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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(I e II)
10.
Lunedì 13 giugno 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DEL DISEGNO DI LEGGE C. 4275 COST. GOVERNO, RECANTE «RIFORMA DEL TITOLO IV DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE» E DELLE ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE C. 199 COST. CIRIELLI, C. 250 COST. BERNARDINI, C. 1039 COST. VILLECCO CALIPARI, C. 1407 COST. NUCARA, C. 1745 COST. PECORELLA, C. 2053 COST. CALDERISI, C. 2088 COST. MANTINI, C. 2161 COST. VITALI, C. 3122 COST. SANTELLI, C. 3278 COST. VERSACE E C. 3829 COST. CONTENTO

Audizione del professor Gustavo Pansini, ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi Tor Vergata di Roma:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 3 5 7 9
Ferranti Donatella (PD) ... 6 7
Pansini Gustavo, Professore ordinario di procedura penale presso Università degli studi Tor Vergata di Roma ... 3 7
Pecorella Gaetano (PdL) ... 5

Audizione del dottor Ernesto Lupo, Primo presidente della Corte di cassazione:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 9 16 18 22
Bressa Gianclaudio (PD) ... 16
Ciriello Pasquale (PD) ... 17
Ferranti Donatella (PD) ... 18
Lupo Ernesto, Primo presidente della Corte di cassazione ... 9 18
Pecorella Gaetano (PdL) ... 17
Vittoria Paolo, Presidente aggiunto della Corte di cassazione ... 21
Zaccaria Roberto (PD) ... 16

Audizione del dottor Vitaliano Esposito, Procuratore generale della Corte di cassazione:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 22 31
Esposito Vitaliano, Procuratore generale della Corte di cassazione ... 22

Audizione del professor Roberto Romboli, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Pisa:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 31 36
Bruno Donato, Presidente ... 38
Bressa Gianclaudio (PD) ... 36
Ferranti Donatella (PD) ... 36
Pecorella Gaetano (PdL) ... 36
Romboli Roberto, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Pisa ... 31 37
Zaccaria Roberto (PD) ... 36

Audizione del professor Alessandro Pace, emerito di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, del dottor Antonio Mura, vice presidente del Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE) del Consiglio d'Europa, e del professor Mario Patrono, ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma:

Bruno Donato, Presidente ... 38 45 53
Mura Antonio, Vice presidente del Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE) del Consiglio d'Europa ... 39
Pace Alessandro, Professore emerito di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma ... 45
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONI RIUNITE
I (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) E II (GIUSTIZIA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta antimeridiana di lunedì 13 giugno 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA II COMMISSIONE GIULIA BONGIORNO

La seduta comincia alle 9,35.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del professor Gustavo Pansini, ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi Tor Vergata di Roma.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e sulle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del professor Gustavo Pansini, ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi Tor Vergata di Roma.
Saluto il nostro ospite anche a nome del presidente Bruno e dei commissari. Prego i colleghi, nel rivolgere le domande, di riservare gli interventi alle successive sedute, che stiamo già programmando, nelle quali potremo fare ampi interventi. Avendo oggi, invece, uno spazio di tempo da dedicare ai nostri ospiti, sarebbe più utile porre domande.
Do la parola al professor Pansini per la sua relazione.

GUSTAVO PANSINI, Professore ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi «Tor Vergata» di Roma. Avendo ricevuto una convocazione generica, mi limiterò a qualche osservazione introduttiva, poi potremo fermare l'attenzione su qualche aspetto specifico in relazione alle domande che saranno poste. Dei vari progetti di legge che ho esaminato, comincio da quello indicato come la separazione delle carriere. È ovvia la mia posizione a favore del progetto di legge perché, all'epoca in cui presiedevo l'Unione delle Camere penali - l'onorevole Pecorella lo ricorderà per esserne stato vicepresidente - introducemmo il discorso in ordine alla separazione delle carriere. Era il momento nel quale entrò in vigore il nuovo codice e, nell'ottica di una battaglia a tutto campo per renderlo operativo e funzionale, individuammo nel problema della netta distinzione tra le funzioni della magistratura giudicante e della magistratura requirente il requisito essenziale perché si potesse giungere a un processo di parti e, quindi, raggiungere la pienezza del contraddittorio.
Credo che nel corso di questi ventidue anni ci siano stati una serie di episodi che hanno dato l'indicazione della fondatezza della nostra prospettiva. Mi basterebbe indicare - non tanto per il fatto in sé


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quanto per la naturalezza con la quale si è ritenuto di diffondere un episodio del genere - come un giudice delle indagini preliminari, criticato in un provvedimento del tribunale del riesame per una convalida di fermo e successiva emissione di provvedimento cautelare, ebbe a rilasciare un'intervista affermando che siccome il fascicolo gli era giunto il venerdì pomeriggio ed entro il lunedì mattina avrebbe dovuto depositare il provvedimento, si era «naturalmente» affidato alla ricostruzione del pubblico ministero.
Credo che se questo si accompagna alle iniziative del giudice delle indagini preliminari che sollecitava il pubblico ministero a modificare la sua richiesta per poter emettere il provvedimento cautelare, all'ordinanza (che io ho letto) nella quale si critica la posizione della difesa per una consulenza tecnica esibita a fronte di una perizia del pubblico ministero, vi è un quadro di una evidenza sconcertante di un avvicinamento del pubblico ministero e del giudice che rende il giudice non terzo così come vuole la Costituzione.
Né credo che ci possa essere una riserva derivante dalla insistita necessità di una comune cultura della giurisdizione da parte del pubblico ministero e del giudice. Ho sempre sostenuto, ogniqualvolta ho avuto il dovere di occuparmi di questi problemi, che la comune cultura della giurisdizione è diventata solo la cultura dell'affidamento. Il giudice, di fronte a due tesi prospettate da chi ha la stessa cultura da una parte e da chi dovrebbe avere una cultura diversa dall'altra, si affida naturalmente alla tesi di colui che avrebbe la sua stessa cultura.
Sulla separazione delle carriere credo che si individui necessariamente la conseguenza di questa prospettiva, costituita dalla necessità della costituzione di due Consigli superiori della magistratura.
Mi permetto di segnalare che forse assai più che nei due Consigli superiori il problema sta nella presenza, all'interno dei Consigli giudiziari, di pubblici ministeri e giudici. Mi pare chiaro che, riguardo ad un pubblico ministero che il giorno dopo deve valutare le qualità del giudice che il giorno prima doveva esaminare la sua tesi, possano essere espresse alcune riserve in ordine alla sua terzietà e obiettività
Restano preoccupazioni, per quanto mi concerne, nell'individuazione del Presidente della Repubblica come presidente di entrambi i Consigli superiori. Io credo che, se si vuole caratterizzare la figura del pubblico ministero come diversa da quella del magistrato giudicante, sia assolutamente necessario che il Consiglio superiore della magistratura non veda la presenza del Presidente della Repubblica al vertice come garante di una giurisdizione che la legge, viceversa, nega al pubblico ministero.
Per quanto riguarda il problema dell'obbligatorietà dell'azione penale, è una seconda battaglia nella quale è ovvia la mia opinione favorevole. Da sempre mi sono battuto contro questa finzione. L'obbligatorietà dell'azione penale nel nostro Paese non esiste, perché, nel momento in cui qualsiasi pubblico ministero può decidere a suo piacimento quale procedimento debba andare avanti e quale debba essere ritardato, trincerarsi dietro l'orpello dell'obbligatorietà dell'azione penale mi sembra assolutamente insensato.
Inoltre, nel momento in cui a Torino Zagrebelsky prima e Maddalena poi hanno dato l'indicazione della scelta che deve operare l'ufficio quando si trova nell'obiettiva e assoluta impossibilità di adempiere a tutto il proprio carico di lavoro, mi pare che la necessità di un'individuazione di criteri di scelta sia assolutamente inderogabile.
Mi sembra che tali criteri di scelta non possano che essere rimessi al potere legislativo, il quale ha la possibilità di stabilire la perdita di rilevanza penale di una norma attraverso un'abrogatio criminis. Perché il potere legislativo, che ha la possibilità di stabilire che fino a un dato momento un determinato reato non è punibile attraverso il provvedimento di clemenza, non dovrebbe avere esso stesso il carico di scegliere quali siano per un dato anno i reati ai quali si deve dare la precedenza e quelli cui non la si deve


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dare? Certamente ciò non può essere rimesso al potere esecutivo, mentre mi pare che il potere legislativo sia l'organo più idoneo a operare tale scelta.
Forse alcune riserve possono essere mosse sulla non previsione di una maggioranza qualificata per operare questa scelta, perché proprio questo avvicinamento al potere di concedere amnistia, che è un potere oggi individuato nella Costituzione attraverso la richiesta di una maggioranza qualificata, mi dà indicazione che probabilmente una scelta di una norma che prevede per questa individuazione di criteri una maggioranza qualificata possa essere più opportuna di quella della maggioranza semplice.
Per quanto riguarda la reintroduzione del divieto di appello del pubblico ministero credo che anche qui la mia opinione favorevole sia assolutamente scontata; certamente nessuno avrà avuto la disavventura di dover leggere i miei scritti, ma sin dall'entrata in vigore della legge che vietava l'appello del pubblico ministero mi sono schierato sempre a favore di questa norma, criticando anche la presa di posizione - a mio avviso assolutamente infondata -della Corte costituzionale.
Questa oltretutto contraddiceva una giurisprudenza costante della medesima Corte costituzionale che aveva individuato nel concreto la differenza dei ruoli tra pubblico ministero e imputato, che non giustificava un richiamo all'uguaglianza di fronte alla legge delle due parti del processo penale.
Mi pare che il divieto di appello da parte del pubblico ministero contro le sentenze di assoluzione si debba agganciare non tanto a quella osservazione, che pure ha una sua fondatezza, del principio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio e un dubbio ragionevole resta nel processo nel momento in cui un giudice ha pronunciato una sentenza di assoluzione quanto soprattutto alla necessità di individuare la illegittimità di una sentenza di condanna che venga pronunciata senza che sia possibile poi successivamente un controllo nel merito, ma soltanto il controllo di legittimità.
L'assurdo della possibilità di appello da parte del pubblico ministero sta a mio avviso soprattutto nel fatto che dopo la sentenza di condanna da parte di un giudice di appello, che sostituisce in un processo scritto una sentenza di assoluzione emessa in un processo caratterizzato dalla oralità e quindi dalla pienezza del contraddittorio, la sentenza di condanna possa essere sottoposta soltanto a un controllo di legittimità, non a un controllo di merito.
L'ultima osservazione che credo mi resti da fare riguarda il problema della polizia giudiziaria, sul quale formulo qualche riserva, soprattutto se non si chiarisce bene quale sia il rapporto tra notitia criminis e esercizio dell'azione penale.
Ricordo che in un convegno tenuto a Bologna in occasione del primo anniversario della morte di Franco Bricola,con il collega e amico Franco Coppi avemmo ad avanzare una indicazione secondo cui a nostro avviso il sistema per evitare questa divagazione - mi si perdoni l'espressione - del pubblico ministero nell'esercizio dell'azione penale stava nel restituire una funzione vincolante alla notitia criminis.
Credo che questa sia la strada più esatta. Naturalmente la notitia criminis non può essere però a questo punto legata soltanto a un'iniziativa della polizia giudiziaria alle dipendenze del potere esecutivo, perché a quel punto si ripristinerebbe un esercizio del potere di scelta da parte del potere esecutivo sull'esercizio dell'azione penale che avevamo indicato come illegittimo nella impossibilità di attribuire al potere esecutivo la scelta dei criteri individuativi della non obbligatorietà dell'azione penale.

PRESIDENTE. La ringrazio, professore, sia per la chiarezza sia la scelta di affrontare tutti i temi in maniera approfondita ma sintetica.
Do la parola ai deputati che intendono intervenire, con la preghiera di formulare domande e non interventi.

GAETANO PECORELLA. Come lui stesso ha ricordato, con il professor Pansini


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ovviamente non possiamo che essere d'accordo. Talvolta si parla dell'esigenza di separare le funzioni ma non le carriere. Vorrei chiedere se ritiene che attualmente, nel nostro ordinamento giudiziario e nel nostro sistema processuale, esistano, dopo la scomparsa del pretore, ancora figure in cui si assommano la funzione del pubblico ministero e la funzione del giudice, oppure se questo problema è, allo stato, completamente superato e, dunque, parlare oggi di separazione delle funzioni non ha alcun senso. Non so se la mia domanda è chiara.
Inoltre, una seconda domanda riguarda un punto su cui non si è soffermato il professor Pansini. Ritiene che la composizione paritaria del Consiglio superiore della magistratura, cinquanta per cento di eletti dal Parlamento e cinquanta per cento di eletti dalla magistrature, sia condivisibile o possono esservi soluzioni anche alternative, tipo quella proposta da Violante (un terzo dal Parlamento, un terzo dalle magistrature, un terzo dal Presidente della Repubblica)?
Mi ha colpito la questione dell'amnistia, come se la norma distinguesse tra i reati che vanno perseguiti e i reati che non vanno perseguiti, quindi una forma di amnistia permanente. Ora - su questo vorrei conoscere l'opinione del professor Pansini - quando la norma recita «secondo i criteri stabiliti dalla legge» stabilisce una priorità di reati o stabilisce dei criteri in base ai quali il pubblico ministero deve dare priorità nelle indagini? Ad esempio, un conto è dire che vengono prima i reati di omicidio e poi i reati di truffa, altro è dire che vengono prima i reati che si stanno per prescrivere e poi quelli la cui prescrizione è lontana, oppure prima i reati che hanno colpito di più l'opinione pubblica, l'ordine pubblico e via dicendo. Insomma, il concetto di criteri è diverso da quello della priorità.
Infine, l'ultima domanda è relativa alla polizia giudiziaria. La norma costituzionale vigente ha consentito che avessimo il codice del 1930 con la polizia giudiziaria che aveva un'autonomia di iniziativa e la polizia giudiziaria così come è stata configurata dal codice del 1988 che, viceversa, agisce solo su impulso del pubblico ministero. Togliere l'avverbio «direttamente» impone che la polizia giudiziaria sia sottoposta solo al potere esecutivo o apre la strada alla possibilità che la polizia giudiziaria agisca autonomamente? Un conto è la struttura della polizia giudiziaria, per cui deve dipendere dall'esecutivo, altro è dire che, non dipendendo direttamente, recupera una sua autonomia nell'acquisizione della notizia di reato e anche nelle prime indagini. Come prevede il codice, se ricordo bene, dopo la comunicazione della notizia di reato la polizia giudiziaria può agire solo su delega del pubblico ministero, il che comporta che la polizia giudiziaria, oggi, il più delle volte stia con le mani in mano aspettando di avere indicazioni dal pubblico ministero.

DONATELLA FERRANTI. Ringrazio il professore dell'intervento. Personalmente nutro qualche perplessità su alcune affermazioni che lei, professore, ha fatto in maniera molto tranchant. Ad esempio, lei ha svolto un passaggio con riferimento alla necessità di separare le carriere e, quindi, di superare il discorso della cultura comune della giurisdizione, che era l'argomento sulla cui base si sostanzia il discorso per cui il pubblico ministero nel nostro ordinamento non è l'avvocato dell'accusa, ma è un magistrato che ricerca, anche nelle fasi delle indagini, elementi a favore dell'indagato. Questa cultura della giurisdizione avrebbe come corollario il discorso volto a evitare che ci sia un pubblico ministero alla ricerca di risultati più tipici delle forze di polizia.
In realtà, lei risolve il discorso della separazione delle carriere affermando che i colleghi sono portati, di fronte a due tesi, essendo comune la giurisdizione, a scegliere quella più vicina alla propria cultura.
Le rivolgo un'osservazione con riferimento ai giudici d'appello, che addirittura vorrebbero riformare una sentenza emessa dal collega più diretto, che appartiene alla categoria del giudice. Non le sembra un argomento un po' semplificatore, più proprio di una comunicazione mediatica che


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non di un approfondimento sul ruolo delle parti? Non le sembra che il ruolo del giudice terzo possa essere raggiunto in maniera più adeguata, ferma restando una distinzione delle funzioni netta, sulla quale ci stiamo già avviando dopo l'ordinamento giudiziario approvato nel 2006, attraverso riforme processuali che garantiscano la terzietà del giudice?
Io non credo nella questione della colleganza e della «supinità» del giudice perché è collega, anche perché i colleghi sono in primo luogo quelli dell'appello e della Cassazione, rispetto ai giudici di primo grado.
Inoltre, non ho capito francamente l'aggancio con la presenza nel Consiglio giudiziario dei pubblici ministeri e dei giudici, il che dovrebbe avere ripercussioni sul fatto che ci sono valutazioni di professionalità. Tali valutazioni sono state rivisitate dalla riforma dell'ordinamento giudiziario e hanno ora un percorso ben individuato, con un parere del capo dell'ufficio, quello del Consiglio giudiziario, dove ci sono rappresentanze - sicuramente il Consiglio giudiziario potrà essere migliorato e forse avere funzioni delegate dal Consiglio superiore - e infine quello del Consiglio superiore della magistratura. Non ho capito come lei vedrebbe questo Consiglio giudiziario senza i rappresentanti né dell'una né dell'altra categoria.
Passo a un altro aspetto che mi lascia perplessa, quello riguardante l'obbligatorietà dell'azione penale. Non condivido l'argomento che lei ha utilizzato, ma capisco e apprezzo il fatto che lei abbia voluto dare un segnale in merito ai criteri che si devono stabilire annualmente per l'obbligatorietà dell'azione penale. Questa priorità, come ha affermato il relatore Pecorella, non si capisce bene se sia con riferimento alle categorie fattispecie o, invece, ai criteri di investigazione. Non lo si comprende dal testo, perché è vago.
Lei ha voluto lanciare un segnale proponendo almeno di introdurre una maggioranza qualificata, altrimenti la maggioranza politica del momento sarebbe quella che domina l'esercizio dell'azione penale. Ha anche sostenuto che annualmente una maggioranza qualificata, così come accade per l'amnistia, non impedisce a un Parlamento di indicare di non perseguire determinati reati.
In realtà, francamente questa considerazione mi lascia molto perplessa. Glielo chiedo, professore, con riferimento all'impatto sociale. L'amnistia è un provvedimento ben diverso, che non si fa tutti gli anni: è un provvedimento pesante.

PRESIDENTE. Mi scusi, onorevole Ferranti, oggi in particolare dobbiamo fare domande, perché abbiamo un nutrito programma di audizioni.

DONATELLA FERRANTI. Ho finito, presidente. La domanda è questa: non le sembra che non ci sia assoluta analogia tra la funzione dell'amnistia e la funzione invece che si vorrebbe introdurre attraverso una maggioranza sia pur qualificata che va a incidere sull'obbligatorietà dell'azione penale? Altrimenti sarebbe più chiaro volerla abbandonare più che dire che l'obbligatorietà continua ad esserci però poi la stabilisce anno per anno la legge.
Penso anche al principio del favor rei, a tutto quello che comporta l'accertamento e la funzionalità del sistema. Grazie, professore.

PRESIDENTE. Do la parola al professor Pansini per la replica.

