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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite (I e II)
9.
Venerdì 10 giugno 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bruno Donato, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DEL DISEGNO DI LEGGE C. 4275 COST. GOVERNO, RECANTE «RIFORMA DEL TITOLO IV DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE» E DELLE ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE C. 199 COST. CIRIELLI, C. 250 COST. BERNARDINI, C. 1039 COST. VILLECCO CALIPARI, C. 1407 COST. NUCARA, C. 1745 COST. PECORELLA, C. 2053 COST. CALDERISI, C. 2088 COST. MANTINI, C. 2161 COST. VITALI, C. 3122 COST. SANTELLI, C. 3278 COST. VERSACE E C. 3829 COST. CONTENTO

Audizione del professore Fulco Lanchester, ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, del professore Giorgio Marinucci, ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano, del professore Franco Bile, Presidente emerito della Corte costituzionale, del professore Riccardo Chieppa, Presidente emerito della Corte costituzionale e del professore Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte costituzionale:

Bruno Donato, Presidente ... 3 54 63 79
Bile Franco, Presidente emerito della Corte costituzionale ... 29 67
Bernardini Rita (PD) ... 59
Chieppa Riccardo, Presidente emerito della Corte costituzionale ... 37 69
Contento Manlio (PdL) ... 55 64
Ferranti Donatella (PD) ... 61
Flick Giovanni Maria, Presidente emerito della Corte costituzionale ... 43 72
Lanchester Fulco, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma ... 4 65
Marinucci Giorgio, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano ... 16 63 64
Paolini Luca Rodolfo (LNP) ... 60
Zaccaria Roberto (PD) ... 58
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONI RIUNITE (I E II)
I (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) E II (GIUSTIZIA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di venerdì 10 giugno 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA I COMMISSIONE DONATO BRUNO

La seduta comincia alle 14,40.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del professore Fulco Lanchester, ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, del professore Giorgio Marinucci, ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano, del professore Franco Bile, Presidente emerito della Corte costituzionale, del professore Riccardo Chieppa, Presidente emerito della Corte costituzionale e del professore Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte costituzionale.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli,


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C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del del professore Fulco Lanchester, ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, del professore Giorgio Marinucci, ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano, del professore Franco Bile, Presidente emerito della Corte costituzionale, del professore Riccardo Chieppa, Presidente emerito della Corte costituzionale e del professore Giovanni Maria Flick, Presidente emerito della Corte costituzionale.
Ringrazio i professore presenti a nome mio e anche del presidente della II Commissione, onorevole Giulia Bongiorno, che ci raggiungerà a breve, per aver accettato il nostro invito e do loro la parola.

FULCO LANCHESTER, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma. Ringrazio lei, il presidente Bongiorno e tutti i componenti delle due Commissioni per avermi convocato per quest'audizione e per avermi permesso di approfondire a mio modo il tema affrontato dal disegno di legge costituzionale. Esso non è soltanto essenziale per gli ordinamenti di democrazia pluralista, e quindi anche per il nostro, ma costituisce uno dei nodi della crisi che investe il sistema politico-costituzionale italiano, la cui soluzione si trascina ormai da troppo tempo. In sostanza è uno degli indicatori della crisi del sistema politico-costituzionale italiano.
So che voi state svolgendo una sorta di «marcia forzata», ragion per cui avete già svolto un numero molto elevato di audizioni. Darò, pertanto, un taglio particolare al mio intervento, impostandolo sul piano della storia costituzionale e della storia della Costituzione, per identificare quali sono le radici della crisi italiana in relazione al rapporto fra ceto politico e magistratura e vedere quali sono le compatibilità in


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relazione a questo disegno di legge per la fuoriuscita dalla situazione di tensione e di crisi.
Ritengo che non si possano comprendere, infatti, la ragione per cui viene oggi presentato il disegno di legge in questione, né la sua specifica articolazione e la sua stessa polemicità, se non lo si inserisce in una prospettiva storica di lungo e di medio periodo capace di abbracciare la specificità italiana all'interno della dinamica del costituzionalismo contemporaneo.
Un simile approccio può fornire dati utili alla vostra analisi sia per situare opportunamente le radici storico-giuridiche in cui viene a porsi il disegno di legge, sia le motivazioni che lo animano, sia soprattutto i limiti che non possono essere superati dallo stesso disegno di legge, in relazione ai princìpi supremi dell'ordinamento costituzionale, che definiscono una democrazia pluralista, caratterizzata da una Costituzione rigida.
Parto prendendo spunto dal fatto che la questione di cui ci stiamo e di cui vi state occupando in maniera specifica si inserisce su tre differenti livelli che interagiscono tra loro in modo stretto, ma distinto: il problema della forma di Stato e del rapporto tra individuo e autorità, il problema del rapporto fra i soggetti politicamente rilevanti, ovvero il problema del regime politico, e il tema della forma di governo, ovvero i rapporti fra i supremi organi costituzionali in relazione alla funzione di indirizzo politico.
Nel disegno di legge vi è una preclusione, per esempio, per i previsti Consigli superiori della magistratura di operare - guarda caso si utilizza proprio l'espressione «indirizzo politico», « atti di indirizzo politico» -, dove la corrispondente espressione si trova solo all'articolo 95 della Costituzione,


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riferito al Presidente del Consiglio, il quale mantiene l'unità dell'indirizzo politico. Ciò evidenzia proprio l'elemento cardine su cui vi state concentrando.
In questo quadro specifico gli ordinamenti di democrazia pluralista devono essere caratterizzati dalla presenza di valori e princìpi che assicurino in modo potenziale e attuale la tutela dei diritti individuali e collettivi consoni alla forma di Stato vigente, che, nel caso della Costituzione repubblicana, vengono riassunti nei principi fondamentali della stessa. Avverto, non avendolo menzionato prima, che depositerò anche un testo scritto.
In un simile ambito la giurisdizione ha il compito essenziale di conservare e di implementare l'equilibrio normativo stabilito nell'ambito dell'ordinamento. Essa viene esercitata da soggetti che fanno parte, con peculiari garanzie istituzionali, individuali e collettive, della classe dirigente dell'ordinamento di riferimento e si muovono in connessione con altri settori della stessa, di cui fa parte ovviamente anche il ceto politico istituzionalmente incaricato negli ordinamenti di democrazia pluralista di perseguire, nelle forme e nei limiti della Costituzione, la volontà popolare.
I rapporti tra l'ordinamento giudiziario e i supremi organi costituzionali sono regolati istituzionalmente trovando, in una Costituzione rigida come quella italiana, la volta e lo snodo adeguato negli organi di controllo interno (il Capo dello Stato) ed esterno (la Corte costituzionale).
Svolgo in questo caso un riferimento esplicito a una concezione che non è ingegneristica, ma di tipo architettonico, visto che nelle premesse al disegno di legge vi è una lunga analisi dei lavori preparatori della Costituzione, ossia all'impostazione architettonica del costituente basata sull'equilibrio


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e sull'armonia fra le strutture e i volumi, all'interno di un ambiente in cui dovrebbero agire e agiscono persone e gruppi situati.
Una simile concezione è espressa molto bene non solo da Moro e da La Pira, ma anche da Tosato e da Mortati ed è il frutto di quel compromesso efficiente di cui ha parlato Mortati nell'ambito della Commissione Forti, nei lavori preparatori del 1945, di quella che sarà poi l'attività di redazione del periodo 1946-47.
Per andare subito al centro del problema, ricordo che Giuseppe Maranini, nella sua Storia del potere in Italia (1848-1967) pubblicata nel 1967, sostenne che le pecche istituzionali della storia costituzionale italiana potevano essere individuate in due punti fondamentali.
Il primo era la mancanza di un sistema elettorale maggioritario uninominale a un turno solo, di tipo britannico, capace di bipartitizzare il ceto politico e l'elettorato. Su questo costruisce un'assiologia su cui posso essere più o meno d'accordo.
Il secondo elemento, di cui nessuno si ricorda mai, è che Giuseppe Maranini ha sempre sottolineato come pecca della storia costituzionale italiana la mancanza di autonomia e indipendenza della magistratura.
Anche se una simile ricostruzione può sembrare un'assiologia fondata sull'adozione di un'interpretazione rigida del principio della separazione dei poteri, essa fornisce, a mio avviso, la possibilità di evidenziare come già nel periodo immediatamente successivo al 1848, cioè il periodo di concessione dello Statuto, siano immediatamente nati - non è la prima volta in cui ci sono state tensioni tra ceto politico e magistratura, anzi è una costante di questo sistema - conflitti,


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perché non se ne andarono i magistrati della monarchia consultiva del Regno sardo-piemontese, i quali venivano considerati normalmente «codini», ossia antiliberali.
A questo punto, sulla base dell'articolo 2 dello Statuto, nella parte relativa all'ordine giudiziario, si vedeva la giustizia emanare dal re ed essere amministrata in suo nome all'articolo 68, mentre i giudici erano nominati dal re a eccezione di quelli di mandamento ed erano inamovibili dopo tre anni di esercizio.
Mario D'Addio, in un'opera seminale degli anni Sessanta Politica e magistratura (1848-1876), pubblicata nel 1966, ha identificato quali fossero state le tensioni tra gli anni Cinquanta e Sessanta con la magistratura, fortissime tensioni, tentativi di conformarla e collegarla con gli esempi francesi ma anche britannici a quello che era l'indirizzo politico parlamentare del Governo.
Sia ben chiaro che quando nel 1791 si evidenziò che il giudice doveva essere la bocca della legge, la bouche de la loi, non si faceva nient'altro che ripetere o anticipare ciò che nel 1848-60 avvenne in Piemonte, ma questo è capitato anche in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. Il problema è se magistrati e ceto politico sono sufficientemente omogenei all'interno della classe dirigente e tale omogeneità, come vedremo, dagli anni Sessanta, ma soprattutto negli anni Settanta si è molto ridotto in Italia.
Citerò - in queste aule forse sarebbe meglio non farlo - Francesco Saverio Merlino, il quale in un suo famoso saggio del 1925, Politica e Magistratura dal 1860 a oggi in Italia, sostenne che la magistratura, tutt'altro che contraria al ceto politico e al sistema, avesse obbedito e obbedisse all'Esecutivo un po' per necessità, non trovando in sé la forza di resistere, e un po' per convenzione perché credeva di appartenere al


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Governo e di esserne una diramazione. L'articolo 2 e l'articolo 68 lo chiarivano. Piercamillo Davigo lo direbbe con il titolo del suo saggio La giubba del re, ma è successiva al 1880-1890 la concezione della persona dello Stato.
Un simile giudizio trova conferma negli scritti del Mosca degli anni Ottanta nella Teorica dei governi e governo parlamentare, pubblicato nel 1884. Ma è anche vero che nei momenti topici della storia statutaria la magistratura dimostrò pulsioni verso il processo di democratizzazione dell'ordinamento e non è un caso che questo sia successo durante gli anni della «reazione» del periodo di fine secolo, così come non è un caso che l'epoca giolittiana si sia aperta con le leggi relative al Consiglio superiore della magistratura del 1907, in particolare con l'articolo 4 della legge 511 e la legge 689 del 1907. Il processo di democratizzazione porta, cioè, anche alla garanzia dell'autonomia e dell'indipendenza relativa della magistratura all'interno di uno Stato liberale oligarchico che sta democratizzandosi.
Il fascismo è stato una cesura nonostante i magistrati e la dottrina costituzionalistica ed amministrativistica abbiano sempre considerato la resistenza della magistratura, ma la magistratura si è adeguata allo Stato autoritario a tendenza totalitaria durante il Ventennio.
Ho fatto tutta questa premessa, in realtà, per dire che il modello di magistratura e di rapporto tra ceto politico, e quindi organi costituzionali attivi, e magistratura nasce nel modello specifico italiano degli anni Quaranta sulla base di questa tradizione e ha questa comune radice di paura del tiranno e della conformazione e del condizionamento sia nei temi della inamovibilità sia nei temi della carriera dei magistrati.


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È questa la radice per cui, a mio avviso, vi è una forzatura storica nell'ambito di questo disegno di legge quando i presentatori evidenziano, per esempio, quasi polemicamente, di essere d'accordo con Togliatti perché aveva sostenuto che non doveva esserci una conformazione alla volontà popolare della magistratura. Ma queste sono le tesi tipiche della sinistra giacobina della Rivoluzione francese, quelle tipiche poi degli anni Trenta e della Costituzione staliniana o stalinista che dir si voglia, sono le concezioni che nascono da un'interpretazione della sovranità popolare rousseauiana dove il circuito costituzionale e democratico, dall'elettorato fino agli organi costituzionali, è basato sulla sovranità senza limiti.
Ora, questa è un'idea che Jacob L. Talmon ha messo in evidenza come tendenzialmente totalitaria. Gli ordinamenti democratici sono caratterizzati da freni e contrappesi, da limiti di tipo verticale e orizzontale ed è questa la ragione per cui anche Togliatti fu strabico dal 1945 al 1947, perché andò in Assemblea costituente a sostenere ciò che è riportato nella premessa del disegno di legge, ma fece anche la legge sulle guarentigie della magistratura, con il regio decreto legislativo n. 511 del 31 maggio 1946, come Ministro di grazia e giustizia. Se quella era, infatti, l'ideologia, nell'ambito della situazione italiana del periodo, caratterizzata ancora dalla lotta di classe o da una transizione, non ci si poteva permettere la conformazione della magistratura al potere politico, che sarebbe stato in mano non si sa a chi, da cui l'ispirazione della Costituzione italiana di tipo pluralistico, anche debole se volete nell'indirizzo, ma forte nei contropoteri verticali e orizzontali, che qui non traspare.
Non traspare neppure la giustificazione del modello di organizzazione giudiziaria negli anni successivi al 1946, vale a dire quelli della garanzia, nonostante il blocco istituzionale del


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post 1948, tra il 1948 e il 1955, che non vi fosse la possibilità di un tiranno, debolezza per paura. Lo stesso mantenimento del bicameralismo e la teoria del piattino di De Gasperi e del caffè, che ha mi ha fatto sempre molta specie, deriva da questo: il nostro Costituente si è basato su questa ragione e a questo punto, facendo un grande salto, bisogna vedere se c'è stata un'omogeneizzazione tale del sistema da permettere meccanismi che superino queste paure e remore.
A proposito della nostra dottrina costituzionalistica, l'onorevole Zaccaria ricorderà Pompeo Biondi, liberale nel periodo del dopoguerra, che però scrisse sulla procuratura, sul pubblico ministero negli anni Trenta, che era appunto la procuratura sovietica. È su questa base, dunque, che ci stiamo muovendo e il prodotto applicativo della Costituzione e del modello si è avverato in una serie di fasi, con la non applicazione dei nuovi istituti previsti dalla Costituzione per sette anni e con la successiva implementazione del testo a causa della disomogeneità di elettorato e ceto politico, del cambiamento intenso delle strutture economiche sociali e della stessa composizione della magistratura.
In sostanza negli anni Sessanta, quando questo sistema poteva ancora innovare razionalmente, come ha innovato, per esempio, la Francia e soprattutto la Germania, alcuni fenomeni strutturali sia a livello sociale, sia a livello politico, per quanto riguarda la classe dirigente e il ceto politico, hanno impedito l'innovazione razionale e hanno comportato anche una trasformazione della magistratura in cui la trasformazione delle carriere e la modificazione del meccanismo di elezione del CSM sulla base speculare si combinarono con la cronica debolezza del ceto politico e della classe dirigente. Il peso politico sempre maggiore della magistratura e la sua frammentazione, ovvero la sua non controllabilità e la sua corporativizzazione,


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corrisposero a un indebolimento del politico, che lascia necessariamente spazio ai singoli magistrati e al gruppo.
A questo punto la crisi del rapporto tra magistratura e politica si ha all'inizio degli anni Settanta con la destrutturazione dei rapporti gerarchici di tipo verticale e con l'adesione della magistratura stessa a tutte le pieghe della società, ma anche con la sua forte politicizzazione e partiticizzazione, che ha avuto un loro apice con l'esperienza degli anni di Tangentopoli, che è alla base di questo disegno di legge.
Il testo ha in sé un desiderio di normalizzazione, ma contiene anche alcune aporie. La fonte ispiratrice di questo disegno di legge è l'evidente desiderio di normalizzare i rapporti tra ceto politico e magistrati fino a una resa dei conti che sembra finale. Non so se sarà finale, ma in ogni caso questa sembra esserne l'ispirazione.
La cultura costituzionale che emerge dallo stesso anche in connessione ad altri progetti ed esternazioni è quella dello Stato legislativo in cui la sovranità popolare viene a incarnarsi in un indirizzo politico che tende a minimizzare i freni e i contrappesi capaci di contrapporsi al circuito democratico. In questo quadro viene richiesta una normalizzazione dei rapporti tra politico e giudiziario.
La mia impressione è che sia necessario un riequilibrio tra politica e magistratura, ma che tale riequilibrio non possa essere recuperato sulla base di una Gleichschaltung - utilizzo il termine tedesco della normalizzazione degli anni Trenta - capace di andare, da un lato, contro i princìpi supremi del nostro ordinamento costituzionale e, dall'altro, di compiere un tentativo di risolvere implicitamente o esplicitamente i problemi personali di alcuni esponenti del ceto politico.


