con un'amministrazione di tipo francese - napoleonico -) la presenza di un ente intermedio dotato di autonomia costituzionalmente garantita, disciplinato da legge dello Stato, quanto a funzioni fondamentali, circoscrizioni, istituzione.
A me sembra che mantenere un ente così costituito che - lo ripeto - gode di un rapporto diretto e privilegiato con lo Stato (lo aveva nel 1865 e, prima ancora, nel Regno di Sardegna), non sia in piena armonia con la forma di Stato delineata dal nuovo Titolo V e, quindi, con la duplice valenza, da un lato più propriamente federale e dall'altro neomunicipale.
Detto questo, mi pare che non si possa negare la necessità di avere un ente intermedio, che svolga funzioni di area vasta. I disegni di legge costituzionale, nell'abrogare le province, prevedono disposizioni transitorie che attribuiscono a enti diversi le funzioni che venivano svolte dalle province. Abrogando questi enti, tuttavia, si apre uno spazio di azione alla regione. Non possiamo ignorare ciò, perché già oggi alla regione è riconosciuta la possibilità di disciplinare modelli associativi in potestà legislativa residuale (articolo 117, comma quarto, della Costituzione). In assenza delle province, la competenza regionale prevista nell'articolo 117, comma quarto, si espanderebbe ulteriormente, venendosi a muovere in uno spazio molto più ampio.
Se abolendo le province si apre questo spazio, per la legge regionale, di definire l'ente intermedio seguendo il modello di certi Stati federali - in cui soltanto il comune trova una garanzia nella Costituzione federale, mentre spetta agli Stati membri la disciplina dei livelli intermedi di governo - credo che dovremmo riflettere sulla necessità di prevedere, nella nostra Costituzione, alcuni paletti entro i quali la legislazione regionale deve muoversi.
A me sembra che il rischio, una volta ammesso che l'ente intermedio che svolge le funzioni di area vasta sia disciplinato dalla regione, il rischio non sia tanto quello di un neocentralismo regionale, ma proprio il contrario. Le regioni sono più


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permeabili al localismo e, quindi, il rischio è quello della moltiplicazione degli enti intermedi. In fondo, è ciò che ha fatto la regione Sardegna con l'istituzione di nuove province, come veniva ricordato poco fa.
Mi sembra che potrebbero, per così dire, rientrare dalla finestra i problemi di ipertrofia degli enti locali che si vorrebbero risolvere attraverso la semplificazione dei livelli di governo che conseguirebbe dall'abolizione delle province. Lo ripeto, mi pare necessaria una norma costituzionale che orienti la potestà legislativa regionale. Segnalo due contenuti che ritengo importanti per una norma sull'ente intermedio che dovrebbe prendere il posto della provincia, e che dovrebbe essere disciplinato dalla legge regionale, posto che questa mi pare la scelta più consona rispetto alla forma di Stato segnata dalla riforma costituzionale del 2001. Da un lato, a livello procedurale, dovrebbe essere previsto un idoneo coinvolgimento dei comuni nella definizione degli enti intermedi; dall'altro, a livello sostanziale, dovrebbero essere introdotte norme che garantiscano un minimo di uniformità alle scelte regionali, nel senso di preservare la semplificazione ottenuta attraverso l'abolizione delle province; per esempio, imponendo un'elezione di secondo grado degli organi dell'ente intermedio a matrice regionale e introducendo alcuni requisiti minimi per evitare una proliferazione degli enti.
Ci sarebbero alcune considerazioni di maggiore dettaglio da svolgere sulle regioni a statuto speciale, sulla necessità di procedere nei loro confronti con appositi disegni di legge costituzionale, oppure sulle città metropolitane, ma rimando al testo che consegnerò alla presidenza.

ALDO LOIODICE, Professore ordinario di diritto costituzionale. Ringrazio il presidente e la Commissione per l'onore che mi è stato dato di essere ancora una volta qui e di poter portare il mio contributo. Anche io ho predisposto una nota scritta, che consegno alla Presidenza, per comodità della Commissione. Si tratta di una mia pubblicazione sul tema della provincia, apparsa nella rivista Civiltà Europea diretta da Giuseppe Valditara dell'Università europea di Roma, in cui si propone un percorso ragionato e ragionevole di modifica dell'assetto degli enti locali, e non tanto di eliminazione tout court della provincia.
Svolgerò alcune brevi riflessioni, sebbene si tratti di un tema molto articolato, come emerge dagli interventi che mi hanno preceduto. Mi sono occupato sin dagli anni settanta di questo fenomeno carsico - come lo definiva la collega Groppi - e in una di quelle «emersioni», negli anni settanta, si studiava il problema del comprensorio, il comprensorio come ente di decentramento regionale, ma ente autonomo associativo dei comuni, con tutta una serie di proposte. Tuttavia, a distanza di circa quaranta anni, permangono gli stessi problemi. Una traccia di quella problematica esiste anche nei vostri lavori e in queste proposte, che in effetti mancano di alcuni aspetti, come è stato segnalato.
Ho cercato di cavalcare questa «tigre» dell'eliminazione delle province non tanto per esprimere la convinzione se eliminarle o meno, quanto per verificare una serie di aspetti che mi sembrano utili. La ragione di questa proposta non è tanto nella presunta inutilità delle province, quanto nel loro stato attuale e nelle conseguenze della loro eliminazione.
Le funzioni della provincia dovranno essere svolte da qualche altro ente. Allora, una volta eliminate le province, si rischia o l'accentramento regionale, come è stato già detto, o la dispersione comunale, laddove sono frammentati i comuni. Si tratta, però, di funzioni e compiti di dimensione sovracomunale. Non è un problema di facile soluzione appoggiare tali funzioni sui comuni. I comuni hanno diverse dimensioni e capacità, quindi mi pare che il problema si ponga.
Occorre evitare, dunque, atteggiamenti semplicistici che propongono un'eliminazione immediata delle province, ovvero il mantenimento dello stato attuale dalla cui situazione emerge questa necessità di introdurre un'innovazione costituzionale.