GUSTAVO PANSINI, Professore ordinario di procedura penale presso l'Università degli studi Tor Vergata di Roma. Rispondo a entrambi coloro che mi hanno interpellato in relazione ai vari argomenti. Partiamo dalla separazione delle carriere. L'onorevole Pecorella si domandava se fosse in atto una separazione delle funzioni. Io credo che dopo il superamento di quella figura assolutamente incompatibile non soltanto con un processo accusatorio, ma con un processo appena decente, che era il pretore, la separazione delle funzioni sostanzialmente c'è: non ci sono casi nei quali il pubblico ministero esercita funzioni di giudice o non c'è - e qui forse


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c'è qualche riserva - giudice che eserciti funzioni del pubblico ministero, perché nel momento in cui si sono dilatati i poteri di iniziativa probatoria da parte del giudice probabilmente il giudice si è attribuito poteri che rientrano nella individuazione del diritto alla prova, che è il diritto delle parti e non certo attribuzione del giudice.
Il riferimento al Consiglio giudiziario era un riferimento aggiuntivo, non penetrante. Il problema che secondo me si pone è se vi sia una terzietà del giudice nel momento in cui per esempio, come oggi accade, il giudice debba esaminare una richiesta del pubblico ministero che il giorno dopo deve valutare la carriera del giudice nell'ambito del Consiglio giudiziario. È un problema che si pone e che mi lascia un po' perplesso.
Non mi lascia perplesso il discorso sulle indagini a favore dell'indagato, perché si tratta probabilmente di una norma che è stata scritta male nel Codice e ha determinato una serie di interpretazioni abnormi, che si legavano a quella cultura giuridica che identificava quell'abnorme parte imparziale che avrebbe dovuto essere il pubblico ministero.
Le indagini a favore dell'indagato vanno fatte nell'interesse della dimostrazione della propria tesi da parte del pubblico ministero e non certamente nell'interesse dell'indagato da parte del pubblico ministero, perché altrimenti si altera il sistema del processo di parte.
Garantire la terzietà del giudice attraverso le riforme processuali mi sembra quanto mai impreciso, perché noi dobbiamo distinguere la terzietà del giudice dalla imparzialità del giudice. La imparzialità del giudice viene garantita in relazione a quelle parti dalla norma processuale; la terzietà del giudice, in relazione a tutte le parti, a tutto il processo, a tutta la struttura processuale, deve essere garantita da una norma diversa dalla norma processuale, che è la norma che individua appunto la separazione delle carriere.
Quanto all'obbligatorietà dell'azione penale, sui criteri selettivi sono d'accordo con l'onorevole Pecorella. Probabilmente occorre che nella legge sia indicato il contenuto di questa selezione. La norma attualmente è generica e dà anche la possibilità sia di un'individuazione di criteri selettivi in relazione al tipo di reato - e io credo, richiamando ancora una volta il pensiero di Bricola, che questa sia la strada certamente più esatta - sia in relazione a diverse esigenze.
Direi di tralasciare le esigenze mediatiche perché sul piano mediatico ci sono state già troppe influenze negative sul processo penale.
Credo che il criterio di scelta vada deciso nell'ambito della individuazione di determinate fattispecie. E vada deciso, probabilmente, anche riempiendo un po' di più il contenuto della scelta. Non dimentichiamo che vi è stata, proprio pochi giorni fa, un'interessantissima rimessione alla Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale della limitazione al giudice di pace del potere di non esercizio dell'azione penale in relazione alla tenuità del fatto.
Rimettendo la questione alla Corte costituzionale, un giudice ha sostenuto che, siccome a volte la competenza del giudice di pace riguarda anche reati più gravi di quelli per i quali è prevista la competenza del giudice ordinario, sarebbe assolutamente non giustificato che solo il giudice di pace abbia la possibilità di applicare il criterio selettivo della tenuità del fatto e non anche il giudice ordinario.
Non so se l'aspetto della tenuità del fatto riesca a rientrare in un criterio individuato, preciso di scelta selettiva, ma credo sia una strada che debba essere finalmente percorsa dal legislatore in ordine alla obbligatorietà dell'azione penale.
Lei mi faceva un'ulteriore rilievo circa la rimessione all'organo legislativo. Non ho detto che quello dell'amnistia e quello del criterio selettivo siano lo stesso potere. È vero che in questi ultimi tempi l'amnistia è occasionale. L'onorevole Ferranti lo diceva, si concede una volta ogni tanto. Ma per trent'anni si è avuta un anno sì e un anno no, o forse tutti gli anni; non dimentichiamoci questo passato. Forse è stato inopportuno che per gli ulteriori


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venti anni si sia concessa una sola volta. Se si fosse fatta un po' più di frequente non saremmo alle prese con un carico eccessivo sul quale ci interroghiamo e che viceversa ha una sua causa precisa nella mancata concessione di provvedimenti di clemenza.
Credo però che non si possa negare al legislatore il potere di cancellare definitivamente la rilevanza penale di un fatto, fino a un certo limite temporale, o di cancellare, questa volta con maggioranza semplice, una sanzione penale per una determinata condotta. La abrogatio criminis appartiene al potere legislativo e non è assolutamente in contrasto con un potere che, limitatamente a un anno, individui le fattispecie alle quali si dà la precedenza e le fattispecie alle quali non si dà la precedenza. Mi pare che sia assolutamente in linea con questa scelta costituzionale già vigente nel nostro ordinamento.
Da ultimo, per rispondere all'onorevole Pecorella a proposito della polizia giudiziaria, siamo perfettamente d'accordo. Ma non dimentichiamo - è qualcosa che ancora una volta abbiamo vissuto insieme - che al momento dell'entrata in vigore del nuovo codice ci furono resistenze perché si subordinava la polizia giudiziaria alla magistratura. Era una delle battaglie che abbiamo insieme condotto per portare avanti il nuovo codice di procedura penale.
Poi si è attenuata la norma perché la polizia giudiziaria originariamente doveva trasmettere immediatamente la notizia e non poteva fare altro. Oggi, se il pubblico ministero non si assume la responsabilità della direzione delle indagini, la polizia giudiziaria ha ancora un certo potere. Credo che una polizia giudiziaria che sia specificamente in questo caso individuata dalla norma in modo tale che non sia alle dipendenze dell'esecutivo in ordine alla scelta e all'esercizio del potere di indagine possa essere una soluzione quanto mai equilibrata.

PRESIDENTE. La ringrazio anche a nome del presidente Bruno e di entrambe le Commissioni.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del dottor Ernesto Lupo, Primo presidente della Corte di cassazione.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e sulle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del dottor Ernesto Lupo, Primo presidente della Corte di cassazione.
Il Primo presidente è accompagnato dal presidente aggiunto della Corte di cassazione, Paolo Vittoria, che, nel caso il dottor Lupo lo ritenesse opportuno, ne potrà integrare la relazione.
Ringrazio i nostri ospiti e chiedo loro scusa per il limitato margine di tempo con il quale li abbiamo invitati.
Do la parola al dottor Ernesto Lupo.

ERNESTO LUPO, Primo presidente della Corte di cassazione. Questo invito, di cui ringrazio le Commissioni e i loro presidenti, è stato evidentemente indirizzato a me non a titolo personale, ma come primo presidente della Corte di cassazione, ragion per cui mi è parso doveroso che in questa sede, al di là di opinioni personali, io sottoponga all'attenzione del Parlamento ciò che sull'oggetto del disegno di legge costituzionale ha maturato l'ufficio del massimario della Corte, che di fatto opera anche con l'ufficio studi dell'istituzione.
Alla fine del mio intervento depositerò la relazione sul disegno di legge governativo, relazione redatta dall'ufficio del massimario, che faccio mia in ogni parte e che illustrerò oralmente per gli aspetti più rilevanti.
Come primo punto voglio sottolineare il dato che emerge con evidenza dalla lettura


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del testo del disegno di legge, un punto su cui ho letto che nelle precedenti audizioni, almeno quelle tenute fino a mercoledì, è stato indicato da numerosi soggetti che avete audito.
La nostra è una Costituzione rigida, incentrata sul principio di legalità e sui diritti fondamentali dei cittadini, proclamati nella prima parte della Carta e affidati ad articolazioni istituzionali disciplinate nella seconda parte, con il raccordo delle garanzie costituite dalla riserva di legge e dalla riserva di giurisdizione.
Proprio affinché quest'ultima assolva al suo compito costituzionale in piena effettività, i padri costituenti avevano sottratto i connotati fondamentali del sistema giurisdizionale alla legge ordinaria ossia al potere della maggioranza, fissando direttamente in Costituzione principi e regole che hanno fatto del sistema giudiziario italiano quell'originale modello istituzionale che viene qualificato da più parti come modello orizzontale, in contrapposizione al modello verticale di origine napoleonica.
Il disegno di legge muta quel modello in più punti operando - ecco il termine usato da più parti - una decostituzionalizzazione delle garanzie oggi previste. L'impostazione di fondo del disegno di legge determina una mutazione strutturale del Titolo IV della parte seconda della Costituzione, con inevitabili riflessi sull'impianto generale di Costituzione che ne deriverà.
Con preoccupante frequenza si rinvia alla legge la configurazione dei contenuti della disciplina, senza delineare con sufficiente e impegnativa definizione i princìpi di riferimento, evitando così di vincolare nelle sue scelte di attuazione il legislatore ordinario, un legislatore - sia detto descrittivamente e senza intenti polemici - che non si è caratterizzato negli ultimi anni per sensibilità costituzionale, tanto che la Consulta è stata costretta a reiterate declaratorie di illegittimità su norme che, pur espunte dall'ordinamento, ne hanno temporaneamente opacizzato il nitore costituzionale.
Suscita perplessità che il rinvio non è quasi mai fatto in favore della legge di ordinamento giudiziario, bensì alla legge ordinaria senza altra qualificazione. Si oscura così il senso della necessità di interventi organici, sistematicamente coerenti in una materia di così spiccata sensibilità costituzionale. Ciò che più preoccupa è la carenza di vincolanti linee direttrici, entro cui deve muoversi il legislatore ordinario.
La riserva di legge, che nella sua assolutezza è certo un fattore di garanzia per la tutela della fisionomia costituzionale della magistratura e della funzione giudiziaria, perde significato se il legislatore costituzionale sceglie di rimettere alla regolazione per legge ordinaria i necessari compiti di attuazione di valori e principi, senza contenerne la discrezionalità regolativa con criteri anche generali, ma sufficientemente definiti.
La fedeltà al modello rigido, pur formalmente ribadita dalla relazione al disegno di legge, rischia così di occultare la decostituzionalizzazione di vari aspetti della materia disciplinata nel Titolo IV. La rinuncia di fatto alla struttura rigida in materia tanto sensibile per la garanzia dell'ordinamento democratico finisce per attribuire al legislatore ordinario, ossia alla contingente maggioranza parlamentare, un potere eccessivo, il cui esercizio, non assistito da una definita e stringente cornice costituzionale, potrebbe confliggere con la piena ed effettiva tutela dei diritti fondamentali.
Questa considerazione mi porta a sottolineare l'erroneità di una diffusa ma schematica e superficiale opinione, secondo cui, a differenza della prima parte, tutta la seconda parte della Costituzione sarebbe modificabile. Come è stato ben evidenziato dalla dottrina, le due parti della Costituzione non sono sfere autonome e separate: occorre pertanto massima cautela e rigore nell'introdurre cambiamenti della parte cosiddetta organizzativa, che possono produrre effetti rilevanti anche sul piano dei diritti e dei principi elencati nella prima parte.


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Un secondo punto che toccherò riguarda l'obbligatorietà dell'azione penale. Non ripercorro tutti gli oggetti del progetto di revisione costituzionale e comincio da questa riformulazione della norma sull'obbligatorietà dell'azione penale, che, pur incidendo direttamente sui contenuti dell'attività del pubblico ministero, tocca da vicino il contenuto e il ruolo della magistratura giudicante, perché questa giudica sui fatti che le pervengono e cioè su ciò che il pubblico ministero decide che debba andare al giudice.
Riguardo al principio di obbligatorietà dell'azione penale, mi richiamo - anticipo subito che sono affermazioni un po' forti ma non sono mie - all'orientamento e alle affermazioni della Corte costituzionale e quindi mi rifaccio a quelle affermazioni.
Il principio di obbligatorietà dell'azione penale è la pietra angolare di un sistema penale informato ai valori di legalità e di uguaglianza, perché la Corte costituzionale ha affermato che il principio di legalità penale necessita, per la sua concretizzazione, della legalità nel procedere, e questa, in un sistema fondato sul principio di eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, non può essere salvaguardata che attraverso l'obbligatorietà dell'azione penale.
Queste ultime parole sono citate dalla sentenza n. 88 del 15 febbraio 1991, che mi sembra fondamentale su questo punto. Il principio di obbligatorietà, come afferma la Corte, è il punto di convergenza di un complesso di principi basilari del sistema costituzionale, talché il suo venir meno ne altererebbe l'assetto complessivo.
L'articolo 13 del disegno di legge conferma il principio di obbligatorietà dell'azione penale, ma riferisce l'obbligo non più al pubblico ministero, bensì all'ufficio del pubblico ministero. Si prevede che l'esercizio dell'azione penale debba avvenire secondo i criteri stabiliti dalla legge, inciso eccessivamente vago che non consente di comprendere a quali criteri il legislatore ordinario dovrà attenersi per regolare l'obbligatorietà confermata in Costituzione.
Proprio per le ragioni sottolineate dalla Corte costituzionale, in questa materia è essenziale un sicuro ancoraggio della discrezionalità del legislatore ordinario alla tutela effettiva degli interessi sottostanti alla previsione costituzionale. Nel delineare, ad esempio, criteri di priorità dell'azione penale, che è il temperamento a cui guarda la relazione al disegno di legge, il legislatore ordinario dovrebbe essere assistito da definiti criteri di orientamento d'ordine costituzionale, apparendo altrimenti alto il rischio di eccessi di normazione ordinaria che finiscano col tradire, più o meno consapevolmente, il precetto costituzionale.
È necessario inoltre rimarcare che obbligatorietà significa sottrazione al principio di apprezzamento e di responsabilità politica nella gestione dell'azione penale, in opposizione al principio di opportunità, il quale giustifica intromissioni del potere politico nelle scelte e nella responsabilità di azione.
Non si comprende allora il senso della previsione di modifica dell'articolo 110 della Costituzione là dove affida al Ministro della giustizia il compito di riferire annualmente alle Camere non solo sullo stato della giustizia, il che trova fondamento nella responsabilità per il funzionamento dei servizi, ma anche «sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine».
La previsione suscita non poche perplessità perché sfugge la coerenza di un disegno di legge che attribuisce un potere di relazione a un organo del tutto estraneo ai compiti di direzione e gestione dell'azione penale. Se si vuol dare un senso alle cose, questa previsione evoca l'implicazione necessaria della titolarità in capo al ministro di un qualche potere sull'oggetto delle relazioni. Se si riferisce su qualcosa, non può non aversi implicitamente un potere sull'oggetto su cui si riferisce.
L'oggetto principale dell'iniziativa governativa mi pare che sia la posizione dei magistrati del pubblico ministero, i cui poteri e il cui status vengono profondamente modificati. Su queste modificazioni


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si soffermerà certamente il procuratore generale presso la Corte di cassazione, onde mi limito, per economia di tempo, a rinviare alla relazione scritta che ho depositato.
Voglio sottolineare tuttavia che, al di là della prevista separazione delle carriere, le modificazioni proposte incidono profondamente sulla configurazione di un ordine autonomo e indipendente da ogni potere, che non è riferito più alla magistratura nel suo complesso, come previsto invece dall'attuale articolo 104 della Costituzione, bensì ai soli giudici, con estromissione dei pubblici ministeri che acquisiscono un'anomala collocazione costituzionale.
I pubblici ministeri, cessando di appartenere all'ordine giudiziario e non costituendo un ordine ulteriore e distinto, finiscono per incarnare una figura ibrida, dall'incerta identità costituzionale, a metà strada tra il giudice e il pubblico funzionario. Tale incertezza si riflette anche sul terreno delle garanzie che la riforma vorrebbe assegnare al titolare dell'azione penale.
Il mero rinvio alla legge di ordinamento giudiziario, in questo nuovo quadro di distacco dei singoli pubblici ministeri dall'ordine giudiziario, con la netta accentuazione del carattere gerarchico dell'ufficio e l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge, ossia dalla contingente maggioranza politica, espone istituzionalmente il pubblico ministero a rischi di eteronomia e rende instabile e precaria la sua indipendenza.
A ciò va aggiunto che autonomia e indipendenza sarebbero assicurate esclusivamente all'ufficio e non al singolo magistrato requirente. L'assenza di espresse forme di garanzia dell'indipendenza funzionale (nella sua duplice proiezione interna ed esterna) del singolo magistrato requirente, peraltro abitualmente previste anche negli ordinamenti continentali che prevedono la separazione tra magistratura giudicante e magistratura requirente, rischia di svuotare il contenuto della stessa previsione di un organo di governo autonomo della magistratura requirente, atteso che storicamente la ragione per cui i costituenti istituirono il Consiglio superiore della magistratura corrisponde proprio all'esigenza di rendere effettiva l'indipendenza attribuita al singolo magistrato.
In sintesi, a me pare che il problema più che alla separazione di carriere, che, come vedete non ho toccato, attenga allo status del singolo magistrato appartenente all'ufficio del pubblico ministero. È uno status che va ovviamente definito: oggi esso è un magistrato con status uguale a quello del giudice, pur con alcune mitigazioni derivanti dalla riforma recente dell'ufficio del pubblico ministero, limitazioni interne che potrebbero anche essere accentuate. Ciò che manca è proprio la disciplina dello status del magistrato, che esiste anche negli Stati in cui il pubblico ministero è distaccato completamente dal giudice.
Questo è l'elemento che manca. Il magistrato rimane una figura ibrida, come ho accennato, non ben definita nelle sue garanzie e nella sua disciplina. Mi riferisco, ripeto, al magistrato che ha le funzioni di pubblico ministero.
Un punto che mi sembra importantissimo è la nomina del giudice per concorso, perché la modifica dell'articolo 106 la modifica della Costituzione è più sconvolgente di quel che può apparire.
L'articolo 8 del disegno di legge interviene sulle disposizioni costituzionali che dettano i princìpi per il reclutamento dei magistrati, in particolare sul secondo comma dell'articolo 106, che prevede una delle due deroghe alla regola generale della selezione per concorso. L'altra, come sappiamo, è costituita dalla nomina all'ufficio di consigliere di Cassazione per meriti insigni.
In particolare, il disegno di legge elimina l'inciso «per tutte le funzioni attribuite ai giudici singoli» che nell'attuale assetto limita la possibilità di fare ricorso alla magistratura onoraria, eventualmente reclutata elettivamente, per la trattazione di affari giudiziari di maggiore importanza.
Storicamente, infatti, la monocraticità dell'organo - questo è il significato del richiamo dell'attuale Costituzione alle funzioni


