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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(I e II)
3.
Mercoledì 1° giugno 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DEL DISEGNO DI LEGGE C. 4275 COST. GOVERNO, RECANTE «RIFORMA DEL TITOLO IV DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE» E DELLE ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE C. 199 COST. CIRIELLI, C. 250 COST. BERNARDINI, C. 1039 COST. VILLECCO CALIPARI, C. 1407 COST. NUCARA, C. 1745 COST. PECORELLA, C. 2053 COST. CALDERISI, C. 2088 COST. MANTINI, C. 2161 COST. VITALI, C. 3122 COST. SANTELLI, C. 3278 COST. VERSACE E C. 3829 COST. CONTENTO

Audizione dei professori Valerio Onida, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano, Giovanni Pitruzzella, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Palermo, Federico Sorrentino, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, Pietro Ciarlo, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Cagliari, Antonio D'Aloia, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Parma e Giovanni Guzzetta, ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi Tor Vergata:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 3 21 30 39
Bernardini Rita (PD) ... 23
Bressa Gianclaudio (PD) ... 21
Capano Cinzia (PD) ... 26
Ciarlo Pietro, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Cagliari ... 13 35
Ciriello Pasquale (PD) ... 24
Contento Manlio (PdL) ... 30
D'Aloia Antonio, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Parma ... 15 36
Ferranti Donatella (PD) ... 22
Garagnani Fabio (PdL) ... 24
Guzzetta Giovanni, Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi Tor Vergata ... 18 38
Melis Guido (PD) ... 25
Onida Valerio, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano ... 4 31
Palomba Federico (IdV) ... 27
Paolini Luca Rodolfo (LNP) ... 29
Pecorella Gaetano (PdL) ... 22
Pitruzzella Giovanni, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Palermo ... 8
Ria Lorenzo (UdCpTP) ... 29
Rossomando Anna (PD) ... 28
Sorrentino Federico, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma ... 10
Zaccaria Roberto (PD) ... 21
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONI RIUNITE
I (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) E II (GIUSTIZIA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta antimeridiana di mercoledì 1° giugno 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA II COMMISSIONE GIULIA BONGIORNO

La seduta comincia alle 9,35.

(Le Commissioni approvano il processo verbale delle sedute precedenti).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione dei professori: Valerio Onida, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano, Giovanni Pitruzzella, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Palermo, Federico Sorrentino, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, Pietro Ciarlo, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Cagliari, Antonio D'Aloia, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Parma e Giovanni Guzzetta, ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi Tor Vergata.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione dei professori Valerio Onida, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano, Giovanni Pitruzzella, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Palermo, Federico Sorrentino, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, Pietro Ciarlo, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Cagliari, Antonio D'Aloia, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Parma, e Giovanni Guzzetta, ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi Tor Vergata.
Saluto i professori presenti e li ringrazio, anche a nome del presidente Bruno, per l'immediata disponibilità. Prima di dare la parola al professor Onida, faccio presente che la sua audizione è stata chiesta da alcuni gruppi nella sua triplice veste di esperto di diritto costituzionale, di presidente dell'Associazione italiana costituzionalisti, nonché di presidente emerito della Corte costituzionale. A prescindere da queste tre vesti, è stato deciso, nella riunione congiunta degli uffici di presidenza, di ascoltarlo nell'ambito dell'audizione dedicata agli esperti di diritto costituzionale.
Comunico che per organizzare meglio i nostri lavori riteniamo opportuno che i professori presenti svolgano in sequenza le loro brevi relazioni, in modo tale da permettere ai deputati presenti di porre brevi domande (preferirei domande piuttosto


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che interventi), così che alle repliche degli auditi siamo ancora tutti presenti.
Do la parola al professor Valerio Onida, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano, ringraziandolo per l'immediata disponibilità.

VALERIO ONIDA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano. Ringrazio i presidenti delle Commissioni per questo invito. Devo precisare che esprimerò opinioni a livello personale e non a nome dell'Associazione dei costituzionalisti, che temporaneamente presiedo. I costituzionalisti sono ovviamente molto interessati a questi temi, ma hanno le loro opinioni. Penso e spero che anche l'Associazione contribuirà in qualche misura ad aprire dibattiti sull'argomento, ma le mie opinioni restano personali.
Trattandosi di un'audizione vertente su un gruppo di progetti di legge, ma soprattutto sul disegno di legge di riforma costituzionale più complesso presentato dal Governo, e dovendone trattare in termini generali, chiedo scusa se esprimerò opinioni altrettanto generali e non necessariamente soltanto tecnico-costituzionali. Mi pare che la valutazione di un progetto di questo genere non possa che essere più complessiva.
In primo luogo, direi che l'ambito del disegno di legge è il Titolo IV della Parte II della Costituzione, ma non nel suo complesso. È vero che si vuole modificare la rubrica da «La magistratura» a «La giustizia», ma si parla solo della magistratura ordinaria e direi soprattutto quasi soltanto degli assetti organizzativi e di potere. In realtà, il lettore esterno coglie che questo è un progetto che non riguarda tanto la giustizia intesa come funzione pubblica, i rapporti con i cittadini, quanto i rapporti fra poteri e, in particolare, i rapporti fra poteri politici e poteri giudiziari. Direi, anzi, che riguarda prevalentemente uno dei «protagonisti», ossia la magistratura inquirente e requirente, il pubblico ministero, anche se per alcuni temi si tocca la magistratura giudicante.temi si tocca la magistratura giudicante.
Mi pare che, leggendo il disegno di legge, si possano individuare quattro temi: la separazione delle carriere, la composizione degli organi di governo della magistratura, l'esercizio dell'azione penale e i rapporti con la polizia giudiziaria (in sostanza la funzione inquirente e requirente, che è forse il cuore o almeno uno dei cuori del disegno di legge) e la responsabilità dei magistrati, sia disciplinare sia civile.
Sul primo tema, quello della separazione delle carriere, credo che la prima domanda che viene in mente sia relativa alla finalità dell'innovazione che si vorrebbe apportare. In realtà, nel dibattito politico compaiono due diverse accentuazioni, direi due diverse inflessioni nell'indicazione di questa finalità: da un lato, assicurare l'imparzialità, o meglio la terzietà dei giudicanti; dall'altro combattere o controllare forme di eccesso o di deviazione nell'esercizio della funzione inquirente e requirente dei pubblici ministeri.
Sono due finalità molto diverse. Se dovessimo ragionare nei termini della prima inflessione, ci sarebbe da domandare se davvero oggi c'è una carenza di terzietà dei giudicanti, cioè se la magistratura giudicante oggi possa apparire non imparziale. Credo che questa domanda vada posta esplicitamente, ma nel dare risposta si dovrebbe però documentare l'esistenza di una eventuale non imparzialità. Se il tema, invece, è quello di una posizione anomala o non soddisfacente della magistratura inquirente, cioè degli uffici del pubblico ministero, allora lo si dovrebbe porre in un altro modo, domandandoci in che senso e in che modo l'eventuale separazione delle carriere possa condurre a un migliore assetto e a un migliore esercizio della funzione inquirente, cioè della funzione del pubblico ministero.
Oggi, stante l'attuale assetto del codice di procedura penale, così come è stato innovato nel 1988-1989, in realtà non c'è più quella situazione che - come si ricorda nella relazione del disegno di legge - esisteva all'epoca dell'Assemblea costituente, per cui il pubblico ministero aveva una posizione e anche delle funzioni a


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metà tra le funzioni inquirenti, requirenti, e le funzioni in qualche modo decisorie o giudicanti; c'era una qualche confusione, allora, tra queste funzioni. La relazione, appunto, ricorda che questo era uno dei motivi che portavano a immaginare diversamente l'assetto della magistratura. In realtà, oggi questo non esiste più. Nell'attuale sistema processuale il pubblico ministero ha solo poteri inquirenti e requirenti; non adotta misure cautelari, ma le chiede; non adotta misure di controllo, di limitazione di altre libertà come quella di comunicazione, ma le chiede; non solleva questioni di legittimità costituzionale, come del resto non ha mai fatto. Quando si afferma che il pubblico ministero impugna le leggi, va ricordato che esso è una parte del processo e che, come altre parti, può chiedere al giudice di sollevare questioni di legittimità costituzionale.
Talvolta, però, nel dibattito pubblico sembra che si veda nella figura del pubblico ministero qualcosa che oggi non c'è nel sistema processuale. Questo non vuol dire che non ci possano essere problemi sul modo in cui viene esercitata questa funzione inquirente e requirente, ma bisognerebbe considerarla nella sua effettiva realtà.
A me pare che se si parte da questa premessa c'è un dilemma cui bisogna dare una risposta chiara. Se separare le carriere vuol dire dare vita a un ulteriore potere oppure ordine - chiamatelo come volete - insomma a un gruppo di organismi pubblici del tutto indipendenti, assicurandone la totale indipendenza dall'assetto politico e, quindi, autoreferenziali (se si staccano dalla magistratura giudicante gli uffici del pubblico ministero e il complesso dei pubblici ministeri, con il loro Consiglio superiore, costituirebbero un potere del tutto separato dagli altri e autoreferenziale) allora ho l'impressione che, in tal caso, i rischi di un eventuale esercizio anomalo di questa funzione aumenterebbero, non diminuirebbero. Daremmo vita a una sorta di nuovo potere che non avrebbe altro referente se non se stesso (in quanto avrebbe il suo Consiglio superiore e via dicendo) tanto più se a questo potere si riconoscesse una possibilità di scegliere addirittura se esercitare l'azione penale. A questo, tuttavia, accennerò dopo, parlando del tema dell'obbligatorietà dell'azione penale.
Passiamo ad esaminare l'altro versante dell'alternativa: un pubblico ministero che - come accade in tanti ordinamenti e come, in fondo, alcuni immaginavano all'Assemblea costituente - fa capo all'esecutivo. Questa è una cosa diversa, ma siamo sul terreno di una spinta verso la politicizzazione della funzione inquirente e requirente. Direi, esprimendo un giudizio di merito, che sarebbe un rimedio peggiore del male se si dovesse pensare di combattere gli eventuali difetti dell'esercizio dell'azione penale attraverso un controllo politico - inteso nel senso di un controllo dell'esecutivo o comunque degli organi politici - sullo stesso.
Sul tema della composizione degli organi di autogoverno, in un certo senso il discorso è analogo. Come si sa, la composizione del Consiglio superiore della magistratura è stata voluta dall'Assemblea costituente proprio per dare vita a una forma di quello che è stato chiamato un autogoverno temperato, cioè essenzialmente l'indipendenza, ma senza una totale separazione, quindi con un'immissione di membri non appartenenti alla magistratura che possano evitare il rischio di dar vita a una casta separata, a una sorta di autogoverno solo corporativo.
Da questo punto di vista, io credo che oggi il ruolo dei membri laici del CSM sia un ruolo prezioso, nell'intento costituzionale e, di massima, anche nel modo in cui esso è stato esercitato. Tuttavia, talvolta sembra di poter notare che non sempre sia stato inteso nel modo dovuto, perché la presenza di una quota di membri laici eletti dal Parlamento nel CSM non può avere il senso di introdurre le singole visioni politiche nel governo della magistratura. Analogamente l'elezione dei giudici costituzionali da parte del Parlamento (che avviene per designazione di varie parti politiche, ma con maggioranze ampie) non ha lo scopo di portare le singole voci politiche nell'ambito della Corte costituzionale,


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tant'è che la componente di elezione parlamentare in questo tipo di organi non può essere la rappresentanza delle forze politiche.
La presenza di membri eletti dal Parlamento in organi di questo tipo, organi di garanzia, ha un altro scopo, quello di portare la voce della sensibilità politica in generale, al di fuori delle posizioni di parte.
Guai se i giudici costituzionali eletti dal Parlamento si sentissero portatori del dovere di sostenere questa o quella tesi politica e non, invece, portatori di una sensibilità e di una cultura alla ricerca della risposta corretta sul piano costituzionale! Io credo che lo stesso si dovrebbe dire per il CSM: i suoi membri laici non sono i rappresentanti dei partiti, ma rappresentanti eletti dal Parlamento perché portino una sensibilità e un'attenzione ai temi del governo della magistratura evitando quelle forme di autogoverno corporativo e di eccessiva separazione. Quindi, non si può parlare di responsabilità politica di questi membri. Non se ne può e non se ne deve parlare e, infatti, non a caso, non sono rieleggibili neanche loro. Non deve esserci una forma di collegamento con le singole parti politiche.
Sulla base di questa premessa, l'aumento del numero dei membri laici di per sé, in astratto, potrebbe anche essere ammesso. Si chiede, infatti, perché un terzo e non la metà. Recentemente una sentenza della Corte costituzionale che riguarda l'autogoverno della magistratura (la sentenza n. 16/2001) non affronta il tema, che era stato posto dal giudice rimettente, se una composizione di un organo di autogoverno che abbia la metà di componenti elettivi sia sufficiente a garantire l'indipendenza. Non c'è una risposta della Corte costituzionale su quel tema, perché la pronuncia di inammissibilità ha segnato una sorta di presa di distanza della stessa Corte rispetto a quell'interrogativo. Penso che si possa e si debba dire che se il problema è costituito dagli inconvenienti della cosiddetta «correntizzazione» - cioè della presenza nel CSM di correnti che finiscono per essere in parte gruppi di potere nell'ambito della magistratura - introdurre elementi di tipo correntizio, cioè di tipo strettamente partitico (nel senso di parti politiche) sarebbe ancora una volta un rimedio peggiore del male. Quindi, è giusto l'intento di assicurare questa presenza esterna, che già oggi esiste, peraltro, con la componente laica, ma sarebbe sbagliato pensare di rafforzare la presenza di parti politiche nell'ambito di un organo di garanzia come il CSM (e come dovrebbero essere anche i due Consigli superiori ipotizzati nel disegno di legge).
Il terzo tema è quello dell'azione penale e dei poteri di indagine. Accomuno i due aspetti perché sono, a mio giudizio, i più delicati e insidiosi di questo progetto. Apparentemente non si cambia molto e si mantiene il principio di obbligatorietà, si mantiene l'utilizzo della polizia giudiziaria da parte dell'ufficio del pubblico ministero, ma in realtà a me pare che qui si annidi un rischio di erosione della reale indipendenza, quindi del reale rispetto della legalità in materia penale.
L'obbligatorietà significa che l'azione penale non dipende da una scelta politica, ma è semplicemente la conseguenza del fatto che vi è una notitia criminis, cioè che un fatto si presenta come fatto di reato. Si dice che oggi a questa obbligatorietà giuridica corrisponde una discrezionalità di fatto perché non si riescono a perseguire tutti i reati. Se così fosse e in qualche misura è nella realtà, la risposta non può essere quella di rendere giuridicamente discrezionale quello che oggi di fatto è per ipotesi discrezionale, ma dovrebbe essere quella di rendere non discrezionale, di fatto, oltre che di diritto, l'azione penale.
Bisognerebbe semmai pensare a tutte le tematiche della depenalizzazione, della migliore determinazione anche dei presupposti per l'esercizio dell'azione penale. Non entro nel dettaglio, ma mi riferisco a tutti quegli istituti che possono non consentire, ma determinare una deflazione nell'esercizio dell'azione penale. Insomma, non si può immaginare di lasciare una scelta - ti perseguo o non ti perseguo - perché questo significherebbe il venir


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meno del principio di eguaglianza. Il problema è di rendere questa azione penale davvero conseguenza legale vincolata della notitia criminis.
Diverso, invece, immaginare che in qualche misura si introducano elementi di scelta, e per di più elementi di scelta collegati a una valutazione politica. È vero che si dice «secondo i criteri stabiliti dalla legge», ma la spia del fatto che si pensa a un condizionamento di tipo strettamente politico è nell'articolo 11 del disegno di legge, che reca il nuovo articolo 110 della Costituzione, in cui si immagina che il Ministro della giustizia, ogni anno, riferisca al Parlamento non solo sullo stato della giustizia, ma anche sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine.
In pratica, il ministro risponderebbe del modo in cui i tipici strumenti dell'azione inquirente verrebbero esercitati: questo vuol dire, in fondo, politicizzare nel senso di «partitizzare», insomma rendere di parte una funzione che dovrebbe essere di interesse del solo ordinamento.
Lo stesso avviene per quanto riguarda il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria. Oggi, attraverso la dipendenza diretta si realizza l'intento di dare all'ufficio del pubblico ministero lo strumento per condurre le indagini secondo proprie valutazioni oggettive e non di parte. Se, invece, l'uso della polizia giudiziaria venisse non sottratto, ma condizionato dalla dipendenza strutturale della polizia dall'esecutivo si avrebbe, ancora una volta, un condizionamento politico di parte delle indagini, che sarebbe in contrasto con i princìpi di legalità e di obbligatorietà dell'azione penale.
Ancora una volta, questa relazione annuale del ministro, che si ipotizza nel nuovo articolo 110 della Costituzione, sull'uso dei mezzi di indagine, fa pensare proprio a questo, ossia che si voglia tenere sotto controllo politico l'uso delle indagini.
Complessivamente, a me pare che si intenda rispondere ai rischi spesso denunciati di politicizzazione della magistratura, ma, in tal modo, si risponderebbe attraverso una esplicita politicizzazione. Si tratterebbe, quindi, di un rimedio peggiore del male nonché di una contraddizione.
Passo ora al tema della responsabilità dei giudici che, a mio avviso, è l'unico in parte estraneo rispetto a questa tematica. In realtà, gli aspetti da affrontare sono due: responsabilità disciplinare e responsabilità civile. Personalmente, trovo che la questione della responsabilità disciplinare, cioè l'idea che ci sia un organo disciplinare distinto dall'organo di amministrazione, sia l'unico punto condivisibile - diciamo così - della riforma. Mi riferisco all'idea di una Corte disciplinare che non sia una sezione del CSM, con le difficoltà di composizione a cui dà luogo, ma che sia altro rispetto a quell'organo e che magari abbia anche una composizione diversa, non necessariamente formata soltanto da magistrati eletti dal Parlamento. Per esempio, a suo tempo si era pensato - come è noto - di formare una Corte disciplinare valida per tutte le magistrature e che avesse, come componenti, magistrati di diverse magistrature. In ogni caso, l'idea di una Corte disciplinare a me pare, di per sé, perseguibile.
Per quanto concerne l'idea della responsabilità civile - dico cose scontate - la Corte costituzionale ha chiarito che l'articolo 28 della Costituzione vale, in linea di principio, anche per i magistrati (mi riferisco alla responsabilità civile per gli atti in violazione di diritti), ma ha anche chiarito che esistono esigenze costituzionali inderogabili per una regolamentazione della responsabilità diversa da quella dei funzionari amministrativi.
La particolarità delle funzioni dei magistrati implica l'impossibilità di stabilire una forma di responsabilità azionabile da chi si ritenga danneggiato, posto che la funzione giudiziaria o requirente, in qualche maniera - soprattutto in campo penale - dà sempre luogo a pregiudizi nei confronti dei singoli. L'applicazione del diritto se avviene in un modo arreca danno a qualcuno, se avviene in un altro modo arreca danno a qualcun altro.
Il tema non di una totale immunità, ma di una regolamentazione speciale delle funzioni giudiziarie è di evidente importanza.