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L'articolato, per la forma e per la sostanza, appare costituire una vera e propria resa dei conti con la giurisdizione, che rischia di acuire uno scontro già incandescente. L'ispirazione è, a mio avviso, punitiva nella forma e nella sostanza. Citerò solo alcuni punti tra i tanti che non mi convincono.
Il primo è il mutamento delle forme costituzionali. Se è vero che l'architettura costituzionale ha un andamento necessariamente armonico, il mutamento di intitolazione del Titolo IV mi sembra un inutile sfregio alle forme costituzionali esistenti. Lo hanno già rilevato altri auditi, ma dal punto di vista architettonico è un elemento che devo ripetere. Tutta la parte seconda del Titolo IV individua nei titoli degli organi il Parlamento, il Presidente della Repubblica, il Governo, la magistratura, il Titolo V le regioni, le province e i comuni e il Titolo VI le garanzie costituzionali.
La modificazione dell'intitolazione del Titolo IV in «giustizia» non la equipara alla dizione astratta del Titolo VI relativa alle garanzie costituzionali, perché la Corte costituzionale, di cui alla sezione I, risulta connessa con le funzioni di revisione della Costituzione e con le leggi costituzionali della sezione II. L'intento sostanziale è quello di ridurre il rilievo formale, oltre che concreto della giurisdizione, controllandola in modo maggiore.
Il secondo punto è la separazione dei magistrati tra giudici e pubblici ministeri, che vede una mera riserva di legge ordinaria al fine di assicurare l'autonomia e l'indipendenza del pubblico ministero.
Il terzo è l'ultimo comma del nuovo articolo 105 della Costituzione, come proposto dall'articolo 6 del disegno di legge, per cui i Consigli superiori non potrebbero adottare atti di indirizzo politico né esercitare funzioni diverse da quelle previste dalla Costituzione, il che costituisce una finalità non


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inseribile in un testo normativo, a mio avviso. Essa esprime l'impossibilità di una qualsiasi contrapposizione al Presidente del Consiglio, che, ai sensi dell'articolo 95, mantiene l'unità di indirizzo politico ed amministrativo.
Il quarto punto è la costituzione di due Consigli superiori, che indebolisce, a mio avviso, la presenza di garanzia dell'«eteropresidente» - utilizzo l'espressione etero ed endopresidente per il CSM usata da Lugi Arcidiacono - e rafforza, invece, la presenza di esponenti selezionati dal Parlamento, ossia dal potere politico. Ciò evidenzia una profonda sfiducia nei confronti dei magistrati, prevedendo una preselezione per sorteggio cui segue l'elezione.
Come professore universitario faccio notare, a questo proposito, che, se è vero che il sorteggio costituisce un metodo di preposizione a cariche autorizzative tipico delle democrazie - in Grecia si è sempre utilizzato il sorteggio, ma, sia ben chiaro, lo si è utilizzato per la giurisdizione della boulé, non per fare il navarca o lo stratega - poiché siamo tutti uguali e quindi il sorteggio, quando non vi sono differenze tra gli aventi diritto, può essere utilizzato, la motivazione in questo caso è la sfiducia profonda nei confronti delle strutture associative dei magistrati, che ha portato anche alla riforma del sistema elettorale per l'elezione dei membri del CSM nel 2002.
Per questo motivo mi sento poco adesivo in merito. La situazione è simile a quella venutasi a creare con la legge 30 novembre 1973, n. 766 recante misure urgenti per l'Università, provvedimento urgente per i concorsi universitari; poiché i professori universitari facevano «camarilla», gli si è organizzato prima il sorteggio e poi l'elezione o prima l'elezione e poi il sorteggio. È questa la ratio. Chissà che non sia un professore universitario colui che ha scritto questo punto.


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L'istituzione di una Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente suddivisa in due sezioni rafforza la presenza del politico nell'esplicazione di questa delicatissima funzione giurisdizionale interna e, nello stesso tempo, la estrania da un controllo, solo potenziale, dell'«eteropresidente». Non c'è più, infatti, il Capo dello Stato.
Le garanzie relative all'inamovibilità dei magistrati vengono indebolite dalla previsione dell'articolo 9, comma 1, lettera b) del disegno di legge, che aggiunge un periodo al primo comma dell'articolo 107 della Costituzione, relativa alla possibilità dei Consigli superiori di destinarli ad altre sedi in caso di eccezionali esigenze individuate dalla legge con una regressione rispetto allo stesso Statuto Albertino.
Gli strumenti funzionali in mano ai magistrati sono sostanzialmente esternalizzati sulla base di quanto previsto dall'articolo 10, secondo il quale il giudice e il pubblico ministero dispongono della Polizia giudiziaria secondo modalità stabilite dalla legge.
Ai sensi dell'articolo 13, che sostituisce l'articolo 112 della Costituzione, viene stabilita la dipendenza sostanziale del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale dai criteri stabiliti dal potere politico e, infine, si introduce una forma di intimidazione nell'esercizio dell'attività giurisdizionale attraverso quanto stabilito dal proposto articolo 113-bis sulla responsabilità dei magistrati.
Questi sono i punti che mi sembrava opportuno mettere in rilievo, ma ripeto che l'elemento essenziale è costituito da una valutazione più generale che evidenzia nel disegno di legge il pericolo di una regressione dallo Stato di diritto costituzionale disegnato dal costituente a uno Stato di diritto legislativo in cui i freni e i contrappesi, in sostanza le garanzie strutturali e funzionali, sono indebolite oltremodo come reazione polemica


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a una situazione al calor bianco che investe il sistema politico nel suo complesso e che si crede di poter risolvere con le normalizzazione di pezzi delle istituzioni di garanzie di controllo.
In conclusione, se non si vuole essere accusati di introdurre norme solo funzionali agli interessi di parte, bisogna iniziare ad agire sugli interessi reali del cittadino. Questi sono recuperabili nell'esigenza di una migliore funzionalità dell'ordinamento giudiziario.
Recentemente, proprio il 5 giugno scorso, Francesco Giavazzi e Alberto Alesina sul Corriere della Sera, hanno giustamente osservato che soprattutto la lunghezza dei tempi dei processi civili costituisce una delle cause di crescita più lenta rispetto ad altri ordinamenti a noi comparabili, ma che sul lato della giustizia penale la lunghezza dei procedimenti e la situazione indegna delle carceri italiane pongono a livello internazionale problemi di comparazione con esempi ottocenteschi per noi certo non commendevoli.
Non nego che sia necessario intervenire, anzi auspico che ci sia un intervento per regolare e smussare i contrasti e gli eccessi che si sono accumulati tra ceto politico e magistratura in questi anni, ma il DDL in esame mi pare una cura inadeguata alla bisogna, anzi, se mi permettete, alquanto pericolosa.

GIORGIO MARINUCCI, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. Ringrazio il presidente Bruno e il presidente Bongiorno, che saluto, e tutte le diverse componenti delle Commissioni per l'onore dell'invito a partecipare a questa indagine conoscitiva del progetto di riforma costituzionale del Titolo IV, parte seconda della Costituzione.


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Il Dipartimento Cesare Beccaria dell'Università degli studi di Milano un paio di settimane fa ha chiamato a consulto molti colleghi della facoltà per discutere questo progetto, colleghi di diverso orientamento culturale e, quindi, processual-penalistico (Amodio, Dominioni, Pisani, Ceresa Gastaldo), costituzionalisti (Onida, Angiolini, D'Amico, Violini), e sostanzialisti come Alessandri, Dolcini, Paliero e chi vi parla, decano del dipartimento.Sono si un sostanzialista, ma pur avendo svolto per cinquant'anni l'attività professionale e avendo ho lavorato nella «bottega» di Giacomo Delitala e Cesare Pedrazzi e poi con Guido Rossi, reputo di avere una certa dimestichezza anche con temi di diritto processuale e costituzionale.
Quell'incontro è sfociato in alcune relazioni, che a breve verranno pubblicate in un volume che le raccoglierà. Il mio intervento avrà come base la mia relazione, e terrà conto anche degli interventi degli studiosi che si sono succeduti nel corso delle audizioni. Ne terrò, quindi, conto anche nella mia esposizione, che si allontanerà dalla relazione anche per alleggerire il discorso.
Voglio precisare il taglio del mio interessamento. Mi atterrò a una aurea regola ermeneutica. Quando un progetto di legge è sfociato in una legge, l'interprete deve comportarsi - diceva un grande giurista del passato - sapendo che, dopo il varo, la legge si comporta come una nave che, uscita dal bacino di carenaggio, solca il mare e vive di vita propria. Quando, invece, come nel nostro caso, siamo ancora nella fase della gestazione della progettata riforma, le motivazioni della relazione del disegno di legge hanno un peso decisivo, anche perché servono a comprendere le ragioni enunciate a mano a mano di una serie di scelte capitali, soprattutto poiché, come molti hanno rilevato, si tratta di una progettata complessa disciplina caratterizzata da un'ampia decostituzionalizzazione di molte


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garanzie costituzionali, che vengono lasciate in bianco e abbandonate alla scelta della legge. Spiccano, in particolare, la disposizione relativa alla dipendenza della Polizia giudiziaria nei «modi stabiliti dalla legge» (articolo 109) e all'esercizio dell'obbligatorietà dell'azione penale nei casi previsti dalla legge (articolo 112).
Il mio intervento sarà, quindi, puntualmente ancorato al testo della relazione. Vorrei dire al collega Lanchester che abbiamo intitolato il nostro convegno con un'espressione in forma interrogativa: Riforma della Costituzione o «normalizzazione» della magistratura? C'era chi parlava di resa dei conti, l'alternativa era questa e mi pare che tutto sommato fosse questo l'interrogativo, al quale sono state date, ovviamente, risposte in varie direzioni.
Nelle mia esposizione, farò costante, puntuale, pignolo, pedissequo riferimento al testo della relazione al disegno di legge in modo non da esporre non già il mio punto di vista quello del riformatore, lasciandolo parlare anche con i documenti che cita, mostrando le lacune, le contraddizioni e la logica complessiva che sorregge la relazione.
Le ragioni della riforma sono enunciate fin dall'esordio della relazione, a pagina 5. Vi si dice, ed è la prima ragione, che siamo nella fase di un passaggio da un sistema politico consensuale a uno bipolare e che questo passaggio comporterebbe un diverso sistema di garanzie, che resta però misterioso. D'altra parte, chi conosce e purtroppo ha vissuto, essendo non giovane, ciò che è avvenuto in Italia dal 1948 al 1953, al 1960 e così via, sa che, in definitiva, di consensuale all'interno del nostro Paese nulla vi è stato, ma questo non ha nessuna rilevanza.
Il cuore della riforma è enunciato nella seconda ragione, quando si asserisce che l'introduzione nell'articolo 111 della


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Costituzione del principio del contraddittorio, avrebbe come corollario la separazione dell'ordine dei giudici e dell'ufficio del pubblico ministero. Questo «cuore» della progettata riforma viene, però, motivato cadendo in una serie di contraddizioni e di lacune che vado ad elencare facendo sempre riferimento alla relazione.
A pagina 6 della relazione si dice che criterio regolatore della riforma è il riconoscimento della diversità delle funzioni giudicanti e requirenti che renderebbe conseguente la separazione delle carriere dei giudici e dei magistrati e del pubblico ministero. Qual è la base di questa conseguenza? L'ha cercata e l'ha messa in dubbio Giulio Illuminati, venuto a esporre in questa sede i suoi punti di vista.
La verità è che, nel mostrare questa conseguenza, la relazione cade in una prima aperta contraddizione: cita i lavori della Commissione bicamerale che, però, lungi dal deporre nel senso della separazione delle carriere, mostra che, invece, vi fu una netta divisione dei punti di vista. Cito testualmente da pagina 7 della relazione, «si affermò, tra rappresentanti di forze politiche diverse, l'idea di separare le funzioni di giudici e di pubblici misteri (senatore Pellegrino e senatore Folena, Gruppo della Sinistra democratica - L'Ulivo, senatore Loiero, gruppo della federazione cristiano democratica CCD) e, in alcuni casi, di separare anche la loro carriere (senatore Pera e onorevole Parenti, Gruppo di Forza Italia)». Morale: i lavori della Commissione bicamerale citati dalla relazione contraddicono l'assunto dalla relazione stessa perché i rappresentanti del centrosinistra erano per la separazione delle sole funzioni, quelli del centrodestra per la separazione anche delle carriere.
Ancora più vistosa è la contraddizione in cui cade la relazione quando omette di ricordare i risultati dei lavori della


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Commissione bicamerale, che furono consacrati in un testo finale, il cui articolo 124 al comma 1 recitava molto saggiamente che «tutti i magistrati ordinari esercitano inizialmente funzioni giudicanti per un periodo di tre anni, al termine del quale il Consiglio superiore della magistratura ordinaria li assegna all'esercizio di funzioni giudicanti ovvero inquirenti, previa valutazione di idoneità» e al successivo comma 3 prevedeva, lo sottolineo, il passaggio dall'esercizio delle funzioni giudicanti alle funzioni di pubblico ministero e viceversa a seguito di un nuovo concorso riservato secondo modalità stabilite dalla legge: passaggio, quindi, da una funzione all'altra, altro che separazione delle carriere!
La relazione cita anche, a pagina 8, la raccomandazione REC (2000)19 del Consiglio d'Europa adottata il 6 ottobre 2000. È una citazione sfortunata perché il contenuto della raccomandazione è identico a quello dell'articolo 124: all'articolo 18, si parla dei rapporti tra il pubblico ministero e i giudici, si parla della necessità di «favorire la creazione di »passerelle« tra le due funzioni al fine di consentire a un membro dell'Ufficio del pubblico ministero, nel corso della sua carriera, di divenire giudice o viceversa» e la raccomandazione spiega anche le ragioni sostanziali e formali: per la sostanza, la constatazione della complementarietà dei mandati degli uni e degli altri; per la garanzia, la similitudine delle garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza e di statuto.
Riassumendo: la relazione, per motivare la progettata separazione delle carriere, come conseguenza della separazione delle funzioni, cita due fonti e omette di citarne una terza, ma tutte parlano in senso contrario alla tesi della separazione delle carriere. La relazione omette di citare i risultati dei lavori della Commissione parlamentare che prevedevano


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il passaggio dalla funzione giudicante alla funzione requirente e viceversa previo concorso; infine cita in modo sfortunato la raccomandazione del Consiglio d'Europa, che parla di «passerelle» tra una funzione e l'altra.
Allora, la ragione fondamentale, dalla quale discendono una serie di conseguenze, cioè della separazione delle carriere motivata dalla relazione - non abbiamo altri elementi noi per... (Commenti del deputato Calderisi).

PRESIDENTE. Onorevole Calderisi, la prego di non interrompere...