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dei giudici singoli - ha qualificato la giurisdizione cosiddetta minore, un tempo affidata a giudici conciliatori e pretori. Era questo l'assetto del periodo in cui intervenne la Costituzione.
In proposito occorre ricordare che nel dibattito che si sviluppò in sede costituente emerse la netta prevalenza per il sistema di reclutamento per concorso. Già l'ammissione di una nomina elettiva per la magistratura onoraria fece registrare la diversa posizione di quanti (soprattutto Calamandrei, ma anche Leone), ritenevano che l'elezione fosse coerente con un ordinamento giuridico ispirato dal diritto libero, dove il magistrato è operatore della politica, e non con un ordinamento informato al principio di legalità, che postula la necessità di un magistrato tecnico reclutato attraverso un concorso capace di verificare l'adeguatezza del suo profilo professionale.
La netta preferenza per una magistratura legittimata non dalla selezione elettorale, ma da quella concorsuale, sulla base di un'elevata qualità tecnico-professionale, emerge nel testo costituzionale nella previsione di esordio dell'articolo 106, primo comma, che prescrive in linea generale tale forma di reclutamento.
Se la deroga di cui al comma successivo perdesse l'espresso limite del riferimento alle funzioni dei giudici singoli, si avrebbe un'incoerenza di fondo dell'assetto costituzionale, perché si smarrirebbe il senso tra i due contrapposti canali di accesso del rapporto «regola-eccezione», rapporto oggi ben delineato (regola al primo comma, eccezione al secondo comma), con l'effetto di consegnare al legislatore ordinario il potere non meglio delimitato di invertire il rapporto magistratura professionale-magistratura onoraria, marginalizzando la prima in favore della seconda eventualmente scelta con il sistema elettorale, in sostanziale violazione della persistente previsione dell'accesso in magistratura per concorso.
La previsione dell'ampliamento della magistratura onoraria, quindi non professionale e non reclutata per concorso, collegata alla possibilità dell'impiego della stessa anche oltre l'attuale limite costituito dall'attribuzione delle funzioni proprie dei giudici singoli, rende potenzialmente marginale la selezione dei magistrati per concorso, che costituisce nell'attuale sistema la garanzia migliore di reclutamento senza discriminazioni e con accertamento dell'adeguata qualificazione tecnico-professionale.
La norma del secondo comma dell'articolo 106 viene ad assumere, nel tenore derivante da quella soppressione di un inciso che sembra un intervento limitato, in realtà un ambito che il legislatore ordinario può riempire nel modo che ritiene più libero con una sostanziale esautorazione della regola del primo comma dell'assunzione per concorso, che potrebbe diventare un'eccezione e non la regola.
Altro punto: la responsabilità civile dei magistrati, di cui all'articolo 113-bis che il disegno di legge aggiunge al testo vigente della Costituzione.
Anche qui non posso che richiamare la Corte costituzionale. È vero che si propone la modifica della Costituzione, onde la Corte costituzionale potrebbe ritenersi superata, se nonché la Corte costituzionale richiama dei princìpi e delle garanzie che sembrano imporsi anche alle modifiche della Costituzione, almeno nel passaggio che prima ho richiamato sull'obbligatorietà dell'azione penale e anche adesso sulla responsabilità civile, su cui richiamo alcune pronunce della Corte.
La Corte costituzionale già con la sentenza n. 2 del 1968 rilevò che, ferma restando la necessità di previsione di responsabilità, la singolarità della funzione, la natura dei provvedimenti e la stessa posizione super partes possono ben indurre a istituire condizioni e limiti alla responsabilità dei magistrati. Tale affermazione fu ribadita da altre due sentenze che sono citate ampiamente nella relazione che lascio agli atti, ma che qui mi limito a indicare: la n. 26 del 1987 e la n. 468 del 1990.
La piena parificazione senza alcuna distinzione tra magistrati e funzionari dello Stato mi sembra che si ponga contro


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l'indipendenza e l'autonomia della funzione giudiziaria per la semplice ragione che i funzionari non godono di tali prerogative.
Il collegamento tra queste prerogative e la responsabilità dei giudici è posto esplicitamente dalla Raccomandazione del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa «sui giudici: indipendenza, efficacia e responsabilità», adottata il 17 novembre 2010 (per la sua recente emanazione la relazione non la cita, ma si trova pubblicata sull'ultimo fascicolo del Foro italiano) al cui punto 67 si legge che «soltanto lo Stato, ove abbia dovuto concedere una riparazione, può richiedere l'accertamento di una responsabilità civile del giudice attraverso un'azione innanzi a un Tribunale».
L'intendimento di questo passo della Raccomandazione è chiaro: la previsione della responsabilità civile del magistrato, pur legittima, non può essere piegata a strumento di indebita pressione, di ritorsione per decisioni non gradite, fermo restando che anche condotte che non raggiungono la gravità oggettiva e soggettiva meritevole di una responsabilità civile diretta, ma che causano danni ingiusti, devono trovare nella responsabilità dello Stato, salva l'azione di rivalsa, la risposta di tutela alle legittime pretese risarcitorie.
In questo contesto la previsione espressa dalla responsabilità civile diretta dei magistrati presenta il concreto rischio di deprimere il ricorso nella legge di attuazione a forme di valutazione di ammissibilità dell'azione e alla principale esposizione dello Stato, fatta salva per alcune ipotesi l'azione di rivalsa, in potenziale contrasto con i valori di autonomia e indipendenza dei magistrati posti in risalto dalla giurisprudenza costituzionale.
L'ultimo punto riguarda la posizione del primo presidente della Corte di cassazione nell'ambito del Consiglio superiore della magistratura. Sul tema dell'innovazione del Consiglio superiore della magistratura non entro perché poi ci sarà l'audizione del presidente Vietti, quindi sarà lui a farlo. Ho visto una proposta di relazione che egli sta discutendo in questo momento al plenum del Consiglio superiore e direi che in quella proposta senz'altro mi identifico.
La scelta di procedere a modificare l'attuale rapporto numerico tra membri laici e membri togati non è specificamente motivata dalla relazione governativa di accompagnamento del disegno di legge, limitandosi sul punto - questo è ciò che mi interessa - la stessa relazione a chiarire che la presenza quale membro di diritto del primo presidente dalla Corte di cassazione (o del procuratore generale nel Consiglio superiore dei pubblici ministeri) presso i due Consigli superiori continuerebbe a garantire la prevalenza numerica della componente togata.
A me sembra che la ripartizione a metà dei membri eletti caricherebbe di significati e importanza impropri e obliqui la nomina del primo presidente e del procuratore generale della Corte di cassazione e i loro incarichi, così come improprie e difficilmente esercitabili diventerebbero le loro responsabilità in seno al Consiglio, tenendo anche conto del fatto che essi non fanno parte delle Commissioni proponenti in cui il Consiglio si articola, non sono collocati fuori ruolo e devono dividere il loro impegno nel Consiglio, comprendente anche la partecipazione al Comitato di presidenza, con i gravosi compiti istituzionali presso la Corte di cassazione.
Questa figura del primo presidente, che è un po' l'ago della bilancia nell'ambito del Consiglio superiore dei giudici, e analogamente del procuratore generale, da un lato snatura la funzione del primo presidente perché lo fa diventare un organo politico e non, qual è oggi, una figura prevalentemente tecnica, che svolge un lavoro tecnico, ma soprattutto è di impossibile attuazione. Pensare che qualcuno possa seguire i lavori del Consiglio, che si articola attraverso le Commissioni, che dunque vanno seguite, e contemporaneamente essere l'ago della bilancia secondo me è materialmente impossibile. Ve lo dice uno che lavora un gran numero di ore al giorno. Quindi, questa funzione che la relazione attribuisce al primo presidente della Cassazione da un lato è impossibile,


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dall'altro, secondo me, è estremamente pericolosa per il ruolo e la posizione che io occupo in questo momento.
Mi avvio brevemente alla conclusione. Qualche mese fa, alla fine di gennaio, ho avuto l'onore e l'onere di presentare una relazione sull'amministrazione della giustizia che, a giudicare dai commenti e dalle attestazioni pervenutemi, sembra aver incontrato l'apprezzamento e il consenso della gran parte degli esponenti del mondo istituzionale e politico. In quella relazione avevo evidenziato il quadro drammatico dell'inefficienza del nostro sistema di giustizia, per come risulta sia dal basso, dal punto di vista del cittadino che aspetta risposte mai tempestive, sia dall'alto, dall'Osservatorio della Corte europea dei diritti dell'uomo e del Consiglio d'Europa.
Le reiterate condanne a carico del nostro Paese pronunciate dalla Corte di Strasburgo hanno indotto il Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa a rivolgere nuovamente la sua attenzione al caso Italia per ribadire che tempi eccessivi nell'amministrazione della giustizia costituiscono «un grave pericolo per il rispetto dello stato di diritto, conducendo alla negazione dei diritti consacrati dalla Convenzione», e per sottolineare l'importanza di «impostare un'efficace strategia a medio e lungo termine per trovare una soluzione a questo problema strutturale che esige un forte impegno politico».
La severa risoluzione approvata, la n. 224 del 2 dicembre 2010, rivolge alle autorità italiane di più alto livello un nuovo appello «affinché mantengano fermo il loro impegno politico a risolvere il problema della durata eccessiva dei processi e adottino tutte le misure tecniche e di bilancio necessarie in tal senso».
Quello della realizzazione della ragionevole durata dei processi - secondo le concordi previsioni dell'articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, dell'articolo 111 della Costituzione italiana e dell'articolo 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea - è infatti un tema assolutamente prioritario e centrale: per il rispetto di un diritto umano fondamentale di ogni persona, il diritto alla giustizia, che costituisce una sorta di precondizione per la tutela di ogni altro diritto, una sorta di diritto ai propri diritti; per l'immagine dell'Italia nel panorama europeo e internazionale; per gli effetti sull'economia e sulla competitività internazionale del sistema Italia, come ha recentemente ricordato anche il Governatore della Banca d'Italia.
Ciò non soltanto consiglia, ma impone a tutti di bandire le contrapposizioni e le polemiche ricorrenti sulla giustizia, intesa come dimensione del potere istituzionale, e di concentrarsi piuttosto sulla dimensione della giustizia come servizio verso i cittadini e verso tutte le persone che vivono nel nostro Paese, che hanno diritto a ottenere in tempi ragionevoli risposta alla loro domanda di giustizia.
In questa relazione, riprendendo una saggia constatazione dell'onorevole presidente della Commissione giustizia della Camera dei deputati - onorevole Bongiorno, di cui ho letto queste parole in un'intervista - avevo sottolineato che le perduranti polemiche e le contrapposizioni su questioni di «riequilibrio di potere» producono soltanto il risultato di sottrarre attenzione, tempo ed energia alla soluzione della crisi di efficienza, questione concreta e pressante che riguarda tutta la comunità nazionale.
Non ho cambiato idea. Il mio suggerimento e il mio auspicio in questa situazione di drammatica inefficienza e nel clima di contrapposizione che ostacola lo spirito di condivisione che deve essere posto a base di importanti riforme costituzionali sono quelli di concentrarsi su quanto è necessario per ridare efficienza e funzionalità al sistema di giustizia nell'interesse dei diritti dei cittadini e di tutte le persone che aspettano risposta alle loro domande di giustizia.
Per dare concretezza a questo mio auspicio toccherei, senza svilupparli, due punti soltanto, sul piano delle proposte di modifiche della Costituzione.
Il primo tema è l'abolizione dei tribunali militari per il tempo di pace, che è contenuta nella proposta Santelli n. 3122


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di modifica dell'articolo 103, terzo comma, della Costituzione, all'esame delle Commissioni riunite. C'è un articolo che propone l'abolizione di una magistratura - io sono di diritto il presidente del Consiglio della magistratura militare - e di risorse che non hanno un impiego pieno.
I magistrati militari potrebbero benissimo rientrare nella magistratura ordinaria, creando eventualmente sezioni specializzate. Oggi già la Cassazione giudica su reati militari. Si può prevedere una sezione specializzata con l'integrazione dei militari, che oggi è già prevista, mantenendo le garanzie del sistema, ma riassorbendo nella magistratura ordinaria le risorse che oggi sono sottoutilizzate.
Passo al secondo e ultimo punto. Il discorso ha toccato - ho letto l'audizione del professor Illuminati da esterno, da studioso - l'ampia previsione del ricorso per Cassazione.
Oggi si ha un ingolfamento enorme della Corte di cassazione. Nell'ultimo anno, il 2010, sono stati presentati oltre 80 mila ricorsi, più di 51 mila penali e più di 30 mila civili, e la tendenza in questi mesi è in ulteriore aumento, il che significa rendere impossibile, nonostante gli sforzi che compiamo tutti in Cassazione, soddisfare le richieste.
Siamo in difficoltà enorme, perché abbiamo una mole di lavoro che cresce sempre e che demoralizza anche i colleghi, che, invitati già dalla Presidenza Carbone a cercare di compiere uno sforzo per migliorare la situazione, non la vedono migliorare. C'è veramente un clima di scoraggiamento che non è positivo.
Si potrebbe compiere un intervento per rendere più funzionale l'istituto del ricorso in Cassazione ed evitare l'ingolfamento, che è fonte di diversi problemi, in cui però non mi addentro.
Ho terminato e sono a disposizione per le domande.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GIANCLAUDIO BRESSA. Ringrazio molto il presidente Lupo per l'assoluta lucidità e precisione della relazione, che per molta parte mi sento di condividere. Mi permetterei, quindi, di porre una domanda che esula dai punti che ha toccato.
Alla fine, proprio nella sua ultima affermazione, quando asseriva che forse è meglio occuparsi meno del problema degli equilibri tra i poteri e più dell'efficienza della funzionalità della giustizia, lei avanzava due proposte: l'abolizione dei tribunali militari e la risoluzione del problema dell'ingolfamento della Cassazione per eccesso di ricorsi.
Le pongo una questione che non figura nella riforma costituzionale, ma che fin dall'origine della nostra Costituzione è stata oggetto di confronto e di dibattito e che questa proposta di riforma del Governo non affronta minimamente: lei non ritiene che possa essere il tempo di tornare a pensare all'unità della giurisdizione? Non crede che anche questa dimensione dell'unità della giurisdizione potrebbe avere efficacia relativamente al problema della responsabilità disciplinare, che attualmente è piuttosto scomposta nelle varie magistrature presenti oggi nel nostro ordinamento?
Ritiene che questo possa essere un tema da riforma costituzionale e che questo sia il tempo e il momento per affrontarlo oppure no?

ROBERTO ZACCARIA. Mi pare che uno dei punti toccati dal presidente Lupo riguardi la figura ibrida del pubblico ministero, che, data questa configurazione, teme rischi di eteronomia. Questo discorso si è ricollegato alla citazione della sentenza n. 88 del 1991 della Corte costituzionale, in cui si parla della necessaria combinazione tra il principio di legalità e la legalità nel procedere, che usa espressioni, con riferimento all'obbligatorietà dell'azione penale, che fanno apparire questo principio in una sorta di categoria superiore: una sorta di principio più forte degli altri proprio perché - come lei ha detto - configura e sintetizza una serie di altri principi costituzionali, fatto che lo rende più difficilmente modificabile.


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Non voglio affrontare la questione del valore dei princìpi costituzionali supremi o meno, ma certamente dalle sue espressioni, combinando la figura ibrida che viene realizzata in questa riforma con quell'accenno, mi pare che lei ritenga che dal punto di vista costituzionale sia difficile toccare quel principio. Vorrei averne conferma.

GAETANO PECORELLA. Avrei più di una domanda da porre. Spesso lei, presidente Lupo, ha fatto riferimento ad altri princìpi costituzionali o a princìpi affermati dalla Corte per criticare alcune norme prospettandone la incompatibilità con la Costituzione.
Un punto per noi molto importante è stabilire quali siano le norme costituzionali modificabili. Poiché nell'articolo 139 della Costituzione leggo che solo la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale, chiedo quali siano le altre norme, visto che il nostro legislatore costituzionale non ha posto altri limiti alla revisione costituzionale, e sulla base di quali principi si possa dire che questa norma è modificabile e questa non è modificabile.
La seconda domanda attiene alla cosiddetta «decostituzionalizzazione». Soltanto nella prima parte della Costituzione - li leggo solo per memoria del resoconto - negli articoli 13, 14, 15, 16, 21, 23, 24, 25, 27, 29, 30, 32, 35, 36, 40, 41, 42, 43, 44, 45, 46, 48, 51, 52 e 54 si rinvia alla legge ordinaria per disciplinare addirittura il diritto di voto, la proprietà privata per funzioni sociali, cioè istituti fondamentali della vita repubblicana e della vita costituzionale.
Mi chiedo allora perché quando si dice che l'azione penale è obbligatoria e la si esercita secondo criteri stabiliti per legge, questo vorrebbe dire che si decostituzionalizza e non invece che si riafferma il principio di legalità, che ha due valenze: stabilire per legge che cosa è punibile; stabilire per legge con quali eventuali priorità.
Nella sua relazione lei ha detto - passo alla terza domanda - testualmente che il pubblico ministero cessa di appartenere all'ordine giudiziario. Ora io mi meraviglio che invece l'articolo 104 della Costituzione - così come si propone di modificarlo - dica che i magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri. Quindi anche i pubblici ministeri appartengono, testualmente, all'ordine giudiziario.
Ho altre due brevissime domande. Lei contrapponeva questa riforma alla necessità di garantire di più l'efficienza della giustizia. L'intenzione è quella di dare maggiore libertà di manovra alla polizia giudiziaria, prevedere che non tutte le azioni penali siano necessariamente esercitabili o debbano essere esercitate, e prevedere che il pubblico ministero e il giudice restino stabilmente nel proprio ruolo, e quindi aumentino la loro professionalità col tempo e con lo studio. Non crede che anche queste norme, che pure sono in qualche modo costituzionali, influiscano sul miglior funzionamento della giustizia?
Riguardo alla proposta dell'abolizione dei tribunali militari, che cosa ne pensa la magistratura, o che cosa ne pensa lei invece, di ampliare il ruolo della giuria, la quale potrebbe sostituire ampiamente i giudici togati e consentire la celebrazione di molti contemporanei processi?
Infine, trovo molto interessante la proposta sul ricorso in Cassazione. C'è una mia proposta di legge al riguardo in cui si dice che il ricorso in Cassazione si esercita nei casi stabiliti dalla legge. Si vede che anche io ho la tendenza a decostituzionalizzare. Come proporrebbe di limitare questo ricorso in Cassazione? L'unità della giurisdizione, ma ancora prima l'omogeneità della giurisdizione, passa attraverso la Corte di cassazione. Come possiamo mantenere l'unità della giurisdizione - per quanto simulata, dato che, come lei sa benissimo, ci sono molte e diverse soluzioni - e il ricorso in Cassazione limitato?

PASQUALE CIRIELLO. Voglio premettere che mi riconosco nell'intervento del presidente Lupo, sia quanto alle conclusioni, circa l'importanza di guardare più al servizio giustizia, sia sulla parte iniziale


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relativa al legame tra prima e seconda parte della Costituzione e principi fondamentali.
La mia domanda è un po' sulla falsariga di quanto ha già posto il collega Pecorella. È vero che la proposta è ricca di rinvii alla legge, con il rischio conseguente di decostituzionalizzare. Penso però che, dal punto di vista formale, la decostituzionalizzazione scatti quando si affida alla legge ordinaria una materia che, per dettato esplicito o anche implicito - questo è il punto - della Costituzione, spetterebbe viceversa alla fonte costituzionale.
Almeno con riferimento al principio dell'obbligatorietà dell'azione penale, e se fosse possibile anche a quello dei rapporti tra PM e potere politico, quali sono i principi fondamentali esplicitamente o implicitamente riferibili alla Costituzione?
Se non è corretta la previsione dei criteri di priorità secondo i quali esercitare l'azione penale contenuta nel disegno di legge che stiamo esaminando, e su cui ci sono evidentemente delle riserve, c'è un'altra strada che lei si sentirebbe di indicare o l'obbligatorietà è così e bisogna rassegnarsi a un principio costituzionale che, tuttavia, di fatto sappiamo essere non concretamente rispettabile?