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Sarebbe piuttosto proficuo avviare un processo riformatore che conduca alla modifica dello stato attuale della situazione, processo al cui termine l'eliminazione eventuale delle province diventerebbe un fatto naturale, direi quasi indolore.
È chiaro che, se si eliminano le province, si pone immediatamente il problema della fattibilità di questo intervento costituzionale. Lo ripeto, occorre disegnare il nuovo assetto delle competenze, se si eliminano le province. L'intervento costituzionale, però, non mi pare la sede idonea a dettagliare un processo di fattibilità nei suoi percorsi. Lo può avviare, ma deve lasciare alla sede legislativa la possibilità di giungere a un nuovo assetto.
Resta sempre il problema del livello intermedio, ossia la ricerca di un ente a cui attribuire le funzioni. Sorge il problema dell'incentivazione di livelli sovracomunali associativi. Già negli anni '70 si pensava di incentivare i consorzi di comuni cui affidare le competenze sovracomunali. Si è ipotizzato, all'epoca, il passaggio alle regioni di funzioni provinciali, con obbligo di istituire enti intermedi ai quali delegare i compiti di livello sovracomunale. Insomma, di soluzioni se ne sono studiate moltissime. In applicazione del principio di sussidiarietà, peraltro, si potrebbero adottare tante altre iniziative, che già sono state ricordate.
Mi pare che si possa fare brevemente il punto sulla provincia, soffermandosi pochi minuti sul processo evolutivo e sullo stato attuale, elementi che rendono difficoltosa la sua eliminazione. Un'eliminazione non impossibile e nemmeno deprecabile, ma neanche auspicabile immediatamente: questo è il ragionamento che ho cercato di sviluppare nell'articolo che ho consegnato alla Presidenza.
In fondo, non è che le province - su questo il mio ragionamento può sembrare in dissenso con quello della collega Groppi, ma è di tipo diverso - non siano in armonia con la Costituzione. Io faccio un altro discorso, lasciando stare quello dell'armonia o meno, dal momento che il nuovo Titolo V presenta una serie di disarmonie e direi, anzi, che la sua armonia è nell'essere disarmonico. Di questo, dunque, non mi preoccuperei tanto.
Tuttavia, comuni e province sono attualmente dotati di una copertura costituzionale, che conservano; rispetto all'ex articolo 128 hanno una consistenza e una dignità superiori. Anche il secondo comma dell'articolo 119 chiama in causa il potere autoregolamentare delle province, funzioni amministrative, autonomia finanziaria impositiva, insomma il cosiddetto federalismo fiscale. È inutile che vi trattenga su argomenti che sono stati ripetuti più volte.
La Carta costituzionale oggi considera la provincia una delle comunità nelle quali si inserisce il cittadino come persona partecipe delle decisioni da prendere. Quindi, Stato, regioni, città metropolitane, province e comuni sono sullo stesso piano: un'utopia che ancora non si traduce in realtà, ma così è scritto. Nell'articolo 114 si legge: «La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato».
Bisogna tener conto che, fino al 1990, c'è stata una logica di approccio alla provincia che solo in quell'anno comincia a cambiare. La provincia è stata, fino al 1990, l'ente disegnato dalla legge Rattazzi, che poi fu trasfusa nella legge comunale del 1865. Quell'ente aveva una struttura organizzativa idonea all'autogoverno, ma, quanto alle funzioni, aveva una tecnica legislativa piuttosto ambigua, che è stata utilizzata per tutto questo tempo: si distinguevano spese obbligatorie e spese facoltative e, sulla base delle spese, si individuavano le funzioni. Nelle spese facoltative rientravano anche i contributi di competenza sulla situazione della Cina. Fu così che alcuni consigli provinciali, anni fa, si occuparono anche della Cina!
Già nel 1800 sorgeva l'equivoco sulla natura della provincia, sul suo carattere naturale o artificiale, se la provincia dovesse concepirsi come associazione di comuni ovvero se le sue funzioni derivassero dalle esigenze e dai bisogni della comunità rappresentata. Un problema, questo, sempre


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prospettato, mai risolto definitivamente e mai acquisito legislativamente a un livello di certezza.
Comunque, devo dire che la dottrina ha sempre ritenuto che le province fossero enti di tipo associativo di secondo grado a carattere generale, sostanzialmente come i comuni. Tuttavia, il legislatore ha sempre contraddetto, fino al 1990, questa convinzione della dottrina.
Con lo Stato totalitario, poi, si riorganizzarono le funzioni dell'ente, che furono trasfuse nel testo unico della legge comunale e provinciale, che è rimasta fino al 1990. In quel testo erano previste funzioni in materia di sanità, di igiene, di opere pubbliche, di educazione nazionale, di assistenza e beneficenza, ma la provincia non fu un ente a carattere generale.
Soltanto con la Costituzione del 1948 si ha un salto di qualità e nell'articolo 5 si individua un principio che legittima le province. In sostanza, la Costituzione ha messo in rilievo un meccanismo in cui la posizione della provincia è quella di un ente rappresentativo della collettività locale e non un ente di servizio intermedio. È un profilo che non può essere trascurato, tanto che negli anni Novanta questa posizione matura con la legge n. 142 del 1990, in cui, all'articolo 2, la provincia è definita «ente locale intermedio fra comune e regione», che «cura gli interessi e promuove lo sviluppo della comunità provinciale».
In tal modo, la provincia viene riconosciuta come ente di governo locale a fini generali, per una collettività identificata nella sua individualità naturale. Insomma, la Costituzione del 1948 ha aperto una strada che ha incominciato a rendersi appena percepibile nel 1990 e che viene confermata nel 2000. E non so che cosa succederà nel Codice delle autonomie.
Non voglio trattenervi sulle funzioni della provincia, poiché è un aspetto che ci porterebbe via molto tempo. Tuttavia, osservo che tali funzioni sono diverse e molteplici e bisogna tenerne conto: sulla difesa del suolo, sulla prevenzione delle calamità, sui beni culturali, sulle risorse energetiche, sui trasporti e via dicendo. Non le elenco tutte, ma non sono funzioni inutili; sono, bensì, funzioni necessarie, di dimensione sovracomunale e subregionale. Trasferirle tutte alla regione creerebbe un problema; lasciarle nella dispersione dei comuni significherebbe crearne un altro.
Quando ci fu la distribuzione a pioggia delle funzioni a tutti gli enti, con la riforma Bassanini, non si sapeva più a chi rivolgersi. Non voglio ricordarvi il problema dei poveri ambulanti, che non sapevano se rivolgersi alla questura o al comune per sapere se a Pasqua potevano vendere la propria merce, come tradizionalmente si faceva nel luogo di riferimento. Nessuno sapeva chi doveva autorizzarli e fioccavano le contravvenzioni dei vigili urbani, che impedivano a questa gente di sopravvivere.
Sono questioni che possono sembrare ridicole, ma che hanno danneggiato diverse migliaia di operatori economici di piccolo livello. Sempre, quando si trasferiscono funzioni, ci sono conseguenze che determinano danni.
In questo caso, attuare una soppressione delle province senza tener conto di tutto questo significherebbe creare un altro disordine che potrebbe arrecare diversi danni, tanto più che la provincia adesso ha acquisito la caratterizzazione di ente con cosiddette funzioni libere, con programmazione eccetera. Insomma, una serie di elementi ci porta in direzione esattamente opposta all'eliminazione delle province.
Resta, tuttavia, un problema che richiede un approccio che tenga conto di alcuni aspetti. L'articolo 5 della Costituzione valorizza il principio autonomistico, quindi, tendenzialmente, ogni ente che attui tale principio non merita di essere soppresso, se contribuisce all'attuazione dello stesso, se non lo complica o non lo distorce.
Allora, se c'è una distorsione o una complicazione, bisogna eliminare la patologia, non l'ente che ne è vittima. Occorre, comunque, valorizzare il principio dell'aderenza dell'ente a una comunità di base e non di un modello astratto.
Il percorso che abbiamo tentato di ipotizzare - se ne è discusso in diverse