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Negli Stati Uniti, come è noto, la funzione del prosecutor, cioè del pubblico ministero, conosce una totale immunità. Non è possibile imputargli alcunché, neanche nei casi di reati, in realtà.
In Italia il caso di reato dà luogo a responsabilità; il caso della responsabilità civile esiste, ma non può essere portato oltre determinati confini perché nel caso di dolo o colpa grave non c'è lo spazio di interpretazione che dovrebbe essere riservato a un organo giudicante o a un organo giudiziario.
Se, come a me pare, nello spirito del disegno di legge il problema è quello di un disagio nei confronti del modo in cui viene esercitata la funzione inquirente e requirente (cioè dai pubblici ministeri o dalle procure) in Italia, le risposte possibili sono su un altro terreno: sui controlli, sul rapporto tra pubblico ministero e giudici, non soltanto nel momento del dibattimento ma prima, quando si chiedono e si adottano misure cautelari o misure restrittive di altre libertà. Successivamente vengono, naturalmente, le risposte relative all'indennizzo dovuto tutte le volte che il cittadino risulti vittima di un'ingiusta detenzione o di un errore giudiziario. I problemi, comunque, sono da affrontarsi su terreni diversi da quelli a cui questo progetto si riferisce.
Mi scuso di aver dato valutazioni complessive, ma mi sembrava, però, che in questa fase fosse questo il punto da cui partire.

GIOVANNI PITRUZZELLA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Palermo. Ringrazio innanzitutto i due presidenti per avermi invitato a prendere la parola su un tema così importante per il nostro Paese.
Riallacciandomi alle considerazioni svolte dal professor Onida, mi pare doveroso fare alcune premesse. Le mie non sono considerazioni di ordine tecnico-costituzionale, come neppure quelle del professor Onida, ma riguardano più che altro il terreno della politica del diritto, con inevitabili valutazioni di ordine soggettivo.
Su questo terreno - questa è la seconda premessa - c'è un dato indiscutibile su cui, credo, concorda qualsiasi proposta di revisione costituzionale: l'indipendenza tanto del giudice quanto del pubblico ministero. Non mi pare che nell'agenda politica del nostro Paese esistano proposte di questo tipo. Non ci muoviamo nell'ottica di ipotesi di attrazione del pubblico ministero nell'ambito della sfera del potere esecutivo. Come affermato dal professor Onida, questo sarebbe un rimedio peggiore del male.
Se uno dei temi posti - giusto o sbagliato che sia - è quello di eventuali rimedi a eventuali abusi dell'azione del pubblico ministero, certamente non sarebbe un rimedio utile collocarlo alle dipendenze di una parte politica. Ci muoviamo, dunque, in un universo in cui l'indipendenza è un dato indiscutibile sia per il giudice, sia per il pubblico ministero.
Inoltre - passo alla terza premessa - i modelli istituzionali contano. Noi professionalmente ce ne occupiamo, però non dobbiamo enfatizzarne troppo il rilievo, perché conta, in misura anch'essa rilevante, la cultura degli attori che operano all'interno di un sistema. Probabilmente molti dei problemi che, a torto o a ragione, vengono agitati nel nostro Paese dipendono, altresì, da un tipo di cultura che, forse, ha esasperato il conflitto e la contrapposizione tra le parti e che, a questo punto, sta pervadendo tutto l'ordinamento, compreso l'ordinamento giudiziario.
Fatte queste premesse, sempre nel solco tracciato dal professor Onida, vorrei affrontare due questioni da lui poste all'inizio con riguardo alla separazione delle carriere tra pubblico ministero e giudici, per usare la terminologia del disegno di legge. Su questi temi, riallacciandomi all'ultima delle mie premesse, non farei guerre di religione. Sappiamo che in Europa esistono soluzioni diverse e ci sono, in molti Paesi, forme di separazione delle carriere, addirittura con organi diversi (pensiamo al caso di autogoverno spagnolo) o separazioni delle carriere che operano senza dar luogo a particolari problemi (come in Germania).


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Il tutto va visto, invece, con riferimento al singolo ordinamento e alla possibile risoluzione di qualche problema. Il professor Onida sostiene che la separazione delle carriere proposta dal disegno di legge, secondo gli estensori dello stesso, dovrebbe rispondere a due esigenze: assicurare la terzietà del giudice ed evitare gli eccessi dell'attività del pubblico ministero. Erano questi i problemi posti, che non sono sovrapponibili, come è stato detto, perché sono due cose diverse. La risposta che autorevolmente dà il professor Onida è che, in realtà, la separazione delle carriere non risponde a queste due esigenze e forse i problemi sono addirittura mal posti.
Inoltre, afferma che bisognerebbe dimostrare che il giudice non sia terzo rispetto alle parti, cosa verissima. Su tale punto, però, osserverei che, per il buon funzionamento della giustizia, non conta tanto l'effettiva terzietà, quanto l'immagine di terzietà del giudice.
La legittimazione di un giudice, che deve essere indipendente (valore sacrosanto), riposa anche sull'immagine di terzietà che egli dà rispetto alle parti e che assume nell'ambito del sistema in cui opera. Con riguardo a questa immagine di terzietà, nutro qualche dubbio - mi limito soltanto a porre delle perplessità - sul funzionamento del sistema attuale. Esiste, infatti, una situazione in cui giudici e pubblici ministeri percorrono delle carriere che si intrecciano e questo avviene in quel luogo fondamentale che è il Consiglio superiore della magistratura, con le correnti che vi operano all'interno.
Il problema è se giudici e pubblici ministeri, persone che fanno parte delle medesime organizzazioni sindacali e che comunque partecipano a un meccanismo di carriera comune - non bisogna certo scandalizzarsi, perché tutte le professioni hanno meccanismi di carriera, con scambi leciti, con percorsi che si incrociano - possono realmente valorizzare quel principio di terzietà in cui tutti crediamo. È una domanda che, secondo me, dobbiamo porci.
In relazione alle modalità di svolgimento delle carriere e al tipo di sovrapposizione che avviene in questo campo tra giudici e pubblici ministeri, forse l'appartenenza al medesimo corpo professionale può creare qualche contraccolpo negativo, non solo sul piano dell'effettività - ribadisco - ma sul piano dell'immagine, in ordine alla terzietà.
Altro tema è quello di evitare certi eccessi da parte del pubblico ministero. Il professor Onida afferma che, in realtà, ormai il pubblico ministero ha compiti inquirenti e requirenti, la sua attività è sottoposta al vaglio di un altro organo, di un giudice vero e proprio, quindi l'ipotesi degli eccessi è tutta da dimostrare e, comunque, ha già dei rimedi all'interno del sistema.
Se tutto ciò è vero, non possiamo sottovalutare il fatto che, comunque, la discrezionalità dei pubblici ministeri si è enormemente dilatata per l'effetto di alcune tendenze, evidenziate qualche anno addietro in un libro di due magistrati, Paolo Borgna e Marcello Maddalena, che proprio con riferimento alla discrezionalità del pubblico ministero dicevano che c'è stato un salto rispetto al passato.
Gli elementi cui gli autori citati fanno riferimento per evidenziare questa dilatazione della discrezionalità del pubblico ministero sono i seguenti: il pubblico ministero agisce penalmente sulla base di ricostruzioni dei fatti e del diritto ancora sommarie e non confrontate con la difesa e non ha quell'obbligo di motivazione stringente che riguarda le sentenze; il pubblico ministero ha una grande discrezionalità nello scegliere se iniziare o meno l'azione penale (infatti, indipendentemente da qualsiasi buona fede del singolo, di fronte alla mole di notizie di reato, è inevitabile che debba essere esercitata una qualche discrezionalità); il pubblico ministero ha una grande discrezionalità nella scelta dei mezzi di indagine, ma anche sul livello di pubblicità da dare all'indagine e, infine, sulla scelta se dare luogo al cosiddetto patteggiamento della pena.
Di fronte a questa dilatazione della discrezionalità, che è un fatto quasi inarrestabile,


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forse si può porre il problema di introdurre dei meccanismi che, in qualche misura, bilancino possibili abusi. E, forse, la distinzione delle carriere è uno di questi meccanismi.
Un altro aspetto che è stato evidenziato nella relazione del professor Onida riguarda l'obbligatorietà dell'azione penale. Si tratta di un tema cruciale perché è indiscutibile - lo ammettono tutti, o almeno lo fanno gli osservatori imparziali, che non si lasciano trasportare troppo dalla passione del confronto politico - che ci sia un grado di discrezionalità nell'esercizio dell'azione penale.
Non è vero che il disegno di legge di riforma costituzionale C. 4275 elimina l'obbligatorietà rendendo l'azione del pubblico ministero - come è stato detto - esposta a direttive che la rendano eccessivamente di parte. Esso recita, infatti, che i criteri in base ai quali si esercita l'azione penale devono essere stabiliti dalla legge. Il problema, semmai, è sempre quello di porre qualche limite alla discrezionalità.
Credo che questo sia il problema di fondo con il quale tutti, con spirito laico e sereno, dovremmo confrontarci perché, in realtà, la Costituzione aveva un modello di giudice e di pubblico ministero che è stato superato dalla profonda trasformazione del sistema politico, economico e sociale.
«I giudici sono soggetti soltanto alla legge» recita la Costituzione: affermazione giusta e verissima quando ci riferiamo all'indipendenza, ma che esprime anche l'idea secondo cui il giudice applica ed è esecutore di una legge con ridotti margini di discrezionalità.
In realtà, per una serie di fenomeni che sono sotto gli occhi di tutti - la complessità del sistema giuridico, la complessità delle fonti, l'integrazione sopranazionale, le difficoltà della politica - il ruolo del giudice si è dilatato enormemente quando interpreta la legge, e lo stesso accade per il ruolo del pubblico ministero. Il potere giudiziario è diventato un terzo gigante.
Ora, pubblici ministeri e giudici potevano far parte dello stesso corpo professionale quando entrambi erano considerati dei funzionari che davano, appunto, mera esecuzione a una legge senza grandi margini di discrezionalità.
Oggi, quando il ruolo si è dilatato enormemente e il giudiziario diventa, come è scritto nel Federalist degli Stati Uniti, il terzo gigante, forse ci troviamo di fronte al problema di porre dei bilanciamenti a entrambi i ruoli.
La separazione delle carriere, se vista appunto senza toni drammatici - perché, come dicevamo all'inizio, è presente in molti ordinamenti europei - potrebbe essere uno dei rimedi per una giustizia che sia effettivamente al servizio delle attese del cittadino.
Con quest'ultima considerazione chiudo il mio intervento, ringraziando ancora i due presidenti.

FEDERICO SORRENTINO, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma. Grazie per questo incontro perché è sempre importante, secondo me, confrontarci su questi argomenti quando si toccano temi costituzionali. I miei colleghi hanno già detto molte cose, dunque le poche considerazioni che avevo da fare si semplificano ulteriormente.
Mi collocherò a un livello necessariamente più basso, nel senso che, nello spirito di una certa collaborazione necessaria - tra noi che presumiamo di avere la scienza, ma abbiamo soltanto un po' di esperienza di studio del diritto costituzionale, e voi che dovete decidere su una riforma costituzionale che si presenta molto importante - forse è meglio toccare dei temi più concreti.
Svolgerò, molto telegraficamente, alcune riflessioni. La materia della giustizia, del Titolo IV della Parte II della Costituzione, è indubbiamente una materia nella disponibilità del legislatore costituzionale.
Non è tuttavia vero che il legislatore costituzionale possa fare tutto ciò che vuole perché si registrano un certo consenso in dottrina e qualche spunto della giurisprudenza della Corte costituzionale in base ai quali esistono princìpi supremi che sono inderogabili da parte dello stesso


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legislatore costituzionale. In questo disegno di legge si toccano appunto i princìpi supremi e bisogna stare molto attenti. Parliamo di eguaglianza, di indipendenza del giudice - e, nella misura in cui serva questi valori, anche dello stesso pubblico ministero - e di legalità.
Sono tre temi che si intrecciano tra di loro, riguardo ai quali non devo aggiungere nulla, ma solo segnalarli alla vostra attenzione.
Una valutazione complessiva del disegno di legge costituzionale governativo mi porta al seguente risultato: le modifiche proposte (delle quali dirò qualcosa più avanti), prese singolarmente, a me non sembrano attentare a quei princìpi supremi, salvo per qualche aspetto che citerò dopo.
È il complesso disegno riformatore che ne emerge che, essendo rivolto - è evidentissimo, non lo si può nascondere perché anche chi non è in politica, come me, legge qualche volta i giornali - a spuntare gli artigli della magistratura, appare fortemente punitivo e riduttivo del ruolo della magistratura.
C'è, inoltre, una generale decostituzionalizzazione della materia con rinvio, magari, di aspetti delicati alle norme che stabilirà il legislatore. È vero, la legge è espressione della volontà generale, ma oggi - con la legislazione elettorale che abbiamo - lo è sempre meno.
Va bene la riforma della giustizia - ce n'è bisogno - e va bene eliminare alcuni eccessi. La vera riforma, però - lo dico anche da piccolo e modesto operatore professionale - sarebbe quella di un radicale snellimento della procedura sia civile, sia penale, ma soprattutto di quella civile. La recente riforma introdotta dalla legge n. 69 del 18 giugno 2009 è ottima, ma non basta. Questo intervento va unito a un aumento delle risorse e dei servizi relativi. Qui si gioca il destino del Paese.
Si potrebbe fare molto di più anche nel processo civile: ad esempio - questo sarebbe materia di riforma costituzionale - limitando il ricorso in Corte di cassazione per le liti cosiddette «bagatellari». Essa ormai non riesce più a funzionare e i meccanismi di controllo preventivo sull'ammissibilità sono assai complicati. Su questo il legislatore costituzionale potrebbe dire qualcosa.
Inoltre, si potrebbe aumentare, ove possibile, l'oralità dei processi minori. Perché la giustizia amministrativa funziona bene, ha risposto bene anche alle recenti riforme e riesce a dare in certi settori una risposta definitiva (cioè in primo e secondo grado) in meno di un anno, mentre la giustizia civile non riesce a farlo? Questo è un interrogativo che voi dovete porvi, non io.
Faccio, ora, alcune osservazioni specifiche. Innanzitutto una banalità (non credo a questi elementi, ma hanno un valore simbolico) che riguarda i titoli delle rubriche. Si vuole trasformare il titolo «La magistratura» in «La giustizia». Potrebbe anche andar bene, perché la Costituzione ci spiega che la giustizia è amministrata dai magistrati dell'ordine giudiziario, ma non sarebbe omogeneo rispetto agli altri titoli della Parte II della Costituzione: il Parlamento (Titolo I), il Presidente della Repubblica (Titolo II), il Governo (Titolo III), la magistratura (Titolo IV), le regioni, le province, i comuni (Titolo V). Al Titolo VI abbiamo le garanzie costituzionali, che forse sarebbe più omogeneo, ma è articolato, al suo interno, tra Corte costituzionale e revisione della Costituzione. Naturalmente dovrete valutare voi, ma questo titolo a me non sembrerebbe omogeneo.
Il concetto della giustizia che compare già negli articoli della Costituzione vigente può essere recuperato, per esempio, nella Sezione II dello stesso Titolo IV, «Norme sulla giurisdizione», che può diventare «La giustizia».
Criticabile è poi l'eliminazione del termine «potere» per la magistratura e la trasformazione del pubblico ministero in ufficio, con l'indebolimento delle garanzie costituzionali del singolo pubblico ministero.
Il testo attuale della Costituzione parla di «pubblico ministero», la riforma parlerebbe di «ufficio», quasi a sottolineare che il singolo pubblico ministero non ha quell'autonomia che oggi gli viene riconosciuta