DONATELLA FERRANTI. Anch'io ringrazio il presidente per la relazione e i documenti che ci ha lasciato.
Non tornerò su alcuni punti che sono già stati toccati e che mi trovano d'accordo. Vorrei invece porre una domanda con riferimento alla corte di disciplina, che mi pare non sia stata trattata in questa sintesi orale. La Cassazione è l'organo di impugnazione dell'attuale sezione disciplinare. Sotto questo profilo vorrei che fosse toccato quest'aspetto, ossia conoscere l'opinione del presidente con riferimento a un organo separato di disciplina per i magistrati ordinari oppure per tutte le magistrature e, in particolare, sui difetti di funzionamento dell'attuale sezione disciplinare. Vorrei sapere se vi risulta dal monitoraggio presso la Corte di cassazione se gli attuali difetti di funzionamento sono stati in parte corretti dall'istituzione, con introduzione degli illeciti disciplinari tipizzati della riforma recente dell'ordinamento giudiziario, di cui spesso non si parla e che sembra quasi scivolata via senza memoria. Così mi è sembrato nelle discussioni che si sono svolte in questa sede.
In particolare, vorrei sapere se, a vostro avviso, questa corte di disciplina, per come è stata configurata nel disegno di legge di riforma Alfano, anche nella sua composizione e costituzione, sia in grado di garantire un funzionamento maggiore della responsabilità disciplinare dei magistrati e soprattutto l'autonomia e l'indipendenza dei giudici e dei pubblici ministeri, perché la Corte di disciplina riguarda anche i giudici.
Non volevo ritornare sul punto, tuttavia mi piacerebbe porre una domanda sull'obbligatorietà dell'azione penale, dato che la Cassazione è l'ultimo organo di istanza di impugnazione. Ritenete che sull'impossibilità di arrivare alla conclusione di molti processi, con pronuncia di merito finale, in tempi ragionevoli abbia influito o meno la riduzione drastica dei termini di prescrizione della legge Cirielli o di altre norme (che sono state emanate senza correttivi che consentissero di svolgere questi processi)? Ritenete che non incidano su questa discrezionalità di fatto, su questa obbligatorietà in astratto e non più in concreto, queste norme? Eventualmente quali sarebbero i suggerimenti per rendere effettiva l'obbligatorietà dell'azione penale senza rimetterla alla maggioranza di turno?

PRESIDENTE. Se il presidente Lupo ritiene che ad alcune domande intenda dare una risposta il presidente Vittoria, la presidenza concorda. Inoltre il presidente può scegliere se rispondere a tutte le domande o solo ad alcune, riservandosi di inviare una nota scritta di integrazione.
Do la parola al nostro ospite per la replica.

ERNESTO LUPO, Primo presidente della Corte di cassazione. Provo a rispondere.


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Se mi rendo conto che, senza preparazione preventiva, non posso esaurire i quesiti, mi riserverò di inviare un approfondimento scritto.
L'onorevole Bressa non può immaginare come mi piaccia la sua domanda, nel senso che io sono personalmente un fautore dell'unità della giurisdizione. Avevo anche pensato di trattarne in questa sede. Poiché l'audizione è frutto di una riunione con il presidente aggiunto e con altri collaboratori, alla fine abbiamo deciso che il tema era troppo impegnativo per poterlo affrontare nel nostro contributo sul disegno di legge, però credo che ci siano due ragioni che costituiscono fatti nuovi rispetto a quando la Costituzione è stata scritta.
Sapete che la Costituzione costituzionalizza la differenza tra diritto soggettivo e interesse legittimo e, quindi, tiene distinte le due giurisdizioni. Fu una scelta che trovò l'opposizione di Calamandrei, come sappiamo tutti e fu molto discussa. La presenza di Meuccio Ruini, che era un magistrato del Consiglio di Stato e che rivestì il ruolo di presidente della Commissione dei 75 (godeva poi dell'appoggio dell'onorevole Bozzi, anche lui del Consiglio di Stato), fu alquanto importante per la scelta compiuta dal costituente.
Al di là della discussione sull'attività della Costituente, a me sembra di dover rilevare due modifiche di fondo. È innanzitutto profondamente modificato l'interesse legittimo. Oggi, una volta che si afferma la risarcibilità dell'interesse legittimo, questo è diventato una figura molto vicina al diritto soggettivo. Quella che era una figura nettamente distinta dal diritto soggettivo è oggi una posizione molto simile al diritto soggettivo.
In secondo luogo, si è allargata la giurisdizione del giudice amministrativo attraverso lo strumento della giurisdizione esclusiva per materia. Ciò comporta che il giudice amministrativo applica le stesse norme che applica il giudice ordinario (pensiamo a quelle sul risarcimento del danno) senza che ci sia la funzione di nomofilachia della Corte di cassazione, perché non esiste la possibilità di andare alla Corte di cassazione sul contenuto della giurisdizione (solo per questioni inerenti alla giurisdizione, ma non per il contenuto della pronunzia). Possiamo avere quindi le stesse norme applicate dal giudice amministrativo e dal giudice ordinario, ma non c'è una sede che risolve eventuali e anche sussistenti contrasti.
Credo quindi che oggi - è la mia personale opinione - ci siano queste ragioni che militano nettamente a favore di un'unità della giurisdizione attraverso sezioni specializzate, che potrebbero decidere tutte le cause in cui agisce la pubblica amministrazione come soggetto pubblico. Certo dico subito che il rimedio non è quello di prevedere il ricorso per Cassazione per tutte le sentenze del Consiglio di Stato: non vorrei che da questa mia osservazione critica qualcuno desumesse questo, perché io parlo di inflazione e quindi chiaramente non posso augurarmi di dare alla Corte di cassazione anche quest'altra materia rebus sic stantibus.
È chiaro che in un discorso di giurisdizione unitaria il sistema cambia radicalmente.
L'onorevole Zaccaria ha poi richiamato il discorso in seguito ripreso dall'onorevole Pecorella delle norme costituzionali immodificabili, dei princìpi costituzionali. Sapete che qualche sentenza della Corte costituzionale ha postulato l'esistenza di questi principi che si impongono allo stesso legislatore che modifichi la Costituzione. La Corte costituzionale non le ha precisate e non mi sento di precisarle io all'impronta, ma posso dire che indubbiamente, a mio avviso, uno di questi principi è quello dell'indipendenza dei giudici e in genere dell'Ordine giudiziario, proprio per quella ragione che diceva nella seconda domanda l'onorevole Pecorella. Quando l'onorevole Pecorella ha fatto quell'elenco estremamente lungo e preciso di norme della parte prima della Costituzione che rinviano alla legge o al giudice, ha introdotto anche il tema della riserva di giurisdizione che unisce parte prima e parte seconda. Ho detto che non condivido questa opinione, secondo cui la parte seconda sia modificabile e superata e la prima


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invece sia immodificabile, perché sono strettamente legate. Se facciamo venir meno l'indipendenza del giudice o dell'ordine giudiziario - perché includerei anche una indipendenza sia pure in senso limitato (all'interno dell'Ufficio) del pubblico ministero - incidiamo proprio su questa garanzia di riserva di giurisdizione, che dà corpo alla tutela dei diritti fondamentali della parte prima, rafforzata dalla riserva di legge.
Condivido - e direi che la recente riforma Castelli si è mossa in questo senso - l'intento di limitare la posizione del pubblico ministero nell'ambito dell'ufficio e quindi di riconoscere poteri al capo, però non possiamo pensare a un pubblico ministero del genere, visto che, nonostante indubbiamente esso sia definito magistrato (quindi forse la mia affermazione di esclusione dall'ordine giudiziario è una posizione di non corretta lettura del testo costituzionale),se andiamo a vedere, l'indipendenza è affermata solo per il giudice. Il principio oggi è questo: la magistratura è un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere. La norma del disegno di legge prevede che soltanto il giudice sia indipendente, non più il pubblico ministero.
Nel 1976 sono stato nell'Unione Sovietica, con una delegazione guidata dal capo di gabinetto presidente Brancaccio, di cui io sono allievo. Lì facemmo delle interviste ai singoli giudici, ai presidenti dei tribunali, che nel processo erano affiancati da due giudici popolari che cambiavano ogni quindici giorni. I giudici e i presidenti degli organi giudiziari dell'Unione Sovietica, non solo nella Repubblica russa, ma anche nelle altre Repubbliche, affermavano di essere indipendenti nel giudizio. Lo strumento di potere effettivo era la Prokuratura, che non incontrammo, e che a loro dire era quella che effettivamente incideva, in quanto attraverso la figura del procuratore nazionale e attraverso le varie Prokurature, filtrava ciò che andava al giudice. Su ciò che arrivava al giudice, l'indipendenza di quest'ultimo era un principio affermato e dato per scontato anche nell'Unione Sovietica, sebbene il giudice professionale fosse affiancato da due giudici popolari - in base al requisito della partecipazione popolare all'amministrazione della giustizia - che cambiavano ogni quindici giorni proprio per cercare di allargare il più possibile la partecipazione popolare alla giustizia. Il collegio giudicante formato in questo modo era indipendente, come loro sostenevano, rivendicando tale indipendenza. Lo strumento fondamentale del potere governativo era la Prokuratura che faceva sì che non arrivasse al giudice ciò che era opportuno non arrivasse.
Ecco perché quello dello status del pubblico ministero è un problema fondamentale. Indubbiamente è uno status che non può essere parificato, all'interno dell'ufficio, al giudice. È chiaro che l'indipendenza del giudice non è l'indipendenza del singolo magistrato, del pubblico ministero, però dobbiamo trovare una garanzia di status dei magistrati del pubblico ministero che, come ho detto nella relazione, si trova anche negli Stati (penso alla Germania) dove c'è una separazione delle carriere e un'esclusione del PM dall'ordine giudiziario. Possiamo affermare l'appartenenza dei PM all'ordine giudiziario, ma è certo che nel disegno di legge l'autonomia e l'indipendenza vengono limitate al giudice e si escludono espressamente i magistrati del pubblico ministero. Cerco di passare rapidamente agli altri punti. Sull'efficienza della giustizia, il presidente Vietti oggi in audizione consegnerà alle Commissioni delle statistiche del Consiglio superiore - come componente del Comitato di presidenza del CSM le ho lette - dalle quali si evince che il passaggio tra giudici e PM, negli anni recenti, si è ridotto moltissimo. Potrete consultare, comunque, i dati statistici.
Venendo ai tribunali militari, indubbiamente la soluzione per rendere efficiente il meccanismo è duplice: o si accetta l'abolizione (sostanzialmente la proposta Santelli) oppure la via alternativa (e anche questa è una proposta che ha una sua validità dal punto di vista dell'efficienza) è quella dell'ampliamento dei reati che possono essere conosciuti dalla magistratura


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militare. Se parliamo dell'efficienza, è una soluzione valida. Dal punto di vista politico occorre fare la scelta - e non spetta a me farla - tra l'una o l'altra soluzione in alternativa. Diverso è il discorso sulla giuria che comunque implica l'impiego di magistrati professionali (nel sistema italiano).
L'ultimo punto, il più interessante e stimolante, riguarda la domanda posta dall'onorevole Pecorella, ossia come limitare il ricorso per Cassazione. Una soluzione indubbiamente è quella della decostituzionalizzazione che è stata proposta del ricorso per Cassazione. È una proposta accettabile, perché a quel punto il legislatore sarà libero di limitarlo nella misura che si riterrà giusta.
Una soluzione molto più radicale che io prospetto - mi rendo conto che ci sono alcuni inconvenienti, ma il tema è piuttosto complesso - è quella di limitare il ricorso per Cassazione ai ricorsi che pongono questioni che possono porsi successivamente, ossia questioni che interessano la collettività.
La visione di Calamandrei del ricorso per Cassazione era incentrata sulla tutela dello ius costitutionis e non dello ius litigatoris, una visione un po' estrema, ma possibile.
Altra possibile soluzione per quanto riguarda il civile è la previsione di un limite di valore, sotto il quale il ricorso non è consentito. Per il penale si potrebbe non consentirlo per tutte le ordinanze sulla libertà personale.
Si è verificata, di recente, la scarcerazione di quattro persone - c'è stato un comunicato ufficiale della Cassazione - e in seguito la Corte d'appello ha comunicato che c'era stata una sentenza della Cassazione che in quello stesso processo, per uno dei quattro imputati, aveva affermato che il limite era di quattro e non di sei anni.
In realtà, non era un'affermazione, ma un dato che la sentenza della Cassazione, massimo della custodia cautelare, dava per scontato - è un discorso in cui non voglio entrare - ma ciò è successo perché c'è un'abbondanza di ricorsi per Cassazione in uno stesso processo: si può presentare istanza di scarcerazione, la si può rinnovare e ogni volta andare in Cassazione con possibili pronunce opposte. È un discorso che potrebbe forse essere limitato anche per il penale.
Sull'obbligatorietà dell'azione penale, sostenere che l'azione penale sia obbligatoria non esclude assolutamente l'adozione di criteri sul suo esercizio, tenuto conto delle pendenze.
In Cassazione ci sono pendenze enormi di ricorsi in materia civile. All'inizio delle mie funzioni la presidenza ha elaborato un documento in cui sono indicati alcuni criteri di priorità sulla decisione dei ricorsi civili per Cassazione. È un discorso perfettamente compatibile con l'obbligo di decidere. Vladimiro Zagrebelsky ha svolto un'audizione in cui ha espresso una posizione (che condivido pienamente) sul modo di conciliare il principio delle obbligatorietà, senza incidere sul principio costituzionale.
Passo all'ultimo intervento dell'onorevole Ferranti. Sulla Corte di disciplina, indubbiamente sono favorevolissimo che la sezione disciplinare sia per tutti i magistrati. Non vedo perché debba essere limitata alla magistratura ordinaria. Sarebbe effettivamente una soluzione, a mio avviso, quanto mai opportuna, in relazione alla risposta che ho dato all'onorevole Bressa.
L'ultimo punto è la riduzione della prescrizione. La domanda mi pare di quelle a risposta obbligata. È chiaro che la riduzione della prescrizione, in un momento in cui i reati sono tanti e ci sono difficoltà a smaltirli, ha aumentato il numero di prescrizioni. Ci sono statistiche molto precise su come sono aumentate le prescrizioni dopo la legge Cirielli, ragion per cui il collegamento tra i due fatti è indiscutibile. Non è un'opinione ma un fatto oggettivo e provato.

PAOLO VITTORIA, Presidente aggiunto della Corte di cassazione. Svolgo tre piccole osservazioni. Noi pensiamo sempre che, modificando la legge, si riesca a modificare il risultato, ma non credo che, modificando le leggi processuali, si modifichino


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i risultati. Se la Cassazione fosse dotata di un'organizzazione di supporto, come le altre Corti costituzionali, il prodotto sarebbe diverso.
La Corte di cassazione della Corea del Sud, di cui ho ricevuto il presidente, è composta di 12 membri e di 80 assistenti. La nostra è composta da 235 giudici, che però debbono fare tutto da soli. Ritengo quindi che pensare all'aspetto organizzativo sia decisivo per il risultato.
Unità della giurisdizione. Si parla di unità della giurisdizione e si pensa all'unità della giurisdizione per la giurisdizione ordinaria e la giurisdizione amministrativa, ma credo che sia una visione oggi leggermente antistorica, perché la giurisdizione amministrativa sta progressivamente erodendo la giurisdizione ordinaria: la giurisdizione amministrativa è diventata la giurisdizione dell'economia.
Il problema mi sembra un altro: la questione è se di fronte a un'estensione della giurisdizione amministrativa avallata dalla Corte costituzionale oggi regga ancora il principio per cui il controllo della Corte di cassazione e delle sezioni unite è limitato alla giurisdizione. È infatti ben strano che questo sistema comporti che leggi comuni ai due ordinamenti - quale la disciplina della responsabilità - possano essere amministrate in un modo dal giudice amministrativo e in un modo dal giudice ordinario.
Questo è però un problema molto complesso e non c'è solo questo problema nel campo delle giurisdizioni ora separate.
Un altro è oggi rappresentato dalla giurisdizione della Corte dei conti sulla responsabilità amministrativa.
Dalla eventuale unificazione della responsabilità disciplinare delle diverse magistrature e dalla sua attribuzione ad un unico organo giurisdizionale dovrebbe poi probabilmente derivare una modificazione della composizione dell'organo deputato alla verifica della legittimità delle sue decisioni. Così, se fosse la Corte di cassazione, quando c'è da giudicare ciò, del collegio dovrebbero entrare a far parte altri giudici.
A mio parere urge poi ritornare sulla disciplina del procedimento disciplinare non dal punto di vista della tipizzazione, ma dal punto di vista straordinariamente ibrido del giudizio di cassazione, per cui noi abbiamo una impugnazione che deve seguire le regole penalistiche e un giudice che le decide secondo un rito civile, e questo è un sistema che non regge.

PRESIDENTE. Salutiamo e ringraziamo per il loro contributo il dottor Lupo e il dottor Vittoria.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del dottor Vitaliano Esposito, Procuratore generale della Corte di Cassazione.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e sulle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del Procuratore generale della Corte di cassazione, dottor Vitaliano Esposito.
Il Procuratore generale è accompagnato dal dottor Renato Finocchi Ghersi, segretario generale della procura della Corte di cassazione.
Ringrazio, anche a nome del presidente Bruno, il dottor Esposito per la sua disponibilità a partecipare all'audizione e gli do subito la parola.

VITALIANO ESPOSITO, Procuratore generale della Corte di cassazione. Sono io che ringrazio i presidenti e le Commissioni per l'invito e per l'occasione che mi è offerta di esprimere il mio punto di vista o meglio le mie riflessioni su un progetto di riforma costituzionale che concerne soprattutto il ruolo e la posizione istituzionale del pubblico ministero.