GIORGIO MARINUCCI, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. L'articolo 111 è la premessa del ragionamento. Il contraddittorio tra le parti non significa che il pubblico ministero è sempre e solo l'organo dell'accusa. Come lei sa, onorevole Calderisi, il pubblico ministero deve, in base al codice di procedura penale, svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta a indagini e deve inoltre avanzare richiesta di archiviazione quando ritiene l'infondatezza delle notizie del reato, quindi ha un ampio potere nella scelta se iniziare l'azione penale, se chiuderla, se acquisire prove che possono avvalorarla o meno.
D'altra parte, l'introduzione dell'articolo 111 della Costituzione non ha fatto altro che espliare quello che si ricavava dal combinato disposto degli articoli 3 e 24 della Costituzione. Quando la relazione cita la raccomandazione della Commissione europea fa riferimento a un caso anomalo nel nostro ordinamento fino a un trentennio fa, (cioè all'ipotesi che il pubblico ministero potesse invadere le funzioni dell'organo giudicante). La Corte costituzionale, con la sentenza n. 2 del 1974, dichiarò infatti l'illeggittimità costituzionale dell'articolo 380


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del codice di procedura civile che prevedeva l'assistenza del procuratore generale della Cassazione alle deliberazioni in Camera di consiglio, fondandola sulla violazione delle regole del contraddittorio, sancita dagli articoli 3 e 24 dalla Costituzione. Dunque, l'articolo 111 non ha aggiunto né tolto nulla.
Caduta la motivazione della relazione a sostegno della separazione delle carriere, cade anche la progettata divisione del Consiglio superiore della magistratura in due organismi diversi: simul stabunt, simul cadent.
Vi è poi un'autoconfutazione di un'altra proposta del progetto, ossia l'inquadramento del pubblico ministero come ufficio: l'articolo 4 del disegno di legge, che modifica l'articolo 104 della Costituzione, vuole infatti evitare il potere del pubblico ministero venga diffuso tra tutti i singoli membri. Ma come dicevo, la norma progettata si autoconfuta perché, lo si è visto, sia il testo della Commissione bicamerale, sia la raccomandazione del Consiglio d'Europa, nel parlare di passaggio o di «passerelle», fanno riferimento ai membri dell'ufficio. Non solo: in entrambi i casi si prevede che il passaggio dall'una all'altra funzione avvenga attraverso un giudizio di idoneità e l'idoneità, come è ovvio, è del singolo, non dell'ufficio. Quando si parla di concorso, il concorso per il passaggio dall'una all'altra funzione è della singola persona non dell'ufficio.
L'idea di considerare il pubblico ministero come ufficio viene sostenuta dalla relazione a pagina 8, facendo riferimento alla «dimensione sovranazionale» dei fenomeni criminali che avrebbero favorito «specialmente nell'ambito dell'Unione europea», rapporti tra «uffici del pubblico ministero» ma «non tra membri degli uffici». Questa tesi è però smentita frontalmente dalla citata raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, che evidentemente il redattore


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della relazione non ha letto per intero. Sotto la rubrica «cooperazione internazionale» si specifica, infatti, via via che devono essere favoriti «i contatti fra i membri dell'ufficio del pubblico ministero», che devono essere prese misure «al fine di favorire i contatti diretti tra i membri dell'ufficio del pubblico ministero nell'ambito della cooperazione internazionale» e tra le misure raccomandate vi è l'ingenza di formare una lista di contatti e di indirizzi indicando i nomi degli interlocutori competenti nelle varie procure. Bisogna favorire la specializzazione dei membri dell'ufficio del pubblico ministero ai fini della cooperazione.
Tirando le somme, anche questa sostituzione progettata di «ufficio» del pubblico ministero al posto dei singoli membri degli uffici sembra perciò contraddetta proprio nei documenti citati dalla relazione.
Se ci si interroga sulle ragioni di questa insistenza nel patrocinare la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri e nell'annullamento del ruolo dei singoli pubblici ministeri all'interno di un indifferenziato ufficio, la risposta va nel senso già indicato dal professor Lanchester, ossia di far crescere il peso del potere politico rispetto al potere giudiziario, soprattutto controllando l'operato dei pubblici ministeri, minandone l'indipendenza sia dal potere legislativo sia dal potere esecutivo.
Per indipendenza dal potere legislativo si intende indipendenza dalla maggioranza parlamentare di un dato momento storico. Ora, come è già stato saggiamente e acutamente sottolineato dall'avvocato generale dello Stato Ignazio Francesco Caramazza, le maggioranze parlamentari possono cambiare. Il progetto, quindi, apre la strada a un'insana «giustizia a geometria variabile».


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Come prenderebbe capo questo attentato all'indipendenza del pubblico ministero dalla maggioranza parlamentare qui e ora presente?
In primo luogo attraverso la composizione del Consiglio della magistratura requirente, che per metà sarebbe di nomina della maggioranza del Parlamento: ciò comporta che la vita di tutte le procure sarebbe alla mercé dei gruppi di maggioranza, che attraverso i loro rappresentanti possono deciderne le sorti. In secondo luogo, l'attentato è rappresentato dalla cancellazione dell'obbligatorietà dell'azione penale il cui esercizio, secondo la proposta, sarebbe sottoposto ai criteri stabiliti dalla legge e, s'intende della legge emanata dalla maggioranza parlamentare.
Ora, prima di dare un volto a questi sibillini criteri, è bene ricordare quali sono i beni garantiti dall'obbligatorietà dell'azione penale. Facciamo parlare la Corte costituzionale . Già nel 1979 la Corte affermava limpidamente che sono due i beni fondamentali garantiti dal principio dell'obbligatorietà dell'azione penale: da un lato, l'indipendenza del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale, dall'altro l'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Gli stessi princìpi sono ribaditi nella sentenza n. 88 del 1991: il principio di legalità «che rende doverosa la repressione delle condotte violatrici della legge penale, abbisogna, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere; e questa, in un sistema come il nostro, fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge (in particolare, alla legge penale), non può essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorietà dell'azione penale».
Non diverso è il punto di vista anche della dottrina più autorevole. Nicolò Zanon, nel suo bellissimo libro sul Diritto costituzionale dell'ordine giudiziario, cita le due sentenze della


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Corte e parla di indipendenza funzionale del pubblico ministero, legalità del procedimento di repressione dei reati, eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge penale, come i tre princìpi garantiti all'articolo 112 della Costituzione.
Questo assetto complessivo verrebbe palesemente alterato se venisse modificato l'articolo 112 della Costituzione, stabilendo che l'ufficio del pubblico ministero abbia sì l'obbligo di esercitare l'azione penale, ma secondo i criteri stabiliti dalla legge, cioè dalla maggioranza parlamentare. Sarebbe ingiusto rimproverare alla relazione di aver taciuto del tutto su quali siano questi criteri di priorità. Si legge, infatti, a pagina 13 della relazione che «Particolari esigenze storiche, sociali o economiche, infatti, possono indurre il legislatore a fissare criteri in forza dei quali, ad esempio, debba essere data prioritaria trattazione ad indagini concernenti determinati reati, fermo restando l'obbligo, esaurite queste, di curare anche le indagini relative ad altre fattispecie penalmente rilevanti».
Ma cosa sono queste particolari esigenze storiche, sociali ed economiche che dovrebbero guidare il legislatore a ripensare i criteri di priorità? Oggi e per molto tempo ancoravi è una situazione di endemica crisi economico-sociale, che spinge le frazioni più diverse dei ceti sociali lungo la strada dell'illegalità penale.
Non mi dilungo negli esempi, ma pensate - per campione - alla massa dei delitti contro il patrimonio, ai reati societari vecchi e nuovi, alle bancarotte (a Milano pendono mille procedimenti per bancarotta), all'usura, al riciclaggio, alla falsità in atti e scritture private, ai delitti contro la pubblica amministrazione, a cominciare dalla concussione e dalla corruzione, e contro l'amministrazione della giustizia, a cominciare dalla calunnia fino alla falsa testimonianza, ai maltrattamenti


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in famiglia, alle violenze carnali e agli abusi sessuali dentro e fuori delle famiglie, agli atti persecutori, il cosiddetto stalking, alle lesioni personali e, purtroppo, non pochi omicidi commessi da ex conviventi ed ex coniugi.
Alzando poi lo sguardo, pensate alle patologie storiche del nostro Paese incarnate dalle più diverse associazioni di tipo mafioso, che sono incardinate nel territorio e sempre più nel nord, nel nord-est, nel centro-nord e, a quanto pare, anche nel nord-ovest, in Piemonte. Esse seminano non solo paura e violenza, ma si infiltrano anche nel tessuto economico ai danni della concorrenza delle imprese pulite, coinvolgendo tanti esponenti politici, non solo nel sud. Per non citare poi i devastanti reati ambientali, come il traffico di rifiuti, i residui di amianto, i pericoli per la salute, i reati in materia di stupefacenti che hanno come vettori associazioni criminali su scala planetaria.
Tirando le somme, se i criteri di priorità dovessero essere fissati nella legge approvata dalla maggioranza parlamentare guardando alle «particolari esigenze storiche, sociali ed economiche qui e ora», tali criteri dovrebbero ricomprendere l'intero sistema penale tutti i più importanti e frequenti delitti previsti dal Codice penale e dal regime speciale sarebbero tutti prioritari.
Nessuno può chiudere gli occhi di fronte all'intasamento dei sistemi processuali, ma uno sguardo non superficiale o anche soltanto superficiale all'esperienza dei Paesi europei continentali, che conoscono da sempre il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, come Germania, Spagna e Portogallo, mostra che la strada da percorrere è quella di riservare una disciplina alternativa riservata ai soli reati bagatellari, da trattare


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con l'imposizione di oneri e ordini all'imputato, il cui contenuto, per esempio in Germania, è cresciuto via via anche dopo l'unificazione.
Badate, chi tra i processuali penalisti ha indagato e studiato approfonditamente la questione - ricordo che nel nostro Dipartimento ha cominciato molti anni fa Ennio Amodio e poi hanno continuato i suoi allievi e altri autori - ha illustrato le vicende che hanno portato, fino al 1993, a una modifica della disciplina tedesca, non priva di problemi, ma che tende a trovare alternative disciplinate in modo analitico nel Codice di procedura penale e che hanno avuto l'effetto sorprendente - attraverso l'imposizione di quella serie di obblighi e attraverso questa forma archiviazione condizionata al rispetto di quegli obblighi che progressivamente sono cresciuti - di abbattere circa il 50 per cento dei procedimenti penali.
Questa materia, e che crea senz'altro problemi, relativi alle diverse discipline dei diversi Länder, è stata anche la matrice di scelte analoghe compiute in Portogallo e in Spagna, sia pure con ritardo. Da parte nostra in Italia questa strada è stata indicata già da molto tempo da Carlo Enrico Paliero, che ha scritto una monografia sui reati bagatellari e sulle soluzioni illustrate nei più diversi ordinamenti.
Fa sorridere, infine, l'idea -enunciata nella Relazione a pagina 13 - secondo cui, una volta esaurita la trattazione, fino alla Cassazione, dei casi «prioritari», andrebbero «curate anche le indagini relative ad altre fattispecie penalmente rilevanti». Questi reati non perseguiti sarebbero tutti morti e stramorti per prescrizione e, quindi, il giudice dovrebbe soltanto apporre relativi sui fascicoli una formula prestampata del tipo: «non doversi procede per intervenuta prescrizione».


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E non certo in cima alle preoccupazioni di chi fa queste proposte di riforma costituzionale l'idea di ritornare alla disciplina della prescrizione ante ex legge Cirielli. Semmai, come tutti sanno, la tendenza è in senso inverso.
Garantire l'indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo era ed è l'altra faccia della medaglia, garanzia assicurata della Costituzione vigente che, all' articolo 109 del Codice di procedura penale stabilisce che «l'autorità giudiziaria dispone direttamente della Polizia giudiziaria», con una formula ribadita e ricalcata dal Codice di procedura penale.
Ricordo di aver partecipato ai lavori dei progetti di riforma già dal 1974 e in seguito. Si è arrivati alla legge delega, che conteneva e ripeteva esattamente il contenuto dell'articolo 109. È il Codice del 1988, elaborato da colleghi dissenzienti su altri profili, come Ennio Amodio e Oreste Dominioni, ha articolato la disciplina disponendo che in definitiva è il pubblico ministero che dispone e controlla l'operato della polizia giudiziariae anche la modifica del 1991 non ha fatto che lasciare spazio alle iniziative del pubblico ministero, ma sempre sotto il controllo.
Che cosa si propone adesso nel disegno di legge di riforma costituzionale? Si scrive «secondo le modalità stabilite dalla legge», ossia «il giudice e il pubblico ministero dispongono della Polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge». Apparentemente non cambia nulla, perché la legge esiste già e non dovrebbe essere cambiata. Ancora una volta però l'intenzione del riformatore costituzionale è ben diversa. Si ha l'intenzione di far disporre dalla nuova legge che le investigazioni sono di esclusiva competenza della polizia giudiziaria, che dipende gerarchicamente dal potere esecutivo,


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mentre all'ufficio pubblico ministero «sono riservate le attività di carattere processuale relative alla valutazione dell'investigazione».
E se la polizia giudiziaria non indaga? Privando l'autorità giudiziaria dei poteri di impartire i compiti di indagine e di controllare, le indagini sono lasciate alle scelte politiche dell'esecutivo, dal quale la polizia dipende gerarchicamente la polizia, scelte che possono tradursi nell'astensione dall'investigare contro Tizio e Caio, nel mancato perseguimento di reati o, all'opposto, nel perseguimento di supposti reati di nemici politici.
Giulio Illuminati ha detto in audizione che il potere esecutivo avrà nelle mani l'interruttore del processo e il pubblico ministero sarà un mero recettore dell'iniziativa della polizia giudiziaria. È stato anche detto da Mario Chiavario che è molto pericoloso che il pubblico ministero rimanga organicamente legato all'esecutivo, soprattutto quando può essere chiamato direttamente o indirettamente in causa l'esecutivo stesso.
Che fine fa l'eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge? Badate, non si tratta soltanto di quello che ha asserito Grasso in quello scontro piuttosto vivace con il ministro. È venuto in questa sede un rappresentante degli avvocati, l'avvocato Mascherin, il quale ha dichiarato che chi esercita il mestiere di avvocato si sente più garantito dalla presenza di un'autorità giudiziaria e, in particolare, del pubblico ministero che rimanga a sorvegliare la legalità delle indagini.

FRANCO BILE, Presidente emerito della Corte costituzionale. Ringrazio il presidente e la Commissione per l'opportunità che mi è offerta di mettere a disposizione vostra, e quindi del Parlamento, in un momento in cui si discute di un impegnativo progetto di riforma costituzionale, la mia esperienza maturata


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in oltre cinquant'anni di attività giurisdizionale, trent'anni in Cassazione e nove in Corte costituzionale, ma oserei dire anche la testimonianza di uno tra gli ultimi superstiti di quella generazione che aveva più o meno vent'anni il 1o gennaio del 1948, quando la Costituzione è entrata in vigore e che in quella Carta scoprì gioiosamente la risposta alle sue attese di una società più libera e più giusta. Dico questo per spiegare perché sono sensibile ai problemi delle riforme costituzionali. È come se fossi toccato abbastanza da vicino proprio esistenzialmente.
In tema di riforme costituzionali si dice spesso che la seconda parte della Costituzione, quella sull'ordinamento della Repubblica, può essere modificata con maggiore facilità che non la prima, quella relativa ai diritti e ai doveri dei cittadini. In realtà, la seconda parte è per molti aspetti strettamente legata alla prima, anzi è in un rapporto di mezzo a fine. Basta pensare al fatto che tutti i diritti fondamentali garantiti nella prima parte sono tutelati con la riserva di legge e con la riserva di giurisdizione, e quindi, come disse, e cito letteralmente, Leopoldo Elia poco prima della sua prematura scomparsa «taluni squilibri eventualmente provocati in sede di revisione costituzionale, ad esempio, nel funzionamento del Parlamento, negli organi di garanzia, o nell'ordinamento costituzionale della magistratura, potrebbero finire per compromettere la tutela di situazioni soggettive considerate nella prima parte della Costituzione».
A mio avviso, le modifiche costituzionali veramente necessarie sono quelle rivolte a rendere più alto il livello di tutela dei diritti fondamentali garantiti sia dalla Costituzione sia da altre convenzioni internazionali e sovranazionali. Penso alla Dichiarazioni universale dei diritti umani delle Nazioni Unite del 1948, alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo del


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Consiglio d'Europa del 1950 e alla Carta di Nizza, oggi Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea del 2000, che oggi ha lo stesso valore giuridico dei trattati.
In tutte queste Carte, in tema di giustizia, come il nostro articolo 111 della Costituzione, che dal 1999 è stato reso anche più esplicitamente indicativo di questi diritti, ogni individuo ha diritto a un giusto processo, tenuto in un tempo ragionevole avanti a un giudice indipendente e imparziale. Perciò la normativa dei diritti interni sia costituzionale sia ordinaria sullo stato giuridico dei magistrati dovrebbe essere valutata in funzione non solo e non tanto della sua idoneità a conformare la magistratura nel quadro ordinamentale previsto da una contingente maggioranza parlamentare, quanto piuttosto dalla sua capacità di contribuire alla sempre più effettiva tutela del diritto di ogni persona al giusto processo così solennemente proclamato.
Passo a esaminare rapidamente qualche aspetto del progetto di riforma costituzionale. La riforma distingue i magistrati in giudici e pubblici ministeri e prevede carriere separate. Questo della separazione delle carriere è l'aspetto più noto anche al grande pubblico della riforma. Di esso si potrebbe dire che in teoria tiene conto della situazione reale, nella quale, come sanno gli addetti ai lavori, i magistrati giudicanti e quelli inquirenti svolgono per taluni aspetti attività abbastanza differenziate, ma a mio avviso in pratica questa scelta presenta alcuni punti critici, anzitutto per il momento in cui è formulata, ossia quello caratterizzato da rapporti piuttosto tesi tra certi uffici del pubblico ministero e certe forze politiche.
Inoltre, taluni dettagli sembrano rivelare un'insufficiente valutazione di certi aspetti pure rilevanti, uno per tutti la sorte del pubblico ministero presso la Corte di Cassazione, che