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occasioni, anche in alcuni convegni - è quello di ravvisare una possibilità di eliminazione delle province attraverso l'attuazione della normativa sulle città metropolitane. La novità del nuovo Titolo V è l'inclusione delle città metropolitane.
Tale inclusione apre uno spiraglio totalmente nuovo proprio sulle province, perché il testo unico degli enti locali di cui al decreto legislativo n.267 del 2000., che individua come aree metropolitane «le zone comprendenti i comuni di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli» prevede anche «altri comuni i cui insediamenti abbiano con essi rapporti di stretta integrazione territoriale e in ordine alle attività economiche, ai servizi essenziali alla vita sociale, nonché alle relazioni culturali (...)». Insomma, si può allargare il numero delle città metropolitane, che sono destinate a sostituire comune e provincia.
Questa fattispecie nuova del Titolo V determina che, in corrispondenza dell'entrata in funzione delle medesime città metropolitane, si crei un meccanismo di incisione sulle province, che non può essere ignorato e da cui si può trarre profitto per ridisegnarle o per eliminarle. È questa la segnalazione che si immaginava di poter fare.
Il modello delle città metropolitane, ai sensi degli articoli 22 e 23 del citato testo unico del 2000, potrebbe essere esteso ad altre aree e si avrebbe una vasta parte del territorio italiano senza le province. Senza riforma costituzionale, avremmo una metà del territorio italiano e più della metà della popolazione senza le province; l'altra metà porrebbe il problema di un disegno nuovo della provincia.
Innanzitutto, per le città metropolitane si pone il problema della procedura per l'istituzione delle stesse, che prevede attualmente l'iniziativa e la decisione degli enti locali, i quali però non partono e non concludono. Questa procedura, dunque, andrebbe modificata. Se si vogliono veramente le città metropolitane e se si vuole partire da lì per rinnovare l'assetto degli enti locali, l'iniziativa potrà essere locale, ma anche «d'ufficio», cioè dello Stato, che per esigenze di pubblico interesse ritiene di doverle istituire. È necessario, dunque, che la possibilità di istituire le città metropolitane rientri nel potere del legislatore ordinario, qualora entro un certo termine i soggetti interessati non provvedano a farlo.
Per quanto riguarda le province che residuano in altra parte del territorio nazionale, sorge il problema di fondo delle modifiche legislative. Queste, però, non riguardano soltanto la provincia, dal momento che il problema è anche quello dei comuni.
I comuni pulviscolo o i grandi comuni diventano città metropolitane, ma restano una serie di piccoli comuni che non possono essere lasciati nella stessa condizione. In Puglia, ad esempio, vi è una varietà tale di situazioni da richiedere un ridisegno generale.
Se, dunque, si vuole dar luogo a un vero e proprio rinnovamento degli enti locali, non lo si può fare solo sulle province.
Mi sembra che questo possa essere un percorso utile da seguire. Se si ritiene di poterlo utilizzare e di fare un approfondimento in questa direzione, forse la soppressione delle province tout court adesso risulterebbe inopportuna.

ALESSANDRO PAJNO, Presidente di sezione del Consiglio di Stato. Anch'io desidero, come i colleghi e gli amici che mi hanno preceduto, ringraziare per questa opportunità che mi è stata offerta di tornare ad occuparmi in queste aule dei problemi delle autonomie locali.
La questione che oggi abbiamo di fronte è quella del tema della soppressione delle province. Come i colleghi hanno ricordato poc'anzi, si tratta di un tema che risale addirittura alla legge di unificazione del 1865 e che è stato presente anche nel dibattito costituzionale in Assemblea costituente.
Vorrei aggiungere alla notazione del costituzionalista il fatto che anche chi studiava il diritto pubblico, il diritto amministrativo si poneva esattamente lo stesso problema. Leggo queste parole che