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Devo dire che per un dovere di obiettività e di lealtà verso i magistrati dell'ufficio che ho l'onore di dirigere, ho promosso una riunione che ha consentito un ampio e articolato dibattito sui vari aspetti della complessa questione, che a mio avviso è di una complessità tale da apparire a prima vista inestricabile.
Metto a disposizione delle Commissioni il documento conclusivo che riassume le preoccupazioni e le considerazioni critiche coralmente esposte dai magistrati dell'ufficio.
Pur condividendo, sotto l'aspetto tecnico, gran parte delle predette valutazioni, ritengo tuttavia doveroso esporre alcune mie riflessioni sulle linee di fondo del progetto di riforma, cercando di escludere le modalità tecniche di attuazione.
Questo mio contributo - desidero sottolinearlo preliminarmente - è reso con spirito di confronto, senza opposte pregiudiziali o posizioni rigidamente precostituite, come auspicato dal Capo dello Stato. Dico questo perché le mie riflessioni sono doverose sotto due aspetti. Il primo è l'aspetto propriamente istituzionale che concerne circostanze che io, in occasione dell'anno giudiziario, ho reiteratamente denunciato come aspetti di una situazione di sostanziale ingiustizia in cui versa il nostro Paese. Ciò mi impone di fornire un contributo costruttivo a un dibattito sulle misure che il legislatore ritiene utili o necessarie per risolvere queste situazioni, pur dovendo tuttavia segnalare, da un lato, la settorialità dell'intervento e dall'altro la non attribuibilità al pubblico ministero di tutte le disfunzioni del sistema e, comunque, la non accettabilità di una dequotazione indiscriminata delle garanzie che riguardano il pubblico ministero o, se si preferisce, di una decostituzionalizzazione di princìpi fondamentali. Soprattutto, quello che mi interessa in questa sede sottolineare è che vi è la necessità di una coerenza del sistema complessivo.
La mia non è, quindi, una difesa corporativa, perché intendo limitare il mio intervento al punto essenziale della questione, quello della proposta di separazione delle carriere quale condizione per l'attuazione di un giusto processo, naturalmente tenendo conto della situazione di indipendenza del pubblico ministero e dell'incognita legata a un'espansione del suo ruolo. Vi è una normale espansione di tutte le istituzioni, dunque occorre verificare, anche in questo caso, se si formula una proposta di riforma, quali sono le conseguenze.
Sotto l'aspetto più strettamente personale, il mio contributo è doveroso nei confronti di uno Stato che mi ha consentito, per oltre quarant'anni, di affiancare alla mia attività di magistrato un'esperienza assolutamente irripetibile nelle più prestigiose assise internazionali sul funzionamento della giustizia. Sono grato al mio Paese di avermi dato questa possibilità di conoscenza, che ritengo doveroso mettere al servizio del Paese stesso nel momento in cui Commissioni parlamentari di questo rilievo me lo chiedono.
Ho avuto l'onore di partecipare, in qualità di capo delegazione, ai lavori preparatori dello statuto della Corte penale internazionale: ho fatto parte dapprima del Comitato ad hoc, dal 1955, quindi del Comitato preparatorio per la costituzione della Corte e ho partecipato, infine, alla Conferenza diplomatica del 1998. Inoltre, sono stato designato, non dal Governo italiano ma dal Comitato europeo per i problemi criminali, quale esperto scientifico incaricato, nell'ambito di un Comitato internazionale ad hoc di cui faceva parte un altro magistrato italiano, dell'elaborazione e della redazione della raccomandazione n. 19 del 2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa di cui credo abbiate sentito ripetutamente parlare in quest'aula. Ho convocato a Roma, dal 26 al 28 maggio ultimo scorso, nella mia qualità di presidente della relativa rete, la Conferenza dei procuratori generali dell'Unione europea.
A questo devo aggiungere - me lo consentirete - che la prima sentenza della Corte di cassazione che parla del giusto processo è una sentenza che porta la mia firma e risale al 1981; dal 1981 al 1988 tutte le sentenze della Corte di cassazione sono sulla linea del riconoscimento delle


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regole del giusto processo. Questa espressione, come dicevo, si ritrova per la prima volta nella mia sentenza, ma in Italia la si ritrova per la prima volta negli scritti di Virgilio Andrioli (mio maestro all'università di Napoli) che difese l'Italia nel primo caso davanti alla Corte di Strasburgo.
Perché ho citato fra le mie diverse attività internazionali la partecipazione alla Corte, la raccomandazione e la Conferenza? Perché i due strumenti internazionali assumono carattere decisivo per tracciare le linee guida che in questa sede interessano, mentre le conclusioni della Conferenza del pubblico ministero, tenutasi dal 26 al 28 maggio, sul pubblico ministero quale organo di giustizia e promotore dei diritti umani, organo autonomo e responsabile, hanno indicato il ruolo comune verso cui convergono in Europa le autorità incaricate dell'esercizio dell'azione penale.
Lo statuto della Corte, cui finora hanno aderito 115 Stati e che è, a mio avviso, l'espressione più rilevante che sia stata compiuta alla fine del secolo scorso, sancisce non solo il principio dell'indipendenza oggettiva e soggettiva e quello dell'imparzialità, tanto dei giudici, quanto del pubblico ministero, ma soprattutto l'autonomia organica dell'ufficio del procuratore da quello della Corte.
È un aspetto diverso da quello evocato dalla riforma. Nella riforma si parla all'interno del diritto a un giusto processo e all'interno del processo contraddittorio del principio dell'eguaglianza delle armi, che vedremo immediatamente, mentre questo aspetto riguarda il diritto a un tribunale che deve essere indipendente e imparziale.
Voglio ricordare, a questo proposito, che nel suo intervento svolto a Roma il 27 maggio nel corso della Conferenza dei procuratori generali, Thomas Hammarberg, commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, ha affermato: «Occorre gettare un muro di sicurezza, un firewall, tra pubblico ministero e giudice» e ha riferito di avere imparato dalla sua esperienza come la separazione dei poteri tra tali organi sia cruciale anche per gettare le basi per l'eguaglianza delle armi nell'intero sistema.
A ben vedere, le preoccupazioni del commissario concernono, da un lato, l'attuazione del giusto processo, vale a dire la riforma e, dall'altro, l'incognita in ordine all'espansione del ruolo del pubblico ministero.
Sotto il primo profilo le affermazioni di Hammarberg sono in linea con la giurisprudenza della Corte europea che, fin dalla storica sentenza Delcourt del 17 gennaio 1970, ha sempre ammonito che l'égalité des armes, principio fondamentale del giusto processo, mira a garantire l'eguaglianza delle parti dinanzi al giudice e a proteggere l'effettività del dibattito contraddittorio.
Questa è la preoccupazione del progetto di riforma, ma a questa garanzia specifica si aggiunge quella generale concernente un tribunale indipendente e imparziale, che è quello della Corte penale internazionale. La Corte europea sancisce questo diritto da un duplice punto di vista, perché l'indipendenza deve esistere nei riguardi sia del potere esecutivo, sia delle parti e, quindi, anche del pubblico ministero.
Il secondo diritto, quello al tribunale imparziale, si apprezza dal punto di vista sia soggettivo, sia oggettivo e può prendere in considerazione sotto quest'ultimo aspetto anche apparenze di imparzialità, ma che ci interessano relativamente.
Sotto il secondo profilo le affermazioni di Hammarberg, per la parte in cui esprime le sue preoccupazioni, concernono l'inquietudine che sul piano della stabilità del sistema democratico ha sempre suscitato la figura dell'inquirente e che oggi sono ancora presenti in alcuni Paesi dell'est. «Esse concernono - ha affermato il commissario - il rischio che un pubblico ministero troppo forte possa trasformarsi in un quarto potere senza obbligo di rendiconto».
Le preoccupazioni del commissario formano addirittura oggetto di un rapporto ad hoc sul pubblico ministero, quello di recentissima pubblicazione, elaborato


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dalla Commissione europea per la democrazia attraverso il diritto, la cosiddetta Commissione di Venezia, e costituente la seconda parte delle norme europee concernenti l'indipendenza del sistema giudiziario, il quale dedica un apposito capitolo ai rischi del potere eccessivo dei pubblici ministeri per l'indipendenza del sistema giudiziario.
Sono sicuro che voi abbiate questo testo della Commissione di Venezia, e i paragrafi sono quelli da 71 a 76 e riprende anche l'affermazione di Hammarberg. Il rapporto della Commissione esamina i principali modelli di organizzazione del pubblico ministero e riconosce espressamente che la raccomandazione n. 19 del 2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa costituisce il fondamentale documento cui tutti i Paesi d'Europa devono ispirarsi in sede di riforma.
Questo documento non privilegia alcun modello di pubblico ministero, sia esso dipendente o meno dall'Esecutivo o comunque a lui subordinato: esso lascia gli Stati liberi di seguire la loro tradizione e le loro scelte di politica criminale, indicando però rigorosamente le condizioni che devono in concreto osservarsi perché il modello adottato costituisca un fattore di stabilità democratica e possa comunque - torniamo sempre al problema - assicurare nel procedimento il contraddittorio, nel rispetto di quel principio di egalité des armes tra accusa e difesa, che costituisce una delle componenti essenziali del giusto processo.
L'esame della compatibilità della proposta di riforma con i canoni della raccomandazione e con le altre linee in precedenza indicate non può essere effettuato in astratto. Se si operasse in tal modo, a mio avviso si tratterebbe di una esercitazione accademica con conclusioni alla Candide di Voltaire: il mio è il miglior sistema possibile e, se c'è qualcosa di negativo, questo esiste per un motivo preciso e non può essere altrimenti.
Questa comparazione deve essere effettuata in concreto tenendo conto della situazione italiana, ma mi riferisco alla situazione italiana nel suo divenire, quale cioè essa era al momento della scelta iniziale del costituente e quale essa oggi si presenta, per ciascun momento esaminando e comprando quasi in filigrana la situazione processuale (sistema inquisitorio o accusatorio) con la situazione ordinamentale, e per ciascun momento comparando il complessivo contesto italiano con quello dei Paesi che con il nostro presentano un'affinità di scelte processuali od ordinamentali.
Sotto quest'ultima prospettiva il punto di partenza dell'analisi dovrebbe mirare ad accertare se sia vero che il nostro pubblico ministero è l'unico fra gli ordinamenti sia di civil law che di common law ad essere indipendente dall'esecutivo, l'unico che in un ordinamento processuale di tipo accusatorio fa parte dell'ordine giudiziario, come avviene solo negli ordinamenti processuali di tipo inquisitorio.
Stabilito comunque che il nostro pubblico ministero è indipendente dall'esecutivo e fa parte dell'Ordine giudiziario, occorre chiedersene le ragioni storiche e la perdurante loro validità. Generalmente si dice che il costituente preferì una soluzione di compromesso, agevolata dalla sostanziale sfiducia nella magistratura da parte presumibilmente di entrambe le parti politiche, e quale correttivo del sistema previde il principio di obbligatorietà dell'azione penale.
Non interessa in questa sede chiarire se fu geniale per quei tempi l'armonia compromissoria raggiunta da De Gasperi e Togliatti: quello che interessa è che rispetto al passato, il che vuol dire non solo rispetto al codice Rocco ma alla nostra tradizione risalente al Codice napoleonico, fu innovato in ordine al principio allora vigente della dipendenza del pubblico ministero dall'esecutivo.
La questione della separazione delle funzioni o delle carriere non fu nemmeno sfiorata, perché all'epoca non poteva neanche essere ipotizzata. In un sistema inquisitorio il fatto che il pubblico ministero e il giudice facciano parte di un corpo unico è razionale e addirittura ovvio, così come in un processo accusatorio, vale a dire in un processo di parti sembrerebbe ovvio il


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contrario, con la conseguenza che il problema della separazione delle carriere si sarebbe dovuto porre al momento dell'adozione del nuovo codice o, al più tardi, al momento della costituzionalizzazione delle regole del giusto processo.
La situazione attuale impone una serena riflessione, riflessione però che, a mio avviso, non concerne il principio dell'indipendenza del pubblico ministero. Se invero il diritto a un giusto processo non è concepibile se il giudice non è indipendente da ogni altro potere dello Stato, così il diritto a un giusto processo e a una giusta indagine che lo precede non è concepibile se il pubblico ministero non è indipendente da ogni altro potere. Se vi sono condizionamenti all'inizio dell'indagine, si smarrisce il significato dell'autonomia al momento della decisione.
Il valore dell'indipendenza, da noi conquistato al momento della Costituzione, e per altri Paesi costituenti un obiettivo da raggiungere, deve essere salvaguardato. E questo valore deve a maggior ragione essere salvaguardato nel momento in cui le linee della giurisprudenza di Strasburgo indicano che il giusto processo deve scaturire da una giusta azione del pubblico ministero.
Nel momento in cui la Convenzione europea vede il pubblico ministero come uno dei principali destinatari degli obblighi positivi che essa impone in un giusto processo, risulta evidente che tali obblighi possono essere adempiuti solo da un pubblico ministero indipendente che sia subordinato soltanto alla legge. Tra tali obblighi vi è quello di salvaguardare, nelle indagini come nel processo, la dignità e i diritti di tutte le parti, ivi compresi ovviamente quelli della vittima, che ha il diritto di intervenire nel processo ricostruttivo dei fatti.
Il pubblico ministero è così divenuto autonomo organo di giustizia e promotore dei diritti umani, e la sua posizione e tutela costituzionale non può, a mio avviso, essere garantita con la tecnica normativa del rinvio alla legge ordinaria. Autonomia e indipendenza del pubblico ministero da ogni altro potere sono principi che non possono essere decostituzionalizzati o surrettiziamente aggirati.
La necessità della riflessione concerne invece la questione della perdurante appartenenza di giudice e pubblico ministero a uno stesso ordine. La riflessione concerne in particolare gli effetti di una riforma del codice basata sull'adozione di un sistema accusatorio tipico degli ordinamenti di common law, ma non accompagnato da riforme ordinamentali. Riforme invece adottate dal Portogallo, che pure si è munito di un codice di rito che è una pedissequa traduzione del nostro codice del 1989 - ed entrato in vigore addirittura l'anno precedente al nostro, nel 1988 - e che si è dotato di due Consigli superiori, uno per i giudici e l'altro per i procuratori.
Riflessione sinora mancata sulle ragioni per cui la Francia, che pure ha confermato il sistema inquisitorio in un ordinamento di civil law, si è dotata di una doppia formazione, una per i giudici e l'altra per i pubblici ministeri, nell'ambito di un unico Consiglio superiore della magistratura.
Orbene, se si riflette, a mio avviso possono apparire evidenti le ragioni della differente disciplina. In Portogallo sono stati istituiti due autonomi organi di autotutela perché il pubblico ministero non fa più parte dell'ordine giudiziario. In Francia è stato confermato il solo organo di autotutela con due sezioni perché il pubblico ministero fa ancora parte dell'ordine giudiziario, ma è stata riconosciuta la diversità delle funzioni. Si tratta di scelte coerenti, anche perché diverso è il rapporto che si è venuto a determinare fra il giudice e il pubblico ministero nei rispettivi ordinamenti.
Il distacco - la netta separazione fra il giudice e l'organo che esercita l'azione penale - è infatti connaturato agli ordinamenti di common law o comunque a essi assimilabili; distacco che non è solo funzionale alle esigenze del sistema accusatorio, ma costituisce elemento strutturale a quel modello, modello caratterizzato in linea generale da una rigida separazione


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tra polizia, che ricerca elementi di accusa, attorney, figura che valuta in autonomia l'utilizzabilità di tali elementi, e giudice, davanti al quale si forma la prova nel contraddittorio fra le parti.
È una separazione che non esiste nel nostro sistema, in cui il pubblico ministero forma un blocco monolitico con la polizia e assume funzioni inquisitorie nella fase delle indagini preliminari e funzioni di parte nella fase dibattimentale, con la conseguenza che, a mio avviso, le species del pubblico ministero e del giudice risultano oggi ontologicamente diverse.
Nelle scuole insegnano, e non è leggenda, che, se un attorney per caso entra nello stesso ascensore del giudice, quest'ultimo non può quel giorno esaminare alcun caso in cui sia intervenuto quell'attorney.
Questo distacco non è mai esistito per ragioni storiche nei Paesi di civil law. L'ordinamento di questi Paesi si ricollega per lo più alle riforme che contrassegnarono in Francia il superamento di quella soglia fatale del senso di ingiustizia percepito che generalmente prelude alla rivolta all'ordine costituito e talvolta sfocia nella rivoluzione.
In quel Paese il superamento di tale soglia fatale nel 1790 aveva indotto il re, pressato dall'ondata rivoluzionaria, a porre fine agli abusi del sistema giudiziario dell'Ancien Régime e a effettuare alcune fondamentali riforme, fra cui quella dell'obbligo della motivazione delle sentenze e l'istituzione del Tribunal de cassation.
Uno dei capisaldi della riforma fu costituito dall'istituzione della polizia giudiziaria sotto il controllo del procuratore del re. Questa riforma sorse come reazione al dispotismo di Stato con delatori anonimi, agenti provocatori e polizia segreta, che rendevano bendata la giustizia.
La polizia giudiziaria fu scorporata dalla polizia di sicurezza, distinzione che non esiste nei paesi di common law, cui furono affidati solo compiti di prevenzione del delitto. La polizia giudiziaria, come fu affermato nel codice del 3 brumaio dell'anno IV, ricerca i delitti che la polizia amministrativa non è stata in grado di impedire.
Per tale modo la polizia giudiziaria e il procuratore del re costituirono i filtri delle notitiae criminis e resero credibile e più agevole l'intervento del giudice istruttore davanti al quale si formava la prova con conferma al dibattimento.
L'affidabilità del sistema fu garantita dall'appartenenza sia del procuratore, sia del re all'ordine giudiziario. Questa è la ragione per cui in Francia e poi in Italia pubblico ministero e giudice sono sempre appartenuti all'ordine giudiziario, è il metodo ancora oggi in corso nei sistemi di civil law ed era il sistema vigente sotto il codice Rocco.
Si discute se con l'entrata in vigore del codice Vassalli il pubblico ministero sia ancora condizionato nell'esercizio dell'azione penale dalla notitia criminis (rapporto denuncia e querela) e se questa questione sia intimamente connessa con l'aspro dibattito in corso sui limiti del cosiddetto controllo di legalità.
Su quest'ultimo tema è noto come la maggior parte della magistratura, soprattutto quella associata, rivendichi la titolarità di tale controllo. Si tratta di un controllo preventivo, non legato alla notitia criminis, che consente al pubblico ministero di ricercare se un reato sia stato commesso. Si tratta di un controllo estraneo alla tradizione degli ordinamenti di civil law.
Nel 1990, in occasione di un'inchiesta che svolsi in ufficio giudiziario, io prospettai questo problema sia al Ministero della giustizia, sia al Consiglio superiore della magistratura. Era proprio quello il momento in cui questi organi sarebbero dovuti intervenire su questo tema, a mio avviso, fondamentale. In quell'occasione non ricevetti alcuna risposta da parte né dell'uno, né dell'altro.
Il dibattito normalmente si estende agli analoghi poteri che nei Paesi dell'Est prima della caduta del muro di Berlino erano affidati alla prokuratura di stampo sovietico. Quale condizione per l'ingresso di questi Paesi nella grande Europa il