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certamente non agisce come una procura della Repubblica, ma piuttosto come amicus curiae della Corte e, cosa che forse è sfuggita, non solo in materia penale ma anche in materia civile. Soprattutto, però, sulla scelta di separare le carriere del pubblico ministero e del giudice possono riflettersi le perplessità suggerite dal sistema in cui, secondo la riforma, la separata carriera del pubblico ministero sarà soggetta.
Allora, un rapido sguardo alla riforma del pubblico ministero: proprio alla luce della distinzione tra giudici e pubblici ministeri si comprende la portata della norma secondo cui la giurisdizione è esercitata dai giudici ordinari. Dal tenore testuale del disegno di legge costituzionale sembrerebbe che la riforma ritenga che solo i giudici esercitino funzioni giurisdizionali, per cui quelle del pubblico ministero dovrebbero essere considerate di natura diversa.
Badate che non è questione da poco, perché solo una formazione improntata rigorosamente alla cultura della giurisdizione può consentire al pubblico ministero di essere veramente autonomo e indipendente al punto da formulare conclusioni favorevoli all'imputato ove si accorga che mancano le prove della sua colpevolezza, diversamente da quanto farebbe, nell'opposta situazione, l'avvocato difensore. Ciò spiega perché è incongrua e fuorviante la definizione che pure talvolta è fatta del pubblico ministero come «avvocato dell'accusa». È ben altro il pubblico ministero, almeno nell'assetto della Costituzione vigente.
Le riserve aumentano considerando che il pubblico ministero disporrebbe, secondo la riforma, della Polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge. Ne ho sentito parlare poco fa: mi limito, quindi, a dire che la relazione chiarisce che questa legge dovrebbe riconoscere alla Polizia piena autonomia


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nell'attività di preinvestigazione, ossia nel ricercare e acquisire liberamente le notizie di reato, e riservare, invece, al pubblico ministero la valutazione dei relativi risultati.
Secondo i criteri che mi è parso di poter enunciare prima, bisognerebbe allora chiedersi se e quale maggiore tutela le persone accusate della commissione di reati o offese da reati, pur sempre titolari, le une e le altre, del diritto al giusto processo, ricaverebbero dalla sottrazione del pubblico ministero all'area della giurisdizione e dalla riduzione dei suoi poteri alla mera valutazione dell'attività autonomamente svolta, se svolta, da un organismo rigidamente inserito nella struttura del potere esecutivo, qual è la Polizia.
A proposito di questo rinvio alla legge ordinaria, è una scelta che non riguarda solo l'esercizio dell'azione penale o la disponibilità della polizia giudiziaria, ma è una scelta di fondo di cui si hanno parecchi esempi nel corpo del disegno di legge di riforma.
Il pubblico ministero dovrebbe esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge, se ne è parlato, ma l'inamovibilità dei magistrati, funzionale ai fini di garantire la libertà di giudizio, potrebbe essere limitata con la loro destinazione ad altre sedi, in caso di eccezionali urgenze relative al funzionamento dei servizi individuati dalla legge.
Vi sono altri esempi di questo rinvio dalla Costituzione, che oggi regola determinati aspetti in modo esaustivo, per cui la legge ordinaria non può modificare o restringere la previsione costituzionale. Questi aspetti, invece, vengono in realtà assoggettati a regole demandate a future leggi ordinarie destinate verosimilmente a mutare a ogni cambiamento di maggioranza parlamentare, con il risultato di una vera e propria decostituzionalizzazione dello stato giuridico dei magistrati e, quindi, della loro autonomia e indipendenza.


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La riforma riguarda anche i giudici, per i quali si stabilisce che costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere. Ci si può interrogare sul senso di questa qualificazione dei giudici come ordine distinto da ogni potere, laddove nell'attuale assetto costituzionale la magistratura, sia giudicante, sia requirente, è definita invece «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere».
La modifica, volta probabilmente a ridimensionare il ruolo dei magistrati, potrebbe condurre, però, a esiti forse non previsti. Se davvero si tratterà di un ordine e non di un potere e se questo ordine violasse le prerogative costituzionali del potere legislativo o esecutivo, non sarà forse più possibile sollevare davanti alla Corte costituzionale il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.
Se, invece, questo conflitto fosse ancora ammissibile, pur intercorrente tra un potere e un ordine, le due entità avrebbero denominazione diversa, ma nella sostanza sarebbero piuttosto sullo stesso piano.
La riforma crea due distinti Consigli superiori, uno per la magistratura giudicante e uno per la requirente, molto diversi dall'attuale, soprattutto con la riduzione della proporzione tra componenti togati e laici, non di due terzi e un terzo, ma di metà e metà, con una palese diminuzione del tasso di autonomia e di indipendenza dell'ordine, e sottrae ai Consigli la materia disciplinare con la creazione di un'apposita Corte di disciplina.
La relazione collega questa scelta all'esigenza di escludere interferenze tra le funzioni amministrative dei due Consigli superiori e quelle giurisdizionali in tema di disciplina. Singolarmente la relazione dimentica che la Costituzione stessa prevede altre ipotesi di siffatte interferenze, la più conosciuta e importante delle quali è quella del Consiglio di Stato, che è


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al tempo stesso organo ausiliario del Governo con compiti di consulenza giuridico-amministrativa, ma anche organo giurisdizionale per la tutela nei confronti della pubblica amministrazione degli interessi legittimi e, nella materia di giurisdizione esclusiva, anche dei diritti soggettivi.
In realtà, onorevoli parlamentari, la giustizia aspetta altre più necessarie riforme, a mio modestissimo avviso. L'esigenza di effettività della tutela giurisdizionale comporta che il giudice debba essere terzo e imparziale, debba procedere nel contraddittorio delle parti in condizioni di parità tra le stesse, assicuri l'esercizio dei diritti inviolabili di difesa e chiuda il processo entro un termine ragionevole di durata.
Fra questi requisiti intercorrono sovente rapporti di tipo conflittuale. Al massimo di tutela del diritto di difesa corrisponde nei fatti il massimo di durata del processo e ogni modifica tendente a ridurre la durata comporterà inevitabilmente un restringimento delle facoltà difensive. Perciò è compito ineludibile del Parlamento procedere ad accorte operazioni di bilanciamento in sede di legislazione ordinaria e anche, se occorre, in sede di revisione costituzionale. Credo che questa sia uno dei nodi che deve essere sciolto al più presto possibile.
Spendo una parola, se mi è consentito, sul processo civile, quello che conosco meglio. Il problema della durata irragionevole delle cause civili non sarà risolto senza radicali modifiche del Codice di procedura e senza una serena riflessione sul numero degli avvocati, che in Italia è di gran lunga superiore a quello degli altri Paesi europei e che da solo inevitabilmente finisce per incidere sul tasso di litigiosità, ossia sul numero e sulla durata delle liti.
Probabilmente non è un argomento politicamente corretto, ma sono fermamente convinto che nessuna riforma che ne


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prescinda potrà far uscire la giustizia civile da una crisi tanto profonda da costare al Paese, come ha accoratamente sottolineato il Governatore della Banca d'Italia pochi giorni fa, ogni anno un punto di PIL.
Sempre in materia civile la Corte di Cassazione costituisce poi un problema nel problema. Il vigente articolo 111 della Costituzione afferma che contro le sentenze è sempre ammesso il ricorso in Cassazione per violazione di legge. La norma, quindi, attribuisce alla Corte il potere di garantire la nomofilachia, cioè l'uniforme interpretazione della legge, e dovrebbe evitare contrasti di giurisprudenza.
A questa solenne proclamazione corrisponde oggi un assetto del giudizio di Cassazione, soprattutto in materia civile, molto insoddisfacente e perciò urgono sapienti interventi legislativi in chiave di riforme del Codice o forse addirittura della Costituzione.
In realtà, per garantire l'esercizio della nomofilachia in qualunque causa civile si paga oggi un prezzo altissimo in termini di durata irragionevole del processo. Una volta si sosteneva che anche nella causa da mille lire poteva esserci una questione di diritto che era importante risolvere. Oggi per risolvere la questione di diritto quando vale mille lire o 50 euro si paga un prezzo così alto che bisogna chiedersi francamente se ne valga la pena.
Credo quindi che si debba cominciare a riflettere sulla necessità di una modifica costituzionale che eviti alla Corte di Cassazione di occuparsi di liti civili di valore irrisorio e forse potrebbe dirsi altrettanto in materia penale per le contravvenzioni punite con modeste sanzioni pecuniarie.


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Alla luce di questi rilievi si potrebbe probabilmente avviare uno studio di diritto comparato per accertare se nell'Unione europea esiste un ordinamento che concepisca in modo diverso dal nostro una Corte suprema degna dell'aggettivo.
Mi fermo qui. Vi ringrazio dell'attenzione con cui mi avete ascoltato e chiedo scusa se ho un po' debordato, ma gli argomenti che ho trattato alla fine mi stanno a cuore veramente da una vita.

RICCARDO CHIEPPA, Presidente emerito della Corte costituzionale. Preciso subito che la mia impostazione non è ortodossa rispetto anche ad alcune posizioni. Come cittadino mi domando, ed è questo il tema del mio intervento: la giustizia attualmente funziona male, ma serve questa riforma a far funzionare meglio la giustizia? Questi sono i miei dubbi e comincio dalla fine, dalla norma transitoria.
La norma transitoria riguarda semplicemente i processi penali in corso e del resto non si interessa. Ciò significa che il giorno della pubblicazione della legge costituzionale l'attuale Consiglio superiore viene bloccato e non può funzionare, qualsiasi nomina verrà impugnata, come qualsiasi provvedimento emesso in sede di prorogatio.
Sorge, quindi, la domanda, che fu posta quando ci fu il primo sciopero dei magistrati. La risposta fu data da un politico: non interessava, perché così non sarebbero stati annullati gli atti e non sarebbero stati condannati. Questo avveniva nel 1960 e non vi riferisco il nome, perché il personaggio è defunto.
La mia domanda è questa: ci sono altri mezzi rispetto a questo intervento costituzionale per rendere la giustizia più efficiente? Quali sono i problemi attuali della giustizia che hanno bisogno di una riforma anche costituzionale?


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Il primo è il problema di definire esattamente la ripartizione triplice dei poteri, legislatore, Consiglio superiore della magistratura e posizione dei giudici. Su questo punto si lascia tutto nella nebbia, anzi si creano ulteriori complicazioni, laddove invece occorre evitare che ci siano conflitti tra ministro e Consiglio superiore della magistratura. Ecco, qui c'è bisogno di un determinato intervento. Forse sono il più vecchio in quest'aula di esercizio della toga: cinquantaquattro anni, e arriverò forse ai sessanta, perché lasciata la toga di magistrato indosso quella di presidente dell'Alta Corte di giustizia sportiva. Quindi, di giustizia mi sono occupato appena uscito dall'università e prima ancora ho svolto per due anni la professione forense, cosa di cui mi vanto.
Serve allora tutto ciò? Questa è la domanda che mi sono posto. Questi conflitti tra ministro e Consiglio superiore della magistratura, soprattutto per le cariche direttive, continueranno ad esserci, con conseguente ritardo nell'assegnazione dei magistrati. Direi che non è tanto il problema di separare il pubblico ministero, ma mi sembra che si intervenga con un cannone laddove ci possono essere riforme attuate sia con mezzi ordinari o con meno eccesso di strumenti.
Il problema di fondo della magistratura italiana, anzi delle magistrature italiane - io ho fatto parte di quella ordinaria, tributaria, amministrativa e costituzionale - è quello della permanenza di lungo periodo nella sede, quello che ho definito dieci anni fa il problema dei giudici stanziali. Se andiamo a vedere tutte le situazioni di procedimenti disciplinari gravi che arrivano fino all'espulsione dei magistrati, notiamo che esse derivano da un solo fatto, ossia che quel magistrato è stato troppo nella sua sede.
Questo è aggravato - l'ha detto la dottrina, non l'ho detto solo io - da due elementi di carattere fondamentale. In primo luogo,


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la legge della progressione dello stipendio, mentre prima, quanto sono entrato in magistratura, c'era il periodo di uditorato, di aggiunto, di consigliere d'appello e via dicendo. Il fatto che il magistrato rimanga nella stessa sede - questo è l'intervento costituzionale che varrebbe la pena di introdurre - comporta la diminuzione di esperienza. Per mia natura non sono stato in una sede più di tre o quattro anni: Sicilia, Trentino-Alto Adige, Sardegna, Lazio, poi nuovamente Roma. L'esperienza che assume il magistrato sia con il contatto con altri colleghi ma soprattutto con il contatto con fori e avvocature differenti è un elemento fondamentale. Se andiamo a vedere i procedimenti disciplinari e le incompatibilità, notiamo che proprio con il giudice stanziale si creano una serie di problemi di figli, mogli, amiche, convivenze o altro. Dovunque ho girato, ne ho trovato esempi a decine in ogni sede. Non nel mio ufficio, perché il giudice amministrativo prevalentemente non è stanziale.
Questo sarebbe un problema da affrontare perché provoca il senso di sfiducia da parte del cittadino e provoca tutti quegli inconvenienti che si sono verificati nei diversi uffici giudiziari proprio per la permanenza in sede per un periodo eccessivo.
Devo dirvi che ho esaminato solo il disegno di legge governativo, perché dalla notizia che mi era stata data l'esame si riferiva a questo, e solo due giorni fa ho appreso che l'esame riguardava anche le altre proposte di legge, che dunque non conosco. Ora, c'è bisogno di una serie di rinvii alla legge quando il legislatore costituente non dice una parola per limitare o per dare l'indirizzo? Questa è una distorsione del sistema. Si tratterebbe di norme che potrebbero essere tutte facilmente cancellate, in quanto c'è la riserva di legge sul Consiglio superiore, la riserva di legge sulla procedura, la riserva di legge su qualsiasi disposizione relativa alla magistratura.