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sono tratte da un famoso saggio sulla provincia, che testimoniano come il problema fosse risalente: «Nessun ente in Italia fu mai tanto trascurato, nella letteratura giuridica e dottrinale, quanto la provincia. Probabilmente, questa è pure la ragione per cui nessun altro ente fu mai fatto segno a tante e così aspre censure quanto la provincia, né per alcun altro sorsero e si avvicendarono frequenti e disparate discordie di opinioni, così da ingenerare perfino il dubbio sulla necessità e sulla consistenza naturale e giuridica di esso nell'organismo statale. È noto infatti come spesso ancora oggi si senta invocare da autorevoli parlamentari e giuristi la soppressione della provincia come un ente burocraticamente ingombrante, difettoso, lento e claudicante nel suo funzionamento e che ostacola a un tempo l'autonomia comunale da una parte, il libero svolgimento dell'attività dello Stato dall'altra».
Queste parole potrebbero sembrare coeve alle iniziative legislative oggetto dell'audizione; sono invece tratte dal saggio sulla provincia e l'amministrazione dello Stato, contenuto nel Primo trattato completo di diritto amministrativo italiano di Vittorio Emanuele Orlando, a dimostrazione che, come qualcuno ha già ricordato, i grandi problemi del diritto pubblico si ripropongono ciclicamente nelle vicende istituzionali del Paese. Nel 1935, data di pubblicazione del trattato di Orlando, il problema aveva una consistenza simile a quella attuale.
Vorrei fare alcune notazioni di metodo e altre più brevi notazioni di merito. Queste ultime sono volte più a identificare l'oggetto del problema, quindi a dare una risposta alla ragione stessa per cui la Commissione ha ritenuto oggi di convocarci, ovvero per avere un contributo nell'indicazione della via da seguire.
Per quanto riguarda le questioni di metodo, chi si pone il problema dell'abolizione delle province deve porsi necessariamente, a mio giudizio, alcune altre questioni che accompagnano tale problema. L'abolizione della provincia non ha un effetto puramente caducatorio, ma cambia il quadro istituzionale. L'abolizione delle province porta con sé una serie di domande che riguardano come ridondi questo tipo di abolizione nel sistema del quadro istituzionale. Chi intende abolire le province dal quadro costituzionale deve necessariamente chiedersi che cosa intenda fare degli altri soggetti istituzionali previsti nell'ordinamento. L'abolizione delle province può infatti modificare il ruolo delle regioni e dei comuni e incidere, come è stato efficacemente ricordato dai colleghi che mi hanno preceduto, sulla questione delle città metropolitane.
Le proposte di legge oggi in discussione prevedono diverse norme transitorie, che devolvono le funzioni esercitate dalle province alle regioni o ai comuni. La devoluzione di queste funzioni alle regioni può modificarne ulteriormente il modo di operare, incrementandone il profilo di ente di gestione rispetto al profilo naturale di ente che esercita con lo Stato la potestà normativa e di ente di programmazione generale. Da questo punto di vista, quindi, l'abolizione delle province ridonda sulla configurazione delle regioni.
Con riferimento ai comuni, occorre partire dal dato che ci vede sostanzialmente secondi soltanto alla Francia per il numero di comuni; in Francia, infatti, esistono più di 35.000 comuni, mentre i comuni italiani sono circa 8.600. Il trasferimento di queste funzioni al sistema delle autonomie significa quindi anche una polverizzazione di queste funzioni all'interno del sistema delle autonomie locali, con un incremento di quella dispersione che spesso e con ragione è stata indicata come una delle grandi difficoltà del nostro sistema.
Se si vogliono abolire le province, è necessario porsi anche il problema di quale sia il rapporto di tale abolizione con le disposizioni contenute nell'articolo 118 della nostra Costituzione. È stata opportunamente ricordata la decisiva rilevanza del principio di sussidiarietà. Desidero sottolineare come accanto al principio di sussidiarietà l'articolo 118 indichi come princìpi fondamentali quelli di adeguatezza e di differenziazione, il primo dei


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quali tende a dare massa critica alla qualità e quantità delle autonomie, mentre il secondo tende a predisporre un assetto organizzativo diverso in relazione alle diverse tipologie di funzioni.
Da questo punto di vista, l'eventuale abolizione delle province potrebbe ridondare sul modo in cui questi princìpi vengono applicati, perché potrebbe incrementare l'incapacità di conseguire un livello adeguato per l'esercizio di alcune funzioni o eliminare un assetto organizzativo che, in quanto legato all'area vasta, potrebbe essere più vocato a esercitare funzioni amministrative di un certo tipo.
Il problema si incrocia con alcune grandi questioni che il Parlamento sta esaminando o ha esaminato in questo periodo, in primo luogo con l'attuazione del federalismo fiscale. Occorre chiedersi in maniera puntuale e precisa quale possa essere la ricaduta istituzionale dell'abolizione delle province in un contesto normativo in cui il federalismo fiscale è diventato legge della repubblica e sono stati dettati criteri per la sua attuazione e per la redazione dei decreti delegati ed è stato fissato un elenco provvisorio di funzioni fondamentali dalle province.
Da una parte, quindi, la linea di tendenza che il Parlamento ha già espresso nel lodevole tentativo di dare attuazione al Titolo V della Costituzione in uno dei suoi capitoli fondamentali, il federalismo fiscale, è quella di indicare almeno provvisoriamente funzioni fondamentali delle province, dall'altra, è evidente che un processo di abolizione del sistema delle province rimescolerebbe le carte anche con riferimento al problema del federalismo fiscale.
La terza questione riguarda il ruolo dell'amministrazione statale. Si parla spesso di riforme istituzionali, che sono come i laboratori istituzionali in cui nulla si crea e nulla si distrugge. In realtà, le funzioni amministrative all'interno del sistema istituzionale sono un certo numero e si ridistribuiscono sui diversi livelli di Governo.
Dovremmo però porci anche il problema di che cosa succederebbe nell'abolizione delle province in una condizione di estrema difficoltà con riferimento all'attuazione del Titolo V della Costituzione; è noto che il quadro ordinamentale ad esso legato non ha ancora trovato attuazione con riferimento alle funzioni amministrative in gran parte esercitate in periferia dall'amministrazione statale, in una logica che non è più quella del Titolo V e che evocherebbe scenari diversi.
Se consideriamo che storicamente, nella sua fase genetica e non più funzionale, la provincia è legata alla presenza dell'amministrazione statale, la sua abolizione pone molto chiaramente il problema del modo in cui l'amministrazione statale deve essere presente sul livello periferico. Per intraprendere questa strada, quindi, occorre avere una risposta adeguata per i problemi che, sul piano del metodo, ho cercato di identificare.
Per quanto riguarda le questioni di merito e l'identificazione del problema di fondo, dagli interventi degli esperti che mi hanno preceduto emerge chiaramente come il discorso fondamentale riguardi innanzitutto il problema della rilevanza dell'area vasta e del governo di area vasta.
La vera questione, nel quale si realizzano anche le duplicazioni e le difficoltà, verte sull'interrogativo se il governo di area vasta sia una necessità, ovvero si rilevi l'esigenza di un livello sovracomunale e intermedio fra il livello comunale e il livello dell'amministrazione regionale. Da questo punto di vista, la risposta formulata dal nostro ordinamento negli ultimi anni è chiaramente tesa al riconoscimento del valore dell'area vasta.
È stata ricordata la legge n. 142 del 1990, che all'articolo 19 contiene il catalogo delle funzioni delle province e che indica nella provincia il luogo di governo dell'area vasta. Questa scelta è stata fortemente incrementato dalla legge n. 59 del 1997 e dal decreto legislativo n. 112 del 1998, che hanno trasferito cospicue funzioni statali al sistema delle amministrazioni regionali, provinciali e locali, con l'ulteriore aggiunta che molte funzioni che originariamente avrebbero dovuto fare capo ai comuni sono state trasferite alle