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Consiglio d'Europa ha preteso la revisione dell'istituto, ritenendo che lo stesso, per la sua pervasività, potesse negativamente incidere sulla stabilità dei sistemi democratici.
Mi scuso di questo lungo excursus, ma esso si è reso necessario per chiarire come all'interno del problema della separazione o meno delle carriere si intreccino le due questioni invocate dal Commissario dei diritti dell'uomo e intimamente fra loro connesse, quelle concernenti l'attuazione del giusto processo e quella riguardante il mantenimento di un equilibrio democratico.
Alla luce delle predette considerazioni e cercando di ricapitolare quanto finora esposto, a mio avviso possono fissarsi i seguenti sistemi. Sotto il sistema del Codice Rocco quale vigente dopo l'entrata in vigore della Costituzione, l'unicità delle carriere e l'esistenza di un unico organo di governo trovavano la loro base razionale sulle seguenti circostanze: il pubblico ministero era un organo giurisdizionale, il suo ruolo era sostanzialmente analogo a quello del giudice istruttore. Poteva infatti nell'istruttoria sommaria procedere all'arresto e alla scarcerazione dell'imputato, e poteva raccogliere la prova che trovava la sua verifica al dibattimento.
Il pubblico ministero e il giudice istruttore o giudice del dibattimento agivano nell'ambito di un sistema inquisitorio definito di tipo misto nella fase sia dell'istruttoria che del dibattimento; i loro ruoli erano ontologicamente analoghi e le loro funzioni diverse solo nella fase dibattimentale convergevano verso un unico obiettivo: l'accertamento della verità.
Il pubblico ministero era legato nell'esercizio dell'azione penale alla notitia criminis e in più aveva il controllo dell'attività di polizia giudiziaria. Per questo ho voluto citare il precedente della Rivoluzione francese: la polizia giudiziaria fu creata e messa sotto il pubblico ministero per controllare in caso di reato l'attività della polizia.
Quello che oggi viene con sicura accentuazione ed è un protagonismo di qualche rappresentante del pubblico ministero, all'epoca non si poneva come un problema, perché di fronte a un atteggiamento non gradito da parte del pubblico ministero la difesa si difendeva chiedendo immediatamente la formalizzazione del processo. La cultura della giurisdizione era ed è stata assicurata dal Consiglio superiore della magistratura nell'ambito della sua attività di formazione continua dei magistrati, ed è questo un argomento che viene costantemente apposto a chi parla di separazione delle carriere sotto il profilo che lasciato libero il pubblico ministero acquisirebbe una mentalità di tipo poliziesco.
Questo era sotto il sistema del Codice Rocco, ora vediamo che cosa è successo sotto il sistema del Codice Vassalli non come fu originariamente ideato - ho avuto l'onore di partecipare anche ai lavori della Commissione per il Codice - ma quale esso si è presentato in conseguenza delle note sentenze della Corte costituzionale del 1992 e della successiva legislazione dell'emergenza.
Per quanto concerne la separazione delle carriere a mio avviso nella costituzione di un duplice organo di autogoverno si potrebbe ritenere preferibile questa soluzione sulla base delle seguenti circostanze. Il pubblico ministero che non arresta e non acquisisce la prova non si ritiene possa ancora essere definito organo giurisdizionale: esso resta certamente organo giudiziale o meglio, come si è visto sopra, organo di giustizia, promotore dei diritti dell'uomo. È organo di giustizia per il fine di giustizia che oggi legittima il suo agire, posto che lo scopo ultimo del processo ormai riconosciuto in tutta l'Unione europea è quello di trattare in modo corretto tutti gli affari per pervenire al proscioglimento dell'innocente e alla condanna del colpevole.
In conseguenza della rivoluzione copernicana operata con la Convenzione, anche il ruolo del pubblico ministero è cambiato: è un organo che deve attuare le regole del giusto processo. Alla luce della Convenzione europea è promotore dei diritti umani perché non deve più come si diceva


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un tempo «vendicare il diritto violato», ma deve oggi rivendicarlo, promuovendo nel rispetto del principio del contraddittorio il corretto accertamento e una reazione dell'ordinamento adeguata e proporzionata alla violazione.
Desidero infine porre in evidenza che il pubblico ministero - ma questa era una situazione a noi già nota da anni - in tema di libertà personale, per le esigenze dell'articolo 5, paragrafo 3 della Convenzione, non può oggi neanche più essere assimilato a un magistrato abilitato dalla legge a esercitare funzioni giudiziarie, come ripetutamente ha chiarito la Corte europea, e come da ultimo ha sancito nei confronti della Francia con la sentenza Moulin del 23 novembre 2010.
In seconda battuta, il fatto che il pubblico ministero assuma la funzione di inquirente nella fase inquisitoria del procedimento e di parte nella fase accusatoria porterebbe a escludere, per le considerazioni già esposte, che lo stesso possa far parte di un unico corpo con il giudice. La funzione e il ruolo del giudice e del pubblico ministero appaiono ontologicamente diversi. La separazione funzionale è connaturata con quella organica.
La necessità della separazione ordinamentale sembrerebbe ancora rafforzata dalla circostanza che il pubblico ministero, in una fase accusatoria, fa valere dinanzi al giudice e nei confronti dell'imputato elementi di prova, raccolti nell'ambito di una fase inquisitoria di concerto e con l'ausilio delle forze di polizia.
Non tocco i profili delle ulteriori garanzie del diritto a un tribunale indipendente e imparziale perché resta assorbito, se si accetta il principio della separazione delle carriere.
Orbene, se si afferma la necessità di separare le carriere, si deve derivare, quale naturale conseguenza, l'istituzione di un separato organo di autogoverno per il pubblico ministero. Solo per tal modo, infatti, si può garantire anche al pubblico ministero l'indipendenza a lui riconosciuta rispetto all'esecutivo e a ogni altro potere dello Stato. In quest'ottica, la composizione dell'organo di autogoverno dovrebbe essere tale da impedire che i membri togati siano messi in minoranza dai laici. Dico questo, contrariamente a quel che ritiene al riguardo la Commissione di Venezia al suo paragrafo 66.
È chiaro che, se si dovesse operare nel senso della separazione delle carriere - questo a mio avviso è il punto nodale della questione -, con la susseguente istituzione di un autonomo Consiglio superiore della magistratura requirente, vi sarebbe la necessità di regolamentare con chiarezza i compiti di indagine del pubblico ministero e i suoi rapporti con la polizia giudiziaria, e ciò al fine di eliminare in radice il rischio della creazione di un corpo separato dello Stato, idoneo a incidere sull'equilibrio democratico e sul principio di sicurezza giuridica dei cittadini, principio cardine di ogni società democratica.
In tale prospettiva sarebbe importante chiarire, se del caso apportando le necessarie modifiche legislative, che il pubblico ministero dovrebbe rimanere pur sempre legato, nell'esercizio dell'azione penale, alla notitia criminis, che cioè il pubblico ministero non è il dominus del controllo di legalità. Esso invero dovrebbe tendere alla ricostruzione della legalità violata, ma non potrebbe estendere la sua azione alla verifica che la legalità non sia stata per caso violata.
Ove dovesse modificarsi quest'ultima ipotesi, il pubblico ministero verrebbe arbitrariamente ad assumere compiti di polizia della pubblica amministrazione e della politica. Perciò il pubblico ministero dovrebbe continuare ad avere, limitatamente alla notitia criminis, la diretta disponibilità della polizia giudiziaria. Quindi, il pubblico ministero non è il capo della polizia, ma rimarrebbe tuttora il controllore della polizia giudiziaria, il garante cioè della legalità processuale, sia sul versante investigativo sia su quello di sua esclusiva competenza dibattimentale.
In sostanza, a mio avviso, è una questione di scelta e di coerenza dei due sistemi. Noi dovremmo sempre tenere conto che la nostra tradizione è stata


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quella inquisitoria e che con il nuovo codice si è cercato di inserire un modello di tipo accusatorio.
A me sembra opportuno ricordare che, all'esito di un appassionante dibattito, di cui vi è traccia nei lavori preparatori dello statuto della Corte penale internazionale, si sancì che il procuratore può aprire un inchiesta solo dopo aver valutato le informazioni sottoposte alla sua conoscenza - la notitia criminis - e a condizione che le informazioni in suo possesso forniscano un ragionevole fondamento per supporre che un reato di competenza della Corte sia stato o stia per essere commesso.
Infine, all'argomento opposto sulla consequenziale perdita della cultura della giurisdizione va obiettato che la cultura della giustizia dovrebbe trovare la sua fonte in una scuola superiore unica aperta ad avvocati, giudici, pubblici ministeri e ufficiali di polizia giudiziaria. Io sento sempre parlare al Consiglio superiore di una scuola, ma ne ho perduto le tracce.
Mi sono ritrovato, invece, di fronte il modello del LAPEC, il cosiddetto Laboratorio permanente esame e controesame, formato da illuminati avvocati, docenti universitari, giudici, pubblici ministeri e tecnici, che sta disincrostando dogmi e pregiudizi di stampo inquisitorio e che ha finalmente avviato, dopo oltre vent'anni - stiamo parlando di una generazione - una cultura della civiltà accusatoria.
Solo per completezza di esposizione esamino la questione concernente la scelta delle priorità per regolare il principio di obbligatorietà dell'azione penale.
In un seminario cui nel 1975 partecipai a Strasburgo sotto la guida del mio maestro, Girolamo Tartaglione, vittima delle Brigate rosse nel 1978, emerse che nei Paesi in quel momento aderenti al Consiglio d'Europa vi era una tale convergenza in pratica sui princìpi di legalità, obbligatorietà e facoltatività dell'azione penale, da fare apparire inutile la distinzione.
Su questo punto il presidente Lupo ha indicato un modo semplice. Anche io sono d'accordo che un modo semplice ci sarebbe anche per il penale e sarebbe quello di inserire su determinazione consiliare la scelta delle priorità nel circuito virtuoso istituito dalla circolare del Consiglio superiore del 1999 emessa in attuazione dell'articolo 6 del decreto legislativo n. 106 del 2006 sull'organizzazione degli uffici di procura.
Si tratta di un procedimento di garanzia che sta manifestando grandi e inaspettate potenzialità innovative e che trova il suo vertice nel Consiglio superiore della magistratura, vedendo coinvolti il procuratore generale di appello, i dirigenti degli uffici di procura e l'intervento del procuratore generale della Corte di cassazione.
Si tratta di un'autentica rivoluzione copernicana con cui per la prima volta in Italia è stato valorizzato nell'organizzazione degli uffici il concetto di uniforme esercizio dell'azione penale e per la prima volta l'uniformità è stata correlata al rispetto delle norme sul giusto processo.
Nel suo rapporto la Commissione di Venezia indica proprio nell'individuazione delle priorità un settore nel quale il Parlamento, il Ministro della giustizia e il Governo possono a giusto titolo giocare un ruolo decisivo nell'elaborazione della politica in materia di esercizio dell'azione penale.
La delicatezza del tema e la rilevanza degli interessi in gioco suggerisce, però, la necessità di una previsione costituzionale. Occorre rilevare che tra i settori di intervento finora esplorati ha avuto un esito particolarmente positivo quello ancora in corso svolto in stretta cooperazione anche con i competenti uffici del Ministero della giustizia, le cui risultanze saranno sottoposte alle determinazioni del Consiglio superiore, concernente l'iscrizione delle notizie di reato nei relativi registri.
Si tratta di un modo, a mio avviso, quasi ideale di cooperazione tra la magistratura, il ministero e il Consiglio superiore della magistratura per raggiungere alcuni obiettivi.
In ogni caso, data la rilevanza degli interessi, ritengo necessaria un'apposita previsione costituzionale che potrebbe anche essere quella per cui la previsione deve essere effettuata annualmente e di


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concerto fra il ministero, il Consiglio superiore della magistratura e il circuito virtuoso creato dal Consiglio superiore stesso.
Desidero ancora aggiungere che il problema della priorità sta assumendo in Europa un'importanza decisiva, perché il Consiglio dell'Unione europea si sta interessando del tema e ha creato il Forum dei procuratori generali quale organo consultivo del Consiglio dell'Unione europea. Ho già partecipato alla riunione preparatoria in cui è stato istituito il Forum e nella prossima riunione si stabiliranno le reti operative. Ho già creato all'interno dell'ufficio un organismo che dovrà creare i rapporti tra il Forum dell'Unione che è rappresentato da tutti i procuratori generali d'Europa e i procuratori generali di appello e i magistrati per il prosieguo delle attività, che richiedono tutte una stretta regolamentazione.
Vi ringrazio dell'attenzione e rimango a vostra disposizione per ogni eventuale domanda.

PRESIDENTE. Grazie, procuratore, ritengo che la sua relazione sia stata del tutto esaustiva. La ringrazio anche a nome del presidente Bruno e delle Commissioni. Il documento che il procuratore Esposito ha consegnato alla presidenza sarà messo a disposizione delle Commissioni.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del professore Roberto Romboli, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Pisa.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e sulle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del professor Roberto Romboli, ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Pisa.
Do la parola al professor Romboli.

ROBERTO ROMBOLI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Pisa. Vi ringrazio dell'invito. L'esperienza costituzionale del 2006, ovvero il tentativo non riuscito di revisione costituzionale, aveva fatto concludere sia a livello dottrinario sia a livello politico - intendendo con tale accezione le discussioni parlamentari conseguenti - che non si sarebbero fatte più sotto il punto di vista sostanziale riforme organiche, ma solo manutenzione o al massimo piccole, puntuali riforme, e che non si sarebbero fatte più, come metodo, revisioni e riforme di maggioranza, ma solo riforme condivise. La costituzione di maggioranza è una contraddizione in termini rispetto al concetto stesso di costituzione, perché comporta uno stravolgimento anche dello stesso procedimento.
L'articolo 138 della Costituzione prevede un referendum oppositivo, che nella logica di quello stesso articolo è chiaramente uno strumento eccezionale - tanto che dal 1970 al 2000 non si è mai utilizzato - e che con le costituzioni di maggioranza rischia all'evidenza di diventare uno strumento invece ordinario.
Il disegno di legge sul quale sono invitato a esprimere un giudizio è di iniziativa governativa, a firma Berlusconi-Alfano, una proposta di revisione di maggioranza. Si dà praticamente per scontato - non è un caso - che nell'ipotesi in cui il Parlamento l'approvi a maggioranza assoluta ci sarà un referendum, vale dire che è ormai un tipo di riforma costituzionale dove il referendum è dato quasi per scontato, con sostanziale modifica del procedimento dell'articolo 138 della Costituzione.
È anche una riforma organica, certamente non una riforma di dettaglio: essa riguarda un intero Titolo della Costituzione, una materia essenziale, come ha affermato il presidente Lupo, quasi da pensare, in alcuni aspetti, che si tratti di


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profili immodificabili della Costituzione. Invece, si vanno a toccare e modificare profondamente gli aspetti caratterizzanti del Titolo IV.
I princìpi costituzionali del 1948, e come essi sono stati attuati nei sessanta anni successivi, hanno dato vita a un modello: il modello italiano di ordinamento giudiziario, come si legge nei manuali di diritto comparato. Tra i punti cardine di questo modello, vi sono l'autonomia e indipendenza esterna del giudice, garantite soprattutto dal Consiglio superiore della magistratura; l'indipendenza interna del giudice contro l'organizzazione gerarchica all'interno della magistratura, garantita in maniera particolare, oltre che dal CSM, dal sistema tabellare d'attuazione della precostituzione del giudice per legge; l'indipendenza del pubblico ministero dal potere politico, in stretta connessione con l'obbligatorietà dell'azione penale.
La riforma incide fortemente su tutti questi elementi e cambierebbe, pertanto, il modello italiano di ordinamento giudiziario. Cercherò di dimostrarlo attraverso alcuni riferimenti di carattere generale, toccando poi i tre punti cardine, a mio avviso, di questa riforma - Consiglio superiore della magistratura, pubblico ministero e responsabilità del giudice - per finire indicando alcuni elementi di cui in una riforma di questo tipo avrei senz'altro creduto di trovare traccia, ma dei quali, invece, quasi incredibilmente non si parla.
Comincio con gli elementi di carattere generale. È noto come la Costituzione ha non solo un valore giuridico, ma anche un valore simbolico. Quale è il significato di cambiare il nome del Titolo IV da «La magistratura» in «La giustizia»? È chiaro che dal punto di vista sostanziale non ha nessuna ricaduta. Perché, allora, creare questa disarmonia nella Costituzione? Il Parlamento, il Governo, il Presidente della Repubblica, la giustizia: non più l'organo ma la funzione.
Quanto all'eliminazione del termine «altro» dall'articolo 104 della Costituzione - «la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere» così recita la Costituzione - anche questa, a mio avviso, non ha nessuna ricaduta dal punto di vista pratico. È soltanto, di nuovo, un elemento sintomatico e simbolico di un certo tipo di riforma. Perché si sopprime «altro»? Per dire che la magistratura non è un potere dello Stato.
Il problema se la magistratura sia o non sia un potere dello Stato credo lo si risolva concretamente solo riflettendo su cosa vuol dire «potere». Se potere si intende come potere diffuso, cioè nell'accezione della Corte costituzionale, e quindi nel senso di organo cui è attribuita una competenza costituzionalmente garantita, sicuramente la magistratura, o meglio il singolo giudice è potere dello Stato. Non è un caso che da anni, Parlamento compreso, si elevano conflitti nei confronti della magistratura, conflitti tra poteri dello Stato.
Se potere dello Stato vuol dire un blocco unitario che si contrappone unitariamente a un altro potere legislativo ed esecutivo, sicuramente la magistratura non è potere dello Stato. La magistratura è unitaria soltanto per lo status dei suoi componenti; la magistratura svolge una funzione di garanzia dello Stato costituzionale nel suo complesso e non certo come una parte che si contrappone alle altre parti. In questo senso, né potere né tanto meno contropotere. Se è chiaro il concetto, il dire altro o il togliere altro non ha alcuna conseguenza pratica.
Il terzo elemento significativo è rappresentato dalla decostituzionalizzazione delle garanzie e dai rinvii alla legge ordinaria.
L'inamovibilità, la garanzia più antica e classica della magistratura, può essere in questa riforma limitata con una legge ordinaria del Parlamento.
Ancora, solo per richiamare alcuni aspetti, il sorteggio per eleggere il CSM è tutto da definire, come preciserò tra un momento, dalla legge. La separazione delle carriere, i limiti dell'obbligatorietà dell'azione penale, i rapporti tra pubblico ministero e polizia giudiziaria sono anch'essi tutti rimessi alla legge. Si tratta,