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anche ai fini dei conflitti di attribuzione davanti alla Corte costituzionale.
Sulla separazione delle carriere hanno detto bene i miei colleghi e anch'io, sebbene questa scelta non mi piaccia, non vedo questo grande scandalo se si mantengono alcuni princìpi costituzionali. Per esempio, il ruolo del pubblico ministero non va inteso in modo così riduttivo e, comunque - e qui mi differenzio da ciò che hanno detto i colleghi - non vedo la necessità di due Consigli superiori della magistratura. Creeremmo due carrozzoni, anzi tre, perché bisogna considerare anche la Corte di disciplina.
Separare le carriere è un conto; fare uscire il pubblico ministero dalla magistratura, che è una riforma con una valenza culturale, è un'altra cosa. Io direi che il pubblico ministero nella nostra cultura - non dobbiamo nemmeno scimmiottare quello che avviene negli altri Paesi - deve rimanere organo imparziale, indipendente, che persegue non la condanna dell'imputato ma la giustizia. Tant'è vero che può concludere chiedendo l'assoluzione e può non appellare le sentenze di assoluzione.
Pensate, per esempio, al ruolo del pubblico ministero in sede civile e davanti alla Corte di cassazione dove conclude nell'interesse della legge. Questa cultura del pubblico ministero (che non è la parte per i processi americani, che è altro), secondo me, va conservata.
Per quanto riguarda il CSM, la composizione attuale prevista dalla Costituzione può essere migliorata con legge ordinaria, riducendo ad esempio il numero dei componenti, perché indubbiamente è un organismo molto pletorico. Non sempre dalle delibere del CSM vengono fuori dei buoni provvedimenti e non è detto che tutto ciò che esso fa debba essere frutto di una volontà collegiale, come quella del Parlamento. Si potrebbe pensare, e forse anche in questo caso con una legge ordinaria, a una sorta di direttore generale che emana i provvedimenti sulla base delle delibere del CSM; si assicura, così, l'indipendenza di tale organo e si prevede un funzionario che sappia scrivere i provvedimenti. Infatti, questi ultimi attualmente vengono spesso annullati dal TAR e dal Consiglio di Stato e la reazione del CSM a queste sentenze è sempre molto approssimativa.
L'idea del sorteggio associata all'elezione può essere positiva per rompere l'apparato correntizio. Per quello che può valere, è stata anche sperimentata nella formazione dei concorsi universitari.
A questo punto, però, non vedo davvero perché creare tre Consigli superiori della magistratura. Secondo me, si può evitare anche di correggere, con riferimento alla rieleggibilità, l'attuale formulazione «immediata» con «in assoluto». È difficile, in questo Paese, trovare persone che siano preparate, dedite al bene comune e disposte a caricarsi - perché non è tanto divertente - di questi interessi generali. Se, dunque, qualcuno ha svolto bene il suo lavoro, e non viene rieletto perché non è corretto o perché c'è un problema di responsabilità politica che va assolutamente escluso, se si può recuperare e può continuare a lavorare non vedo quale difficoltà ci sia.
Passando ad altro punto, la formulazione «divieto per il CSM di compiere atti di indirizzo politico e di agire fuori delle funzioni» non significa assolutamente nulla. L'atto di indirizzo politico può essere fatto da un organo che ha una politicità delle funzioni, ma se sono funzioni specifiche la politicità è inerente, magari, alla spiegazione di come vengono esercitate quelle funzioni. Che senso ha dire che il CSM non può fare atti fuori dalle sue competenze? Nessun organo pubblico può compiere atti al di fuori delle sue competenze. Questo punto, quindi, ha più una valenza polemica sul terreno politico che una valenza istituzionale e simili cose non devono esistere nelle Costituzioni.
Se, invece, con questa espressione si vuole censurare la cosiddetta attività paranormativa del CSM, allora si è sbagliato bersaglio. Lo dico con tutta chiarezza. Quell'attività, detta paranormativa, che va a integrare lacune della legislazione, è molto utile: serve a limitare la discrezionalità,


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caso per caso, del Consiglio superiore della magistratura; aiuta, inoltre, i magistrati che siano colpiti da provvedimenti illegittimi a formulare le loro impugnative davanti al TAR o davanti al Consiglio di Stato.
La funzione paranormativa del CSM è inversamente proporzionale alla capacità del legislatore di legiferare in questa materia. Quindi, se il legislatore legifera, questa funzione paranormativa viene esclusa.
Delle norme riguardanti il pubblico ministero, la polizia giudiziaria, l'obbligo dell'esercizio dell'azione penale ha trattato bene il professor Onida e non devo aggiungere molto. Sottolineo soltanto che qui sono in gioco esigenze di eguaglianza e, come immagine che si dà al cittadino, si sottolinea la garanzia che i reati dei potenti vengano trattati come i reati dei comuni cittadini e che l'esecutivo non intralci le indagini della polizia giudiziaria.
Aggiungo qualcosa, invece, riguardo alla responsabilità dei magistrati. Intanto, richiamo alla vostra attenzione - e mi stupisco di non averlo letto nella relazione - la sentenza n. 468 del 1990 sulla legge n. 117 del 1988 susseguente al referendum, in cui la Corte costituzionale, come aveva già sottolineato il professor Onida, differenzia la responsabilità dei magistrati da quelle comuni.
Vengono qui richiamate sentenze della Corte di giustizia che, francamente, non c'entrano con la responsabilità dei magistrati: le sentenze Köbler e Traghetti del Mediterraneo riguardano infatti la responsabilità dello Stato. La responsabilità del giudice è sacrosanta - ne sono convinto - però bisogna fare attenzione perché il rischio è quello di creare dei giudici timidi di fronte a imputati arroganti. Questo è un tema che dovete avere presente.
Infine, si vuole la parità tra accusa e difesa, ma il doppio grado deve valere per entrambe, anche se in altri Paesi questo non è previsto. Il condannato appellerà sempre, o quasi, le sentenze di condanna. Il pubblico ministero può non appellarle, per le ragioni di cui parlavamo prima, soprattutto se si rafforza quella cultura giurisdizionale, giudiziaria, di giustizia del pubblico ministero. Se però la sentenza è sbagliata, anche se di assoluzione, nell'interesse della legalità va appellata.

PIETRO CIARLO, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Cagliari. Ringrazio per l'invito a questa audizione. Condivido molte delle cose dette, da ultimo, dal professor Sorrentino. Vorrei aggiungere qualche notazione su alcuni dei punti da lui richiamati e porre una domanda di carattere generale. Dai numerosi interventi che questo disegno di legge predispone per il Titolo IV della Parte II della Costituzione quale giustizia e quale magistratura vengono fuori?
La relazione adotta un metodo molto interessante nell'introdurre la materia: richiama con grande competenza i lavori preparatori della Costituzione, evidenziando che su tutti i punti sui quali interviene il disegno di legge esistevano opinioni diverse in Assemblea costituente, che poi sono rimaste minoritarie. È un'operazione culturalmente interessante ma, in una certa misura, deviante, perché frammenta per singoli punti la lettura del disegno di legge. Viceversa, il più delle volte, le relazioni alle proposte di legge, oltre che approfondire i singoli aspetti delle proposte stesse, cercano di ricostruire e di trasmettere al lettore il senso complessivo dell'intervento di riforma o di modifica.
La relazione si apre con una di citazione di Togliatti che oserei definire patetica, ma uso la parola «romantica». Togliatti fa un intervento di tipo sovietico-giacobino, nel quale dice che la magistratura deve essere, nella sostanza, sottoposta alla politica. Ogni tanto, Togliatti faceva questi interventi in Assemblea costituente, ma su di essi amava essere messo in minoranza. Non aggiungo altro, naturalmente.
Mi sembra incongruo, ma significativo a suo modo, questo richiamo perché, alla fine, chiedendosi qual è il senso complessivo di questo intervento di riforma, bisogna domandarsi anche come mai la relazione si apra con questa singolare citazione.


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Il professor Sorrentino ha detto, giustamente, che c'è una forte decostituzionalizzazione della disciplina su questo punto. Mi pare che le previsioni di rinvio alla legge siano undici e credo che il ministro abbia già predisposto alcune bozze, o addirittura i disegni di legge, da portare in Parlamento.
Non so se questo sia il metodo giusto, perché la Costituzione, forse, deve dire di più, considerato che deve stabilizzare un settore così importante e non rimettere, semplicemente, alla legge. Questo è valido in termini di metodologia, ma se poi si vanno a guardare le singole norme, in realtà il più delle volte ci sono dei rinvii in bianco alla legge, dunque la legge potrà fare tante cose.
Da questo punto di vista, c'è una norma simbolica che, però, ha anche un contenuto molto forte. Si tratta della norma che allarga la possibilità di istituire giudici onorari. Con riferimento alla possibilità di nominare i giudici onorari, l'articolo 8 del disegno di legge prevede di sopprimere, all'articolo 106 della Costituzione, le parole «per tutte le funzioni attribuite a giudici singoli».
Queste poche parole danno contenuto a questa riserva di legge, perché indicano che il giudice onorario può essere immaginato solo per le controversie e per le azioni penali di minore entità. Eliminando queste parole si ha l'effetto paradossale che la legge potrà disporre in maniera completa ed assoluta, senza nessun limite costituzionale, del reclutamento dei magistrati.
Ringraziando tutti voi per questa occasione, richiamo l'attenzione del ministro su questo punto, che può apparire di dettaglio, ma che se la legislazione dovesse cadere, in futuro, in mani sbagliate, potrebbe vanificare anche tutto il resto del disegno di legge, perché ne nascerebbe un mostro relativamente ai giudici onorari. Questo è un aspetto importante in sé e come esempio: l'articolo 106 della Costituzione fa rinvio alla legge, ma dicendo quelle poche parole vincola la legge alla ragionevole possibilità di nominare magistrati onorari solo per le questioni di minor rilievo.
Togliendo quelle parole si ha, in sostanza, un rinvio in bianco alla legge, dal quale non si sa cosa possa scaturire. Infatti, se in quell'articolo si dice anche che le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso, naturalmente la nomina di magistrati onorari potrebbe essere sovrabbondante.
Per quanto riguarda il Consiglio superiore della magistratura, vorrei richiamarmi alla necessità di ricostruire nel suo insieme gli esiti possibili di questa riforma. Il professor Sorrentino ha detto che in realtà sostituiamo un organo di rilievo costituzionale con tre organi di rilievo costituzionale, o forse quattro, perché la Corte di disciplina è divisa in due sezioni entrambe aventi rilievo costituzionale: una per i magistrati giudicanti, l'altra per i pubblici ministeri.
Ma non è solo questo. Nel suo insieme come si configura il Consiglio superiore della magistratura? Su di esso insistono una pluralità di interventi. In primo luogo, viene diviso in quattro: due Consigli per le due carriere e la Corte di disciplina a sua volta divisa in due sezioni previste dalla Costituzione. Inoltre, i giudici eleggibili sono prima sorteggiati, c'è un diverso rapporto tra togati e laici e, infine, viene scorporata l'attività disciplinare.
Ciascuno di questi temi è degno di attenzione e di approfondimento e, fin dall'Assemblea costituente, questi furono considerati come problemi. Se vengono messi tutti assieme, che tipo di autogoverno viene fuori per la magistratura quando osserviamo questi fenomeni, che già il professor Sorrentino ha richiamato? Quale tipo di autonomia viene fuori?
Credo che dovremmo - forse nel dibattito successivo in Parlamento, che, naturalmente, sarà lungo, considerato che si tratta di elaborare una legge costituzionale - domandarci soprattutto questo: dall'insieme dei diversi interventi che tipo di giustizia e che tipo di magistratura vengono fuori?


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Bisogna, certamente, affrontare i problemi che sono sul terreno e che sono ineludibili. Tuttavia, credo che non dobbiamo assolutamente correre il rischio - a partire dalla polizia giudiziaria, dal CSM, dal giudice onorario e da quant'altro di noto è stato evidenziato relativamente al disegno di legge - di giungere al risultato di mettere nelle mani della politica del momento (sia pure nobilmente chiamata «legge») la concreta funzionalità e organizzazione della magistratura e della giustizia.
Credo che, nella riflessione che accompagnerà il cammino di questo disegno di legge in Parlamento, bisognerà considerare che i problemi sono all'ordine del giorno e vanno affrontati, ma in una prospettiva che ci viene invidiata. I documenti - europei, soprattutto - a cui si fa riferimento cercano di mediare con situazioni di altri Paesi, dove la giustizia è profondamente deficitaria perché sottoposta al potere politico, per portarle verso un modello simile al nostro, in cui l'indipendenza della funzione di giustizia si è affermata in maniera fortunata rispetto alla nostra storia. Dobbiamo affrontare i problemi che ci sono, ma senza produrre un effetto sistemico, in cui, pezzettino per pezzettino, cose giuste e cose innocue, cose che sembrano più difficili, delineino un sistema nel quale l'indipendenza della magistratura venga messa in discussione, anche perché i magistrati saranno soprattutto impegnati a difendersi nei processi che verranno ad essi intentati dalle parti. I magistrati non sono dei semplici funzionari; essi risolvono liti, giudicano su accuse e, quindi, hanno sempre un nemico.
A mio parere, dobbiamo salvaguardare l'indipendenza e la funzionalità della magistratura correggendo i punti critici della sua azione, ma evitando che essa venga riportata sotto il dominio della politica, della legge o delle impossibilità di funzionamento. Credo che i rinvii alla legge, che vengono ripetutamente fatti in questo testo, dovrebbero essere riempiti di maggiori contenuti costituzionali. Si dovrebbe vincolare di più la legge alla Costituzione, in modo che la magistratura e la giustizia siano ancora disciplinate dalla Costituzione.

ANTONIO D'ALOIA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Parma. Vi ringrazio per questa occasione di confronto nell'ambito di una discussione così importante come quella sul disegno di legge costituzionale sulla giustizia, che tratta diversi argomenti. Io non mi soffermerò su tutti i temi, anche perché su alcuni mi trovo d'accordo con i relatori che mi hanno preceduto; anzi, proverò a fare un esercizio di completezza, nel senso che dedicherò qualche minuto ad alcuni argomenti apparentemente minori che, ovviamente, sono stati assorbiti, nelle valutazioni precedenti, dal grande tema della separazione delle carriere e del Consiglio superiore della magistratura.
Ricordo che stiamo parlando di una legge costituzionale e questo inevitabilmente restringe lo spazio di valutazione del costituzionalista, perché viene meno, in un certo senso, il suo parametro di valutazione o, meglio, viene sostituito da un parametro diverso che - qui sono d'accordo con il professor Sorrentino - è un parametro estremo, difficilmente configurabile, in particolare nel caso dei princìpi supremi dell'ordinamento costituzionale.
Il giudizio, quindi, si sposta sulla valutazione dello scarto con il modello vigente, sulle motivazioni che possono sorreggere questo scarto, sull'analisi comparata con altre esperienze. Partiamo da un dato che è stato già ricordato: se guardiamo al diritto comparato davvero siamo di fronte a un'esplosione di modelli per quanto riguarda la composizione degli organi di autogoverno, per quanto riguarda la configurazione del pubblico ministero e il ruolo della pubblica accusa. Questo, però, non deve farci dimenticare che il diritto comparato non può essere un supermarket dove prendiamo i prodotti che ci sembrano più belli e anche meglio presentati, perché dietro questi prodotti ci sono storie, assestamenti, tradizioni culturali. Insomma, forse dico una cosa scontata,


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ma quello che funziona in Francia o in Germania o in altri Paesi non è detto che vada bene anche da noi.
Faccio un'osservazione di carattere introduttivo. Riflettere oggi sulla giustizia, a più di sessant'anni dall'entrata in vigore della Costituzione, è sicuramente un tema utile e importante. Da anni proviamo a costruire qualcosa su questo tema, il che significa che ci sono problemi; problemi che non vengono affrontati e che, proprio per questo, in qualche modo si aggravano.
Il disegno di legge, però, non tocca tutti i temi del Titolo IV. Questo significa forse che le altre questioni, come la giustizia civile o la struttura del processo, vanno bene così come sono oppure - e questo non è sicuramente positivo quando si discute di riformare ampie parti della Costituzione - si procede per accelerazioni legate anche ad alcune esigenze contingenti.
È un difetto che ritrovo anche nella riproposizione, a sessant'anni dall'entrata in vigore della Costituzione, di concetti che oserei definire sbiaditi e che, in un certo senso, erano controversi e contestati già sessant'anni fa.
Ancora una volta si ripropone l'idea che la giurisdizione è esercitata da giudici ordinari. E il giudice amministrativo non è forse un giudice ordinario per la qualità e la vastità dell'impatto che le sue sentenze, ormai, hanno sulla vita delle persone, sull'economia e sulle imprese? Più di vent'anni fa, in una sentenza del 1987, la Corte costituzionale diceva che questo criterio discretivo, in qualche modo collegato a motivi di tradizione storica che il costituente aveva accolto un po' per inerzia, poggia su basi assolutamente inafferrabili. Vedere, oggi, riproposto quel criterio, come se fossimo tutti sicuri di che cosa sia l'ordinarietà e la specialità, un po' mi sorprende.
Ugualmente mi sorprende - lo diceva già il professor Ciarlo - il singolare «originalismo» che ispira questo progetto di riforma. L'originalismo è una corrente della cultura giuridica americana. L'idea di interpretare un testo alla luce delle motivazioni e del dibattito che ne hanno preceduto l'approvazione, qui diventa una sorta di «intenzionalismo selettivo»: in altre parole, prescindendo dal testo, si prendono in considerazione opinioni che intanto avevano un senso sessant'anni fa, in una temperie culturale e politica completamente diversa, ma comunque uscite sconfitte dal dibattito costituente. Questo vorrà pur dire qualcosa.
Per quanto riguarda il Consiglio superiore della magistratura e, quindi, l'organo di autogoverno giudiziario e la separazione delle carriere, c'è da dire che i modelli comparati sono assolutamente eterogenei. Mi chiedo anch'io se la separazione delle carriere attraverso due Consigli superiori sia la soluzione del problema. Si può operare, forse, con meccanismi molto meno invasivi e in parte lo si è già fatto con le riforme dell'ordinamento giudiziario del 2006 e del 2007.
Oggettivamente c'è, o c'era, un problema di passaggi troppo facili da una funzione all'altra, talvolta anche nello stesso distretto, nello stesso circuito territoriale. Per correggere questi aspetti, secondo me, è un po' eccessivo scomodare la Costituzione e, soprattutto, farlo moltiplicando gli organi di autogoverno.
Siamo davvero convinti che separare il pubblico ministero da quel circuito di esperienze, di comunicazione e anche di cultura che, in una parola, viene definita la cultura della giurisdizione, sia un bene per le garanzie della persona e per le garanzie del processo? Personalmente nutro qualche dubbio.
Inoltre, ha senso porsi il problema di intervenire per ridurre la politicizzazione degli organi di autogoverno aumentando la quota dei componenti laici? Il problema non è, evidentemente, il sorteggio. Il sorteggio va bene. Come diceva il professor Sorrentino, lo stiamo sperimentando anche noi con alterne fortune; ovviamente, dipende da come viene configurato in chiave legislativa, perché la platea degli eleggibili dovrebbe essere abbastanza significativa.
Questa inversione dei rapporti di forza, secondo me, va in controtendenza rispetto al trend degli altri Paesi.