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province, perché sarebbero spettate ai comuni solo a condizione che si associassero per l'esercizio unitario, mentre questa associazione non ha avuto luogo. Di conseguenza, le province hanno ricevuto ulteriori funzioni di questo genere.
La rilevanza del livello dell'area vasta è resa evidente non soltanto dalla legislazione che riguarda la provincia, ma da tutta la legislazione sia statale che regionale in materia di ambiti territoriali ottimali. Attualmente, in base a disposizioni legislative statali o regionali, all'«area vasta» fanno riferimento diversi tipi di soggetti istituzionali: le province, le città metropolitane e diversi ambiti territoriali, che con diverse sigle sono previsti dalla legislazione statale o regionale con riferimento ai servizi ambientali, ai rifiuti, alle risorse idriche, ai servizi sociali, al turismo, alla caccia, alla rete scolastica, ai trasporti e ai beni culturali. Diversi ambiti sono già stati precisati dalla legge statale o regionale.
Dal punto di vista sovranazionale, in tutti i Paesi dell'Unione europea che superano i 7 milioni di abitanti esiste un livello intermedio fra il livello comunale e il livello dello Stato federale. Secondo dati che rilevano la situazione al 1o gennaio 2007, in Germania esistono 439 circoscrizioni, in Austria 35, in Bulgaria 28, in Spagna 52 province, in Francia 100 dipartimenti, in Grecia 51 circoscrizioni, in Ungheria 20 circoscrizioni, in Svezia 21 circoscrizioni, nel Regno Unito 133 circoscrizioni. In tutti questi Paesi europei, quindi, esiste un livello che supera il livello comunale, anche se è diversamente denominato e definito. La vera questione è non tanto quella dell'abolizione delle province, quanto quella della semplificazione del livello intermedio, allo scopo di eliminare le duplicazioni sull'intervento dell'area vasta.
L'intervento sulle province opera su questo ambito e suppone un intervento di natura costituzionale, come le leggi costituzionali che stiamo oggi esaminando, mentre per intervenire sul livello dell'area vasta è sufficiente un intervento di legislazione ordinaria.
Secondo il criterio della prossimità e della facilità giuridica, sarei tendenzialmente portato a preferire le vie più praticabili sul piano immediato. Da questo punto di vista, la via dell'intervento sull'area vasta per profili diversi dall'eliminazione della provincia, la via, cioè, dell'intervento legislativo sugli ambiti territoriali ottimali e per quello manutentivo sul sistema provinciale, che qui è stato ricordato più volte, mi sembra oggi certamente più facile. A questo si apprestava nella passata legislatura il disegno di legge Amato-Lanzillotta, conosciuto come Carta delle autonomie; disposizioni di questo genere erano contenute nelle leggi finanziarie del 2006 e del 2007 e miravano a intervenire, utilizzando la competenza statale in materia di coordinamento della finanza pubblica, non tanto sul quadro istituzionale quanto sulla messa a disposizione della risorsa finanziaria nei confronti di questi organismi.
Nella presente legislatura, mi sembra che un'ottica assai vicina a questa si collochi il recente schema di disegno di legge, approvato in prima lettura dal Consiglio dei ministri su proposta del Ministro per la semplificazione, Roberto Calderoli, di concerto con il Ministro dell'Interno, che riguarda anch'esso la cosiddetta Carta delle autonomie. Questa è la semplificazione e razionalizzazione dell'ordinamento. Anche lì, accanto a norme che identificano le funzioni fondamentali delle province, oltre che dei comuni, sono presenti disposizioni che per un verso intendono incidere sul sistema dei bacini imbriferi montani, delle comunità montane, dei soggetti istituzionali a livello locale, per altro verso tendono a favorire un processo di revisione delle circoscrizioni provinciali.
Ritengo opportuno perseguire questa strada, che può portare a risultati significativi in un tempo ragionevole. Devono essere anche effettuati alcuni approfondimenti di livello costituzionale, perché, con riferimento agli ambiti territoriali ottimali di competenza regionale, è dubbio che si possa ipotizzare una sorta di potere sostitutivo


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statale, ma sono possibili interventi sul piano del finanziamento, quindi del taglio della risorsa finanziaria.
Con riferimento al sistema della revisione delle circoscrizioni provinciali, considero necessaria una presa d'atto di un dato significativo. La revisione delle circoscrizioni provinciali non solo è opportuna, ma è anche diventata un'attività doverosa in presenza di una condizione nella quale la norma costituzionale che prevedeva che la provincia fosse ambito di decentramento statale è stata abrogata con il Titolo V. Non possiamo quindi ancora lasciare un ordinamento provinciale, che era stato concepito anche nell'ottica della previsione costituzionale della presenza degli uffici statali.
Oggi, quindi, la revisione delle circoscrizioni provinciali è una conseguenza necessaria con riferimento al mutamento del quadro costituzionale, che riguarda lo Stato. Anche nel disegno di legge Amato-Lanzillotta era inserita una norma di delega, che autorizzava il Governo a effettuare l'operazione di revisione attraverso un decreto delegato, con una scelta che trovava l'avallo della giurisprudenza della Corte costituzionale, che riconosceva le esigenze degli articoli 132 e 133 della Costituzione soddisfatte in sede in sede di decreto delegato.
Oggi, un'iniziativa del genere dovrebbe accompagnarsi con un impegno parlamentare a non esaminare più disegni di legge che prevedano l'istituzione di nuove province, e del Governo a non collocare più uffici statali nell'ambito delle province già istituite. Secondo l'ordinamento vigente, tale esito oggi è assolutamente possibile, laddove, istituita una provincia, non devono necessariamente seguire le prefetture, le questure, i provveditorati agli studi.
Il comma 3 lettera f) dell'articolo 21 dell'attuale Testo unico delle leggi sull'ordinamento degli enti locali, di cui al decreto legislativo n. 267 del 2000, pone fra i criteri direttivi per la revisione delle circoscrizioni provinciali e l'istituzione di nuove province quello in forza del quale l'istituzione di nuove province non comporta necessariamente l'istituzione di uffici provinciali dell'amministrazione dello Stato e degli altri enti pubblici. A livello dell'ordinamento vigente, quindi, esiste già uno strumento che consente una limitazione dell'ambito provinciale, qualora vi sia la volontà politica di realizzare questo programma.
Ritengo che l'intervento sugli ambiti territoriali ottimali che si può fare con legge ordinaria e la revisione delle circoscrizioni provinciali alla luce di questo problema possa sovvenire in modo adeguato alle esigenze di semplificazione sottese dalle attuali proposte di legge tendenti ad abolire le province. Dell'abolizione delle province si potrà parlare ugualmente, senza però che questo esenti da questa attività, che, in quanto già consentita dall'ordinamento vigente, deve necessariamente impegnare Governo e Parlamento.