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quindi, di una modifica il cui contenuto è in larghissima parte rimesso alla legge.
Tornando ai tre punti, il primo, probabilmente uno dei più importanti, riguarda il CSM. Esso nasce, come è noto, per evitare che un dato tipo di attività, quella che significativamente viene indicata come amministrazione della giurisdizione, sia esercitata dal Governo e per questo dal ministro della giustizia.
È espressione dell'autonomia della magistratura, per cui la maggioranza, i due terzi, è composta da magistrati eletti da magistrati. Si vuole evitare l'isolamento, attraverso la presenza di membri laici in ragione di un terzo, ma soprattutto tale presenza ha un significato ben preciso. È chiaro che l'amministrazione della giurisdizione non è una normale attività amministrativa, ma è un'attività che ha in sé una caratteristica di «inevitabile politicità». Per questo motivo un terzo dei suoi componenti sono membri laici e addirittura l'organo è presieduto dal Capo dello Stato.
La realizzazione del modello italiano di ordinamento giudiziario deve molto all'attività e alla funzione che ha svolto in questi anni il CSM, anche se sicuramente con alcuni limiti. Le critiche più ricorrenti, come è noto, sono la politicità (parlamentino dei giudici, terza Camera) oppure l'eccessivo peso delle correnti. Entrambe sono vere, almeno parzialmente, ma esiste la possibilità di risolvere questi aspetti ampiamente attraverso il ricorso alla legge ordinaria.
La riforma costituzionale, invece, è una riforma che esprime un giudizio pesantemente negativo e - permettetemi - liquidatorio del Consiglio superiore della magistratura, sotto l'aspetto sia della composizione, sia, ancora di più, delle funzioni.
In merito all'accusa di politicità, un po' contraddittoriamente, si aumentano i membri di nomina politica. Si portano, infatti, a metà i componenti laici, che chiaramente non possono che portare un elemento di maggiore politicità.
In materia di correnti, contro di queste si prevede un previo sorteggio. Vorrei ricordare che inevitabilmente la presenza di correnti è correlata ad elementi negativi, ma anche che essa non deve essere ritenuta necessariamente un elemento negativo.
Leggo la raccomandazione rivolta al nostro Paese dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa il 17 novembre 2010, dove si legge che «i giudici devono essere liberi di formare e aderire a organizzazioni professionali i cui obiettivi siano di garantire la loro indipendenza, tutelare i loro interessi e promuovere lo Stato di diritto».
A proposito del CSM, di cui pure si parla in questa raccomandazione, si dice testualmente che «la composizione deve rispettare il pluralismo all'interno del sistema giudiziario». Il previo sorteggio, a parte l'originalità (a quanto mi risulta in Europa non esiste nessuna esperienza di previo sorteggio, nonostante il problema delle correnti sia presente in molti altri Paesi), è una previsione tutta da definire ed eccessivamente generica. Ci si chiede infatti a quante persone, rispetto a quelle da eleggere, il previo sorteggio dovrebbe riferirsi: il doppio, i due terzi, dieci volte o cinquanta? Per paradosso, potrebbe essere sorteggiato un numero pari a quelli da eleggere, in maniera da non eleggere nessuno, perché non c'è nessun limite e nessuna indicazione rispetto al numero degli eventuali sorteggiati.
Se il numero è troppo ampio, può essere del tutto inefficace per eliminare le correnti, o può essere assolutamente casuale e altrettanto sicuramente contro la natura rappresentativa che è connessa a magistrati eletti da magistrati.
Passo ora alle funzioni del CSM, laddove si fissa il principio della tassatività delle funzioni. Il CSM può solo provvedere ad assunzioni, assegnazioni, trasferimenti e promozioni: non può esercitare funzioni diverse da quelle previste nella Costituzione. Questo significa alla lettera eliminazione del potere di esprimere pareri.
Sabato scorso ho concluso un convegno a Madrid sul Consiglio superiore della magistratura in Europa e in Sudamerica, e mezza giornata è stata dedicata interamente al problema dei pareri, discutendo


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sul carattere obbligatorio o meno, vincolante o meno, di iniziativa o d'ufficio, su cosa poter dare i pareri.
Alla soluzione - che ho ricordato - prospettata da questo disegno di legge costituzionale il relatore di sintesi, un collega argentino, presidente dell'Associazione argentina dei costituzionalisti, ha risposto dichiarando che la soluzione italiana è senz'altro efficace e ha affermato che da loro si dice che se un cane è ammalato di rabbia si elimina la rabbia uccidendo il cane, per cui si eliminano tutti i problemi dei pareri eliminando la possibilità di farli.
Ancora di più sembrerebbe eliminata quella facoltà, possibilità esercitata che va sotto il nome improprio di attività paranormativa, che produrrebbe degli effetti - consentitemi - disastrosi per le finalità di realizzazione dell'indipendenza del giudice sia interna sia esterna. Una parte notevole dell'attività paranormativa è costituita da circolari autolimitative del potere del CSM, in cui si indica quali criteri si seguiranno, dando trasparenza e anche possibilità di ricorso nei confronti dei provvedimenti. Eliminare questa attività vorrebbe dire ampliare l'arbitrio di chi decide.
Ancora di più si eliminerebbero - credo che questo sia un effetto non considerato - cinquanta anni di elaborazione del sistema tabellare, iniziata nel 1962 con la garanzia di precostituzione del giudice per legge e conclusa dopo cinquant'anni, con il sistema tabellare che realizza l'indipendenza interna del giudice.
Pensando a un organo che ha solo le funzioni scritte in questo disegno di legge, viene davvero da chiedersi perché mai, per giudicare sui trasferimenti dei magistrati, metà dei membri debbano essere eletti a maggioranza qualificata dal Parlamento e, addirittura, quest'organo debba essere presieduto nientemeno che dal Capo dello Stato. La funzione a cui si pensava e che è prevista nella Costituzione è, dunque, ben diversa.
L'asse tra il CSM e il ministro è decisamente sbilanciato verso il ministro. Si costituzionalizza il potere di ispezione. Mi limito soltanto a dire che, al di là dell'opportunità, non c'è alcun riferimento alla legge. Se si costituzionalizza, forse sarebbe opportuno prevedere la possibilità che una legge fissi presupposti e limiti del potere di iniziativa, onde evitare un uso intimidatorio della ispezione, che esempi abbastanza recenti o recentissimi sembrano aver dimostrato.
Del pubblico ministero ha parlato ampiamente il procuratore della Corte di cassazione, Vitaliano Esposito. È un'interpretazione sicuramente molto minoritaria quella che emerge da questo disegno di legge costituzionale. Quasi nessuno aveva dubitato che la previsione in base alla quale i giudici sono soggetti soltanto alla legge avrebbe riguardato sia la magistratura giudicante sia quella requirente. Nessuno pensava che per giudici si intendessero soltanto gli organi giudicanti.
Invece si dice che il pubblico ministero non è soggetto soltanto alla legge, ma forse anche a qualcos'altro. Il pubblico ministero è fuori dalla giurisdizione, e ciò è decisamente in contrasto con la giurisprudenza costituzionale che più volte, sia prima sia dopo la riforma del codice di procedura penale, ha sottolineato come il pubblico ministero sia una parte processuale non paragonabile alla parte privata.
Faccio solo l'ultimo esempio, in ordine di tempo, della giurisprudenza costituzionale. Come è noto, nel giudizio di costituzionalità delle leggi, la questione può essere presentata al giudice sia dalla parte privata sia dal pubblico ministero come parte processuale. Davanti alla Corte costituzionale le parti private si possono costituire, il pubblico ministero no perché in questo non è loro paragonabile. Il pubblico ministero fa parte della giurisdizione, persegue un interesse pubblico generale che non è certo quello delle parti private.
A proposito della separazione delle carriere, poiché ne ha parlato abbondantemente il procuratore Esposito, mi limito a dire che, se oltre alla terzietà, si pone il problema di ridurre i poteri del pubblico ministero, ho l'impressione che si produrrebbe l'effetto esattamente opposto.


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Se l'effetto opposto di un rafforzamento anziché di una diminuzione di potere del pubblico ministero, trasformato in un soggetto autonomo, si associa alla riduzione dell'indipendenza esterna e alla soppressione dell'indipendenza interna - si parla solo di ufficio e non più di pubblico ministero -, e se a questo si aggiunge che il pubblico ministero non è soggetto soltanto alla legge ed è fuori dalla giurisdizione, il timore di uno spostamento verso l'esecutivo è inevitabile.
In merito all'obbligatorietà dell'azione penale, i valori connessi all'obbligatorietà sono riconosciuti da tutti: legalità, uguaglianza, indipendenza del pubblico ministero. In questo disegno di legge viene introdotto il principio per cui esiste una discrezionalità di fatto. Non si riesce concretamente a realizzare il principio. Neppure il principio di uguaglianza sostanziale dell'articolo 3 della Costituzione si è realizzato in tutti questi anni, ma nessuno ha mai pensato di abolirlo. Un principio si deve nei limiti del possibile tendere a realizzare, non ad abolire.
La priorità prevista per legge è possibile, certo, ma come assoluta extrema ratio, perché conduce a una sostanziale amnistia per alcuni reati o può condurvi. Se così è, c'è da chiedersi se, nel caso in cui come extrema ratio si pensasse alla legge, debba bastare una legge ordinaria o l'amnistia, come è noto, per cui ci vogliono i due terzi. In questo caso per lo meno occorre una legge a maggioranza assoluta e non una legge ordinaria.
L'ultimo riferimento è sulla responsabilità del giudice. Mi riferisco solo per motivi di tempo alla responsabilità civile. Sicuramente la clausola di salvaguardia assoluta prevista dalla legge del 1988 è contraria al diritto comunitario. Va rivista, ma il disegno di legge si spinge molto oltre e prevede la responsabilità diretta del magistrato, come responsabilità civile, e soprattutto che essa valga - siamo di nuovo di fronte a un valore anche simbolico molto importante - per il magistrato al pari degli altri funzionari dello Stato.
Il termine «altro», che è stato soppresso in relazione a «potere», viene aggiunto a «funzionario». Il magistrato è un funzionario dello Stato come tutti gli altri. Ciò nega un'elaborazione che - a partire da Giuseppe Maranini, il primo a porre il problema di magistrati o funzionari - è ormai decisamente superata, nel senso che l'attività giurisdizionale è assolutamente diversa.
Questo è stato affermato a livello europeo nella sentenza Köbler nel 2003, la quale ha rilevato come lo Stato debba rispondere delle violazioni del diritto comunitario anche quando commesse da un giudice, ma ha anche precisato che, mentre per tutte le altre violazioni basta una semplice violazione del diritto comunitario, quando a commetterla è un giudice, la violazione deve essere manifesta.
La Corte costituzionale ha ritenuto che l'articolo 28 della Costituzione valga anche per i magistrati, ma ha sottolineato la singolarità della funzione giurisdizionale, la natura dei provvedimenti giudiziari, la posizione super partes dei magistrati che può suggerire condizioni e limiti alla responsabilità del giudice.
Rilevo, infine, alcune strane o poco spiegabili dimenticanze.
Tutti gli articoli o quasi del Titolo IV della Costituzione sono stati toccati, tranne l'articolo 103 sui giudici speciali. Il tema dei giudici speciali è quello più dibattuto e sul quale, come ricordava anche il presidente Lupo, è unanime la riflessione nel senso della necessità di una modifica che riguardi o l'eliminazione, per una totale unità della giurisdizione, o la posizione maggioritaria, quanto meno per una revisione dello status dei giudici speciali.
È emblematico il caso dei giudici amministrativi, che la vicinanza all'Esecutivo rende chiaramente poco indipendenti; basti pensare alle nomine, al passaggio dalla sezione consultiva a quella giurisdizionale, alla partecipazione ai Collegi arbitrali, agli incarichi ministeriali, ma l'articolo 103 della Costituzione non viene assolutamente toccato.


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Secondo aspetto: i giudici onorari. Al di là degli esperti, credo che pochi sappiano che in Italia oltre la metà dei magistrati sono magistrati onorari. Questo vuol dire che quando si parla di magistratura la magistratura onoraria non è un elemento secondario, ma è la maggioranza dei nostri magistrati. I giudici onorari hanno garanzie di indipendenza molto scarse, non hanno ovviamente un CSM, né possono partecipare alla votazione, indipendenza e imparzialità sono decisamente minate dal tipo di rapporto a termine dei giudici onorari, ma si è intervenuti semplicemente aggiornando un aspetto relativo alla competenza e neppure rinviando alla legge.
Si tratta di un progetto di legge che è in discussione da molto tempo - io ho partecipato alla Commissione nominata da Fassino e poi confermata dal Ministro Castelli per il progetto Acone - ma che non è mai stata approvato così come per la modifica delle circoscrizioni e così pure per la scuola della magistratura, della quale al di là dei problemi connessi alle sedi sembra si siano perse completamente le tracce.

PRESIDENTE. Grazie, professore, per la sua esaustiva esposizione.
Do la parola ai deputati che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

DONATELLA FERRANTI. Tanti temi sono già stati trattati, professore. La parte riguardante la disciplinare è vista nell'ottica di una possibile modifica del quadro attuale, vale a dire una sezione disciplinare attualmente all'interno del CSM. Vorrei sapere dal professor Romboli quali siano le critiche riguardo la sezione disciplinare dei magistrati ordinari, se è possibile una comparazione con quello che avviene per le altre magistrature e la soluzione prescelta da parte del progetto Alfano e se invece anche sono possibili soluzioni di modifica anche a livello di legge ordinaria.

ROBERTO ZACCARIA. Un tema che mi interessa e che qualcuno ha affrontato in precedenti audizioni è quello della ricaduta di questo tipo di intervento sulla Costituzione con riferimento in particolare alle garanzie previste nella prima parte per i diritti fondamentali.
Lei, professore, ha trattato il problema del conflitto di attribuzione, che naturalmente può essere toccato con riferimento ad alcune delle disposizioni che innovano il Titolo IV, ma la cosa che mi interessa di più è il riferimento molto frequente all'autorità giudiziaria che, con riguardo ai diritti fondamentali, viene fatto a partire dall'articolo 13 della Costituzione. Mentre nel disegno di legge in una norma viene specificato il significato dell'autorità giudiziaria - comprendendo sia il giudice che il pubblico ministero, con riferimento al rapporto con la polizia giudiziaria - la ricaduta di questa distinzione tra giudice e pubblico ministero non viene invece armonizzata con riferimento a tutta la prima parte della Costituzione, e quindi con il problema delle garanzie per i cittadini e dei diritti fondamentali.
Volevo conoscere una sua valutazione circa le ricadute su quei principi, su quella struttura normativa, sulle garanzie previste nella prima parte della Costituzione.

GIANCLAUDIO BRESSA. Una domanda brevissima sulla questione della obbligatorietà. Il presidente Lupo ha affermato chiaramente che fare riferimento all'indicazione di alcuni criteri non significa negare l'obbligatorietà di fatto. A questo proposito, che opinione ha?

GAETANO PECORELLA. Vorrei approfondire un aspetto costituzionale. Il nostro ospite ha criticato l'individuazione di limiti alle attività del Consiglio superiore della magistratura. Visto che l'attuale norma resta identica, vale a dire che i compiti sono quelli previsti dalla norma attuale e futura, è costituzionalmente consentito che un organo di rilevanza costituzionale si attribuisca funzioni e poteri che la Costituzione non gli ha dato?

PRESIDENTE. Do la parola al professore Romboli per la replica.


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ROBERTO ROMBOLI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università degli studi di Pisa. Inizio dalla domanda dell'onorevole Pecorella.
Il carattere di organo di rilevanza costituzionale ha fatto ritenere che, nell'attività di amministrazione della giurisdizione, esistano due soggetti competenti a intervenire: il ministro della Giustizia e il Consiglio superiore della magistratura.
Vi sono alcune funzioni indicate nella Costituzione sulle quali ovviamente non si discute, cioè funzioni proprie del ministro e funzioni proprie del CSM. L'ampia discussione, come saprà, riguarda le zone grigie, intermedie, dove non è specificato se la competenza sia del ministro o del CSM.
In maniera particolare, partendo dalla natura di rilevanza costituzionale dell'organo, si è ragionato sulla finalità per la quale questo organo è stato previsto, cioè garantire l'indipendenza esterna del giudice. Come organi di rilevanza costituzionale, le funzioni di autodisciplina, cioè di regolamentazione interna, sono riconosciute anche alle autorità amministrative indipendenti. A mio avviso, la possibilità da parte del CSM di svolgere un tipo di attività essenzialmente di autoregolamentazione deriva proprio dalla natura di organo di rilievo costituzionale.
Il potere di emettere pareri, come lei sa, è previsto dalla legge, non se lo è attribuito il CSM. È la legge a prevedere che al CSM possa essere richiesto di esprimere pareri su alcune materie. Mi riferisco alla legge del 1958. Non è quindi una auto-attribuzione, ma un'attribuzione che gli deriva dalla legge.
L'ipotesi più discussa e sicuramente discutibile può essere la cosiddetta attività paranormativa che ha rilevanza esterna e non solo interna. Credo però che si possa riconoscere come questa attività abbia colmato una serie di lacune che si sono manifestate e su cui non si è mai impedito al legislatore di intervenire, se avesse voluto. Lo strumento spesso è molto semplice, ed è quello di intervenire e di disciplinare, come il legislatore ha fatto, entro determinati limiti, nel 1958.
L'onorevole Bressa ha chiesto se e in che limiti l'obbligatorietà possa essere regolata. Io ritengo che l'obbligatorietà sia un principio che, proprio per i valori che esprime, debba essere mantenuto, ribadito e realizzato con numerosi strumenti disponibili - è inutile che li ricordi - che vanno nel senso di una diminuzione e, quindi, di una possibilità di realizzare meglio l'obbligatorietà dell'azione penale.
È ovvio che, come affermato dal presidente Lupo - sia nell'ambito del singolo ufficio, sia in generale - la possibilità di un intervento della legge dovrebbe essere prevista come extrema ratio. Per questo motivo l'alternativa tra le circolari, che ha iniziato a emanare Vladimiro Zagrebelsky prima, quando era procuratore, e il fatto di prevederle per un singolo ufficio, potrebbe essere l'espressione dell'eccezionalità, per cui chi non ne ha bisogno non le emana. Diversamente, il prevederle per legge è sicuramente sotto un aspetto generale più democratico, perché è l'intervento di una legge uguale per tutti, ma presenta anche il limite di dare la misura di un'amnistia mascherata per chi sta in fondo nell'elenco dei reati.
L'onorevole Ferranti ha posto il problema della responsabilità disciplinare. L'ho saltato per questioni di tempo e l'ho limitato solo alla responsabilità civile. In tema di responsabilità disciplinare, come è noto, ci sono due esigenze che questo disegno di legge costituzionale tende a realizzare: da un lato, distinguere l'amministrazione dal disciplinare - chi decide sull'amministrazione, cioè sulla carriera e sugli aspetti amministrativi, non deve essere lo stesso soggetto che decide anche sul disciplinare - e dall'altro regolare un elemento più ricorrente, che fa riferimento spesso anche nella relazione a questo disegno, ovvero il carattere domestico della responsabilità disciplinare.
A mio avviso, la soluzione della legislazione più recente in questo senso è quella di togliere la discrezionalità. È chiaro che, nel momento in cui la responsabilità disciplinare viene addotta per chiunque attenti all'onore dell'ordine giudiziario,


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ciò significa tutto e niente, e significa permettere a un organo di eccedere in un senso o nell'altro.
La tassatività degli illeciti disciplinari è, invece, garanzia di una maggiore concretezza e limitazione della discrezionalità di chi decide, così come pure la trasparenza e la pubblicità del procedimento, l'obbligo di motivazione e, in fondo, il ricorso anche alla possibilità di andare davanti al giudice amministrativo.
La giurisdizione domestica è una soluzione che lascia alquanto straniti. Si toglie al CSM perché sarebbe troppo domestico, ma poi si costituisce una Corte di garanzia che è identica alla composizione del CSM. Non si capisce effettivamente perché dovrebbe essere meno domestico sotto questo aspetto la Corte composta in maniera identica al CSM o meglio a uno dei due Consigli superiori.
Sono d'accordo con quanto affermato dall'onorevole Zaccaria nel senso - se ho ben capito - che abbiamo una Costituzione, non due. Non abbiamo una prima e una seconda parte, non abbiamo una parte immodificabile e una parte liberamente rilasciata al gioco politico nella misura in cui i diritti previsti nella parte prima trovano una garanzia non a caso in organi collocati tutti nella parte seconda. Mi riferisco, oltre che alla magistratura, alla Corte costituzionale e al limite anche al procedimento di revisione costituzionale. È quindi evidente che indebolire in questo caso l'indipendenza del giudice indebolisce la tutela dei diritti.
Per quanto riguarda l'altra parte della sua domanda, credo che, nell'ipotesi in cui questo progetto fosse approvato, porrebbe un grossissimo problema di tecnica legislativa. Oggi, quando si parla di giudice in linea di massima si fa riferimento anche al pubblico ministero. Nelle decisioni e raccomandazioni anche a livello europeo chiunque parla di responsabilità del giudice fa riferimento anche al pubblico ministero.
Una norma che distingue i magistrati in giudice e pubblico ministero dovrebbe far sì che tutta la nostra legislazione e la legislazione europea, parlando di giudici, tengano fuori il pubblico ministero sia a livello costituzionale sia a livello di legislazione comune, cosa che credo creerebbe la necessità di una revisione totale della disciplina normativa sia nazionale, sia nell'interpretare la normativa europea.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA I COMMISSIONE DONATO BRUNO

PRESIDENTE. La ringrazio molto anche a nome di tutti i colleghi delle Commissioni. Se ritenesse di organizzare la sua relazione in un documento scritto e potesse trasmetterlo agli uffici prima del 20 giugno, le saremmo molto grati.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione del professor Alessandro Pace, emerito di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, del dottor Antonio Mura, vice presidente del Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE) del Consiglio d'Europa, e del professor Mario Patrono, ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e sulle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del professor Alessandro Pace, emerito di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma, del dottor Antonio Mura, vice presidente del Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE) del Consiglio d'Europa, e del professor Mario Patrono, ordinario di diritto pubblico comparato presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma.