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Mi spiego meglio. Ci sono Paesi in cui il modello di autogoverno è completamente diverso dal nostro o in cui non esiste l'autogoverno per i pubblici ministeri, oppure c'è una prevalenza di membri laici sui membri togati. Tuttavia, se esaminiamo la tendenza degli ultimi anni - mi riferisco alle riforme costituzionali del 1993 e del 2008 in Francia e alla riforma costituzionale inglese del 2007 e del 2009 - notiamo che il movimento è verso il «modello italiano», cioè verso una scelta di rafforzamento delle garanzie di indipendenza e di separazione di qualsiasi rapporto tra magistratura e politica, e non tanto verso la tendenza contraria che noi vorremmo praticare.
Sono d'accordo, invece, sulla Corte di disciplina. È una vecchia idea e separare le funzioni amministrative del CSM dalle funzioni disciplinari può essere un bene, anzi sicuramente lo è. In alcuni casi ci sono delle commistioni pericolose. Pensiamo alla questione del trasferimento d'ufficio per incompatibilità ambientale: è vero che la legge lo configura come una situazione di trasferimento incolpevole del magistrato, ma ci possono essere fatti valutabili contemporaneamente sia in sede disciplinare sia da parte della commissione del CSM che decide il trasferimento d'ufficio. Poiché potrebbero essere gli stessi magistrati a trovarsi in entrambi i posti, ciò, indubbiamente, dal punto di vista del giusto processo disciplinare non è positivo.
Se mi è consentito esprimere un parere, io creerei una Corte di disciplina che valga per tutte le magistrature. Sarebbe un bene sia per le altre magistrature, che oggi sono sottoposte a regimi disciplinari assolutamente plurali e a volte incomprensibili - soprattutto ai magistrati amministrativi - sia per la formazione di una cultura deontologica comune del mondo della magistratura.
Accenno brevemente alla norma secondo la quale i Consigli superiori della magistratura non possono adottare atti di indirizzo politico. Molto è stato detto - e condivido - dal professor Sorrentino. Il CSM non si è arrogato questa attività paranormativa, ma ha dovuto supplire per più di cinquant'anni a un Parlamento che non aveva attuato né l'articolo 108 della Costituzione, né la settima disposizione transitoria sulla revisione dell'ordinamento giudiziario, ragion per cui ha dovuto effettuare un'opera di riempimento di situazioni che non potevano essere lasciate alla discrezionalità dello stesso CSM. Il problema dell'indipendenza del magistrato è, infatti, anche nei confronti del CSM.
Credo che l'altra questione sia quella dei pareri che il CSM esprime sui disegni di legge e che in teoria potrebbero rientrare in questa «mitologica», per rubare una parola al professor Ciarlo, funzione di indirizzo politico.
Svolgo in merito una considerazione molto breve. A parte il fatto che questa norma esprime un concetto che non mi piace, cioè l'idea che non sia possibile una collaborazione tra il mondo della politica e quello della magistratura e che, quindi, non è possibile una collaborazione che la Corte costituzionale tante volte ci ha ricordato essere uno dei princìpi supremi anche nei rapporti tra la politica e la giustizia, io cerco di confinare il più possibile i poteri e le funzioni del CSM.
In questo modo, però, commetto un danno anche a me stesso come legislatore, perché la funzione legislativa ha bisogno del confronto e del contributo tecnico qualificato e imparziale nei diversi settori dei soggetti che operano in essi. In fondo le indagini conoscitive, come quella che stiamo ora svolgendo, sono proprio la testimonianza di questo bisogno del legislatore moderno di legiferare attraverso l'ascolto delle categorie.
Privarsi aprioristicamente del contributo tecnico e qualificato che il CSM può offrire - bisogna vedere, e lo può fare una legge, se il contributo del CSM possa avvenire ex officio o su richiesta del ministro o del Parlamento; se ne può discutere - è, a mio avviso, un problema.
Sulla responsabilità civile forse sono un po' in disaccordo con il professor Sorrentino e con chi mi ha preceduto, perché il problema esiste e bisogna affermarlo. La


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legge n. 117 del 1988 è una legge inesistente; io l'ho definita, in un'altra occasione, una legislazione di carta.
È vero che la Corte costituzionale nel 1989 ha sostenuto che questa legge rappresenta una sintesi ragionevole ed equilibrata tra i due opposti interessi dell'indipendenza del magistrato e del diritto del cittadino a vedersi risarcito, ma lo affermava pochi mesi dopo l'entrata in vigore della legge. Io credo che, se la Corte costituzionale fosse chiamata a esprimersi oggi, vent'anni dopo che quella legge praticamente non ha mai funzionato, non potrebbe segnalare una ragionevolezza intrinseca della legge stessa.
È vero che la Corte di giustizia parla di responsabilità dello Stato, però anche la legge n. 117 del 1988 lo fa. In fondo tale Corte sostiene - nella sentenza Traghetti del Mediterraneo - una questione molto semplice, ossia che la legge n. 117 del 1988 così com'è, con quella clausola di salvaguardia interpretativa assoluta, non funziona, non va bene.
Bisogna sforzarsi di trovare una sintesi diversa, che, lo preciso subito, non può essere quella del nuovo articolo 113-bis, perché esso va molto oltre il concetto di violazione grave e manifesta di cui parla la Corte di giustizia nella sentenza Traghetti del Mediterraneo. Parla tout court di violazione dei diritti equiparando il magistrato al funzionario pubblico qualsiasi, aspetto che la Corte di giustizia implicitamente esclude in alcuni passaggi della medesima decisione.
Svolgo un'ultima battuta sull'obbligatorietà e sulla discrezionalità dell'azione penale e concludo. È vero che l'obbligatorietà rischia di essere un mito, però è un mito che nel disordinato funzionamento della giustizia penale presenta alcuni elementi di correzione intrinseci al sistema. La persona offesa nel reato dispone di alcuni strumenti per opporsi a una richiesta di archiviazione e per sollecitare o stimolare l'attività del pubblico ministero. Io dubito, però, che abbia gli strumenti per contestare la scelta prioritaria effettuata dal Parlamento con la legge annuale di indicazione dei criteri.
Di quali criteri, poi, si tratta? È stato evidenziato molto bene che la distribuzione «criminale» sul territorio è molto diversificata. Compiendo un'indicazione di criteri di priorità, noi rischiamo davvero che in alcuni distretti un reato sia perseguito perché le priorità vengono tutte assorbite prima, mentre in altri distretti non lo sia, ovvero che soggetti che hanno commesso lo stesso reato subiscano una vicenda processuale diversa solo in ragione del territorio in cui risiedono.
Ci sarebbe tanto altro da dire. Se ci saranno domande, sarò lieto di svolgere chiarimenti.

GIOVANNI GUZZETTA, Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi Tor Vergata. Grazie per l'invito e per l'opportunità che mi viene offerta di esprimere alcune riflessioni su un tema di così grande importanza e attualità. Una premessa. Il primo problema che si pone nell'offrire una riflessione al Parlamento su un tema di questo genere è che, trattandosi di un intervento di livello costituzionale, il costituzionalista non ha moltissimo da esporre sul piano strettamente tecnico. Com'è noto, infatti, al di là di possibili questioni che investono limiti formali e sostanziali alla revisione costituzionale o alle modalità di revisione, l'intervento costituzionale si pone a un livello gerarchico tale per cui è difficile svolgere riflessioni di raffronto con il sistema costituzionale vigente.
D'altra parte, non è il caso, - e neppure ne ho intenzione - di entrare nel merito politico delle scelte che vengono proposte con questo disegno di legge, le quali appartengono alla totale autonomia del Parlamento.
Per questo ho scelto di riflettere - riservandomi di approfondire questo o quel punto a seguito delle sollecitazioni che verranno - su quali siano le coordinate di contesto che possano consentire di comparare l'impianto complessivo della riforma della situazione presente nell'Assemblea costituente.
A me pare che le due maggiori questioni che si pongono oggi e che erano


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presenti al momento della costituente riguardino due coordinate che sono al cuore della riforma, ossia il rapporto tra magistratura e circuito democratico-rappresentativo e la relazione tra gli organi della magistratura giudicante e della magistratura requirente.
Se si ripercorre con attenzione quel dibattito, è possibile notare che su entrambi i punti l'Assemblea costituente abbia compiuto alcune scelte. Sul versante del rapporto magistratura e circuito democratico-rappresentativo essa ha sancito da una parte la netta distinzione tra le due sfere e dall'altra la possibilità di influenza reciprocamente condizionata. L'influenza della magistratura sul circuito democratico-rappresentativo è condizionata da tale circuito politico e l'influenza del circuito sulla magistratura è condizionato da alcuni filtri.
Mi riferisco, per quanto riguarda il primo aspetto, cioè l'influenza dell'azione della magistratura sul sistema politico, a tutta la disciplina dei meccanismi autorizzatori o delle giurisdizioni speciali relativi alla responsabilità dei ministri e del Presidente della Repubblica.
Sull'altro versante mi riferisco alla scelta organizzativa, con riferimento al Consiglio superiore della magistratura, di prevedere una rappresentanza minoritaria degli eletti dal circuito democratico-rappresentativo.
Un altro punto, secondo me, molto importante su come è stata calibrata la relazione tra queste due sfere è quello che riguarda l'attività politica dei magistrati. L'articolo 98 della Costituzione rinvia al legislatore la possibilità di limitare l'iscrizione dei magistrati ai partiti politici.
Sul rapporto tra magistratura giudicante e magistratura requirente, pare assolutamente evidente la consapevolezza dell'Assemblea costituente riguardo alla particolare natura del pubblico ministero nella legislazione allora vigente e che tale natura, legata a un modello di organizzazione del processo di tipo inquisitorio, non consentisse una scelta definitiva sullo statuto del pubblico ministero stesso.
Tale scelta non definitiva è dimostrata dalla circostanza che, a differenza di quanto si possa affermare per gli organi giudicanti, per il pubblico ministero le garanzie sono rinviate alla legge ordinaria che stabilisce l'ordinamento giudiziario.
Colgo un nesso molto stretto tra la natura inquisitoria del processo e la scelta - diciamo così - di non scegliere, con riferimento al ruolo del pubblico ministero, in ciò che afferma un sostenitore della tesi opposta: quella della sottoposizione del pubblico ministero all'esecutivo. Sul punto, Giovanni Leone, che prima di essere Presidente della Repubblica fu un insigne processual-penalista, intervenendo in Assemblea costituente diceva: «Fino a quando esiste questa struttura, questo sistema di diritto sostantivo e processuale civile e penale, è opportuno che restino quelle parziali garanzie che la legge Togliatti ha conquistato al pubblico ministero.» Ciò significa che non bisogna tornare indietro rispetto alla riforma Togliatti (31 maggio 1946).
Leone aggiungeva, tuttavia: «Domani, in un'integrale riforma del complesso giudiziario, il legislatore sarà costretto a rivedere le funzioni del pubblico ministero, se deve conservare l'attuale natura anfibia, nella quale le funzioni giurisdizionali sono prevalenti nei confronti delle amministrative, o assegnargli funzioni esclusivamente amministrative ed esecutive.»
E ancora: «Ricorderò che nel congresso giuridico-forense di Firenze, il professor Delitala accennò all'idea di organizzare il processo penale sul modello anglosassone, nel quale il pubblico ministero appare come organo di polizia e come organo che raccoglie le prime prove.» Sono affermazioni che bastano a spiegare la vivacità di questo dibattito già in Assemblea costituente.
Il quadro presente ai costituenti, sommariamente, era questo. Che cosa è cambiato oggi su questi due versanti? Per quanto riguarda il rapporto tra magistratura e politica è cambiato il fatto che il sistema della netta distinzione e dell'influenza reciprocamente condizionata è stato notevolmente ridimensionato sul versante


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della politica, con la scelta condivisa maggioritariamente dell'eliminazione dell'autorizzazione a procedere e della modifica dell'articolo 96 della Costituzione.
Ciò pone un problema nella misura in cui non si tratta evidentemente come unica possibilità di ripristinare quel modello per ricreare un equilibrio, ma probabilmente di verificare in che modo l'assenza di filtri esterni possa essere recuperata attraverso meccanismi di garanzie endogene rispetto al circuito della magistratura.
Sempre su questo versante mi limito a segnalare che l'idea dei costituenti di limitare l'iscrizione ai partiti politici per i magistrati è stata alla fine recepita nella legislazione sotto forma di illecito disciplinare per l'iscrizione ai partiti politici, ma che l'intervento è ormai intempestivo, perché per i costituenti lo schema dell'appartenenza al partito politico era lo schema di percorso obbligato rispetto all'accesso alla politica. In un contesto di grave crisi dei partiti ovviamente la limitazione dell'iscrizione ai partiti non esprime nulla rispetto al ruolo dei magistrati nei confronti delle possibilità di iniziative e di attività nel mondo politico.
Mi permetterei di citare ancora una volta l'Assemblea costituente proprio per capire quale fosse l'idea che attraversava i costituenti rispetto alla limitazione all'iscrizione ai partiti politici. Il 5 dicembre del 1946, Pietro Calamandrei, cercando di individuare la soluzione migliore tra le due tesi in campo - egli non era, almeno in questa fase, decisamente a favore della limitazione dell'attività politica per i magistrati, non avendo ancora maturato un'idea precisa sul punto - sosteneva: «Sull'altro corno del problema - da una parte c'è ovviamente la limitazione di diritti politici per i parlamentari - la giustizia deve dare ai giudicabili un senso di assoluta tranquillità ed essa non potrà esistere invece in chi, appartenendo a un partito politico, si troverà, specie nei centri minori, di fronte a un giudice iscritto a un altro partito politico. Inoltre, in un ordinamento come il nostro, in cui la politica deve sfociare negli organi legislativi» - sta in ciò il collegamento tra l'appartenenza al partito e la rappresentanza - «che sono incaricati di trasformarla in diritto, il diritto stesso, quando viene affidato al magistrato per la sua applicazione, deve essere da lui visto solamente come tale e non come era prima di diventarlo, quando cioè era ancora politica». È questo il pensiero di Calamandrei sul rapporto tra magistratura e politica.
Per quanto riguarda il tema della collocazione del pubblico ministero la tesi di Giovanni Leone si è parzialmente avverata, in particolare a seguito della trasformazione del modello processuale da inquisitorio in accusatorio che, come noto, ha avuto nell'articolo 111 della Costituzione un'esplicita ricaduta costituzionale.
A questo punto il problema che viene sintetizzato nella separazione delle carriere è un tema che si pone anche coerentemente rispetto al dibattito costituente. Ovviamente si pone coerentemente, ma la scelta di realizzarlo o meno è sempre una scelta di merito politico e, quindi, rimessa al legislatore. Rappresenta comunque uno scenario che i costituenti si erano immaginati.
L'ipotesi di distinzione delle carriere tra pubblico ministero e giudici non ha necessariamente a che vedere con la collocazione, con la posizione del pubblico ministero stesso. Ciò è chiarissimo in Assemblea costituente, anche se alcuni sostenitori erano direttamente ed esplicitamente per la sottoposizione all'Esecutivo. Si tratta, però, di un discorso diverso.
Ci sarebbero altre questioni, ma temo di aver esaurito il mio tempo. L'unica considerazione che, se me lo consentite, svolgerei e che mi ha sollecitato chi è intervenuto prima di me è un tema interpretativo che vi sottopongo e riguarda il problema dell'obbligatorietà dell'azione penale.
In merito, l'articolo 112 della Costituzione così come lo si vorrebbe modificare prevede che l'ufficio del pubblico ministero abbia l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge.


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Prima di ascoltare il collega io avevo interpretato tale articolo non nel senso che l'unica lettura possibile fosse che il Parlamento stabilisse i criteri su quali siano i reati da perseguire o non perseguire, ma che la legge stabilisse i criteri in base ai quali tale selezione debba essere compiuta. Non è necessariamente detto, a mio modo di vedere, per come io leggo questa disposizione, che forse in questo senso è ambigua e andrebbe corretta, che si attribuisca al Parlamento il potere di determinare direttamente con un atto parlamentare la gerarchia nelle scelte di politica giudiziaria e di esercizio penale. Mi sembra che la si possa anche leggere nel senso che alla legge spetta di stabilire come si fa ciò e che, quindi, l'organo o gli organi che possono farlo non sono necessariamente il Parlamento e la maggioranza parlamentare pro tempore. È un'ipotesi di lettura che suggerisco come possibile.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

ROBERTO ZACCARIA. Vorrei porre una domanda al professor Onida perché ha toccato questo argomento e a me interessa una risposta che va al di là delle considerazioni che ha svolto.
Poiché ha affermato che questo tipo di intervento, più che riguardare il funzionamento della giustizia, concerne i rapporti tra i poteri, vorrei conoscere l'opinione del professore a proposito di una possibile estensione dell'intervento normativo - che in una proposta di riforma costituzionale è sempre possibile, essendo previsto nel dibattito parlamentare il potere emendativo - con riferimento ad altre tre norme costituzionali che potrebbero essere interessate da questa logica, in quanto possono attenere ai rapporti tra politica e magistratura, agli articoli 68 e 96 della Costituzione con riferimento ai reati ministeriali, nonché all'ipotesi di maggioranze qualificate da parte della Corte costituzionale per dichiarare eventualmente l'illegittimità delle leggi. Su questi punti mi interesserebbe conoscere la sua valutazione.