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Osservava Andreotti in due articoli risalenti che si è raggiunta in sede di Costituente una convergenza di opinioni sull'indipendenza della magistratura perché una certa sinistra estrema aveva paura che potesse essere instaurato un regime di ritorno fascista, mentre dall'altro lato il centro aveva paura - sono parole di Andreotti - che ci fosse un'impostazione di un sistema di tipo moscovita.
Un altro ministro che si preoccupava del carcere diceva ai suoi colleghi «guardate, mi preoccupo anche di voi perché prima o poi qualcuno di voi potrà fare questo esperimento». Questa era l'opinione della mia epoca (io mi sono laureato subito dopo la guerra); la mia generazione è quella che ha ricostruito dalla distruzione l'Italia.
Ora, se è facile muovere critiche a un disegno di legge così complesso, vorrei provare a entrare nel merito. Ho un'esperienza di oltre dieci anni in un ufficio legislativo, presso la Presidenza del Consiglio. Purtroppo, le riforme costituzionali o i tentativi di riforme costituzionali degli ultimi periodi, quelle organiche, sono state un disastro dal punto di vista della tecnica legislativa. Ne ho subito le conseguenze nel periodo della Corte, nel dover interpretare certe norme che forse anche uno studente di giurisprudenza avrebbe potuto evitare. Questo vale sia per il Titolo V della Costituzione sia per la seconda riforma. Mi riferisco alla tecnica legislativa, non al contenuto. Del problema della riserva di legge ho già detto.
Sull'altro punto, ossia separare i giudici dai pubblici ministeri, perlomeno dal punto vista testuale, non esiste più un richiamo all'autorità giudiziaria, quindi sembra che il pubblico ministero non faccia parte più dell'autorità giudiziaria, con tutte le conseguenze, ad esempio sugli articoli 13, 15, 21, 82 della Costituzione. Se il pubblico ministero non può più emettere quegli ordini di carattere provvisorio, credo che sarà la


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vittoria più esaltante della criminalità organizzata. Questi sono alcuni pericoli. Il punto, dunque, va chiarito: il pubblico ministero esercita, in qualche maniera, questa funzione giudiziaria o no? Diversamente viene espunto da tutti quei poteri cautelari che viene ad avere e che sono necessari, perché non possiamo attendere la sentenza del giudice.
Inoltre, il pubblico ministero non è più soggetto solo alla legge. Non è tanto il «solo» a preoccuparmi; a me preoccupa che non sia neppure soggetto alla legge. Se vediamo il testo precedente e lo compariamo a questo successivo, questo problema esiste.
Vi è un altro problema. A proposito delle elezioni del Consiglio superiore della magistratura, si parla di categorie. Io sapevo che i magistrati si distinguevano solo dalle funzioni. Qui non si tratta di funzioni tra giudici ordinari e pubblici ministeri, perché già il Consiglio superiore è separato, quindi vuol dire qualche cosa di diverso. Se consideriamo l'etimologia greca della parola, dovremmo distinguere per classe, ordine, gruppo. Chi parteciperà? Si aprirà una serie di contenziosi. Questo è un altro punto della tecnica legislativa su cui mi permetto modestamente di richiamare l'attenzione.
Vengo al punto dell'incompatibilità del Consiglio superiore, tra le quali l'appartenenza al Parlamento, a un Consiglio regionale, provinciale e comunale. Sappiamo, però, che gli assessori possono non far parte del Consiglio, quindi in questo caso vogliamo forse perpetrare gli inconvenienti che già si sono verificati? E il ministro? Nel disciplinare, poi, si fa divieto di appartenere a qualsiasi ufficio pubblico.
La Corte disciplinare è un nuovo organo diverso dal Consiglio superiore della magistratura e completamente diverso, sganciato dal CSM? In tal caso l'obiezione che verrà mossa


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è che veniamo a infrangere il principio dei divieti del giudice straordinario e del giudice speciale e che viene meno probabilmente il castello del ricorso per Cassazione.
Esiste questa anomalia, ossia che l'attuale Consiglio superiore della magistratura in sede disciplinare agisce con le relative regole del Codice di procedura penale e, in sede di impugnativa o davanti alla Cassazione, con l'articolo 111 ai sensi delle norme del Codice di procedura civile.
È una disfunzione, perché il procedimento disciplinare è completamente diverso, soprattutto per l'acquisizione delle prove. Bisogna avere la sensibilità del comportamento del giudice rispetto non a norme strettamente positive, ma a una deontologia professionale, che purtroppo, da quando sono entrato io in magistratura - eravamo meno di tremila - a oggi si è un po' degradata. Io ritengo che i magistrati siano troppi, malgrado tutte le richieste; funzionerebbe meglio la giustizia con il sistema inglese di pochi magistrati e con un sistema di ufficio organizzato.
L'ufficio organizzato fu previsto nella vostra riforma del 2004, ma per interventi del Ministero del tesoro tale iniziativa governativa fu tagliata. Questa è l'unica via che può servire a far funzionare meglio la giustizia, secondo la mia esperienza personale.
Passo all'ultima notazione. Per evitare i disastri delle precedenti riforme costituzionali rammento di prestare attenzione all'articolo 72 della Costituzione, ultimo comma. Questa è una legge di materia costituzionale? Questa è la domanda che vi pongo.
Se è una legge in materia costituzionale, come sostiene l'articolo 72, che è stato continuamente inosservato per una cattiva interpretazione del Regolamento e, peggio ancora, per alcune modifiche regolamentari, la seconda votazione non può


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essere limitata a un prendere o lasciare. Ne va della dignità del Parlamento e soprattutto della volontà dei costituenti, che volevano due tornate piene. Si sarebbero evitati tanti errori nel Titolo V, nonché in quella riforma, che aveva molti punti buoni, ma che non si è potuta accettare, quella della seconda parte della Costituzione, perché c'erano parti non digeribili e l'elettore in sede di referendum non aveva potuto neppure operare distinzioni.
Mi scuso per la lungaggine e forse per l'entusiasmo, perché chi ha vissuto 54 anni esercitando la toga esprime l'augurio che la giustizia possa ritornare a funzionare più speditamente e in maniera migliore rispetto a ora.

GIOVANNI MARIA FLICK, Presidente emerito della Corte costituzionale. Ringrazio lei e la presidente Bongiorno dell'onore della convocazione. Poiché sono stato convocato alla luce della mia precedente esperienza di presidente della Corte costituzionale, mi limito a esprimere una riflessione personale sui profili costituzionali del disegno di legge.
Mi astengo, invece, dall'esprimere un'opinione di ordine politico sul suo contenuto e significato e anche dal dare una valutazione personale sul merito del disegno di legge e sulla sua idoneità e opportunità per contribuire ad affrontare la crisi di efficienza della giustizia nei termini in cui è stata prospettata dal primo presidente della Corte di Cassazione nella relazione introduttiva dell'anno giudiziario e che è stata ricordata recentemente dal Governatore della Banca d'Italia.
Se gli onorevoli parlamentari lo consentono, richiamo solo in via preliminare la possibilità che la discussione di una riforma costituzionale, per sua natura non breve, possa condizionare e rallentare l'iter di riforme ordinarie in materie connesse.


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Lo affermo alla luce di una mia esperienza personale precedente, al tempo della Commissione bicamerale che operò tra il 1997 e il 1998. Si decise allora di differire interventi proposti con legge ordinaria, come la tipizzazione degli illeciti disciplinari del magistrato, già da un anno all'esame del Parlamento, all'esito di una riforma costituzionale, che peraltro non si concluse, con la conseguenza che la riforma degli illeciti disciplinari divenne legge dieci anni e due legislature dopo.
Sempre in via preliminare mi permetto di rilevare che l'articolo 1 del disegno di legge modifica la rubrica del Titolo IV, intitolandola non più alla magistratura, scelta a suo tempo dall'Assemblea costituente, anche per ragioni di simmetria con gli altri titoli, ma alla giustizia in quanto bene essenziale che non riguarda l'ordine giudiziario inteso come corporazione. Così si esprime la relazione governativa. Peraltro, il contenuto del disegno di legge riguarda tuttora e prevalentemente lo status della magistratura ordinaria.
A mio avviso, qualsiasi riforma costituzionale incontra un duplice limite. Il primo è rappresentato dall'immodificabilità, anche attraverso revisione costituzionale, dei princìpi che appartengono all'essenza dei valori supremi su cui si fonda la Costituzione italiana. C'è una giurisprudenza della Corte costituzionale a partire dalla sentenza n. 1146 del 1988, confermata recentemente dalla sentenza n. 262 del 2009 e dalla sentenza n. 138 del 2010. Questo è il primo limite.
Il secondo limite, che a me non sembra meno importante, è già stato ricordato ed è rappresentato dalla necessità di evitare che attraverso l'introduzione di modifiche alla seconda parte della Costituzione, come, nella specie, le modifiche all'ordinamento giudiziario, in ipotesi si giunga a incidere sulle


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garanzie riconosciute nella prima parte della Costituzione a tutela delle libertà e dei diritti fondamentali, pur senza modificare queste ultime garanzie.
La riserva di giurisdizione, al pari della riserva di legge, è essenziale per la tutela della libertà personale e delle altre libertà fondamentali, ma è evidentemente condizionata nella sua effettività dalla garanzia dell'indipendenza del giudice e del pubblico ministero.
Ogni vulnus che si arrecasse all'indipendenza dei magistrati si risolverebbe inevitabilmente nel vanificare, o perlomeno nel depotenziare, la garanzia della riserva di giurisdizione.
Perciò destano in me qualche preoccupazione alcune modifiche costituzionali proposte dal disegno di legge in tema di inamovibilità, di responsabilità del magistrato, di ordinamento del pubblico ministero, non come separazione delle carriere ma come collocazione, di disponibilità della Polizia giudiziaria e di obbligatorietà dell'azione penale, profili che mi sembrano tutti connessi e funzionali a quell'indipendenza del magistrato che dà ragione e significato alla garanzia costituzionale della riserva di giurisdizione in favore del cittadino.
Quanto alla garanzia rappresentata dalla riserva di legge il disegno di legge non propone modifiche all'articolo 108 della Costituzione: le norme sull'ordinamento giudiziario e su ogni magistratura sono stabilite con legge. Desta, però, qualche preoccupazione il fatto che reiterati rinvii del progetto di riforma alla legge ordinaria - avrò occasione di esaminarli rapidamente - appaiano formulati in termini generali, se non addirittura generici.
Al di là dell'affermazione dei princìpi in Costituzione, il loro contenuto, e non soltanto la loro specificazione o concretizzazione, viene rimesso alla legge ordinaria con quella che è stata definita poco fa una decostituzionalizzazione.


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Ho la preoccupazione che questa via si risolva nel rispetto solo formale e non anche sostanziale del principio costituzionale della riserva di legge in tema di ordinamento giudiziario e, inoltre, che attraverso un rinvio alla legge in termini generici i princìpi costituzionali in materia di giustizia vengano a essere condizionati dal modo con cui il legislatore ordinario darà loro contenuto e possano essere vanificati dalla loro attuazione in sede legislativa ordinaria con una maggioranza diversa da quella richiesta per la modifica costituzionale. Infine, la vita e la portata di quei princìpi vengono a dipendere dalla variabilità della maggioranza richiesta in sede di legislazione ordinaria e dalle contingenze politiche che possono caratterizzare quella maggioranza.
È vero che l'eccesso di rigidità di una Costituzione, soprattutto quando sono in gioco diritti e libertà fondamentali della persona, è certamente meno rischioso, nonostante gli inconvenienti cui può dar luogo, dell'eccesso di mutevolezza di una Costituzione. Al di là dei limiti invalicabili dianzi richiamati e delle perplessità a cui può dar luogo una decostituzionalizzazione di fatto dei princìpi costituzionali attraverso un rinvio generico o dei rinvii generici alla legge ordinaria, le sempre legittime scelte di riforma costituzionale sono sottoposte al normale confronto politico in Parlamento e al dibattito nella società civile.
Non dimentico, però, che l'ampiezza del consenso parlamentare, oltre all'evidente valore politico, determinerà l'avanzamento più o meno agevole del procedimento di revisione costituzionale e non dimentico che in una materia come quella della giustizia l'ampiezza del consenso parlamentare e, prima ancora, la laicità del confronto e del dialogo appaiono quanto mai essenziali e auspicabili per il buon esito della riforma.


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Le mie perplessità si focalizzano su due punti, due norme del disegno di legge, l'articolo 9 in tema di inamovibilità e l'articolo 14 in tema di responsabilità dei magistrati, che a mio avviso incidono in modo rilevante sull'indipendenza, sia su quella dei giudici, tuttora garantita dalla Costituzione, anche nel nuovo testo, all'articolo 101, secondo comma, sia su quella del pubblico ministero, che il nuovo testo rimette alla previsione del legislatore ordinario.
L'inamovibilità rappresenta in modo emblematico la garanzia e la condizione più antica per assicurare l'indipendenza esterna e interna del magistrato. Mi sembra che si possa raccordare col principio costituzionale dell'articolo 25, secondo il quale nessuno può essere sottratto al giudice naturale precostituito per legge ove quest'ultimo sia inteso, così la dottrina dominante, con riferimento alla persona fisica e non solo all'ufficio.
L'indipendenza, d'altra parte, lo sapete meglio di me, era oggetto di previsione esplicita già nello Statuto Albertino e nell'ordinamento giudiziario del 1941. A livello di fonti internazionali mi limito a citare da ultimo la raccomandazione del 17 novembre 2010 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa.
L'articolo 9 del disegno di legge prevede, all'articolo 107, accanto alle ipotesi costituzionalmente previste di destinazione ad altre sedi, anche la possibilità per il CSM di disporre il trasferimento d'ufficio dei magistrati in caso di eccezionali esigenze, individuate dalla legge, attinenti all'organizzazione e al funzionamento dei servizi relativi alla giustizia.
A me sembra che la genericità della riserva di legge così formulata e la correlazione testuale tra l'eccezionalità delle esigenze e l'ampiezza del riferimento all'organizzazione del funzionamento dei servizi introducano una deroga al principio


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dell'inamovibilità, e quindi un vulnus al principio dell'indipendenza, di portata generale. Né mi sembra che le ragioni sottostanti alle esigenze dell'organizzazione e del funzionamento dei servizi siano idonee in sé a giustificare la deroga a un principio fondamentale come quello di indipendenza.
L'altro profilo generale che riguarda sia giudici sia pubblici ministeri mi sembra riguardi l'articolo 14 del disegno di legge, che introduce la responsabilità diretta al pari degli altri funzionari e dipendenti dello Stato. La relazione governativa sottolinea che per la prima volta il principio della responsabilità professionale del magistrato è introdotto ed è destinato a completare il nuovo assetto della magistratura in cui autonomia e indipendenza devono essere bilanciate da efficienza e responsabilità.
Vorrei osservare che il richiamo della relazione governativa alle pronunzie della Corte di giustizia che non consentono di limitare il risarcimento al cittadino nei casi di violazione manifesta del diritto vigente - sono due cause della Corte di giustizia, la Köbler del 2003 e la Traghetti del Mediterraneo del 2006 - non appare conferente al problema in quanto esse riguardano esclusivamente la responsabilità dello Stato, sottolineano che il diritto comunitario osta a una legislazione nazionale che escluda la responsabilità dello Stato membro. Il diritto comunitario osta, altresì, a una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice ove tale limitazione conducesse a escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato.
Nel merito, l'affermazione costituzionale di parità e il conseguente riconoscimento esplicito di una responsabilità diretta del magistrato mi sembra non tengano conto delle differenze inerenti alla peculiarità delle funzioni giudiziarie e alla natura dei relativi provvedimenti.


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Tali differenze, come ha rilevato la Corte costituzionale più volte - sentenza del 1987 e già del 1968 - alla luce del principio costituzionale di indipendenza e autonomia suggeriscono condizioni e limiti alla responsabilità del magistrato nel quadro della previsione dell'articolo 28 della Costituzione. Resta, ovviamente, ferma la necessità di una revisione della disciplina vigente, il cui funzionamento difettoso sembra aver praticamente paralizzato l'operatività della legge sulla responsabilità civile.
Anche sotto il profilo dell'efficienza cui fa riferimento la relazione governativa, la previsione di una responsabilità diretta e l'assenza di limiti può agevolmente risolversi in una possibilità di condizionamento nella decisione delle liti, in una possibilità di incertezza dei giudicati e in un intreccio tra l'accertamento fatto in sede di procedimento e quello fatto in sede di contenzioso sulla responsabilità in una situazione di interferenza col sistema delle impugnazioni. Anche qui mi permetto di richiamare, da ultimo, la raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa del 2010, cui ho fatto cenno prima, che richiede sia l'introduzione di limiti alla responsabilità civile del giudice negli stessi termini della legge nazionale vigente sia l'iniziativa dello Stato per accertare tale responsabilità.
Mi soffermo su altre tre norme del disegno di legge governativo: l'articolo 4 in tema di separazione delle carriere, l'articolo 10 in tema di polizia giudiziaria, l'articolo 13 in tema di obbligatorietà dell'azione penale, che a mio avviso incidono anch'esse e in modo significativo sull'indipendenza del pubblico ministero. Non entro nel merito, come ho detto, del tema della separazione delle carriere perché non è un problema sul quale io sia chiamato a esprimere una riflessione di carattere politico, che ben saprei come formulare. Mi lascia, tuttavia,


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perplesso, una volta che nell'articolo 107 della Costituzione rimane la distinzione dei magistrati tra loro soltanto per diversità di funzioni, il fatto che il riconoscimento al pubblico ministero delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario si traduca in una indipendenza riconosciuta dall'articolo 104, nuovo testo, in modo diverso dal precedente.
Oggi l'indipendenza del pubblico ministero è riconosciuta alla stregua dell'articolo 104 della Costituzione per il suo inserimento in una magistratura, che è un ordine autonomo è indipendente da ogni altro potere. Con la riforma, dopo la distinzione tra giudici e pm e la separazione delle carriere nell'articolo 104, si rimette all'ordinamento giudiziario l'organizzazione dell'ufficio del PM secondo norme che ne assicurino autonomia e indipendenza.
In parole semplici, l'autonomia e l'indipendenza del pubblico ministero sono rimesse alla legge ordinaria e riferite con certezza soltanto all'ufficio, non più al singolo magistrato, a differenza di quanto è previsto per il pm presso le giurisdizioni speciali, come la Corte dei conti e i tribunali militari.
È giusto certamente, attraverso il riferimento all'ufficio, evitare gli eccessi di personalizzazione e frammentazione dell'ufficio del pubblico ministero da più parti e più volte segnalati, però mi pare che la posizione del pubblico ministero e la sua indipendenza ne risultino indebolite.
A conferma richiamo l'articolo 10 del disegno di legge, per cui giudice e pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria «secondo le modalità stabilite dalla legge», anziché, come ora, «direttamente». Si esclude cioè quella dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dall'organo inquirente che era il frutto del compromesso raggiunto in Assemblea costituente rispetto all'auspicio di istituire una polizia giudiziaria