NICOLÒ ZANON, Professore ordinario di diritto costituzionale. Mi unisco ai ringraziamenti alla Commissione. Quanto era importante rilevare è già stato detto nel corso degli interventi precedenti. Mi limiterò quindi a qualche brevissima considerazione di metodo, cercando di rispettare il più possibile la discrezionalità del legislatore, che in questo caso sarebbe addirittura un legislatore costituzionale. Non esprimerò giudizi sull'opportunità, ma cercherò di ragionare dentro la logica che questi progetti di legge sembrano mostrare.
Mi ricollego immediatamente alle considerazioni espresse dal consigliere Pajno, richiamando lo schema di disegno di legge sulla carta delle autonomie locali nella versione approvata in via preliminare il 15 luglio 2009 dal Consiglio dei ministri, che è stato inviato alla conferenza unificata per il necessario parere. Tale schema di disegno di legge conferma la presenza delle province e ne prevede una razionalizzazione attraverso alcuni decreti legislativi. In particolare, l'articolo 14 introduce tra i princìpi e criteri che il Governo dovrà seguire nei decreti legislativi la previsione della soppressione di province in base all'entità della popolazione di riferimento,


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l'estensione del territorio di ciascuna provincia, il rapporto tra la popolazione e l'estensione del territorio. Il Governo potrà quindi decidere con decreti legislativi la soppressione solo di alcune province. Questo non preclude al legislatore costituzionale la possibilità di andare in altra direzione, ma è un elemento che deve tenere presente.
Le sei proposte di legge costituzionale si compongono nel loro corpo centrale di norme volte a sopprimere le parole «provincia» o «province» dagli articoli della Costituzione che le contengono. Non fanno solo questo, ma è banale evidenziare come per sopprimere le province non sia sufficiente un tratto di penna che elimini dal testo della Costituzione ogni riferimento, perché resterebbero in vigore tutte le leggi statali e regionali che disciplinano le province stesse o che conferiscono o delegano loro funzioni di carattere amministrativo.
In quasi tutti i progetti c'è una norma transitoria che dispone la cessazione delle funzioni disciplinandone anche il trasferimento ad altri enti delle province a un anno dall'entrata in vigore della legge costituzionale, ma come tecnica normativa sarebbe coerente inserire una norma che affermi esplicitamente la soppressione e abolizione delle province, come nel primo progetto del 1977. In questo modo, nessuno potrebbe affermare l'applicabilità delle altre leggi statali e regionali, che nel dettaglio si occupano di questo ente, perché in caso contrario si potrebbe anche sostenere che le province perdono il rango costituzionale, ma trovano comunque fondamento nelle norme di legge ordinaria.
Per quanto riguarda le norme transitorie contenute nelle proposte di legge in esame, si possono distinguere tre opzioni. La prima possibilità è che le funzioni esercitate dalle province siano trasferite direttamente alle regioni, che possono però delegarle ai comuni. Questo trasferimento può essere definitivo o valido sino all'adeguamento dell'ordinamento legislativo statale. La seconda opzione è che entro un anno dall'entrata in vigore della legge costituzionale una legge ordinaria statale regolerà il passaggio alle regioni e ai comuni delle funzioni, dei beni e del personale delle province. La terza opzione è che sempre entro un anno dall'entrata in vigore della legge di revisione lo Stato e le regioni conferiranno - aggiungerei «con legge» - a città metropolitane e comuni le funzioni attualmente esercitate dalle province. Una delle proposte di legge prevede anche l'esercizio dei poteri sostitutivi, nel caso in cui la legge statale o regionale non intervenga nei termini.
Ci si potrebbe chiedere quale sia la soluzione più razionale o la migliore. Il legislatore costituzionale ha un ambito di libertà notevole, ma non sarebbe bene cristallizzare in Costituzione la scelta per cui, in caso di soppressione delle province, le funzioni vengono automaticamente trasferite alle regioni, quindi la soluzione A. Forse, sarebbe opportuno mantenere una certa armonia rispetto a quanto previsto da altre norme costituzionali, quali l'articolo 117 secondo comma, lettera p), permettendo che la legge ordinaria statale disciplini solo le funzioni fondamentali degli enti locali territoriali e lasciando spazio all'intervento della legislazione regionale.
Sembrerebbe razionale prevedere che una futura legge statale ordinaria di attuazione determini quale tra le funzioni fondamentali svolte dalle province debbano essere esercitate dalle regioni e quali dai comuni, mentre le singole leggi regionali provvederebbero al trasferimento delle funzioni non fondamentali e di quelle che le regioni avevano delegato alle province.
Considero opportuno soffermarmi sul rapporto fra province e città metropolitane. Qui, il riferimento va anche alla legge n. 42 del 2009 sul federalismo fiscale, che all'articolo 23 disciplina norme transitorie per la prima istituzione delle città metropolitane. Naturalmente, il momento di vera istituzione sembra lontano nel tempo, perché sono necessari uno o più decreti legislativi ulteriori del Governo, ma il comma 8 prevede già che, a decorrere dalla data di insediamento degli organi della città metropolitana, la provincia di riferimento cessi di esistere e siano soppressi


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tutti i relativi organi. L'articolo 4 dello schema di disegno di legge in materia di Carta delle autonomie prevede che tra le funzioni delle città metropolitane rientrino quelle spettanti alle province, elencate nell'articolo precedente.
La soppressione di alcune province è quindi già prevista dall'ordinamento vigente e avverrà automaticamente in alcune aree, con l'istituzione di città metropolitane che si sostituiranno nelle funzioni esercitate dalle province stesse. L'intervento legislativo da più parti richiesto in questa sede, volto a chiarire che province e città metropolitane sono assetti alternativi, nei fatti sembrerebbe già realizzato con la legge n. 42 del 2009.
L'ultimo punto è rappresentato da un aspetto interessante in un'ottica della riorganizzazione, alternativa a quella della semplice soppressione delle province. È già stata affrontata la possibilità che l'ente provinciale venga trasformato in ente di secondo grado e venga quindi amministrato da organi designati dai consigli comunali o dai sindaci dei territori. Questa eventualità è stata esplicitamente prevista in più occasioni nel corso dell'iter in Commissione delle proposte di legge.
Qualcuno ha sostenuto che con legge ordinaria non sarebbe possibile procedere a una trasformazione delle province in ente di secondo grado, anche se le ragioni non sono chiare. Sembra intendersi che l'autonomia costituzionalmente prevista ai sensi dell'articolo 114 della Costituzione si nutra anche di una elezione diretta da parte delle corpo elettorale di riferimento.
È però opportuno chiedersi se il testo della Costituzione possa essere interpretato in questo modo. Ricorderei infatti una risalente decisione della Corte costituzionale, la n. 96 del 1968, riguardante una legge siciliana in materia di elezione dei consigli delle province. La Corte disse che il carattere rappresentativo ed elettivo degli organi di governo, degli enti territoriali, è strumento essenziale dell'autonomia e che l'elettività di questi organi è principio generale dell'ordinamento. Chiarì però che in linea di principio le elezioni di secondo grado non sono in antitesi con la natura di ente autonomo, purché siano rispettati i princìpi desumibili dall'articolo 3 e dall'articolo 48.
Contestualmente, la Corte affermò: «non può ritenersi, invero, che quei princìpi non possano osservarsi anche in caso di elezioni di secondo grado E, conseguentemente, non può escludersi la possibilità di siffatte elezioni, che del resto sono provvedute dalla Costituzione proprio per la più alta carica dello Stato». Questa affermazione suscitò la critica radicale di Leopoldo Elia, giacché la Corte sembrava sostenere che il Parlamento in seduta comune fosse un organo di secondo grado, incaricato di eleggere il capo dello Stato. La ratio della Corte era che nell'idea di elettività rientra anche l'elezione di secondo grado.
Mi sembra dunque che la possibilità di trasformare la provincia in un collegio di secondo grado non trovi ostacoli nel testo della Costituzione.