GIANCLAUDIO BRESSA. Innanzitutto ringrazio tutti i professori per l'ottimo contributo di riflessione che ci hanno affidato questa mattina. È pur vero, come è stato da loro ripetutamente sottolineato, che questa è un disegno di legge di riforma costituzionale e che, quindi, i costituzionalisti si trovano a confrontarsi con il Parlamento, che ha il potere di modificare la Costituzione.
Se ciò è vero, vorrei però sottolineare una questione importante, motivo per cui pongo una domanda a tutti i professori che sono intervenuti, su un tema accennato sia dal professor Sorrentino, sia dal professor Ciarlo.
Faccio anch'io riferimento al progetto del Governo come a quello più significativo. Esso affronta alcune questioni cruciali facendo ricorso a rinvii alla legge ordinaria. A mio modo di vedere, soprattutto su alcune questioni fondamentali - una è stata già citata dal professor Ciarlo, ma io ne aggiungo altre due - si tratta di un rinvio formale.
Sulla questione della modifica dell'articolo 109, per cui il giudice e il pubblico ministero dispongono della Polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge, e sulla modifica dell'articolo 112, per cui l'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge, essendo semplici rinvii formali e non essendoci alcun paletto, non si potrebbe pensare che questa sia una norma costituzionalmente inesistente, ossia un aggiramento del problema, dal momento che i princìpi di legalità, di eguaglianza e di indipendenza non sono più garantiti dalla Costituzione, ma sono rinviati a legge ordinaria? Si tratta di qualcosa che potrebbe confliggere con la nostra Costituzione?
La seconda è, invece, una domanda specifica che rivolgo al professor D'Aloia. Ho condiviso pienamente la sua valutazione del problema della responsabilità civile e concordo con lui sul fatto che la legge n. 117 sia irragionevole intrinsecamente. Il professore ha fornito, però, una suggestione, ma non l'ha sviluppata, affermando che bisogna trovare una sintesi


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diversa, che non può essere quella proposta dal Governo. Qual è la sua proposta di sintesi diversa?

GAETANO PECORELLA. Vorrei porre una domanda generale, che rivolgo in particolare al professor Onida. Che differenza ravvisa all'interno dell'articolo 111 tra il concetto di terzietà e quello di imparzialità del giudice? Qual è il senso di queste due espressioni, che vengono usate entrambe, peraltro nella stessa formulazione della norma?
Al professor Ciarlo volevo rivolgere alcune domande. Lei fa riferimento al rischio che i giudici onorari non siano più soltanto giudici singoli e che, quindi, ci sia il rischio di affidare materie complesse o importanti a tribunali composti anche da giudici onorari.
Chiedo se è possibile fare qualche esempio, perché oggi i giudici monocratici in sede penale si occupano di materie di grandissima rilevanza. Per esempio, la circonvenzione di incapace è di competenza del giudice monocratico. Non è più pericoloso il giudice onorario monocratico del giudice onorario che fa parte di un collegio?
Passo ad altre osservazioni. Un processo a tutti noto ha consentito che un giudice monocratico stabilisse un risarcimento del danno in misure tali da determinare la fine di un grosso gruppo imprenditoriale. È un caso, ma ovviamente ve ne sono molti altri. Mi domando quale sia l'allarme che può derivare dall'inserire i giudici onorari al di fuori del caso del giudice singolo, ma anche nei collegi.
Passo alla seconda domanda, che vorrei rivolgere sempre al professor Ciarlo. Ho osservato che l'Europa, secondo le sue parole, ritiene la giustizia in alcuni Paesi deficitaria perché il pubblico ministero è sottoposto all'esecutivo. Ci sono sentenze e direttive in questo senso? Anche una recentissima sentenza della Corte europea sostiene che il pubblico ministero non può avere le funzioni dei giudici in materia di libertà personale Non è di per sé contrario ai princìpi europei o ai princìpi di giustizia che il pubblico ministero possa essere sottoposto all'esecutivo.
Pongo un'ultima domanda al professor D'Aloia quando afferma che oggi con l'attuale situazione dell'azione penale obbligatoria vi sono rimedi contro l'arbitrio eventuale del pubblico ministero nelle priorità. Lei ha citato l'archiviazione, che è un problema completamente diverso, perché significa che il pubblico ministero non ravvisa elementi sufficienti per portare in giudizio un imputato. Chiederei quali sono, invece, i sistemi che un cittadino ha a disposizione oggi, il che interesserebbe anche a me professionalmente, di fronte al fatto che il pubblico ministero istruisce il primo processo al posto di un altro. Se esistono, il problema che abbiamo sempre affrontato noi dell'arbitrio nell'esercizio dell'azione penale non esisterebbe, però dovremmo capire quali sono tali rimedi.

DONATELLA FERRANTI. Anch'io volevo rivolgere un ringraziamento preliminare a tutti i professori, anche a quelli che adesso non sono presenti per questo contributo molto importante e per un confronto che ci consente di avere maggiori elementi per questa riforma, che viene sicuramente a incidere su princìpi fondamentali della Costituzione.
Molte delle preoccupazioni e dei punti critici evidenziati da alcuni professori mi trovano perfettamente d'accordo e, anzi, sono stati espressi in maniera eccellente. Vorrei alcune precisazioni ulteriori rispetto a come viene impostato il problema della separazione delle carriere.
Mi è parso di capire che la separazione delle carriere, anche da chi la vede non come il problema fondamentale che riguarda la riforma, è vista comunque come inerente al problema di assicurare la terzietà del giudice e l'aspetto che mi ha lasciata un po' perplessa, se devo essere sincera, è che si debba assicurare anche la sola immagine di terzietà.
Vorrei che ci fosse un approfondimento alla luce dell'effetto della riforma sull'ordinamento giudiziario. Ho sentito svolgere


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considerazioni che sostanzialmente non si agganciano più a quello che è oggi l'ordinamento delle carriere e soprattutto dei passaggi di funzione, quindi anche dell'immagine, dal punto di vista meramente formale.
Peraltro, uno degli effetti che si è verificato nella distinzione delle funzioni e che magari potrebbe anche essere perfezionato - su questo vorrei anche le opinioni dei professori presenti - ha dato luogo al fatto che determinati uffici rimanessero scoperti, perché proprio la difficoltà che deriva dalla distinzione delle funzioni distrettuali ed ex distrettuali all'interno dell'ordinamento giudiziario dell'ultima riforma ha impedito la copertura di alcuni posti, tanto che adesso alcuni di essi non si possono coprire, perché non c'è nessuno che faccia domanda, anche perché ci sono situazioni logistiche che spesso non consentono o non consigliano di presentare domanda per un posto di pubblico ministero o di giudice.
Vorrei poi capire, ed è una domanda che rivolgo perché sono presenti i relatori, se la terzietà del giudice non potrebbe essere maggiormente garantita da riforme processuali - faccio riferimento al processo penale - che colgano maggiormente e attuino l'articolo 111 della Costituzione.
Arrivo alla domanda sulla riforma costituzionale. Siamo sicuri che l'impostazione dei due CSM e delle loro modalità di composizione - ho visto un favore anche da parte di alcuni, come il professor Sorrentino, ma vorrei che su questo tema mi rispondesse anche il professor Onida, che non era entrato nel merito del sistema di composizione del Consiglio superiore della magistratura - non comporti una politicizzazione maggiore, dal momento che c'è una percentuale del 50 per cento dei componenti e l'eleggibilità con sorteggio del CSM non solo dei pubblici ministeri, ma anche dei giudici, con le stesse modalità previste per la Corte di disciplina?
A proposito delle modalità di composizione e di realizzazione, perché parlare di separazione delle carriere in astratto e non ancorarla a ciò che questa riforma prevede come attuazione del principio di separazione e di terzietà del giudice a garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza dei pubblici ministeri attraverso l'organo di autogoverno? Vorrei che si entrasse di più sulla configurazione che il legislatore, nelle proposte che sono state presentate, vuole attribuire agli organi di autogoverno.
Un'altra questione molto importante è l'eliminazione dei pareri, cioè il fatto di ridurre l'organo di autogoverno, eliminata la disciplina e le funzioni di indirizzo, sia per circolari, sia per pareri, a mero organo di amministrazione. Chiedo se anche quel principio possa incidere sull'effettiva autonomia e indipendenza della magistratura intesa in maniera complessiva e riferibile al pubblico ministero e al giudice.

RITA BERNARDINI. Da alcuni interventi che si sono svolti da parte degli illustri professori che abbiamo audito stamattina emerge, a mio avviso, una mancata considerazione di questa riforma nel suo complesso e della direzione verso la quale tale riforma si rivolge per cambiare il sistema. Più che altro mi sembra che manchi l'analisi della situazione attuale.
Se il professor Ciarlo, nell'insieme dei diversi interventi, pone la domanda di che giustizia ne venga fuori, mi pare, però, che non ci si ponga il problema di che giustizia abbiamo adesso con il sistema attuale, il quale peraltro non tiene presente il fatto che tutte le proposte di legge costituzionale non fanno troppo i conti con la riforma intervenuta nel 1989 del nuovo Codice di procedura penale.
Che giustizia c'è oggi, chiederei ai professori, e come si intende intervenire per modificare alcuni problemi, che mi pare non si possano non considerare?
Il professor Ciarlo svolge poi la seguente osservazione: esiste il rischio, con questa riforma, di mettere la giustizia nelle mani della politica del momento. Possiamo affermare che oggi non esiste il medesimo rischio, anzi un rischio diverso, ossia non esiste il rischio che la politica sia spesso assoggettata al potere della magistratura?


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Quando il professor Ciarlo afferma che il nostro sistema è addirittura invidiato all'estero, andiamo a vedere che cosa produce il nostro sistema. I richiami in sede europea sono tantissimi. Esso produce un'enorme mole di processi arretrati - sappiamo tutti quanti sono - un'enorme mole di prescrizioni, ogni anno tra le 170.000 e le 200.000, e produce una sofferenza da parte del cittadino di fronte alla giustizia.
Il professor Sorrentino ha sostenuto che i giudici rischino di divenire timidi di fronte a imputati arroganti, , proponendo sostanzialmente la questione che siamo abituati a leggere, ossia che in Italia c'è solo bisogno di snellire le procedure, senza porsi il problema dell'equilibrio dei poteri.
Io credo che effettivamente, in alcuni casi, fatti salvi i magistrati che svolgono veramente in modo onesto e con giudizio il loro lavoro, non si possa negare che esista, anche attraverso gli organismi che si sono andati formando, come l'Associazione nazionale magistrati, un vero e proprio ruolo politico da parte della magistratura, che interviene costantemente, per esempio nel giudizio delle leggi che sono emanate da parte del Parlamento, e che indica al legislatore, essendo un altro potere, ciò che dovrebbe o non dovrebbe fare. Credo che questi siano problemi che vanno posti.
Ringrazio il professor D'Aloia, che ha definito la legge sulla responsabilità civile dei magistrati come una legge inesistente. Ha detto la verità, perché è una legge che non ha prodotto nulla in termini di difesa del cittadino. Mi chiedo, però, come si possa accettare in un Paese democratico il fatto che per tantissimi anni una volontà popolare espressa chiaramente dal popolo italiano sia stata completamente disattesa, creando un'irresponsabilità totale da parte della magistratura italiana.

FABIO GARAGNANI. Pongo una brevissima domanda al professor Onida, che ha parlato con molta precisione della distinzione dei poteri previsti dalla Carta costituzionale, sia per quanto concerne la Corte costituzionale, sia per quanto concerne il CSM e le nomine parlamentari.
Gli chiedo, però, un'ulteriore riflessione: se l'esperienza di questi anni non abbia dimostrato l'esatto contrario di quanto lui ha affermato, ossia che la passione politica è prevalsa molto spesso sull'interesse della giustizia e della collettività. I dati quotidiani ci indicano l'esatto contrario. Da qui la necessità di un provvedimento particolarmente complesso come quello che stiamo esaminando, che risolva questi problemi, perché non si può separare la distinzione politica, l'appartenenza politica, dall'interesse collettivo, almeno come si è verificato finora.
Su questo tema chiedo al professor Onida un'ulteriore riflessione, perché ha dipinto un quadro idilliaco che, a mio modo di vedere, ma credo anche sulla base di un'oggettiva constatazione, non risponde assolutamente alla realtà, vista la faziosità che molto spesso caratterizza i comportamenti di esponenti del CSM e della Corte costituzionale.
In questo contesto pongo una domanda a tutti. È stato affermato da uno degli esperti che rispetto al passato è stato compiuto un salto significativo - ha citato una pubblicazione di un giurista, ma io non lo sono - che riguarda la discrezionalità dei pubblici ministeri, che è molto aumentata rispetto ad alcuni anni fa. È un dato indubbio.
Chiedo anche di esprimersi sulla valutazione che è stata fatta in questa sede su tale discrezionalità, se non sia proprio il caso, alla luce di questa considerazione, non di ridimensionarla, ma almeno di attenuarla, proprio per garantire al cittadino la possibilità di avere norme chiare che lo tutelino rispetto a questa aumentata discrezionalità, alla quale non ha fatto seguito un adeguamento della legislazione in corso.

PASQUALE CIRIELLO. Vorrei toccare il tema dell'obbligatorietà dell'azione penale, rivolgendomi al professor D'Aloia, l'oratore che più si è avvicinato all'angolazione che ho in mente.
Al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale noi siamo abituati a riconoscere due valenze garantistiche, quella


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dell'eguaglianza e quella dell'indipendenza del pubblico ministero. Sulla prima non torno perché ho l'impressione che ormai da decenni siamo in un circolo vizioso; sosteniamo che non si può toccare l'obbligatorietà pena la menomazione dell'eguaglianza, ma subito dopo aggiungiamo che di fatto non è possibile garantire in senso concreto l'obbligatorietà stessa. Traducendo, non potendo adeguare, come ha affermato il professor Onida, il fatto al diritto, fingiamo che il problema non esista.
La seconda garanzia è quella che, invece, è rivolta al tema dell'indipendenza del pubblico ministero. Poiché in realtà l'indipendenza del pubblico ministero è un valore costituzionale, ma in effetti è rinviata alla legge quanto alla disciplina sostanziale, essendo noi in sede di revisione costituzionale, chiedo se il professore non ritenga che questa possa essere l'occasione per provare a tipizzare le garanzie di indipendenza del pubblico ministero. Se fosse d'accordo su questo punto e se non chiedo molto, vorrei sapere come si potrebbe provare a operare su questo problema.

GUIDO MELIS. Vorrei richiamare il professor Onida, ma in generale anche i relatori, a un tema che è stato toccato un po' da tutti, ma che è rimasto un po' in ombra, cioè il rapporto tra il pubblico ministero e la Polizia giudiziaria.
Allentare il legame tra il PM e la Polizia giudiziaria vanifica una storia di battaglie garantiste che in questo Paese è stata condotta in anni ormai remoti, ma con molta fatica. Alcuni di noi certamente ne ricordano i passaggi fondamentali. Vorrei sapere qual è la valutazione che, in particolare, il professor Onida dà sugli effetti che potrebbe avere, in termini di rispetto del dettato costituzionale, ma anche in termini pratici l'abbandono di questo fondamentale pilastro del garantismo italiano.
Vorrei porre una domanda che richiama un tema che ha posto il professor D'Aloia, quando ha affermato che gli innesti nell'ordinamento vanno effettuati tenendo conto dell'armonia complessiva dell'ordinamento stesso e che, quindi, bisogna stare attenti a come si compone questo puzzle, assumendo istituti o soluzioni che possono essere presi in prestito da altri ordinamenti stranieri e inserendoli dentro un tessuto che naturalmente ha una sua sistematicità.
Tale tema mi richiama a un'affermazione che ha svolto il professor Pitruzzella e che mi ha colpito. È forse un po' marginale, ma la voglio citare, sperando che qualcuno mi risponda.
Il professore ha argomentato giustamente che il tema dell'obbligatorietà dell'azione penale presenta una problematica applicazione in Italia. Di questo siamo tutti consapevoli. Poi ci ha ricordato che le grandi trasformazioni sociali ed economiche di questi decenni più recenti, la trasformazione del diritto e in generale della domanda di giustizia e della sua moltiplicazione, hanno posto il giudice nell'impossibilità di applicare la legge come la si applicava un tempo, quasi dando per scontato che il giudice nell'ordinamento tradizionale che abbiamo alle spalle fosse un mero applicatore della legge e che la sua funzione fosse più semplice sotto questo profilo.
Io non credo che ciò corrisponda alla storia della tradizione giudiziaria italiana. Penso che il giudice italiano non sia mai stato bouche de la loi, come asserivano i francesi, e che sia invece figlio di una tradizione interpretativa molto ricca e articolata che deriva dai tribunali di Ancien Régime, dei quali il prodotto tipico è la sentenza italiana in campo sia penale, sia civile, sia amministrativo, una sentenza complessa e lunga, nella quale vengono prese in considerazione le argomentazioni delle parti, il giudice discute con queste argomentazioni e spesso intervengono elementi anche allotri, come gli obiter dicta, in cui il giudice parla addirittura al legislatore.
Esistono studi sulla sentenza italiana che ci consentono ormai di affermare che abbiamo alle spalle una tradizione molto più composita e mossa di quella che ci ha illustrato, sia pure in una battuta - forse


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lo inchiodo a una battuta en passant e di ciò mi scuso - il professor Pitruzzella.
Mi sembra che gli sviluppi recentissimi vadano nella direzione di aumentare la libertà di interpretazione del giudice piuttosto che di limitarla, perché nel diritto globale, come ci insegnano studi recenti, quali quelli di Zagrebelsky, il giudice interviene sempre di più, in termini di espressione giurisprudenziale, a dare risposta a domande che il legislatore lascia inespresse o a cui non dà una risposta precisa e puntuale.
Questo è il quadro generale in cui ci troviamo. Una riforma generale come quella che ci viene proposta, il cui senso fondamentale è quello di costringere l'interpretazione giudiziale dentro confini che vengono posti dal legislatore, dunque dal potere politico, il quale ogni anno dovrebbe dettare indicazioni precise e puntuali che dovrebbero orientare l'azione della magistratura, non è in conflitto con tutto ciò, con questo sviluppo, sia col passato che abbiamo alle spalle, sia soprattutto col presente e con il futuro che ha l'assetto che ho cercato di delineare, sia pure in maniera abborracciata?
Come ultimo punto riprendo una battuta del professor Ciarlo. Sono d'accordo, perché non si può utilizzare la fonte storica, sia pure costituente, come avviene nella relazione introduttiva al disegno di legge governativo, in una maniera tanto ingenua. Se uno studente di primo anno di un qualunque corso di storia del diritto avesse utilizzato le fonti citate in quel modo, gliel'avrei segnato con la matita rossoblu. Non è possibile citare Togliatti senza tener conto del contesto in quel momento della magistratura, che usciva dal fascismo, e del rapporto esistente in quella fase storica tra i poteri.
Analogamente, non è possibile utilizzare in quel modo anche le altre citazioni che ho visto, comprese quelle di Calamandrei, le quali andrebbero a loro volta inserite nel loro contesto. Ho voluto, forse con un po' di spocchia, fare la parte del filologo.