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alle dipendenze esclusive dell'autorità giudiziaria per rendere effettive l'autonomia e l'indipendenza dell'autorità giudiziaria.
A me sembra che la genericità e il contenuto del rinvio alla legge ordinaria, secondo le modalità previste dalla legge, possano essere interpretate in modo da privare di efficacia la previsione costituzionale, rimettendo in realtà al legislatore ordinario la scelta e la possibilità di riconoscere o sottrarre in concreto all'autorità giudiziaria la disponibilità dei mezzi di indagine essenziali per l'esercizio dell'azione penale e il rispetto della sua obbligatorietà.
Una diversa interpretazione che confermi la disponibilità della polizia giudiziaria da parte del magistrato e che limiti la portata della mediazione legislativa solo all'individuazione di modalità concrete di esercizio sarebbe pleonastica.
Infine, l'articolo 13 del disegno di legge modifica il principio di obbligatorietà dell'esercizio dell'azione penale, riferendolo all'ufficio del pubblico ministero anziché a quest'ultimo, il che mi pare giusto, secondo i criteri stabiliti dalla legge.
È stato rilevato da chi mi ha preceduto che il principio di obbligatorietà è il punto di convergenza tra il principio di eguaglianza di tutti di fronte alla legge, il principio di legalità e il principio di indipendenza esterna del pubblico ministero. Ad avviso di molti, e mi permetto di dire anche mio personale, si tratta di un principio irrinunciabile, anche se sono ben note la sofferenza di esso sul piano della prassi, la discrezionalità di fatto nel suo rispetto e le difficoltà di razionalizzarlo.
Il rinvio a criteri stabiliti dalla legge, oltretutto senza alcuna indicazione di parametri a livello costituzionale, mi sembra che apra la via alla vanificazione del principio o a ridurlo in termini di obbligatorietà vincolata, con conseguente compressione


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dell'indipendenza della posizione costituzionale del pubblico ministero e con riflessi anche sul principio di eguaglianza.
A me sembra che il problema sia duplice, di metodo e di merito. Da un lato occorre garantire attraverso una procedimentazione, i cui parametri siano individuati a livello costituzionale, una maggior trasparenza e uniformità nell'individuare criteri di priorità per razionalizzare le scelte discrezionali degli uffici del pubblico ministero, dall'altro individuare a livello costituzionale alcune indicazioni di massima che impediscano di ridurre il principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale a una forma di discrezionalità legislativa nei termini della decostituzionalizzazione di cui parlavo prima.
Penso, a mero titolo esemplificativo, alla via che è già stata percorsa per legge ordinaria con l'istituzione del giudice unico attraverso un richiamo a una serie di parametri sulla gravità e concreta offensività del reato, sul pregiudizio che può derivare dal ritardo per la formazione della prova, sull'interesse della persona offesa.
Segnalo anche che l'adozione di criteri generali e astratti, come per esempio il titolo di reato, per un verso potrebbe non tener sufficientemente conto delle peculiarità e delle diversità di esigenze di realtà locali e per l'altro mi sembra che rischi di risolvere l'indicazione legislativa di quei criteri, associata alla pur giusta costituzionalizzazione della funzione referente del Ministro della giustizia alle Camere (articolo 11 del disegno di legge), in un potere di indirizzo sulle linee di politica giudiziaria che non mi pare sia previsto dal Titolo IV della Costituzione, in base al quale l'esercizio autonomo e indipendente della funzione giudiziaria è e deve essere pienamente tutelato


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sia nei confronti del potere esecutivo, sia rispetto alle attribuzioni del CSM. Così il messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere del 16 dicembre 2004.
Le perplessità che ho richiamato sono, a mio avviso, evidenti e di immediata percezione. Il disegno di legge ne propone anche alcune altre che suggeriscono una riflessione e un confronto ulteriore sui suoi profili di costituzionalità.
Penso, per esempio, come è già stato affermato, alla nuova formulazione dell'articolo 101, secondo comma, secondo cui i giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente «da ogni potere» e non più «da ogni altro potere» come recita l'articolo 104 attuale.
La modifica, oltre a sottolineare la distinzione tra giudici e pubblici ministeri prima richiamata, sembra escludere la configurabilità dell'ordine giudiziario come un potere e, quindi, non consentire che i giudici siano legittimati a sollevare conflitti di attribuzione contro altri poteri dello Stato o che altri poteri possano sollevare conflitti contro di loro.
Rilevo, però, che la relazione governativa e quella degli onorevoli relatori dinanzi alle Commissioni continua a fare riferimento all'espressione originaria «un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere».
Rilevo poi, proprio come oggetto di riflessione, la diversità di trattamento tra la magistratura ordinaria, quella militare e quella amministrativa, in punto di composizione e di sdoppiamento dei Consigli superiori, la parità, nella prima, fra componente laica e componente togata dei Consigli superiori e della Corte di disciplina, la tendenza a sottolineare il ruolo esclusivamente amministrativo dei Consigli superiori a fronte della contestuale e condivisibile valorizzazione delle attribuzioni costituzionali del ministro della giustizia.


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Mi pare di cogliere un contrasto tra la genericità dei rinvii alla legislazione ordinaria che il disegno di legge contiene con la precisione del dettato costituzionale, laddove per esempio nell'articolo 105, secondo comma, con la modifica, inibisce il CSM dall'esercitare funzioni diverse da quelle previste nella Costituzione.
Mi riferisco poi all'ampliamento, ai sensi dell'articolo 8, della possibilità di nomina elettiva dei magistrati onorari, senza più, come oggi, i limiti della cosiddetta giustizia minore e della sola funzione giudicante, le cosiddette funzioni attribuite ai giudici singoli dall'articolo 106 vigente.
In sede di Assemblea costituente quei limiti vennero approvati sul presupposto che soltanto con essi si potesse assicurare un'adeguata indipendenza ai cosiddetti magistrati minori, mentre attualmente la magistratura onoraria, anche requirente, attraverso i viceprocuratori onorari ha raggiunto un'espansione e un'affermazione la cui compatibilità con un sistema di nomine elettive sarebbe dubbia nell'ipotesi di un ulteriore sviluppo di quel sistema.
Infine, un dubbio che ho è quello di costituzionalità del meccanismo di elezione proposto dagli articoli 104-bis e 104-ter per i Consigli superiori attraverso il sorteggio previo degli eleggibili anziché viceversa. Mi domando se per caso non si ponga un problema di contrasto con un diritto di elettorato passivo che deve essere riconosciuto a tutti egualmente.
Ringrazio della cortesia e della pazienza con cui mi avete ascoltato e lascio a disposizione della presidenza il testo cui mi sono riferito.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.


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MANLIO CONTENTO. Vorrei cominciare cercando di portare un po' di serenità con una battuta e chiederei al professor Marinucci se è in grado di dare un voto all'estensore di questa relazione e che voto esprimerebbe.
Passando ad altre questioni, vorrei concentrarmi sull'analisi svolta dal presidente Flick. In particolare, in relazione agli argomenti che ha utilizzato e nel rapporto tra la prima e la seconda parte della Costituzione, vorrei chiedere prima di tutto se non ritiene che l'attribuzione al giudice naturale e quindi la garanzia conseguente non sia riferita soprattutto, se non addirittura in via esclusiva, al magistrato giudicante per la garanzia che allo stesso è attribuita nel nostro ordinamento, anche con riferimento alla prima parte della Costituzione. Questo si ricava anche dalla distinzione oggi presente, a mio giudizio, nella Carta costituzionale tra le funzioni della magistratura giudicante e di quella requirente.
In secondo luogo, sempre in relazione agli argomenti che così brillantemente ha esposto con riferimento al pubblico ministero, chiedo se non ritiene che già oggi, a Costituzione vigente, queste due funzioni siano diversificate indipendentemente dalla separazione delle carriere che si volesse inserire nella Carta costituzionale e quindi se sotto questo profilo la modifica dell'articolo 111 della Costituzione, laddove fa riferimento a un processo di parti, non abbia ulteriormente favorito un'interpretazione che rafforza la mia indicazione sia sulla riserva sia sui ruoli differenti e quindi anche sulle garanzie che spetterebbero al pubblico ministero.
Un'altra domanda è relativa alla distinzione che lei ha fatto, sempre brillantemente, tra riserva di legge riferita, nella base della proposta, all'ufficio del pubblico ministero e garanzie che dovrebbero essere date al singolo magistrato. Vorrei chiederle se, sempre a Costituzione vigente, non sia - sulla base anche


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delle decisioni della Corte costituzionale - già stata tracciata una individuazione distintiva tra questi due termini di riferimento e quali contraddizioni lei trovi in relazione alle proposte di riforma rispetto a quelle sentenze della Corte costituzionale.
Un'ulteriore questione che mi permetto di sottoporre a tutti gli illustri ospiti, è se a questo punto, anche sulla base delle garanzie che sono state richiamate, loro non ritengano che sia arrivato il momento di costituzionalizzare anche la previsione, nell'ambito di questa sezione, del ruolo del difensore all'interno del sistema della giustizia, come conseguenza dell'articolo 111 della Costituzione.
L'ultima domanda, che rivolgo a tutti, mi viene in mente con riferimento al collegamento tra parte seconda e parte prima della Costituzione. Mi riferisco ai diritti cosiddetti «fondamentali» che vengono incisi dall'attività della magistratura. Se in realtà io dessi della riforma un'interpretazione anticipatrice di eventuali leggi che dovrebbero poi rispondere a quelle riserve di legge, credo che potrei dire che, sulla base dei princìpi, il rischio è a favore del cittadino, non contrario.
Chiaramente, nel preciso istante in cui separo le carriere e metto in discussione il ruolo del pubblico ministero, le garanzie previste dalla prima parte della Costituzione impedirebbero - se volessi dare una lettura «orientata» dal mio punto di vista - di incidere su quelle libertà, perché lo potrebbe fare solo il giudice, mentre rimarrebbe da valutare se questo tipo di iniziativa potrebbe inficiare l'eventuale attività di persecuzione dei reati, di raccolta delle prove eccetera. Ma sul piano delle garanzie al cittadino è esattamente il contrario: il cittadino è favorito, non è svantaggiato sotto questo aspetto.


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Ferme restando alcune obiezioni, che io non ho difficoltà, come relatore, a dire che condivido, credo che si stia un pochino «immaginando» troppo che questa riforma venga costruita per colpire qualcuno. Cito un esempio: il famoso «direttamente» può essere interpretato sulla base di sentenze della Corte costituzionale e dire che se si elimina il rapporto diretto che esiste tra magistratura e polizia giudiziaria non si può mai dire che un'attenzione del Governo particolare a quell'operatività della polizia giudiziaria possa incidere nei confronti della magistratura. Ma quando in Costituzione inserisco anche la figura del giudice accanto a quella del pubblico ministero troverei abbastanza singolare che quel «direttamente» persistesse. Allora, questo tipo di obiezioni le faccio proprio perché ho l'impressione - può darsi che mi sbagli - che l'anticipazione di queste preoccupazioni rischi di far dire in questo dibattito qualche cosa di troppo, mentre io sono felicissimo delle indicazioni che ci vengono date, anche eventualmente per correggere il testo. Pur mantenendo obiezioni di principio diverse - io sono fautore della separazione delle carriere, dunque sono su una posizione diametralmente opposta sotto questo profilo - mi piacerebbe avere delle indicazioni.
Vengo all'aspetto più difficile: l'esercizio dell'azione penale. I criteri non sono facili da trasferire e hanno diretto rilievo nei confronti delle funzioni che sono attribuite anche al Ministro della giustizia. Un Ministro della giustizia che riferisce non può non riferire su tutto, quindi anche sull'attività che viene svolta dalla polizia giudiziaria e, se mi permettono, anche dai pubblici ministeri.
Ora, è evidente che non è facile formulare dei criteri, proprio per quello che è stato molto ben evidenziato, ad esempio per il principio di eguaglianza, con il quale si rischia


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di entrare in conflitto. Quali elementi si potrebbero introdurre, al netto della diminuzione del carico penale? Quali criteri, secondo loro, sarebbero abbastanza opportuni da inserire qualora si volesse incidere proprio perché quella irragionevole diseguaglianza non venga affidata agli uffici del pubblico ministero, perché di questo ci vogliamo preoccupare?

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA II COMMISSIONE GIULIA BONGIORNO

ROBERTO ZACCARIA. Vorrei naturalmente ringraziare coloro che sono intervenuti perché le relazioni scritte che ci hanno lasciato credo costituiranno oggetto di riflessione. Alcune delle questioni rappresentano profili indubbiamente anche molto originali, nell'evidenziare aspetti sui quali personalmente non avevo riflettuto. Ad esempio, quello che ha detto il presidente Chieppa con riferimento alla nozione di autorità giudiziaria mi pare molto interessante e preoccupante, pensando al coordinamento complessivo del testo costituzionale. Non è un dato solo formale, ma attiene alle garanzie dei diritti fondamentali, quindi è di grande rilievo. Ugualmente, è di grande rilievo la procedura nel rispetto dell'articolo 72. Ma su questi aspetti rifletteremo in altro momento.
Sostanzialmente ci sono due versioni della lettura di questa riforma. Una di esse parte soprattutto da alcuni colleghi della maggioranza e tende a configurare questa riforma come una sorta di esplicitazione delle conseguenze dell'introduzione nella Costituzione dell'articolo 111. Si sostiene che è stato inserito l'articolo 111 come una sorta di avamposto e che, attraverso l'«esplosione» dell'articolo 111 sul resto delle norme relative alla magistratura, si arriva ad alcune conseguenze che sono quelle che vengono poi declinate.


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La mia sensazione è, invece, un'altra. Toccando questo argomento essenzialmente il rapporto tra politica e magistratura, come molti degli intervenuti hanno affermato, e non avendosi la determinazione di affrontare il nodo, che risolverebbe molte di queste questioni, rappresentato dall'articolo 68 della Costituzione - ci sono due schieramenti: chi condivide l'articolo vigente e chi vorrebbe ripristinarlo nel testo originale - quella norma, ove fosse inserita, sarebbe certamente la strada più diretta per risolvere un certo tipo di rapporti tra politica e magistratura. Non inserendo quella norma - io dichiaro la mia contrarietà al reinserimento per le ragioni storiche che sono state ricordate - si segue un percorso tortuoso per arrivare sostanzialmente a un risultato analogo, con il pericolo di mettere in discussione anche altri princìpi. L'articolo 68 della Costituzione esisteva prima e ci potrebbe astrattamente essere di nuovo.
Volevo soltanto osservare che la mia sensazione è che alcuni istituti che vengono inseriti e di cui avete parlato diffusamente rappresentino strumenti indiretti, che hanno, però, conseguenze ordinamentali enormi per arrivare a questo traguardo.
Dichiarandomi contrario a questo strumento, volevo sapere se la vostra impressione è in grado di confermare la mia.

RITA BERNARDINI. In questa sede, così come in altre, sempre in audizione, abbiamo ascoltato i nostri interlocutori difendere a spada tratta, anche per questa parte della Costituzione, la nostra carta fondamentale.
Noi siamo perfettamente d'accordo, ma ci chiediamo da Radicali, perché siamo la componente radicale all'interno del Gruppo del PD, quanto questa carta costituzionale sia stata violata e tradita nel corso di questo sessantennio. Mi auguro che alcuni di voi conoscano un po' la nostra analisi.