PRESIDENTE. Vi ringrazio per il vostro contributo.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione di rappresentanti del Coordinamento nazionale nuove province (CNNP).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle modifiche al Titolo V della parte seconda della Costituzione in materia di soppressione delle province, l'audizione di rappresentanti del Coordinamento nazionale nuove province (CNNP).
Do la parola agli auditi.

ATTILIO FRANCESCO SANTELLOCCO, Rappresentante del Coordinamento nazionale nuove province. Desidero innanzitutto ringraziarla, signor presidente, per averci consentito come coordinamento di rappresentare la nostra posizione alla sua attenzione e a quella della Commissione.
Il nostro intervento si sostanzia in due momenti principali, il primo volto a una riflessione sul ruolo della provincia nel


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contesto dell'attuale architettura istituzionale, il secondo volto a delineare le possibili prospettive di tale ente nell'ambito di un processo di fatto già avviato con la prossima attuazione del federalismo fiscale, a cui deve necessariamente corrispondere una contestuale e coerente attuazione di un federalismo istituzionale.
L'utilità delle province è una questione da sempre dibattuta sia a livello di dottrina che nel Parlamento, e già durante i lavori dell'Assemblea costituente esistevano orientamenti divergenti rispetto al ruolo delle province. Una forte ipotesi di soppressione fu avanzata al momento dell'istituzione delle regioni e momenti simili si sono registrati in altri delicati passaggi della nostra storia politica e istituzionale. Da questa serie di verifiche la provincia è però uscita indenne e anzi rafforzata nel suo ruolo di ente intermedio fra comune e regione.
Sebbene a seguito della riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, approvata con la legge costituzionale n. 3 del 2001, oltre alla sua costituzionalizzazione al pari di città metropolitane e regioni, si sia vista riconoscere un considerevole numero di funzioni proprie di programmazione e di coordinamento territoriale, questo ente trova ancora una certa difficoltà a inquadrarsi in un razionale disegno del sistema dell'autonomia territoriale nel suo complesso, in bilico fra lo status di ente territoriale e di circoscrizione amministrativa periferica dello Stato.
Esso evidenzia inoltre forme di inadeguatezza nel rispondere in maniera efficace alle reali esigenze dei territori, anche per la frequente assenza di un legame diretto con un bacino di utenza di riferimento per l'erogazione del coordinamento dei servizi e per la difficoltà nel garantire piena rappresentanza istituzionale alle varie componenti sociali, culturali ed economiche in cui spesso si struttura un medesimo territorio provinciale. Spesso, infatti, non vi è omogeneità nell'ambito del medesimo territorio provinciale.
Riteniamo però che tali difficoltà non siano superabili attraverso la soppressione sic et simpliciter della provincia, tanto più che gli stessi proponenti di questa iniziativa e rappresentanti di varie forze politiche riconoscono la necessità di identificare un ulteriore ente a cui affidare quelle funzioni di governo di area vasta e di gestione dell'erogazione dei cosiddetti «servizi a rete», che sia intermedio fra comuni e regioni. Tutti riconoscono che tali servizi non possono essere svolti in maniera efficace e soprattutto a un costo ottimizzato per la collettività né dei singoli comuni né dalle regioni.
Considero utile partire da un'analisi delle problematiche che sono causa di tali inefficienze, alla ricerca di soluzione più strutturate, più equilibrate, che vadano viste all'interno di un riassetto complessivo del sistema delle autonomie territoriali. Fra queste cause annoveriamo l'eccessiva proliferazione di altri enti, agenzie, organismi a livello intermedio fra comuni e regione, che spesso creano duplicazione e sovrapposizione di ruoli con l'ente provincia in particolare. Per tale motivo, riteniamo doveroso procedere a una profonda opera di razionalizzazione e semplificazione del sistema amministrativo pubblico locale, facendo in modo che su un unico territorio vi sia un unico ente di livello intermedio, la provincia, che assomma in sé quelle funzioni di governo di area vasta e di gestione dei servizi a rete, eliminando quindi quegli elementi di debolezza insiti nell'organizzazione autonomistica attuale dello Stato rappresentata da un'eccessiva proliferazione di enti intermedi. Oltre a causare sovrapposizioni di ruoli e di responsabilità fra vari enti, questo induce a un'inefficienza nell'uso delle risorse pubbliche da destinare per altri scopi, a una ridotta trasparenza nei processi decisionali e a fenomeni di deresponsabilizzazione politica e istituzionale.
Per ovviare a tale problematica, proponiamo quindi la soppressione di tutti gli enti intermedi, comunque denominati, fra comuni e regioni. Contestualmente, le funzioni di tali enti devono essere riassegnate ai comuni, alle province, alle città metropolitane secondo i princìpi di adeguatezza, differenziazione e sussidiarietà.