CINZIA CAPANO. Pongo alcune domande molto secche, partendo però da un'affermazione che è stata svolta, cioè dal rischio di mettere la giurisdizione nelle mani della politica del momento. Su questo punto pongo una domanda sia al professor Onida, sia al professor Sorrentino, che ci hanno spiegato come in realtà il sistema a protezione dell'indipendenza del giudice e della legalità sia fortemente intrecciato al principio di uguaglianza.
Sappiamo che non tutte le parti della Costituzione sono modificabili liberamente e che non è neanche facile effettuare una divisione netta tra una prima e una seconda parte, di cui la seconda sempre e comunque modificabile e la prima no, ma che occorre distinguere anche le disposizioni della seconda parte della Costituzione che non siano strettamente funzionali alla protezione dei princìpi fondamentali della prima.
Se esiste un intreccio tanto forte tra il principio di uguaglianza e la distribuzione dei poteri, con riferimento al modo in cui è garantito il principio di indipendenza della magistratura e della legalità attraverso l'autogoverno della magistratura, l'azione penale obbligatoria e tutti gli elementi su cui si tende a intervenire con questo provvedimento, non è vero forse che il meccanismo dell'articolo 138 non è idoneo alla modifica della Costituzione in un modo così significativo? Altrimenti ne verrebbe meno la caratteristica di Costituzione rigida della nostra Costituzione e, soprattutto all'interno di un sistema elettorale che consente premi di maggioranza, si avrebbe una continua flessibilità della Costituzione su principi fondanti di essa.
Le altre due questioni sono molto più limitate e riguardano il meccanismo del sorteggio. Alcuni hanno sostenuto, per esempio, che lo stiamo sperimentando nei concorsi universitari. Immagino, però, che nei concorsi universitari il numero dei soggetti da sorteggiare sia molto più limitato, perché si limiterà agli ordinari di una determinata disciplina.
Come si fa ad applicare il meccanismo di un sorteggio quando si deve selezionare per quanto riguarda i togati tra 8.600


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magistrati? Quali sono i meccanismi e quali possono essere le garanzie che si selezioni non solo il meglio, opzione che normalmente è garantita dalle candidature, ma anche i soggetti che vogliono accedere a quei posti per il bene comune e non per sottrarsi alla funzione giurisdizionale?
L'ultima questione è relativa alla Corte di disciplina. Visto che il provvedimento dispone che «la legge assicura l'autonomia e l'indipendenza della Corte di disciplina e l'attuazione del principio del giusto processo», mi chiedo se non sia un altro di quei rinvii troppo in bianco che potrebbe alla fine ledere il principio dell'indipendenza della magistratura. La funzione disciplinare mi pare assolutamente correlata all'indipendenza della magistratura.

FEDERICO PALOMBA. Gli studiosi intervenuti stamattina non hanno limitato il loro campo di azione alla necessità di farci capire quali sono le conseguenze di questa riforma, ma in realtà sono andati oltre e di ciò li ringrazio in modo particolare.
Ci hanno fatto capire, infatti, che bisogna guardare il sistema nel suo complesso e le diverse disposizioni della proposta di riforma nel loro complesso per capirne il senso più profondo e ci hanno anche introdotto in un altro scenario: la Costituzione è composta di norme e di principi che si tengono strettamente gli uni con gli altri, ragion per cui ogni modifica della Costituzione deve rispondere a princìpi generali e all'impianto complessivo della Costituzione stessa.
Mi voglio mantenere all'interno di questo filone, che ritengo davvero molto importante. Questa riforma è stata effettuata per esplicitazione dei suoi proponenti, il Presidente del Consiglio e il ministro della giustizia, essenzialmente per rispondere a due esigenze. La prima è quella per cui la giustizia non funziona e, quindi, bisogna riformarla e la seconda è che la magistratura è intrisa di un tasso troppo elevato di caratterizzazione politica, ragion per cui bisogna provvedere.
Tale disegno complessivo di riforma è una sorta di aberratio ictus, sotto il primo profilo perché in realtà la riforma delle condizioni per far funzionare la giustizia non è minimamente toccata e attiene ad altri livelli e, sotto il secondo, perché per supplire a una pretesa politicizzazione della magistratura si risponde elevando all'ennesima potenza il grado dell'influenza della politica nel funzionamento della giustizia, tanto che qualcuno ha parlato nelle audizioni precedenti di una giustizia a geometria variabile, la quale si determinerebbe per effetto anche della dequotazione di garanzie costituzionali a livello di legge ordinaria.
Sotto questo profilo mi convince l'approccio alla visione sistemica di questa proposta di riforma, dalla quale emerge una magistratura depotenziata e una giustizia in molti modi controllata dal potere politico.
Le domande che vorrei porre dopo questa premessa sono le seguenti. Il depotenziamento della magistratura da potere a ordine, che si estrinseca attraverso numerosi passaggi sui quali non mi soffermo, è un principio costituzionalmente accettabile, alla luce degli ordinamenti moderni della nostra stessa Costituzione, che trae origine dagli ordinamenti moderni per i quali esiste una tripartizione di poteri, un equilibrio tra i poteri?
L'esigenza di riequilibrio, che è alla base di questa proposta di riforma, non viene risolta nel senso dell'eliminazione di uno dei poteri dello Stato, cioè il potere giudiziario, in una situazione in cui, essendo il bipolarismo un'acquisizione stabile, anche la funzione di controllo del legislativo sull'esecutivo non viene più esercitata nella maniera che sappiamo?
Potrebbe la dequotazione di numerosi interventi da garanzia costituzionale a legge ordinaria dare luogo a censura di incostituzionalità di una legge che, per esempio, sull'obbligatorietà dell'azione penale attribuisse il compito di determinare quali sono le sfere in cui bisogna esercitare l'azione penale, in conseguenza delle quali, per esempio, si affermasse che non si deve procedere per i reati di corruzione perché è più importante la microcriminalità?


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Una legge che autorizzasse ciò o che alludesse a princìpi contrastanti sotto il profilo sistemico costituzionale potrebbe essere soggetta a censura di incostituzionalità, anche se la Costituzione dispone che bisogna affidare la determinazione alla legge? Una norma costituzionale che non ancori a princìpi effettivi le leggi successive di intervento può legittimare qualunque normazione senza princìpi, oppure la normazione deve comunque ispirarsi a princìpi fondamentali?
Alla base c'è un punto: è uno dei princìpi supremi della Costituzione il fatto che la magistratura sia un potere dello Stato, con tutte le conseguenze che derivano dalla decisione su questo interrogativo?

ANNA ROSSOMANDO. Sarò necessariamente sintetica anch'io, perché sono stati già toccati in maniera molto esauriente quasi tutti gli argomenti.
Volevo tornare sulla questione del rapporto tra i poteri dello Stato, ovvero sull'equilibrio tra di essi. Vorrei chiedere, in particolar modo, al professor Onida, ma anche agli altri, se le modifiche proposte non possano rimandare a tutta l'altra parte, quella che riguarda la cosiddetta politica così come è oggi.
Noi siamo in un sistema che non soltanto è di tipo maggioritario, con una legge elettorale che crea comunque un forte squilibrio e in più non consente di scegliere i parlamentari, ma è un sistema di tipo maggioritario con premi fortissimi, il quale non ha di fatto mai modificato o non si è mai posto il problema di rafforzare tutti i sistemi di controllo, che erano basati su un sistema di tipo proporzionale.
Si richiamano sempre i sistemi di altri Paesi, dimenticandosi che negli altri Paesi, soprattutto in quelli in cui vige un sistema maggioritario, la questione dei pesi e dei contrappesi è presa in considerazione molto seriamente. Penso agli Stati Uniti e al meccanismo di nomina dei giudici della Corte suprema.
Ovunque esista un potere esecutivo molto forte esiste anche un sistema di contrappesi molto forte. Proprio perché sono sistemi di controllo la parte che viene eletta e nominata dal Parlamento oggi viene nominata con un sistema che premia moltissimo la maggioranza. È un problema che credo debba essere preso in considerazione proprio nei rapporti tra i poteri e nello squilibrio che, a mio parere, si crea con questo tipo di modifiche.
Si è parlato di politicizzazione, e questo è un punto, ma esiste anche uno squilibrio e soprattutto mi chiedo se non ci sia una pericolosa sovrapposizione tra i campi. Non si pone un problema solo di squilibrio, ma anche sulla separazione dei poteri, perché c'è un'invasione di campo sulla parte che riguarda la giurisdizione.
La terza questione, che viene evocata dichiaratamente e anche in alcune delle domande che sono state poste, è il problema del rapporto tra la politica e la giustizia. In sostanza si pone la questione di controllare l'azione del pubblico ministero.
Al di là delle battute del pubblico ministero sotto l'esecutivo, per caso non si sta rimandando a un modello che era quello del codice Rocco e, visto che si è parlato molto di democrazia, a una concezione autoritaria dell'esercizio del potere da parte di alcuni poteri e ordini dello Stato? Non è un problema solo di sottoposizione del pubblico ministero, ma anche di esercizio della funzione che spetta al pubblico ministero in una logica autoritaria come quella del codice Rocco.
Infine, sull'obbligatorietà dell'azione penale, se dovessi interpretare il fatto che al Parlamento spetti di individuare i criteri - in parte anche il collega Palomba ha posto una domanda su questo punto - non potrebbe che essere una legge di ordine assolutamente generale a fissare alcuni criteri di priorità sull'esercizio dell'azione penale. Sarebbe impossibile fissarli di volta in volta, emanando ogni anno una legge per precisare quali siano i reati che si intendono perseguire.
Se così si agisse, o tramite una legge che ogni anno o periodicamente individua quali sono le priorità o attraverso altri meccanismi strettamente parlamentari, non sarebbe un classico caso di sovrapposizione


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tra le funzioni e soprattutto, posto che esiste un principio di legalità e di controllo di legalità al quale tutti devono essere sottoposti, prima di tutto il cosiddetto potere politico, in questo modo non si verifica una sottrazione al controllo di legalità?
Infine, quando parliamo di squilibrio e di sistema maggioritario, a proposito di ciò che si è ormai creato nel sistema italiano e si è consolidato soprattutto in questa ultima legislatura, ma anche precedentemente, cioè di un potere legislativo, che peraltro non è più nel Parlamento, ma che è fondamentalmente nel Governo e nel potere esecutivo, in realtà sappiamo che non si parla più della separazione dei tre poteri, ma di due poteri, il che è anche all'origine di alcune di frizioni.

LUCA RODOLFO PAOLINI. Le mie domande sono rivolte a ciascuno degli intervenuti. Oggi di fatto, se un giudice non vuole raggiungere una sede che ritiene disagiata o che comunque non intende raggiungere, né il ministro, né il CSM hanno il potere di obbligarlo. Ritenete che questo sia un sistema da mettere in discussione e soprattutto quali suggerimenti, a normativa vigente, proporreste per superare questo, che è il primo dei problemi?
Se un giudice non si reca in una sede e sappiamo che ce ne sono tante scoperte - mi pare che siano 89 i provvedimenti di trasferimento d'ufficio e decine quelli del CSM, tutti, se non erro, impugnati e quindi di fatto almeno temporalmente bloccati - questo è un punto su cui credo che sia indispensabile una riforma e chiedo che cosa suggerireste di fare in merito.

LORENZO RIA. Premesso che per rendere più efficiente il sistema giustizia, secondo me, occorrerebbe altro o almeno parallelamente bisognerebbe lavorare su altro, come sulla revisione delle circoscrizioni, sulla possibile abolizione di alcuni tribunali inutili, sulla previsione di meccanismi di riduzione del carico delle procure, e integrare l'organico amministrativo cooperante con i tribunali, con la Corte d'appello e con gli altri organi giurisdizionali, vorrei richiamare l'attenzione dei relatori su tre questioni che, peraltro, sono già state affrontate dai colleghi.
In una visione d'insieme quasi tutti i relatori hanno giudicato negativamente l'introduzione di riserve di legge sulla maggior parte degli argomenti toccati dal Titolo IV della Costituzione. Io vorrei chiedere quanto sia reale il pericolo che la Costituzione risulti svuotata di contenuti effettivi e ridotta a simulacro di princìpi formali.
Come giudicate il rischio sotteso alla modifica di alcune norme, come l'articolo 107 sull'inamovibilità dei giudici, l'articolo 109 sulla Polizia giudiziaria, l'articolo 112 sull'obbligatorietà dell'azione penale e quanto sia reale il rischio che tutto si trasformi in norme costituzionali in bianco, come è stato già rilevato, a contenuto soltanto programmatico, norme che, per diventare precettive, rinviano alla legge ordinaria?
In ragione dell'attuale assetto bipolare e stante l'attuale legge elettorale, pensate che si dovrebbero - naturalmente entrando in questo caso in un merito che io, invece, auspico che non ci sia - almeno prevedere maggioranze qualificate per l'elezione dei membri laici del Consiglio o dei Consigli superiori della magistratura al fine di evitare che gli stessi diventino espressione della maggioranza parlamentare, con pericolo per l'indipendenza dei giudici e dei pubblici ministeri dal potere esecutivo?
Passo velocemente alla terza domanda o, se volete, riflessione su questioni che pure sono state affrontate. Mi riferisco alla modifica dell'articolo 112, la modifica che riguarda l'obbligatorietà dell'azione penale, che, secondo la proposta di revisione costituzionale, verrebbe esercitata secondo i criteri stabiliti dalla legge.
Sempre entrando in una logica di possibile percorso parlamentare, secondo voi vi possono essere anche in astratto alcuni canoni di individuazione della scala di priorità nei reati da perseguire? Vi possono essere criteri di priorità per perseguirne uno piuttosto che un altro e quali


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sono i rischi principali di tale proposta, dal momento che - naturalmente ciò non riguarda la revisione della Costituzione - molte procure, e l'esempio di Torino ormai è noto, si sono organizzate nel senso di stabilire al loro interno criteri, in questo caso non di priorità, ma di lavoro e dei modelli organizzativi che hanno consentito in quella realtà di rendere più efficiente il sistema?

MANLIO CONTENTO. Signora presidente, la prima domanda è rivolta a tutti i professori. Chiedo loro di indicarmi quali delle proposte contenute nel progetto di riforma costituzionale del Governo, visto che di questo tema si è parlato, siano in contrasto con quelli che alcuni di loro hanno definito i princìpi fondamentali della nostra Carta costituzionale e, in tali casi, per quali ragioni.
La seconda domanda, rivolta al professor Onida, è relativa al ruolo da lui stesso definito importante dei laici in quanto portatori non di una cultura politica, ma di una sensibilità che dovrebbe far crescere, attraverso questo apporto, anche il contributo all'interno del Consiglio superiore della magistratura o dei cosiddetti organi di autogoverno. Chiedo al professor Onida se la proposta del Governo che aumenta la partecipazione dei membri laici possa essere letta come apporto di cultura nel senso da lui citato e, se così non fosse, per quali ragioni vi sarebbe, in tal caso, tale distinzione.
La seconda domanda, sempre rivolta al professor Onida, è riferita al controllo politico che si potrebbe ipotizzare con l'utilizzo, da parte del Governo, della polizia in seguito alla soppressione dell'avverbio «direttamente» previsto attualmente dalla nostra Carta costituzionale. Chiedo di conoscere sulla base di quali argomenti formuli questa sua conclusione, dal momento che la semplice soppressione non fa altro che rimandare le modalità con cui tale rapporto dovrebbe essere regolato alla legge ordinaria e, quindi, al Parlamento, il quale deciderà sulla base naturalmente dei canoni costituzionali previsti in tal caso.
Le ultime domande sono rivolte al professor Ciarlo e, in ogni caso, anche agli altri professori. Chiedo loro di conoscere quante norme della nostra Carta costituzionale attualmente rinviino alla legge ordinaria l'attuazione di princìpi costituzionali, a cominciare da quelle contenute nel Titolo di cui stiamo discutendo, le quali rinviano in misura molto spesso anche diretta alle norme, per esempio, sull'ordinamento giudiziario, alle norme della legge e, in altre parole, al Parlamento e se ritengano che questo sia motivo eventuale di illegittimità costituzionale.
L'ultima questione è sui giudici singoli. Chiedo al professor Ciarlo se l'attuale stesura dell'articolo di riferimento della Carta costituzionale non permetterebbe ugualmente al Parlamento di procedere alla nomina attraverso una legge ordinaria per tutti i giudici che svolgono funzione di giudici singoli, per esempio giudici che oggi giudicano di cause di centinaia di milioni di euro, che decidono molto spesso fino a decine di anni di reclusione, che potrebbero, in alcuni casi, come il giudice per le indagini preliminari, applicare anche pene che, se non sono dell'ergastolo in seguito a giudizio abbreviato, ci si avvicinano molto.