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Rispetto a questo disegno di legge costituzionale noi riteniamo che su alcuni dei temi che sono trattati in questa sede occorrerebbe effettivamente intervenire e noi l'abbiamo fatto, da radicali, privilegiando nel corso della nostra storia la strada referendaria.
Sappiamo che la Corte costituzionale non ha consentito che alcuni referendum arrivassero al voto mentre altri sì - basti pensare alla responsabilità civile del magistrato, ma anche alla separazione delle carriere e agli incarichi extragiudiziari - e, quindi, evidentemente si può intervenire per via ordinaria.
Secondo me, è innegabile che esista un problema giustizia. Se si afferma che va tutto bene nell'ordinamento e che ce lo dobbiamo tenere così, non so se in questo modo effettivamente si garantisca l'autonomia e l'indipendenza della magistratura.
È innegabile che esista un problema politico, di politicizzazione della magistratura in questi anni e non so quanto se ne siano avvantaggiati i cittadini con i milioni di processi arretrati e le prescrizioni che ogni anno si verificano; vediamo che giustizia di classe si fa con le prescrizioni. Ricordo sempre la situazione delle carceri perché credo che sia un problema di civiltà che deve far vergognare letteralmente il nostro Paese.
Domando se i professori che oggi abbiamo audito non ritengano che su alcuni di questi temi, in particolare quelli che ho citato, ma anche sull'obbligatorietà dell'azione penale, si possa intervenire, perché adesso il tema è all'arbitrio delle procure o anche del singolo pubblico ministero. Mi chiedo se su questo punto non si ritenga, come noi avevamo proposto con le nostre proposte di legge, di dover intervenire.

LUCA RODOLFO PAOLINI. La domanda è rivolta in prima battuta al professor Flick, ma anche agli altri insigni giuristi. Parto dal problema dell'articolo 9 che interviene sull'inamovibilità. Osservo che, e in merito chiedo il vostro parere, se le norme


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sull'inamovibilità poste a garanzia del giudice naturale precostituito per legge e, quindi, in definitiva dell'imputato o del convenuto sono nate in momenti in cui si andava non dico a dorso di mulo, ma si girava con la Balilla. Oggi la storia ci insegna che la più piccola procura o il più sconosciuto PM di provincia con le nuove tecnologie può avocarsi di fatto la competenza non solo nazionale, ma addirittura internazionale.
Ritenete opportuno intervenire nel senso della proposta, in casi di eccezionali esigenze indicate per legge a garanzia anche del diritto dell'imputato a essere giudicato dal suo giudice naturale e non da quello che una procura si avoca da sé? Ritenete opportuno un intervento anche in questo settore oppure lo ritenete inutile?

DONATELLA FERRANTI. Volevo ringraziare tutti gli intervenuti perché abbiamo potuto avere questo confronto, anzi questo approfondimento di elevatissima caratura.
Da una parte non avrei quasi nessuna domanda, perché è stato tutto molto esauriente, ma dall'altra mi farebbe piacere fermarmi ad approfondire tanti aspetti. Cercherò un punto di equilibrio.
Io ritengo che questo progetto di riforma, in realtà, strumentalizzi alcune necessità di efficienza ed efficacia della giustizia, strumentalizzi alcuni princìpi e sentimenti comuni di malagiustizia per arrivare a regolare i rapporti tra politica e giurisdizione in maniera tale da comprimere l'autonomia e l'indipendenza della magistratura. Questo è il mio giudizio molto sintetico.
Tanti aspetti sono stati messi in evidenza da voi oggi, ma credo anche da tutti gli intervenuti fino adesso. Andando più sullo specifico vorrei porre una domanda, perché oggi anche nella domanda che ha posto l'onorevole Contento mi è parso di capire che alla fine, quando si critica la delega in bianco


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su alcuni momenti fondamentali, si fa il processo alle intenzioni.
Io non credo che sia così e su questo volevo avere conferme. La conferma principale credo che possa derivare da questo punto. Se si vuole arrivare alla separazione delle carriere - pongo una domanda perché mi pare di aver letto una sentenza della Corte costituzionale non recente - mi pare che anche con la nostra Costituzione vigente la si possa realizzare. Non sarebbe necessario smontarne l'architettura.
Passo al secondo punto. Mi ha molto colpito e confortato il riferimento al fatto di aver eliminato in maniera abbastanza evidente e non secondaria il riferimento all'autorità giudiziaria e alla magistratura come ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere, e quindi l'intera appartenenza di pubblico ministero e giudice alla magistratura. Tutti questi termini sono stati riempiti ulteriormente di contenuto da alcune pronunce della Corte costituzionale. Mi ha colpito perché si sostiene che, in realtà, quel mancato riferimento all'autorità giudiziaria può far venire meno il riferimento immediato della lotta al crimine.
Mi è parso di aver sentito l'onorevole Contento - mi scuserà se non ho compreso bene - affermare che quando eliminiamo «direttamente» in realtà diamo questi poteri diretti al giudice, addirittura a garanzia. Francamente non riesco a comprendere, essendomi occupata, nella mia attività precedente, di indagini, un aspetto: il giudice, nell'ambito del nuovo processo penale, dispone della polizia giudiziaria e si toglie, invece, al pubblico ministero, nell'architrave del processo penale, la possibilità di disporre «direttamente» della stessa. Vorrei capire come questo possa essere compatibile con l'esercizio della funzione del pubblico ministero nel processo di parti, in base all'articolo 111 della Costituzione.


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Mi sembra che ci sia - al riguardo vorrei una conferma o meno - una contraddittorietà anche con riferimento a come è impostato il processo penale accusatorio approvato nel 1989 e alle successive modificazioni. Non abbiamo più il giudice istruttore; noi abbiamo un pubblico ministero, che quindi deve poter avere un contatto e una disponibilità immediata, diretta delle indagini, senza togliere autonomia alla polizia giudiziaria. Infatti è intervenuta al riguardo la modifica del 2001.
Un altro aspetto importante, a mio avviso, riguarda l'attuazione dell'articolo 111 della Costituzione. Vorrei capire se riteniate - come è sostanzialmente l'opinione del nostro gruppo - che l'attuazione di quell'articolo e quindi anche del ruolo del giudice terzo potrebbe essere realizzata attraverso riforme processuali che garantiscano maggiormente il ruolo del giudice terzo e quindi della parità delle parti, anziché scardinare completamente i princìpi fondamentali dell'obbligatorietà dell'azione penale e dell'autonomia e indipendenza del giudice e del pubblico ministero.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA I COMMISSIONE DONATO BRUNO

PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica. Se, poi, dovessero ritenere che le domande meritano un ulteriore approfondimento, possono trasmettere alla presidenza una nota scritta.

GIORGIO MARINUCCI, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. Vorrei tranquillizzare l'onorevole Contento: non do più voti, perché non faccio più esami, essendo in pensione. Scrivo, pubblico libri, manuali, articoli, ma non do più voti.


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Io ho dato un voto alla relazione. Lei non è l'autore della relazione...

MANLIO CONTENTO. No.

GIORGIO MARINUCCI, Professore ordinario di diritto penale presso l'Università degli studi di Milano. Nel silenzio della relazione su alcuni punti cruciali, quelli che ho richiamato, mi sono limitato a verificare - e su questo punto forse sarebbe opportuno riflettere, senza dare voti - se le contraddizioni, le lacune e quant'altro esistano oppure no. E non avendo altro interprete di questi vuoti, l'unico punto di riferimento era ed è la relazione, quindi quel che dice e quel che omette di dire.
Vorrei anche dire che non si tratta di un processo alle intenzioni, ma della valutazione delle intenzioni dichiarate nella relazione. Da questo punto di vista, si può ritenere che siano intenzioni accettabili o meno; i parametri costituzionali sono quelli che sono, indipendenza della magistratura, indipendenza del pubblico ministero dal potere esecutivo e dalla maggioranza parlamentare. Mi pare che questo sia il tema sul quale c'è stato un certo consenso, anche in passato. Non me ne compiaccio, lo constato, poiché è un fatto.
L'onorevole Contento ripropone un tema che era stato sollevato da qualche rappresentante dell'avvocatura. Parlo della costituzionalizzazione del ruolo dell'avvocato. Non intendo assolutamente affrontarlo. Piuttosto quello che mi interessa è il punto sollevato, mi pare, dal presidente Flick e, al quale lei, onorevole Contento, mi sembra abbia meno obiezioni in tema di separazione delle carriere e dei corollari che ne derivano. In sé la separazione delle carriere non significa nulla, sono i corollari ad avere peso: la divisione del Consiglio superiore e, la sottoposizione al potere esecutivo, alla maggioranza parlamentare, con una radicale perdita della sua


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indipendenza. In sé, appunto, la separazione delle carriere è un nulla; la separazione delle funzioni è scritta nella Costituzione, senza che ci sia possibilità di dubbio.
Il problema è il seguente: è più garantito il cittadino, in base alla prima parte della Costituzione, da un sistema nel quale il pubblico ministero non controlla l'operato della polizia giudiziaria? Questo è il punto chiave.
Si è parlato di costituzionalizzazione del ruolo dell'avvocatura. Un rappresentante di uno degli organismi dell'avvocatura, l'avvocato Mascherin, ha affermato in audizione che chi esercita il mestiere di avvocato si sente più garantito dalla presenza di un'autorità giudiziaria, in particolare il pubblico ministero, che rimanga a sorvegliare la legalità delle indagini e quindi la tutela dei diritti individuali. Mi pare che questo raccordo tra seconda parte e prima parte sul profilo dei diritti individuali sia messo in evidenza proprio da chi parlava a nome dell'esercizio dell'attività professionale.

FULCO LANCHESTER, Professore ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma. Ho ascoltato con estremo interesse tutti gli interventi di coloro che hanno svolto le relazioni dopo di me e le domande o gli interventi degli onorevoli deputati. Devo dire che il punto essenziale è in sostanza come si supera la crisi di regime che c'è stata tra il 1992 e 1993 senza «rompere definitivamente» l'ordinamento costituzionale e soprattutto la Costituzione repubblicana di cui tutti hanno fatto un affettuoso peana, ma che però viene maltrattata quotidianamente.
Il problema è questo: abbiamo di fronte a noi una Costituzione che, in parte, attraverso l'articolo 10 è divenuta flessibile e non abbiamo preso questo fatto sufficientemente sul serio con tutte le innovazioni introdotte attraverso l'Unione europea. Tutti gli altri ordinamenti, invece, hanno provveduto


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ad adeguarla. D'altra parte, abbiamo una Costituzione che è stata compressa da fenomeni di torsione elastica, che è divenuta in alcuni casi una torsione plastica e in alcuni casi, al calor bianco, siamo al punto di rottura.
L'onorevole Zaccaria ha offerto una chiave interpretativa, cioè l'articolo 68, il calor bianco è questo. Il ceto politico negli anni Settanta si è ritratto, la magistratura ha cambiato sociologicamente il suo aspetto, democratizzandosi ma anche frammentandosi e aderendo al sistema politico e corporativizzandosi. Tutto ciò ha comportato nella crisi di transizione degli anni Settanta e Ottanta e nella crisi di regime una politicizzazione obiettiva della magistratura.
A questo punto il tentativo da una parte e dall'altra dello schieramento politico è di farla rientrare nell'alveo, però alcuni interventi, e il presente disegno di legge è uno di questi, rischiano di provocare fenomeni di destabilizzazione di tutta la struttura armonica della Costituzione.
I relatori che ho ascoltato hanno ribadito l'elemento essenziale, cioè che la prima parte della Costituzione e la seconda parte sono connesse. Il problema non è che non si possa cambiare la Costituzione, ma che non si possono inserire zeppe eccessivamente incisive tali da destrutturare la stabilità dell'edificio. In realtà in alcuni casi ciò sta avvenendo.
Può essere che il ritorno all'articolo 68 e alla saggezza del costituente possa essere una soluzione, se ristabilisse «la pace nel regno», per esprimersi con il diritto anglo-americano, anzi con il vecchio diritto di Common Law.
Ho la leggera impressione che la natura delle forze - è un discorso non giuridico - che hanno sostituito i padri costituenti della prima fase della storia della Costituzione repubblicana


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sia meno adesiva a quei princìpi, a quei valori e a quelle strutture organizzative che sono state l'asse della prima fase della Repubblica. È questo il grande problema.
Se non ci sarà una soluzione, in queste Aule o nel Paese, che preceda l'approvazione di testi normativi, io penso che i nostri architetti introdurranno interventi che non saranno adeguati alla struttura armonica della Costituzione, ma che anzi peggioreranno la situazione attuale.
Tutta la vicenda delle innovazioni costituzionali dagli anni Ottanta in poi non è altro che il ribadire la sfiducia reciproca fra i contendenti. Ciò è particolarmente vero dopo il 1993-1994. Un ceto politico che doveva dimostrare l'omogeneizzazione del sistema è divenuto molto più centrifugo e diviso di quanto non sia divenuta la società civile italiana. Questo è il problema principale su cui riflettere per qualsiasi altro tipo di innovazione istituzionale.
Per quanto riguarda gli interventi, sono d'accordo che se si volesse, si potrebbero benissimo attuare con legislazione ordinaria. In realtà, sono interventi di tipo monitorio. Hanno uno scopo di questo tipo e in merito non sono molto d'accordo, perché le istituzioni e, in particolare, il testo costituzionale devono essere prese sul serio e con grande rispetto.

FRANCO BILE, Presidente emerito della Corte costituzionale. La maggior parte degli interventi degli onorevoli parlamentari ha ruotato intorno a profili penalistici, in meriti ai quali lascerei la parola all'amico Giovanni Maria Flick, che è molto più legittimato di me a rispondere.
Vorrei però svolgere una considerazione in termini piuttosto generali. L'onorevole Bernardini ha ricordato che la Costituzione è stata già molte volte oggetto di operazioni di disapplicazione. Per alcuni aspetti non si può negare che


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esistano fenomeni di non corretta traduzione del dettato costituzionale nella vita quotidiana delle istituzioni.
Forse perché via via che invecchio mi rendo sempre più conto di quanto il mondo contemporaneo sia complesso, ma forse il mondo è stato sempre complesso, quando bisogna affrontare una situazione complessa, ho il sospetto che le soluzioni semplici non esistano. Una situazione complessa si fronteggia studiando, ragionando, riflettendo, leggendo, confrontandosi e non trascurando le esigenze della pazienza del tempo. Non esistono risposte facili e immediate per risolvere situazioni complesse.
Per esempio, di fronte al fatto che l'obbligatorietà dell'azione penale nella pratica può aver portato a discrezionalità in concreto, per come si svolgono le attività negli uffici del pubblico ministero, ciò non si risolve automaticamente portando il pubblico ministero fuori dalla categoria dell'autorità giudiziaria e ponendolo di fatto sotto l'ala protettrice del potere esecutivo.
Probabilmente c'è da studiare di più. Per alcuni fenomeni di personalizzazione dell'attività della procura è giusto che si parli di ufficio, se si intende che alcune personalizzazioni sono state eccessive, ma mi chiedo se sia un aspetto che critichiamo solo nelle procure della Repubblica. Non ci convinciamo che il mondo intorno a noi, la società nella quale viviamo sembra aver perso di vista il bene comune e nella gerarchia dei valori pone prima l'interesse individuale, fosse pure quello di apparire e di acquisire visibilità e meriti di fronte all'opinione pubblica?
Non ho rimedi da proporre, anche perché, se li avessi avuti, forse avrei esercitato un altro mestiere, però ho il sospetto che il problema sia, se mi passate l'aggettivo, culturale. Pensiamo a quali difficoltà incontra oggi la scuola. Se dalle classi


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elementari fino all'università si riuscisse a trasmettere l'esigenza di uniformare i propri comportamenti all'interesse comune, al bene comune, probabilmente tra un po' di tempo dai concorsi in magistratura, unici o separati che possano essere, verrebbero fuori persone capaci di evitare inconvenienti che oggi - ahimè - si verificano.
Capisco che ho svolto un discorso che forse in quest'aula non vi aspettavate da me, ma credo che sia una dimensione dell'esistenza da cui non possiamo prescindere del tutto.
Aggiungo soltanto una questione tecnica. L'articolo 109 della Costituzione nel testo vigente prevede che «l'autorità giudiziaria dispone direttamente della Polizia giudiziaria». L'autorità giudiziaria nel testo vigente comprende sia il giudice sia il pubblico ministero.
In un contesto in cui per autorità giudiziaria si intendono sia giudici giudicanti, sia magistrati requirenti si usa l'avverbio «direttamente». Se c'era prima per entrambi, il fatto che nel nuovo testo ci sono entrambi, perché si parla di giudice e di pubblico ministero, e non c'è più il «direttamente» forse pone un problema.