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Per quanto riguarda i segnali di inadeguatezza della provincia nello svolgimento delle proprie funzioni in riferimento al particolare contesto territoriale di rappresentanza delle collettività locali e di rappresentanza istituzionale del territorio, consideriamo utile la trasformazione delle province in enti associativi a fini generali di secondo grado, espressione cioè della rappresentatività diretta e di primo grado dei comuni con il consiglio provinciale costituito, secondo princìpi di rappresentatività e democraticità, dai sindaci dei comuni ricompresi nella stessa circoscrizione provinciale.
Questo processo di trasformazione che riteniamo possa avvenire a Costituzione invariata consentirebbe da un lato il mantenimento della provincia come elemento di equilibrio dell'architettura istituzionale dell'ordinamento repubblicano, dall'altro con la presenza diretta dei sindaci nell'ambito del consiglio provinciale si rafforzerebbe ulteriormente quel legame necessario fra ente provincia e popolazione rappresentata, con maggiori garanzie nel processo di corretto recepimento delle istanze dei territori perché riportate direttamente dai sindaci, e una conseguente riduzione dei tempi di risposta fra l'insorgenza, la manifestazione dell'esigenza delle popolazioni e la risposta che l'ente provvederà a dare.
Il processo di riordino istituzionale dell'ente provincia deve inoltre dare piena e concreta attuazione alle disposizioni di cui all'articolo 44, secondo comma, della Costituzione circa le specificità dei territori montani, anche in forza dell'articolo III (220) del Trattato di Lisbona sulla Costituzione europea. Quest'ultimo articolo riconosce tali peculiarità e i disagi e gli aggravi di costi infrastrutturali sofferti da questi territori, e quindi la necessità di mettere in atto politiche di sviluppo e di valorizzazione non solo con fondi e leggi speciali per la montagna come avvenuto in passato, ma anche con interventi strutturali a livello amministrativo pubblico e istituzionali a livello locale.
Il nostro territorio presenta innumerevoli realtà di questo genere e, per dare risposta alle legittime istanze di crescita e di sviluppo di questi territori, proponiamo di introdurre nelle disposizioni legislative attinenti l'organizzazione dello Stato a livello locale gli opportuni criteri di flessibilità atti a garantire, per contesti territoriali montani, coerentemente con quanto fatto per le città metropolitane, l'adattamento dell'apparato amministrativo pubblico a livello locale per rispondere alle diverse esigenze territoriali in riferimento a diversi contesti di riferimento.
Una provincia in area montana, connotata da una bassa densità demografica, da un'ampia estensione territoriale, da un'eccessiva polverizzazione delle municipalità, ha esigenze di governo e di sviluppo completamente diverse rispetto a un'area fortemente urbanizzata, economicamente più sviluppata.
Proponiamo dunque l'introduzione di questa norma con particolare riferimento alle realtà montane, facendo riferimento all'articolo 44 della Costituzione.
Le tre principali ipotesi di riforma sono tutte volte al raggiungimento di un più alto livello di economicità e di efficienza del sistema amministrativo di erogazione dei servizi pubblici del territorio, ed essendo accompagnate da una notevole deduzione dei costi, rappresentano il presupposto fondamentale per la realizzazione di un federalismo istituzionale sostenibile sul piano fiscale, finanziario e democratico grazie alla chiara imputabilità delle responsabilità.
Consideriamo indispensabile prevedere che le ipotesi di riforma dell'ente provincia siano inserite in un più ampio processo di riorganizzazione dell'assetto amministrativo pubblico dello Stato, a partire dall'attuazione della disposizione di cui all'articolo 117, secondo comma. lettera p) della Costituzione, in termini di identificazione e allocazione delle funzioni fondamentali ai vari enti locali. Tale allocazione deve avvenire secondo i princìpi di adeguatezza, sussidiarietà, differenziazione, concentrazione e contenimento dei costi, fondamentali princìpi ispiratori di qualunque ipotesi di riforma.


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A fronte di questo intero complesso di provvedimenti di riforma dell'assetto amministrativo pubblico a livello locale, che proietterebbe la provincia come elemento fondamentale per dare effettività ai princìpi costituzionali sull'autonomia locale e per un'armonica e sostenibile attuazione del federalismo fiscale nel nostro Paese, diventa indispensabile - anche se assente nelle ultime bozze dei disegni di legge, mentre era presente nelle precedenti - procedere a una revisione su scala nazionale dell'attuale assetto delle circoscrizioni provinciali, volta a consentire una riarticolazione dell'apparato amministrativo pubblico dello Stato, che faccia riferimento ad ambiti territoriali realmente omogenei.
Questo costituisce il fil rouge del mio intervento. È infatti necessario fare riferimento a ambiti territoriali omogenei, perché possiamo realizzare la migliore riforma dei livelli di riorganizzazione dell'assetto amministrativo pubblico dello Stato, ma se l'ente provincia non si cala su ambiti territoriali realmente omogenei, i nostri obiettivi sono destinati a fallire. Gli ambiti territoriali omogenei sono connotati da una forte integrazione sociale, culturale ed economica, da una forte integrazione e omogeneità del tessuto economico e produttivo, da una forte condivisione di interessi e obiettivi strategici di sviluppo territoriale.
Consideriamo essenziale questo aspetto, vincolato a parametri di carattere demografico, strutturale, dimensionale con particolare attenzione alla specificità delle aree montane, tali da consentire un'efficace programmazione dello sviluppo, in grado di favorire forme di riequilibrio di carattere economico, sociale e culturale del territorio provinciale e regionale.
Abbiamo allegato, nel testo della relazione consegnata alla Presidenza, una bozza di disegno di legge, che recepisce questi concetti e che sottoponiamo all'attenzione della presidenza e dei deputati interessati che vogliano farlo proprio e proporlo in abbinamento con lo schema di disegno di legge del ministro Calderoli, approvato il 15 luglio scorso in via preliminare dal Consiglio dei ministri in tema di riordino degli enti locali, di attuazione e di adozione del codice delle autonomie locali.
Rimaniamo a disposizione per ulteriori contributi alla revisione complessiva dell'organizzazione dello Stato in senso federalista, processo di importanza storica per il nostro Paese.

RAFFAELE MAISTO, Rappresentante del Coordinamento nazionale nuove province. Sono il presidente del Comitato provincia di Aversa, e sostituisco il dottor Casciaro assente per ragioni di salute.
Al sud siamo estremamente favorevoli all'abolizione degli enti intermedi, dalle comunità montane ai consorzi e alle Ato. A questo punto, come evidenziato dal collega Santellocco, il ruolo delle province deve essere rivisto e ridisegnato non solo alla luce di un territorio omogeneo in ciascuna provincia, ma anche - lo dico da uomo del sud - per il riequilibrio di alcune zone del sud con quelle centrosettentrionali.
In Campania, ad esempio, ci sono il 6 milioni di abitanti e 5 province, mentre la Toscana o l'Emilia Romagna con 3,5 milioni di abitanti hanno 10-11 province. Se la Campania avesse avuto 15 province, non avremmo avuto l'emergenza rifiuti a Napoli.
Desidero quindi sottolineare che per un riequilibrio di alcune zone del sud è necessario ridisegnare tutta la mappa delle province.

PRESIDENTE. Vi ringrazio per la collaborazione e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 18,10.

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