PRESIDENTE. Concludo con due brevissime domande. Mi interesserebbe capire in chiave propositiva, dal momento che nei limiti del possibile cerco sempre di individuare soluzioni, nell'ipotesi di separazione delle carriere - premesso che ho capito che quasi tutti sono contrari alla sottoposizione all'esecutivo del pubblico ministero e io ovviamente faccio parte di questo orientamento - se qualcuno ha un'idea che consenta di trovare una soluzione al tipo di contestazioni che di solito vengono poste per questa soluzione.
La seconda domanda è sull'obbligatorietà dell'azione penale. Chiedo se, oltre alla famosa soluzione della depenalizzazione, esista un'altra ipotesi di mantenimento dell'obbligatorietà dell'azione penale per superare il problema che di fatto esiste la discrezionalità, oltre a quella della depenalizzazione.


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Do la parola ai nostri auditi per la replica, suggerendo che, dovendo i lavori della Commissione procedere celermente, si possa ricorrere a due soluzioni: la prima è che ciascuno dia risposte nei limiti del possibile sintetiche e la seconda che, se qualcuno intende approfondire un argomento perché si rende conto che non è possibile rispondere nei tempi disponibili, possa far pervenire alla Commissione successivamente un breve documento scritto o una nota che sarà distribuita.

VALERIO ONIDA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Milano. Grazie, presidente. L'ultima sua precisazione mi rassicura, perché l'idea di dover rispondere a questa quantità di domande e anche di osservazioni mi spaventava. Mi è sembrato di assistere a un ricchissimo dibattito e io non ero preparato a rispondere alle domande poste in un dibattito.
Cercherò, pertanto, di rispondere ad alcune delle domande più puntuali che sono state rivolte, scusandomi fin da ora con tutti gli intervenuti ai quali non avrò dato risposte soddisfacenti e riservandomi di svolgere per iscritto l'integrazione.
Volevo cominciare dalle domande puntuali poste dal relatore, onorevole Contento, perché erano molto precise. Quali delle proposte appaiono in contrasto con i princìpi supremi e perché? L'unico principio supremo che si individua è quello di legalità, cui consegue l'indipendenza. Uguaglianza, legalità e indipendenza sono i princìpi supremi implicati.
È difficile affermare che ci siano singole proposte che potrebbero domani essere ritenute, come tali, in puntuale contrasto con qualcuno di questi princìpi supremi. Tuttavia, l'insieme delle proposte solleva le preoccupazioni che fin dall'introduzione ho citato. La mia risposta è questa e purtroppo non è esauriente.
Alla domanda sul ruolo dei membri laici, pur confermando che io vedo in modo molto positivo i membri laici negli organi di garanzia, non trovo però positiva la proposta di aumentare i membri di elezione parlamentare eletti (non si esplicita con quale maggioranza) e comunque configurati, come appare dalla relazione, come membri rappresentanti del Parlamento e quindi delle forze politiche, veri e propri rappresentanti. Sarei molto preoccupato nel vedere che i membri laici del CSM e tanto più quelli della Corte costituzionale siano rappresentanti del Parlamento, quindi delle forze politiche.
In realtà l'elezione parlamentare è un modo per arrivare a designare alcuni membri di un organo di garanzia. Già oggi questo avviene per la nostra Costituzione, ma non dovrebbe essere un modo per portare una diretta rappresentanza delle forze politiche che sono in Parlamento nell'ambito di tali organi. È questo il passaggio che trovo improprio, ossia immaginare i membri laici come portatori delle stesse istanze politiche di cui sono portatori i parlamentari che li eleggono. Non dovrebbe essere così.
La terza domanda puntuale verteva sul controllo della Polizia giudiziaria. Si osserva che esiste un rinvio alla legge ordinaria e si domanda che cosa significa togliere l'avverbio «direttamente».
L'inconveniente del togliere la previsione di una disponibilità diretta della Polizia giudiziaria da parte del pubblico ministero è quello di decostituzionalizzare uno degli strumenti fondamentali dell'indipendenza, perché un pubblico ministero privato della possibilità, costituzionalmente garantita, di disporre direttamente della Polizia giudiziaria e, quindi, condizionato da eventuali decisioni dell'esecutivo, da cui la polizia strutturalmente dipende, non sarebbe più un pubblico ministero realmente indipendente e in grado di attuare pienamente il principio di legalità.
In merito al rinvio alla legge di per sé ha ragione il relatore quando sostiene che ci sono molti rinvii alla legge già nella Costituzione attuale. Non si può immaginare che i testi costituzionali non rinviino alla legge, ma il problema è di non effettuare rinvii che svuotino il principio che si afferma. Credo che in questo caso proprio i due princìpi di obbligatorietà dell'azione penale e della disponibilità diretta della


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polizia giudiziaria da parte del pubblico ministero rischino di essere affermati e negati contemporaneamente, perché, se si affermano, ma poi si rinvia a una legge la quale può sostanzialmente prevedere qualsiasi cosa, si avrebbe uno svuotamento del principio.
Passerei ad altre domande che sono state poste, lasciando alla fine quelle che aveva posto il primo intervenuto, l'onorevole Zaccaria, le quali ampliavano il quadro rispetto al tema posto da questa audizione, per rispondere nei limiti del possibile ad alcune domande più puntuali che sono state poste.
Onorevole Bressa, per quanto riguarda il rinvio alla legge, esso è chiaramente ammissibile, ma non deve essere tale da svuotare il principio. Quando si parla del principio di obbligatorietà, mi sembra un esempio chiarissimo: se l'azione penale è obbligatoria, non ha senso parlare di criteri per l'esercizio, perché significa che tutte le notizie di reato devono avere il seguito di un'indagine e di un eventuale esercizio dell'azione penale, laddove ci siano i presupposti.
Noi affermiamo ancora che l'azione penale è obbligatoria, però parlare di priorità sottintende che ci sono alcuni reati che non si perseguono, nel qual caso tale azione non è più obbligatoria. Se si stabilisce che i reati di minor allarme sociale si perseguono alla fine, ma di fatto le risorse sono quelle che sono, in pratica è un modo per dire che l'azione penale è obbligatoria fino a un dato punto, ossia solo laddove lo disporrà la legge o laddove lo deciderà il Parlamento.
L'azione penale non sarebbe più obbligatoria e questa mi sembra una contraddizione. Se è obbligatoria, infatti, significa che tutti i reati devono essere perseguiti. Sarà un problema di funzionalità e di organizzazione degli uffici agire con urgenza su questioni che richiedono l'urgenza, stando anche al buonsenso, e con minor urgenza su quelle che richiedono minore urgenza, ma non si può nascondere la volontà di rendere discrezionale o comunque di limitare l'azione penale ad alcuni reati e non ad altri sotto la veste di un rinvio a criteri non definiti di esercizio.
Il fatto che oggi ciò accada già richiede una risposta del tipo per cui bisognerebbe eliminare le cause di questa discrezionalità, se esistono. Oltre alla depenalizzazione - non sono un penalista e, quindi, non sono esperto - ho l'impressione che si possa lavorare sul tema di quando una notitia criminis costituisca il presupposto perché scatti l'obbligatorietà di indagare e di agire.
Si possono evitare le indagini a strascico, ossia il fatto che un pubblico ministero una mattina si svegli e decida che vuole vedere se in una data amministrazione o in un dato luogo si commettano reati senza avere notitiae criminis, ma con intercettazioni e controlli.
Si tratta chiaramente oggi di una deviazione rispetto a un principio costituzionale, cioè al fatto che il compito di chi esercita l'azione penale e di chi indaga è quello di intervenire su singoli episodi e non di assumere funzioni di controllo generale.
Ricordo che esiste una sentenza della Corte costituzionale di non moltissimi anni fa che, a proposito dei controlli della Corte dei conti, che sono altro, ma che possono andare verso accertamenti di responsabilità per danno erariale, censurò un provvedimento della Corte dei conti che appariva come una richiesta generale di controllo sugli atti di una determinata amministrazione.
Un altro caso famoso è quello in cui un pubblico ministero della provincia di Bolzano sembrava voler instaurare un'indagine quasi amministrativa sul modo in cui era organizzato il servizio di scuolabus nella provincia. La Corte costituzionale ha affermato, e potrebbe affermarlo anche domani in relazione ad altre situazioni, che ciò non è lecito in altre sentenze su conflitti di attribuzione, ed è comunque un principio costituzionale che l'attività di indagine sui singoli reati e di controllo su singole deviazioni non possa trasformarsi in un'autonoma iniziativa alla ricerca di deviazioni. Non sarebbe più l'azione penale obbligatoria, ma un'iniziativa indebita.


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Credo che su questo terreno si possa lavorare e penso che i penalisti siano più bravi a tradurre in legge aspetti di questo genere.
L'onorevole Pecorella poneva domande molto pertinenti e sottili su terzietà e imparzialità, chiedendo se questi termini usati nell'articolo 111 e nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo siano un'endiadi o se hanno un significato diverso. Penso che, anche se spesso noi le usiamo come endiadi, ci sia una differenza tra le espressioni di «giudice terzo» e «giudice imparziale». Il giudice terzo è un giudice che non deve in alcun modo identificarsi né confondersi con alcuna delle parti del giudizio e per cui si precludono tutti i possibili casi di vincoli giuridici che esistano fra il giudicante e una delle parti. Gli istituti ben noti dell'astensione e della ricusazione sono legati a questo concetto.
L'imparzialità è un concetto più ampio. Anche la terzietà è imparzialità, nel senso di non essere legato a una delle due parti del giudizio, ma l'imparzialità è più estesa e va a trascolorare nel terreno dell'indipendenza. Un giudice non indipendente è un giudice non imparziale e, viceversa, un giudice non imparziale è un giudice non indipendente.
Indipendenza significa che il giudice nel giudicare agisce, come si usa dire, in base a scienza e coscienza e non subisce condizionamenti, non culturali, ma esterni, che lo possano portare a essere non imparziale non solo nei confronti delle due parti del giudizio civile, ma anche, per esempio, quando il giudizio concerne una materia politicamente sensibile, non collegandosi palesemente a una parte politica. Mi pare che l'imparzialità sia un concetto più esteso della terzietà, anche se la terzietà è comunque necessaria.
Sull'altra domanda che poneva l'onorevole Pecorella sui giudici onorari, la correzione che si vorrebbe apportare all'articolo 106 riguarda non tanto o non solo l'estensione della possibilità di nominare i giudici onorari, quanto quella di nominare i giudici elettivi. Ciò che si sopprime è la previsione dei giudici singoli, che sono oggi riferiti, nell'articolo 106, alla nomina dei giudici onorari anche elettiva.
In realtà, io ho letto in questo nuovo articolo 106 l'idea di ampliare il novero dei giudici elettivi, il che sarebbe esattamente il contrario di una spoliticizzazione della magistratura, perché è ovvio che un giudice elettivo non potrebbe che essere politicamente parziale, quasi per definizione.
Più in generale, sui giudici onorari e sui giudici singoli, la collegialità è una delle grandi garanzie di imparzialità dei giudicanti e, quindi, io non vedo con grandissimo favore il camminare nella direzione dei giudici singoli. In merito alle riforme che sono state effettuate per ampliare i poteri dei giudici singoli, sono d'accordo con chi ha osservato che a volte essi hanno poteri eccessivi. La collegialità è una grandissima garanzia e lo posso affermare anche a testimonianza di chi ha fatto parte di un organismo fortemente collegiale come la Corte costituzionale, in cui la collegialità funziona e non è una finta.
Sull'apparenza di terzietà, di cui chiedeva l'onorevole Ferranti, forse mi sono già espresso. È vero che ci vuole anche un'apparenza di terzietà. Per esempio, a proposito del passaggio troppo facile dalle funzioni di pubblico ministero a quelle di giudicante o viceversa nello stesso luogo, è vero che la legislazione ha già provveduto, e forse si può ancora migliorare, a molti di questi inconvenienti, che nascevano da un passaggio eccessivamente facile dalla funzione giudicante a quella requirente.
Sulla questione del sorteggio per l'elezione dei magistrati che entrano a far parte del CSM si pone un problema. La Costituzione ha voluto prevedere oggi un organo - immagino - in parte eletto dai giudici che esprima l'interesse dell'intero corpo giudiziario. Un meccanismo di elezione commisto a un sorteggio può andar bene quando si tratta di eleggere una Commissione di professori che devono giudicare sul valore scientifico di un concorrente, ma è una questione un po' diversa quando si tratta di amministrare il corpo della magistratura. Si tratta della qualità rappresentativa del CSM, perché un CSM eletto da tutti i magistrati, ma in


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cui l'eleggibilità è ristretta, per esempio, a un piccolo numero di sorteggiati, penso che perderebbe di rappresentatività.
Non si può escludere un meccanismo cui mescolare il sorteggio, ma forse più nel senso di sorteggiare tra gli eletti che non di eleggere fra i sorteggiati. Sorteggiare fra gli eletti significa che si scompagina il calcolo delle correnti, mentre eleggere tra i sorteggiati significa che il corpo eletto può essere, in quanto la sorte è cieca, completamente non rappresentativo del corpo rappresentato. Il tema richiederebbe ulteriori svolgimenti che non mi sono consentiti in questa sede.
Procedo rapidamente su alcune questioni precise che sono state indicate. L'inamovibilità è una garanzia fondamentale per i giudici, ma riguarda solo il trasferimento, per cui non si può essere rimossi o trasferiti dalla sede. Se, per esempio, si vuole passare in Corte d'Appello, si presenta domanda e vi si viene trasferiti, non si può rispondere che non ci si vuole recare in un dato posto. È come quando si viene nominato magistrato, si partecipa al concorso, si vince e poi si può scegliere in base alla graduatoria, ma poi si viene mandati dove necessario. Se ci sono sedi scoperte, si viene mandati in quelle.
Inamovibilità significa garanzia di non poter essere rimosso o trasferito d'imperio, non di non poter essere adibito all'una o all'altra sede quando si è nella condizione, per esempio per aver conseguito una promozione, di essere mandati dove c'è bisogno.
Sull'elezione del CSM e i membri del Parlamento sarei favorevolissimo a prevedere una maggioranza qualificata per l'elezione, anche perché oggi sono tre quinti dei votanti. La maggioranza qualificata è molto importante per far sì che i membri eletti non siano portatori della sensibilità propria del personale parlamentare.
Vengo, da ultimo, brevemente agli aspetti più generali sollevati in diversi interventi, quali quelli degli onorevoli Bernardini e Garagnani, con cui mi scuso fin da ora di non essere in grado di rispondere ampiamente subito. Volevo solo svolgere alcune osservazioni.
Quando si afferma che ci sono situazioni attuali della giustizia che lasciano a desiderare, credo si esprima una verità unanimemente riconosciuta, ma nell'individuare quali sono i mali forse non c'è piena concordanza di analisi.
Bisognerebbe partire da un'analisi. Certamente tutti sono d'accordo nel sostenere che la giustizia sia inefficiente, ma l'inefficienza, cioè i tempi troppo lunghi, il non rispetto del principio di obbligatorietà, la mancanza di risorse, il fatto che in alcuni tribunali si lavori soltanto la mattina e non il pomeriggio perché non c'è il personale, sono tutte questioni che non hanno nulla a che fare con l'assetto costituzionale. Ci sono mali della giustizia che certamente esistono e su cui c'è ampia concordanza, ma che non dipendono dall'assetto costituzionale e andrebbero affrontati sotto un'altra ottica.
Inoltre, esiste un altro male che viene indicato e che credo sia piuttosto riconosciuto, se non unanimemente da molti, ossia l'ipertrofia di alcune attività giudiziarie. Alcune indagini appaiono ipertrofiche o nascono in modi sospetti o vengono condotte per troppo tempo, creando situazioni anche di difficoltà.
Come si risponde all'ipertrofia eventuale delle indagini? Non si risponde normalizzando il pubblico ministero e imponendogli di fare ciò che gli indicano il Governo o il Parlamento, perché ne verrebbe intaccato il principio di legalità. Si può, però, rispondere. Ci sono forse interventi sul piano della legislazione di ordinamento giudiziario e persino a volte possibili conflitti di attribuzione davanti alla Corte costituzionale che potrebbero dare una risposta a questo cosiddetto male dell'ipertrofia delle indagini.
Esso si può tradurre in tanti aspetti, come l'ipertrofia mediatica delle indagini, che non è colpa ovviamente solo dei magistrati, ma anche dei mezzi di comunicazione. Forse anche i magistrati potrebbero essere ricondotti a un comportamento migliore.