RICCARDO CHIEPPA, Presidente emerito della Corte costituzionale. In relazione alla costituzionalizzazione dell'avvocatura richiamo le affermazioni di Calamandrei: magistrati e avvocati sono due soggetti avanti allo specchio, ciascuno ha la dignità in quanto l'altro è degno. L'avvocatura mantiene la sua dignità solo se ha di fronte un magistrato autonomo e indipendente. Ho sempre sostenuto, ormai da anni, che è opportuno inserire nella Costituzione la posizione costituzionale dell'avvocatura.
Questo serve anche a garantire maggiormente l'autonomia e l'indipendenza del magistrato e per magistrato intendo anche il pubblico ministero perché, se vogliamo elevare l'avvocatura,


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non si può diminuire la posizione del pubblico ministero. Queste sono le due parti, se si diminuiscono i poteri all'avvocatura - alcuni nell'avvocatura lo stanno avvertendo - si diminuiranno i poteri istruttori di indagine; se si diminuiscono quelli del pubblico ministero, diminuiranno i poteri dell'avvocatura con ogni qualsiasi diminuzione, compresa quella di disporre direttamente della Polizia giudiziaria.
Io ho esercitato le funzioni penali esclusivamente nei quattro anni di pretura, in Sardegna soprattutto: certo, non dobbiamo arrivare alla distorsione attuale che il pubblico ministero compie le indagini. Può compierle solo in casi di carattere eccezionale, quando vi sono particolari esigenze, però deve essere soprattutto l'organo di controllo. Se le svolge direttamente, il controllo arriva troppo tardi - non c'è più il giudice istruttore di altri tempi - anzi qualche volta il controllo non arriverà mai perché nel dibattimento, la posizione del giudice alcune volte, con tutti i sistemi alternativi, si sta affievolendo. Si dà attualmente una concentrazione dei poteri nel rito alternativo.
Io ho adottato un solo criterio dal punto di vista della selezione. Esistono, infatti, due scuole, quella dei presidenti pigri e quella dei presidenti attivi. I presidenti pigri seguono esclusivamente l'ordine del ruolo, l'ordine delle domande di fissazione e l'ordine delle iscrizioni perché non vogliono lavorare, lasciando tutto alle segreterie. Ci sono, poi, i presidenti attivi. Io avevo, ad esempio, un criterio statistico, se c'era una frequenza di reati o di ricorsi superiore alla media tradizionale mi scattava in via informatica l'allarme e significava che quei procedimenti, furto dei mezzi di trasporto, posizione degli stranieri o quella dei nomadi, erano un


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problema che destava allarme sociale. Io fissavo, dunque, non seguendo semmai una sola domanda di prelievo, ma prendevo tutti i ricorsi e li portavo in udienza.
È questo uno dei problemi: per risolvere i problemi della giustizia la scelta dei capi degli uffici che va fatta con dei criteri di carattere razionale, che non riguardano la sapienza giuridica, ma la capacità di utilizzare il computer, i mezzi moderni.
Ancora, è stato fatto un accenno all'articolo 68 come provocazione. Io richiamerei il pensiero di Maranini, il quale aveva sostenuto che se avessimo dato un sistema a tempi rigidi di concessione delle autorizzazioni, passato un certo numero di giorni, l'autorizzazione si sarebbe avuta per concessa. Questo è un sistema sul quale, io ricordo, ci fu anche un convegno all'Eliseo negli anni Sessanta. Ci ho lavorato personalmente perché la relazione era di mio padre e io avevo effettuato una parte della raccolta degli elementi statistici relativi alla Camera.
Quanto all'amovibilità e all'assegnazione, vale la pena fare trasferimenti di ufficio contro la volontà del soggetto? Ai miei tempi esisteva un altro mezzo, quello dell'applicazione. Ricordo che quando, finito il servizio militare, sono ritornato in magistratura e ho trovato la mia sede occupata, siccome il collega che l'aveva occupata aveva famiglia e io ero scapolo, ho chiesto al ministero qual era la sede della Sardegna che da più tempo era senza pretore. L'ho scelta e ci sono andato col patto che, appena finito l'arretrato, sarei potuto ritornare a una sede di mia preferenza. Dopo meno di due anni e mezzo da 800 procedimenti penali e un migliaio di civili ne ho lasciati 18 penali e 40 civili e ho chiesto di rientrare.


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Questi sono i meccanismi premiali, non tanto premiali-economici, che funzionano poco per una serie di ragioni e credo che per la magistratura rappresenterebbero direi un mezzo controproducente.
Esiste un dato di fatto, esigenze che vanno affrontate con rapidità. Non può avvenire che uffici di pubblico ministero rimangano scoperti per 12 mesi perché molte volte ministro e Consiglio superiore non si mettono d'accordo. Quello che è marcio è il sistema della copertura dei posti in magistratura. Nel vecchio ordinamento giudiziario con i suoi difetti ciascun magistrato poteva proporre la domanda di una sede; ora, invece, bisogna aspettare il bando e le statistiche ci parlano di bandi su misura, si aspetta e si ritarda per far passare i due o tre anni necessari.
Questi sono i veri problemi di cui dovremmo occuparci a proposito del Consiglio superiore o altro, con delle norme più chiare evitare i conflitti.

GIOVANNI MARIA FLICK, Presidente emerito della Corte Costituzionale. Cercherò di essere molto breve. Ringrazio per le domande che sono state formulate.
Se posso dare una piccolissima esperienza personale, molto limitata, in nove anni di servizio alla Corte costituzionale ho imparato che la Costituzione si può riassumere in due valori fondamentali che esprimono tutti gli altri, la pari dignità, valore di merito, di contenuto, e la laicità, valore di metodo, dialogo, confronto.
Credo che una riforma della giustizia, soprattutto una riforma costituzionale, non possa prescindere dal rispetto dall'attuazione concreta di questi due valori, pari dignità come contenuto, dialogo come metodo, ed è quello che mi pare si sia verificato oggi. Lo dico perché sono profondamente convinto di questo.


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Rispondo, e male, prima alle giuste obiezioni dell'onorevole Contento. Concordo con lei, l'articolo 25 riguarda solo ed esclusivamente la posizione del giudice naturale, non certo quella del pubblico ministero e concordo con lei anche che l'indipendenza di quest'ultimo è diversa da quella del giudice. Basterebbe pensare al fatto che la dottrina si è lacerata e la stessa Corte costituzionale ha avuto abbastanza ambiguità nel domandarsi se l'indipendenza del pubblico ministero riguardasse l'indipendenza del singolo oppure quella dell'ufficio.
Personalmente, ritengo necessario fare riferimento non al pubblico ministero come singolo, ma all'ufficio del pubblico ministero. Questo è un inciso che apprezzo molto nel discorso della riforma per evitare situazioni deprecabilissime di eccesso di personalizzazione e di frammentazione.
Detto questo, però, sono altrettanto convinto che proprio la posizione del pubblico ministero in quanto parte pubblica, e quindi con poteri e doveri di controllo non indifferenti, richieda la garanzia della sua indipendenza.
Vi prego di credermi quando affermo che la mia preoccupazione non è nominalistica. Rilevo che, mentre per il giudice l'indipendenza è affermata a livello costituzionale, ora per il pubblico ministero, come ufficio, l'indipendenza e i riflessi a cascata sulla posizione del singolo pubblico ministero non è più affermata a livello costituzionale, ma rinviata alla legge ordinaria.
Mi piacerebbe, proprio per la garanzia del cittadino, anzi dell'utente, perché non ha più nemmeno senso parlare ormai solo di cittadino, che l'indipendenza del pubblico ministero, qualunque sia poi la sua disciplina in concreto, sia affermata allo stesso livello di significatività, cioè a livello costituzionale. Non volevo porre un discorso di identità tra le due forme di indipendenza.


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Questo punto mi porta al secondo profilo, il rapporto con l'articolo 111. A differenza di quanto espresso dal presidente Chieppa, io mi sono iscritto di nuovo all'albo degli avvocati per una questione di ritorno alla mia coerenza, essendo stato magistrato e poi avvocato.
Sarei preoccupato di un inserimento della funzione dell'avvocato in Costituzione. L'avvocato è la difesa e c'è già nell'articolo 24 della Costituzione tutto ciò che occorre per garantire il pieno espletamento del diritto di difesa, come difesa tecnica. Un inserimento della posizione dell'avvocato simmetrica a quella del pubblico ministero mi sembrerebbe voler accentuare una dimensione funzionale e pubblicistica dell'avvocato, che io non credo che l'avvocato debba assolutamente avere. Invoco la pari dignità, questo sì, ma è già nell'articolo 3 della Costituzione anche a questo proposito. Personalmente avrei perplessità all'inserimento, che non è soltanto in una delle proposte di legge, ma che è stato sviluppato anche in sede di audizione da parte dell'avvocatura, della richiesta di avere un riconoscimento costituzionale. Non vorrei che diventasse una sorta di cappa funzionale.
In merito al rapporto con l'articolo 111 della Costituzione, non c'è dubbio che con la disciplina dell'articolo 111, anche se la Corte ha affermato che esso non innovava, ma si limitava ad attualizzare concetti già presenti, la posizione del pubblico ministero come parte richieda alcune ricalibrature, purché, però, in quanto parte pubblica e con gli oneri e gli obblighi citati, gli sia assicurata una rigorosa indipendenza. In questo senso mi sono permesso di esprimere alcune perplessità.
Concordo sul fatto che debba essere l'ufficio e non il singolo. C'è stata ambiguità da parte della dottrina e da parte della stessa legge attuale, che adesso ha un po' esasperato la dimensione non gerarchica dell'ufficio del pubblico ministero.


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È un problema che può e deve essere risolto per legge ordinaria se a livello costituzionale c'è l'affermazione della garanzia di indipendenza.
Passo al problema dell'immaginare troppo: cogitationis poenam nemo patitur. A me lasciano un po' perplesso i rinvii troppo generici, perché oggi possono essere riempiti in un modo rispettabilissimo, ma domani, con un cambio di maggioranza, possono essere riempiti in modo diverso. Credo che il significato di una Costituzione rigida sia proprio quello di garantire alcuni paletti invalicabili anche da parte del legislatore ordinario, nel momento in cui si accinge a riempire in termini di legge ordinaria e ad attuare la riserva di legge.
Proprio in questo senso l'eliminazione dell'espressione «direttamente» mi lascia perplesso, perché un conto è dire «direttamente», cioè mantenere una dipendenza funzionale, non gerarchica né amministrativa, tra polizia giudiziaria e giudice o pubblico ministero, un altro è, invece, usare una locuzione - perdonatemi l'espressione - neutra, che può essere interpretata sia con l'affermare che non è cambiato nulla, ma anche con l'affermare che il legislatore ha tutti gli spazi che ritiene di dover attuare per dare, per esempio, due persone alla sezione di polizia giudiziaria di Roma e, quindi, paralizzare di fatto il sistema. Capisco benissimo che si innescherebbero alcuni meccanismi, anche se probabilmente non più di conflitto, perché il pubblico ministero non potrebbe più sollevare il conflitto.
Passo al problema dell'azione penale. Mi lascia un po' intimorito l'idea che il ministro possa determinare o individuare le linee della politica giudiziaria. Capisco che è difficile riuscire a conciliare tra di loro il problema dell'organizzazione e quel dualismo tra Consiglio superiore e ministro che, come la Corte costituzionale ha affermato, ritorno qui alla laicità e


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alla dignità, può risolversi solo in termini di leale collaborazione e la leale collaborazione è la traduzione a livello istituzionale di ciò che è la laicità, cioè il rispetto reciproco dell'uno verso l'altro.
Mi rendo conto che è difficile, ma non riesco a concepire l'idea di linee di politica giudiziaria stabilite dal ministro d'intesa col Parlamento agganciando la costituzionalizzazione, giusta, del potere referente del ministro e i criteri di legge di cui parla l'articolo.
Mi si chiedeva quali sono i rimedi. Come ho anticipato, e non voglio ripetermi, credo che ci sia un problema di metodo, cioè di come procedimentare questo discorso. Non si può accettare che Torino proceda in un modo, Milano in un altro, Casalpusterlengo in un terzo, Napoli non proceda e il problema sia risolto. Occorre procedimentare e forse il testo costituzionale dovrebbe porre l'indice di base di tale procedimentazione.
Nel merito ho voluto citare ciò che a suo tempo venne utilizzato per l'istituzione del giudice unico, cioè indicare in Costituzione che i parametri devono o possono essere, per esempio quelli della gravità, del tempo, dell'interesse della vittima, profili che si collegano anche al tema della bagatellarità di cui parlava il professor Marinucci.
Chiedo scusa se non ho ascoltato la relazione del collega e, quindi, non sono in grado di parlare del tema dell'articolo 68. Condivido il fatto che esiste un problema di giustizia enorme, però, come ho affermato prima, credo di essere stato chiamato non per esprimere i miei convincimenti personali e per definire se sia più giusta la separazione delle carriere o delle funzioni.
Quando svolgevo un'altra funzione l'ho detto e l'ho fatto. Adesso sono qui per esprimere la mia valutazione sui paletti


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costituzionali, qualunque sia la scelta politica. Io poi ho una mia idea precisa di quella scelta, ma sarei presuntuoso a volervela proporre.
Lo stesso vale sul discorso di che cosa fare per la giustizia. C'è tantissimo da fare per legge ordinaria, rispondendo anche in parte all'onorevole Zaccaria.
Non so quanto sia necessario, ma l'ho affermato in esordio della mia dichiarazione, che questo disegno di legge affronti il tema dell'efficienza della giustizia. So che c'è molto da fare e che si può e si deve fare molto per legge ordinaria. La mia paura è proprio che un concentrarsi troppo sui problemi costituzionali possa ritardare non l'alternativa, ma la contestualità di un discorso ordinario.
Infine, aggiungo ancora due considerazioni sul tema dell'inamovibilità. Onorevole Paolini, credo che lei abbia toccato uno dei temi più drammatici che noi abbiamo davanti, la riforma della geografia giudiziaria. Sono passati 150 anni.
Se posso esprimere un riferimento personale, mi ha sempre colpito l'identità tra la carta geografica degli orari ferroviari e la dislocazione delle sedi giudiziarie. Erano i tempi dell'Unità d'Italia, in cui ogni paese ambiva ad avere una linea ferroviaria e un ufficio giudiziario e li otteneva. In Piemonte ci sono quindici o sedici tribunali. Credo che il primo problema sia quello, ma non è un problema che interferisce sul tema dell'inamovibilità.
Il problema dell'inamovibilità, a garanzia, da un lato, del cittadino e, dall'altro, dell'indipendenza, è quello di evitare che un singolo magistrato che dà fastidio venga trasferito, cioè evitare un assoggettamento del magistrato al trasferimento, vuoi del CSM, vuoi del Ministro, senza tutte le garanzie che devono accompagnare il presidio dell'inamovibilità, che è sempre esistito e che vedo che nelle altre proposte di legge non


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è stato toccato. È stato proposto di farlo dal disegno di legge governativo e da una delle proposte di legge, ma mi pare che le altre non l'abbiano toccato.
Credo che non si possa indebolire l'importanza del principio dell'inamovibilità attraverso un riferimento alle esigenze di servizio, che vanno affrontate, invece, col sistema tabellare e con una riorganizzazione. Sono convinto - mi spiace parlarne, perché non vorrei entrare nel merito - che una riorganizzazione del sistema tabellare a livello di distretto di Corte d'appello risolverebbe molti problemi.
L'ultima considerazione riguarda il processo alle intenzioni. Non c'è un processo alle intenzioni, perché a me interessa solo ciò che ho cercato di riassumere. Sono convinto anch'io che la Costituzione consenta già adesso, e la Corte lo ha rilevato, la separazione delle carriere.
Il modo con cui essa viene attuata comporta modifiche costituzionali su cui non voglio entrare, perché sarebbero valutazioni di merito che non ho titolo a esporre. Le preoccupazioni che ho di fronte a questo disegno di legge sul piano costituzionale sono solo quelle che vi ho esposto. Altre sono riserve di carattere politico e, se avremo occasione di incontrarci in altra sede, sarò ben lieto di poterle esporre.
Aggiungo e concludo che il tema dell'attuazione dell'articolo 111 della Costituzione attraverso riforme processuali, anziché attraverso modifiche costituzionali, ritorna alla domanda iniziale. Ci stiamo ponendo il problema di rendere più efficiente la giustizia, e quando parlo di efficienza intendo riferirmi anche alle indicazioni dell'articolo 111, oppure stiamo lavorando per introdurre nuove forme di equilibrio nel rapporto tra poteri? Mi pare che le due questioni siano diverse.
Grazie, signori presidenti.


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PRESIDENTE. Grazie a voi per la cortesia che ci avete usato e anche per quanto avete illustrato. Se qualcuno intende eventualmente integrare la relazione, ogni integrazione è a noi gradita. La valutazione è lasciata alla vostra discrezione, potendo, invece, ritenere di essere stati esaustivi (non ho letto le relazioni, ma i colleghi sicuramente ne faranno tesoro).
Vi ringrazio molto e auguro a tutti un buon lavoro.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 17,50.

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