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Esiste poi un terzo male, su cui forse c'è più dissenso. Esiste oggi un eccesso di attivismo giudiziario? Il fatto è che molti denunciano non l'attivismo giudiziario in genere, ma alcuni attivismi, cioè ritengono espressione di un iperattivismo giudiziario indebito alcune iniziative. La questione singolare è che, rispetto ai pubblici ministeri, di cui si afferma che non perseguano tutti i reati nonostante l'obbligatorietà, in effetti si imputa a determinate procure non di fare troppo poco, cioè di non perseguire i reati, ma di fare troppo e di perseguire alcuni reati.
Anche la diagnosi è diversa. È vero che fanno troppo, ma il troppo che cosa sarebbe, agire dove non si dovrebbe agire, agire dove non c'è notizia di reato? In tal caso, siamo nel campo che si descriveva prima.
Se, invece, siamo nel campo di agire quando si potrebbe non agire, allora intacchiamo davvero il principio di obbligatorietà: una procura, se esiste la notizia di reato, deve agire, non può dire no e che, poiché è discrezionale, la si pone in fondo all'elenco.
Su questo terreno capisco che ci sia una critica che si muove al sistema giudiziario e che nasce dalla sensazione che a volte ciò che decide il giudice o che decide di chiedere il pubblico ministero appaia il frutto di un eccesso di spazio libero e di interpretazioni creative, ma da che cosa dipende ciò? Dipende dall'iperattivismo dei magistrati o dal fatto che l'ordinamento è congegnato in modo tale da consentire spazi che non dovrebbero essere consentiti?
È chiaro che nessuno di noi immagina che i giudici possano diventare davvero bocca della legge nel senso in cui ne parlavano i rivoluzionari francesi. Lo spazio della creatività, lo spazio dell'interpretazione è inevitabile, però un ordinamento serio e ben costruito non lascia troppi spazi. Quante volte è la legge a lasciare spazio all'interpretazione, perché scritta in modo ambiguo?
Per portare un esempio concreto, alcuni anni fa fu riformato l'articolo 323 del Codice penale sull'abuso d'ufficio. Senza entrare nel merito, fu una riforma che rispondeva sul terreno giusto. Poiché, così come era formulato, esso dava adito alla possibilità di intendere che qualsiasi azione fosse un abuso, si cercò di essere più precisi.
L'articolo fu riformulato e ricordo che la questione andò anche alla Corte costituzionale, la quale non censurò la nuova formulazione. Era una formulazione più precisa, che toglieva spazio alla discrezionalità dell'interprete. La cosiddetta discrezionalità dell'interprete è diversa dalla cosiddetta discrezionalità. La discrezionalità è il poter agire per un dato scopo con i mezzi che uno decide e lo scopo se lo dà da solo. Il Parlamento, il Governo e l'amministrazione hanno discrezionalità nell'ambito della legge.
Lo spazio interpretativo, invece, è uno spazio fisiologico entro una data misura ineliminabile, ma che non deve essere eccessivo. Il principio di legalità vuole che la legge sia seguita, ma che sia elaborata in modo tale da introdurre alcuni binari. Se la legge lascia troppo spazio, non è più discrezionalità, ma libertà del giudice e ciò non sarebbe proprio in un sistema di legalità.

PIETRO CIARLO, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Cagliari. Sarò brevissimo, anche perché il collega Onida ha già chiarito molte questioni. Io ho citato l'articolo 106 sul giudice onorario perché lo considero importante in sé, in quanto è un esempio di come si scrivano norme in bianco. Per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli esso ha una sua razionalità ordinamentale, perché i giudici singoli, proprio per la pericolosità che citava il professor Onida poco fa, dovrebbero essere attribuite questioni di minore momento.
Se ciò non va bene, disponiamo che i giudici onorari possano far parte di giudici collegiali. Anche questo ha una sua ratio. Oppure che i giudici onorari non possono superare un terzo dei giudici regolarmente in servizio. Possono essere anche il 200 per cento, ma decidiamo qualcosa. L'idea


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che venga soltanto un'indicazione costituzionale contrasta con l'idea stessa della legittimità costituzionale, perché alla fine la Costituzione non è più un parametro, dal momento che la legge può fare ciò che crede.
Onorevole Bernardini, i mali della giustizia sono infiniti, naturalmente, ma questa riforma non risponde alle ambizioni dichiarate, in primo luogo perché è una riforma penalmente orientata. La giustizia penale in questo Paese ha numerosi malanni, ma gli altri non stanno meglio e, se lo volete sapere, io credo che i peggiori servizi che vengono resi a questo Paese in materia di giustizia vengono resi dalla giustizia amministrativa, con gare, appalti, e tenendo conto che il giudice amministrativo giudica anche sull'urbanistica. Io ho smesso di fare l'avvocato amministrativista proprio perché non volevo frequentare i tribunali amministrativi e perdere le cause.
L'articolo 103 è saltato e anche D'Aloia vi ha fatto cenno. Ci sono il Consiglio di Stato, la Corte dei conti e la giustizia militare, apparato costoso quanto inutile, tanto più che non ci sono neanche più i militari di leva e, quindi, non esiste neanche più la popolazione di persone che commetteva i reati più diversi in servizio.
Il problema è che questa riforma rinvia alla legge secondo formulazioni sostanzialmente in bianco. La nostra Costituzione, come tutte le Costituzioni, è anche opportunamente piena di riserve di legge, in modo che la legge possa adeguare le discipline all'evoluzione dei tempi, ma un conto è che la legge possa disciplinare in conformità a princìpi stabiliti dalla Costituzione, un altro è dichiarare l'esistenza dei princìpi, ma di fatto introdurre una totale libertà per il legislatore.
Consentitemi di esprimere una perplessità di fondo rispetto alla fase istituzionale del nostro Paese: nessuno riesce a pensare su tempi lunghi e su tempi medi. Si pensa sempre su tempi brevissimi, pensando di essere eterni. Noi abbiamo 11 disegni di legge per disciplinare la giustizia, in pratica solo la giustizia penale, come se al Governo ci dovesse essere una continuità da oggi ai prossimi cento anni, mentre le cose cambiano e bisogna costruire sistemi istituzionali che possano funzionare sia oggi, sia domani.
La nostra giustizia è tutta piena di malanni, ma io francamente non credo che questa riforma costituzionale vi ponga seriamente riparo.

ANTONIO D'ALOIA, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Parma. Sarò davvero telegrafico sulle domande e terrò conto di alcune precisazioni per me molto importanti nello scritto che non sono riuscito a preparare per oggi.
Certamente la Costituzione può contenere rinvii, lo fa anche l'attuale Titolo IV, e alcuni di essi sono stati anche molto complessi. Il problema, però, è l'eccessiva apertura di alcuni rinvii. Costituzione e legge non sono due entità separate; ciò che dispone la legge reagisce sul contenuto di ciò che dispone la Costituzione. Se la Costituzione è troppo generica, la legge può diventare contenuto della Costituzione o può attribuire alla norma costituzionale troppo generica contenuti che magari oggi, che scriviamo la norma costituzionale, non ci sembrano effettivi e attuali. Dobbiamo stare attenti a questo tema.
Per esempio, penso che l'articolo 109, letto in rapporto al disegno di legge n. 1140 in corso di discussione al Senato alimenti alcune preoccupazioni per la sostituzione di quell'avverbio che sembra apparentemente insignificante.
Sulla responsabilità civile l'onorevole Bressa mi chiedeva quale sintesi, quale equilibrio trovare. È molto difficile ed è un problema, lo preciso per coloro che a volte sostengono che quella italiana è un'anomalia che si pone la giurisprudenza in tutti i Paesi. In Italia, però, abbiamo un procedimento innanzitutto perverso: un cittadino che vuole far valere il suo diritto al risarcimento deve prima attivare un giudizio di ammissibilità della sua causa di responsabilità. Quando ha esaurito tutti i gradi di giudizio e gli è andata bene,


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comincia a porre il problema della responsabilità, ma in questo modo è come affermare che il rimedio non esiste.
Che cosa ci chiede di fare la Corte di giustizia? Ci chiede di eliminare l'automatismo negativo. L'attività interpretativa per il solo fatto di essere attività interpretativa non può mai essere oggetto di responsabilità, secondo la Corte, ma è come affermare che il giudice non può essere mai responsabile, perché non fa altro che interpretare il diritto o valutare i fatti e le prove.
Come se ne esce? In parte ci aiuta la Corte di giustizia e ce l'aveva detto tanti anni fa anche la Corte costituzionale, in una sentenza del 1968. Possiamo scindere la responsabilità del giudice dalla responsabilità del cosiddetto Stato giudice.
Se vogliamo proteggere la serenità del giudice, ma vogliamo garantire il diritto del cittadino, aumentiamo la responsabilità dello Stato, differenziando i parametri della responsabilità del giudice dai parametri della responsabilità dello Stato e, quindi, ripensiamo ciò che oggi la legge n. 117 individua come un parallelismo, cioè che lo Stato risponde solo dove risponde il giudice.
In secondo luogo, eliminiamo il filtro di ammissibilità e, in terzo luogo, il che secondo me è un problema anche culturale, cominciamo a pensare che, quando la violazione di legge è macroscopica, quando l'interpretazione del giudice è manifestamente sconnessa dall'obbligo fondamentale che il giudice ha, cioè quello della motivazione, allora forse è fuori dalla clausola di salvaguardia interpretativa. In fondo questo ci chiede di fare la Corte di giustizia, con il suo concetto, su cui non posso soffermarmi ora, di violazione sufficientemente caratterizzata, di cui ci indica anche tre criteri.
Quanto poi all'osservazione molto acuta dell'onorevole Pecorella, io non ho parlato solo dell'archiviazione o dell'opposizione all'archiviazione. So bene che l'archiviazione è un passaggio successivo rispetto al problema dell'obbligatorietà e della discrezionalità, sebbene poi ci siano norme del codice di procedura penale le quali dispongono che il pubblico ministero, se non archivia, esercita l'azione penale e, quindi, l'archiviazione è il risvolto negativo dell'esercizio dell'azione penale.
Svolgo solo una riflessione. Esiste la possibilità per il cittadino vittima del reato, persona offesa dal reato, al di là dell'opposizione all'archiviazione, di stimolare, sollecitare e presentare ulteriori esposti e impedire che la sua pratica, la sua denuncia vada sotto silenzio. È un dato che dobbiamo considerare.
La presidente Bongiorno chiedeva quali possano essere gli altri rimedi. Innanzitutto vi è la riduzione dell'ipertrofia penalistica. Anziché affermare che su alcuni reati è meglio non procedere perché in ciò si sostanziano i criteri di priorità, stabiliamo che alcuni comportamenti non sono più un reato, immaginiamo sanzioni alternative alla detenzione, elaboriamo meccanismi diversi, come in Germania, con l'azione penale privata da parte della persona offesa, utilizziamo, come in alcuni uffici giudiziari - leggevo alcuni giorni fa ciò che ha fatto Tarfusser a Bolzano - e proponiamo innovazioni organizzative, criteri diversi che dimostrino che in alcuni uffici si possono veramente raggiungere risultati eccellenti senza andare a intaccare il livello costituzionale.
Interveniamo anche sul problema delle impugnazioni. Mi rendo conto che il sistema penale è davvero sotto stress e la Corte costituzionale, nella famosa sentenza, di cui non abbiamo potuto parlare, sull'inappellabilità delle sentenze di proscioglimento, esprime un concetto molto importante, sul quale dovremmo riflettere, ossia che il principio del doppio grado di giurisdizione non è costituzionalizzato.
Cerchiamo di capire se il sistema penale ha bisogno di un'uniformità totale, per cui tutto debba passare attraverso tre gradi di giurisdizione. Anche questo sarebbe un modo di liberare alcune risorse a vantaggio del recupero sul terreno dell'obbligatorietà.
Voglio aggiungere un'ultima osservazione. È una ragione singolare: poiché non riusciamo a realizzare l'obbligatorietà, allora l'abbandoniamo. Io sono convinto che


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l'obbligatorietà sia una finzione giuridica, però il diritto è pieno di finzioni, ha bisogno di finzione. Non sono questioni false, ma questioni che dobbiamo dare per presupposte, perché non sempre abbiamo la risposta perfetta e risolutiva a tutti i problemi. Le finzioni servono per indicarci che noi dobbiamo avvicinarci a raggiungere un dato obiettivo e, se non necessariamente possiamo raggiungerlo, dobbiamo tendere verso di esso. È come se si affermasse che, poiché non possiamo adeguatamente affrontare tutte le debolezze sociali e tutte le situazioni di difficoltà di questo Paese, ne affrontiamo solo alcune e sulle altre dobbiamo avere pazienza.
Noi dobbiamo sforzarci per quanto possibile e, prima di affermare che la battaglia è perduta e che è necessario impostare un nuovo modello penale, dobbiamo trovare altre risposte.
Sul tema dell'inamovibilità sono d'accordo con l'onorevole Paolini. Si pone un problema serio delle sedi disagiate. Esiste e talvolta è anche complicato dall'esistenza di divieti legislativi, come quello che, per esempio, vieta ai nuovi assunti, agli idonei dei concorsi in magistratura, di essere destinati a tali sedi disagiate.
Possiamo utilizzare, e in parte l'attuale legislatore lo ha già fatto, criteri che hanno funzionato, come l'incentivazione, che possono servire per evitare un'incidenza diretta sul tema dell'inamovibilità, che non è una garanzia solo del giudice, ma anche del cittadino, perché è collegata al principio del giudice naturale precostituito per legge.

GIOVANNI GUZZETTA, Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università degli studi Tor Vergata. Io non sono stato chiamato in causa direttamente da nessuno e, quindi, posso essere brevissimo.
Riassumerei il discorso in tre punti, perché molte questioni sono state già affrontate. Sulla responsabilità del magistrato sono molto d'accordo con quanto asseriva il collega prima e, quindi, non insisto.
In primo luogo, vengo alla tecnica legislativa e ai rinvii alla legge. La questione ci è stata posta direttamente e presenta due profili. Il primo è capire se sono norme in bianco e il secondo se, così formulate, sono incostituzionali nella misura in cui violano alcuni criteri e princìpi di tecnica legislativa.
Personalmente risponderei di no a entrambe le domande. Non sono norme in bianco nella misura in cui, seppur molto generali - su questo punto si può discutere ovviamente - in particolare le due citate, forniscono alcune indicazioni: il pubblico ministero deve continuare a disporre della polizia giudiziaria e l'azione penale è obbligatoria.
Un'altra questione è se la legge di attuazione di queste indicazioni sia incostituzionale, cioè se svuoti il principio dei suoi contenuti. Sinceramente, alla luce di cinquant'anni di giurisprudenza costituzionale, io mi sentirei piuttosto tranquillo, perché in genere la Corte costituzionale ha valorizzato i princìpi, non li ha mortificati.
Addirittura c'è stata una fase, che forse oggi è un po' meno rilevante, in cui l'interpretazione per valori e princìpi costituzionali è stata diffusissima, anche e spesso contro disposizioni puntuali della stessa Costituzione.
Sul piano strettamente tecnico non sarei preoccupato, ma ovviamente ogni rinvio alla legge implica che una data materia perde la consistenza e il regime della norma costituzionale e, quindi, si rinvia al legislatore.
Si aprono altri problemi e un altro di questi, passando al secondo punto, è il rapporto tra forma di governo così come si è venuta articolando e riforma della giustizia. In realtà, l'argomento secondo il quale un contesto maggioritario è incompatibile con un tipo di riforma di questo genere a mio avviso è un argomento che può anche essere ribaltato, nella misura in cui un sistema maggioritario, fermo restando che esso è perfettamente compatibile con la Costituzione in base a quello che la stessa Corte costituzionale ha dichiarato più volte, ha l'effetto di creare una dialettica interna allo stesso circuito politico, come ben sappiamo.


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Sulle questioni relative alla politica giudiziaria noi non abbiamo - come si poteva immaginare, in un contesto fortemente caratterizzato di democrazia consensuale - i magistrati e la politica. In realtà, la politica si spacca sulla questione relativa alla giustizia e, da questo punto di vista, l'esistenza di un soggetto politico ossia l'opposizione rispetto alla maggioranza è un elemento che rende il sistema più dialettico. Non sostengo che questa sia la versione migliore, ma è una possibile lettura, tant'è vero che ci sono ordinamenti in cui l'esistenza del maggioritario coincide con un sistema di garanzie che è forse addirittura meno garantista del nostro. Penso, in particolare, alla Francia.
La questione delle garanzie si pone su un altro fronte. Sono totalmente convinto che il criterio di elezione di un organo come il CSM debba prevedere meccanismi elettorali che tutelino le minoranze. Il silenzio del disegno di legge attuale pecca per difetto, ma è in continuità con la Costituzione attuale, la quale non prevede un criterio di maggioranza, come sappiamo, per le elezioni del CSM. Esse sono garantite, invece, dalla legge ordinaria, che, peraltro, secondo alcuni incostituzionalmente, le ha rafforzate.
Nella logica dell'istituto, una previsione costituzionale che il sistema elettorale del CSM debba garantire la tutela delle minoranze politiche nell'elezione dei membri togati mi sembra perfettamente coerente con il sistema.
Sull'obbligatorietà dell'azione penale - terzo punto su cui intendo intervenire, poi concludo - ho sempre pensato che essa sia a tutela del Parlamento. L'obbligatorietà dell'azione penale è il meccanismo attraverso il quale il Parlamento si assicura che i giudici, o, quando erano soggetti al Governo, il Governo, non disfacciano ciò che il Parlamento ha disposto, perché il Parlamento stabilisce una gerarchia dei reati nel momento in cui stabilisce la gerarchia delle pene edittali.
L'obbligatorietà dell'azione penale nasce, secondo me, a tutela della decisione parlamentare. Se il Parlamento vuole evitare che determinati reati vengano perseguiti, non c'è bisogno di rendere l'azione penale discrezionale. Basta che li depenalizzi.
Ciò non significa che l'azione penale non debba essere difesa, ma è un problema di merito. Non mi sembra che il disegno di legge elimini l'azione penale, mi pare piuttosto che stabilisca un criterio, che peraltro esiste nella legislazione comparata costituzionale e ordinaria. Penso al principio di opportunità del codice di procedura penale tedesco, per non parlare poi del sistema americano, in cui l'obbligatorietà non è prevista e che, quindi non è poi tanto garantista. Non siamo gli unici a porci il problema della persecuzione dei reati nell'azione penale.
Mi sentirei sufficientemente cautelato se le soluzioni, quali che esse siano, al di là del merito, fossero allineabili su alcune tendenze dell'ordinamento comparato.
Questa formulazione, che si può certamente migliorare, non mi sembra comunque eccessivamente disallineata rispetto alle opzioni che hanno adottato altri ordinamenti e segnatamente quello tedesco, che conosco un po' meglio.

PRESIDENTE. Ringrazio, anche a nome del presidente Bruno, i professori per il loro intervento e anche per la loro disponibilità. Dico a coloro che hanno fatto riferimento a contributi scritti che ovviamente essi sono molto graditi e, quindi, li attendiamo.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,05.

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