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Avverto che il professor Mario Patrono ha comunicato di non poter partecipare all'audizione prevista per la seduta odierna.
Do la parola, ringraziandolo ancora, al dottor Antonio Mura.

ANTONIO MURA, Vice presidente del Consiglio consultivo dei procuratori europei (CCPE) del Consiglio d'Europa. Ringrazio vivamente gli onorevoli presidenti delle Commissioni affari costituzionali e giustizia per questa convocazione, che, espressamente connessa con la mia funzione di vice presidente del Consiglio consultivo dei procuratori europei, costituisce un onore anche per quell'organismo istituito dal Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, al quale io partecipo da qualche anno come rappresentante italiano e oggi come vice presidente.
Proprio perché questo invito trova evidente ragion d'essere in questa mia qualità di membro del CCPE - anche se in questa sede, ovviamente, sono portatore di un punto di vista che non è di quell'organo, ma mio personale -, credo di dovere corrispondere all'invito orientando le mie considerazioni sul versante essenzialmente europeo e sovranazionale, in modo da offrire alla considerazione delle Commissioni alcune riflessioni che muovono dai più significativi strumenti europei che concernono il pubblico ministero.
Questo mi induce a una selezione tematica che si basa su questa premessa metodologica, e non - devo sottolinearlo - su priorità di importanza delle materie che toccherò rispetto alle altre. È evidente che tutte le prospettive di intervento sul testo costituzionale proprie di questa riforma sono di rilievo assoluto e di delicatezza primaria, poiché incidono non solo sulla struttura, ma su alcuni principi cardine del sistema di giustizia nel nostro Paese.
Non per graduazione di importanza, quindi, sceglierò alcuni temi, ma anzi, proprio perché non posso farne oggetto di approfondimento, mi sembra doveroso rimarcare le implicazioni consistenti del progetto di riforma anche su quegli aspetti che io non toccherò, e cioè sulla definizione dell'ordine giudiziario, sulle modifiche strutturali di composizione e di competenza del CSM, sulla conformazione innovativa del principio costituzionale di obbligatorietà dell'azione penale e sulla disponibilità della polizia giudiziaria.
Credo, però, che tutte queste prospettive, così come quelle su cui mi soffermerò tra un attimo, siano accomunate dal fatto che purtroppo risultano sostanzialmente non incidenti sul vero problema del sistema giudiziario italiano, che è sotto gli occhi di tutti - ed è proprio l'Europa ad indicarci, purtroppo, come responsabili di questa situazione -, vale a dire dell'eccessiva durata di processi civili e penali, che indubbiamente necessiterebbe di una reazione a ogni livello, in modo da far cessare quella che è giudicata come una violazione dei diritti fondamentali dell'individuo.
Mi riferisco ora, in primo luogo, all'articolo 104 della Costituzione, nella cui nuova formulazione si distinguono i magistrati tra giudici e magistrati del pubblico ministero. La nuova formulazione sancisce che la legge dovrà assicurare la separazione delle carriere; demanda alle norme di ordinamento giudiziario l'organizzazione dell'ufficio del pubblico ministero e l'apprestamento delle garanzie per la relativa autonomia e indipendenza.
Le implicazioni del dimensionamento a livello soltanto di legislazione ordinaria delle garanzie che ho appena richiamato, oltre che il riferimento a quelle garanzie non per quanto concerne i magistrati, ma l'ufficio del pubblico ministero, è del tutto evidente. A questo proposito, credo possa essere naturale evidenziare che questa strada è divergente dal sentire condiviso che i Consigli consultivi dei giudici e dei pubblici ministeri europei hanno manifestato quando, su richiesta del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, hanno espresso congiuntamente un parere sui rapporti tra giudici e magistrati del pubblico ministero, il cui titolo è «Giudice e procuratore in una società democratica», che ha preso il nome di Dichiarazione di


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Bordeaux, la città in cui è stata elaborata, e che è stata approvata in Slovenia il 18 novembre 2009.
Ebbene, in quel documento, i rappresentanti dei giudici e dei procuratori di tutti i Paesi del Consiglio d'Europa, formulano l'auspicio che - leggo testualmente - «lo statuto dei magistrati del pubblico ministero sia garantito al più alto livello della legislazione», e si aggiunge «analogamente a quello dei giudici». Peraltro, a prescindere da questa dichiarazione, che evidentemente non ha un rango normativo, un testo europeo di ben maggiore portata è quello invocato nella relazione al disegno di legge costituzionale, laddove si argomenta sull'esigenza, anzi si menziona anche l'indifferibilità, della cosiddetta separazione delle carriere, richiamando la Raccomandazione n. 19 del 2000 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa dedicata al ruolo del pubblico ministero nell'ordinamento penale.
Nel motivare la scelta di questo assetto, con cui si abbandona quello che per noi era il tradizionale concetto unitario della giurisdizione, la relazione prende le mosse da un conflitto che intravede tra il modello di pubblico ministero scelto dai costituenti nel 1948 e il ruolo assegnato a questo organo nel nuovo Codice di procedura penale di impronta accusatoria che, unitamente ai princìpi del giusto processo - quelli introdotti con la legge costituzionale del 1999 -, renderebbe indifferibile, secondo questa linea di pensiero, la separazione tra l'ordine dei giudici e l'ufficio del pubblico ministero.
Io credo che su questo punto ci sia, in realtà, da riflettere e da discutere. È certo innegabile che nelle realtà ordinamentali nelle quali è nato il processo accusatorio lo statuto del pubblico ministero sia strutturalmente diverso da quello proprio della tradizione italiana. Su questo non c'è dubbio. Quei sistemi presentano notoriamente aspetti che io trovo di grande interesse, accompagnati, come per ogni sistema, da limiti e da criticità. Ciò che a me preme rimarcare, tuttavia, è che gli elementi che vengono in questo modo invocati a sostegno dell'idea della separazione delle carriere ai miei occhi non sono argomenti risolutivi, non sono proprio dimostrativi dell'ineludibilità di questa innovazione e dell'inconciliabilità del modello disegnato dai costituenti rispetto al nuovo codice di rito, o perlomeno di quel modello che sappiamo come poi nell'elaborazione pratica abbia preso corpo in Italia.
Io vedo, infatti, come portato di quei presupposti, cioè l'accusatorietà del rito da un lato e i princìpi del giusto processo dall'altro, non tanto un assetto delle carriere delle diverse figure processuali, ma la separazione - mi permetto di aggiungere concepibile soltanto come totale - dei ruoli processuali e delle funzioni che nel processo le figure professionali coinvolte sono chiamate a svolgere.
Lo sviluppo delle carriere con la possibilità di comunicazione reciproca tra le stesse è un tema che non rientra nel campo del ruolo processuale o delle funzioni e credo che ciò a maggior ragione si possa affermare oggi in Italia con le limitazioni territoriali al possibile passaggio dalla magistratura giudicante a quella requirente o viceversa che il decreto legislativo n. 160 del 2006 ha avuto cura di introdurre.
Non intendo certo negare, ma invece riconoscere che i concetti che la relazione illustrativa del disegno di legge costituzionale cita, mutuandoli dalla citata Raccomandazione n. 19 del 2000, sono pertinenti e di primaria importanza, ma proprio per questo credo che debbano essere intesi in tutta la loro portata e, quindi, contestualizzati rispetto al documento che li enuncia.
È vero che il Comitato dei ministri ha espressamente invitato gli Stati ad adottare misure appropriate affinché, come si legge, «lo status giuridico, la competenza e il ruolo procedurale dei membri del pubblico ministero siano stabiliti dalla legge in modo tale che non sia possibile nutrire alcun dubbio legittimo sull'indipendenza e sull'imparzialità dei giudici». È verissimo, ma non può sfuggire che nel prosieguo del medesimo paragrafo della raccomandazione tale indicazione è specificata, immediatamente


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dopo, nel modo che segue: «In particolare, gli Stati garantiscono che nessuno possa contestualmente esercitare le funzioni di pubblico ministero e di giudice». È questa, dunque, l'esplicitazione del concetto di carattere generale prima enunciato.
A me sembra che da ciò derivi un riferimento della Raccomandazione non propriamente al regime delle carriere, ma, questa volta espressamente, alla distinzione netta di funzioni.
E il memorandum esplicativo annesso alla Raccomandazione ha cura di escludere che quell'assunto contrasti con un altro passaggio dello stesso testo in cui si ammette la possibilità proprio della trasmigrazione tra le funzioni al fine di consentire a un pubblico ministero, nel corso della carriera, di divenire giudice o viceversa.
La Raccomandazione prevede, infatti, testualmente, che «se l'ordinamento giuridico lo consente, gli Stati devono adottare provvedimenti concreti al fine di consentire a una stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e di giudice o viceversa. Tali cambiamenti possono intervenire solo su richiesta espressa dell'interessato nel rispetto delle garanzie». E, al riguardo, il memorandum spiega che «la possibilità di passerelle» - scusate il termine, forse inelegante, ma è il termine testuale usato nella versione ufficiale in francese - fra le funzioni di giudice quelle di pubblico ministero si basa sulla constatazione della complementarietà dei mandati degli uni e degli altri, ma anche sulla similitudine delle garanzie che devono essere offerte in termini di qualifica, di competenza e di statuto. Ciò costituisce - concludo la citazione - una garanzia anche per i membri dell'ufficio del pubblico ministero».
Credo che questo possa contribuire all'inquadramento della citazione della Raccomandazione, che indiscutibilmente è pertinente al tema in discussione. Questo argomento offre però anche lo spunto per due considerazioni di tipo generale, di fondo. Credo si debba rammentare che le indicazioni del Consiglio d'Europa tendono a perseguire gli obiettivi di principio nel pieno rispetto della varietà degli ordinamenti dei sistemi giudiziari, una varietà ritenuta addirittura un valore, una ricchezza, quindi non delineano mai un modello ordinamentale da seguire: delineano valori e princìpi da perseguire nel rispetto delle tradizioni storiche e istituzionali di ogni Paese.
Questo è coerente con la lettura che la stessa Corte di Strasburgo costantemente propone della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che è orientata al concreto perseguimento del rispetto effettivo della Convenzione, non a una lettura formale.
Tutto questo mi sembra in linea con l'impossibilità di definire oggi nel quadro del nostro continente un modello ordinamentale o organizzativo di pubblico ministero, perché, semmai, del pubblico ministero a livello europeo credo di poter leggere sempre più nitidamente la ricerca di caratteri comuni funzionali, non già organizzativi od ordinamentali.
L'imparzialità delle scelte che si afferma oramai costantemente per il pubblico ministero, contrariamente ad alcuni luoghi comuni riferiti ad altri ordinamenti, si ritiene presidiata dalla posizione di indipendenza anche laddove l'assetto è gerarchicamente ordinato, e questo in funzione anche di un ruolo del pubblico ministero oramai innegabilmente organo di giustizia in senso pieno, promotore anche dei diritti dell'uomo, ruolo ben più pregnante - rispetto a tutti: alla vittima del reato, alla persona sospettata o accusata, ad ogni individuo e alla società - di quel ruolo che originariamente era limitato all'interpretazione del diritto-dovere dello Stato di reagire alle violazioni della legge penale, che era la visione poi comune alle posizioni emerse in Assemblea costituente anche se si diversificato radicalmente per altri profili.
Altra notazione per concludere questa parte è che credo che l'esperienza del Codice di procedura penale del 1989 debba considerarsi preziosa non soltanto perché ha offerto profili positivi come la tutela dei diritti della difesa, dei princìpi


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di parità delle parti o del contraddittorio, ma anche per quelle che sono risultate innegabili criticità.
Si tratta quindi di un'esperienza comunque utile laddove credo che queste criticità abbiano in gran parte una matrice comune, vale a dire essere state determinate dalla trasposizione nella realtà italiana o nel tentativo di adattamento di istituti giuridici processuali, spesso di matrice anglosassone, dei quali non si erano adeguatamente ponderati le radici storiche, i presupposti culturali e soprattutto le numerose interazioni con altri elementi del sistema complessivo in cui avevano avuto origine.
Muovendo dal punto di vista di chi vede con interesse vivissimo proprio quel rito accusatorio che nell'interpretazione che gli è stata data in Italia ritengo non poco snaturato e non sviluppato adeguatamente, credo di potere auspicare che, quando si argomenta in base ai caratteri di fondo del processo, si debba considerare intanto ciò che è del processo separato dal momento ordinamentale, che non è detto sia una variabile dipendente; e in secondo luogo si debba operare in ragione di un'analisi veramente puntuale, cioè di una visione di insieme che consenta di evitare trasposizioni che possono risultare problematiche in un contesto quale quello italiano.
Un'altra questione, onorevole presidente, a cui vorrei rivolgere l'attenzione non è ordinamentale, ma riguarda l'appellabilità delle sentenze penali. La disciplina delineata con questa introduzione del nuovo ultimo comma dell'articolo 111 della Costituzione presenta profili che credo siano definibili come di sbilanciamento tra i poteri e le facoltà processuali del pubblico ministero e della difesa, a fronte di quel principio di parità che è stato sancito nell'articolo 111, secondo comma, della Costituzione, come basilare nel testo introdotto nel 1999.
Nella riforma, invece, l'appellabilità delle sentenze di condanna viene affermata in linea generale a fronte di quella di proscioglimento per la quale l'appello viene limitato ai casi previsti dalla legge. Questo comporta una sostanziale costituzionalizzazione del principio del doppio grado di giurisdizione di merito in tema di condanne penali.
Si invoca a questo riguardo l'articolo 2 del Protocollo VII alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo, reso esecutivo in Italia con legge del 1990. In realtà, a me pare che né quello strumento e neppure la Corte europea dei diritti dell'uomo nella sua giurisprudenza abbiano mai sancito il principio del doppio grado di giurisdizione di merito in ambito penale. Il principio affermato è invece quello del doppio grado di giudizio, soddisfatto anche con un rimedio impugnatorio, quale il ricorso per Cassazione italiano, a parte le eccezioni addirittura previste nello stesso articolo 2 del Protocollo. In questo senso si sono espresse sia la Corte costituzionale sia la Corte di cassazione in Italia.
In una materia riguardo alla quale possono apportarsi sicuramente argomenti favorevoli - e anche contrari - a possibili interventi anche di rango costituzionale, richiamo ancora una volta personalmente una propensione alla rimeditazione del significato dell'appello di merito in un processo nel quale la prova si deve formare nella diretta percezione del giudice. Si deve certamente meditare in modo approfondito perché mi pare che il citato Protocollo alla Convenzione, in sé, non sia adeguato a sostenere queste conseguenze normative.
In sintesi, si può sì discutere costruttivamente di tutti questi temi, dal pubblico ministero alle carriere, all'appellabilità, ma credo che i presupposti da cui muovere debbano ricomprendere una visione d'insieme e non soltanto quegli aspetti settoriali che sono entrati sinora in discussione.
Come ho detto, ho effettuato una scelta metodologica che tralascia gran parte delle importantissime proposte di intervento di riforma. Mi limito a questo punto a una rapidissima carrellata di qualche punto che voglio solo toccare brevemente.
Devo tornare a ciò che ho sentito evocare poc'anzi, vale a dire all'espressione della giustizia disciplinare «troppo


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domestica» come giustificazione di una riforma della sezione disciplinare del CSM. Personalmente, anche da ex componente del Consiglio superiore della magistratura, trovo assai interessante la separazione possibile tra la funzione amministrativa e la funzione tipicamente giurisdizionale propria del settore della disciplina dei magistrati.
Nelle linee di fondo l'idea è sicuramente interessante, ma ancora una volta bisogna intendersi sui presupposti. Se per «domestica», si intende semplicemente una definizione tecnica per la composizione dell'organo, allora nulla quaestio. Ma quando a domestica si aggiunge «troppo» e si enuncia l'espressione «troppo domestica», evidentemente si attribuisce un valenza valutativa a questa espressione. In una prospettiva europea, che, come ripeto, credo sia il senso della presente audizione, ritengo che, confrontando l'esperienza italiana con quella degli altri Paesi, di «troppo domestica» sia difficile parlare, anche statisticamente, e le Commissioni sanno che le statistiche in questo campo non sono nemmeno del tutto significative.
Le principali sanzioni, quelle di rimozione, di solito non vengono irrogate perché i magistrati lasciano fortunatamente l'ordine giudiziario prima che si arrivi al compimento dei più gravi procedimenti disciplinari. Tuttavia, le statistiche per come le conosciamo sono sufficienti a dimostrare che il rigore della giurisdizione disciplinare in Italia è assolutamente a livelli primari.
Per altro verso vorrei svolgere un rapidissimo cenno alla responsabilità civile diretta dei magistrati, così come delineata nella riforma costituzionale. A parte il fatto che la menzione, che però è doverosa, della giurisprudenza della Corte costituzionale italiana, la quale sin dal 1987 sottolineava la peculiarità delle funzioni giudiziarie e, quindi, intravedeva la necessità di condizioni e limiti alla responsabilità proprio in rapporto alla necessità di indipendenza e di autonomia nell'esercizio delle funzioni, tornando al panorama europeo non può sfuggire che esso presenta una varietà di soluzioni legislative in materia, tutte, però, più restrittive del testo progettato di riforma della Costituzione.
La responsabilità dei giudici è addirittura esclusa in radice nei Paesi di common law, ma non solo, anche in Olanda e in Svizzera, ed è fortemente limitata ovunque, in Francia, Belgio, Spagna e Portogallo.
Le soluzioni adottate in questi Paesi sono accomunate dallo scopo di evitare che il regime della responsabilità possa negativamente incidere sulla serenità e regolarità dei giudizi. A me pare che proprio la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione europea, con le due sentenze Köbler e Traghetti del Mediterraneo, che di solito si invocano in rapporto a questo tema, mostri l'intento di assicurare ai cittadini un rimedio risarcitorio completo per i danni subìti anche dall'esercizio della giurisdizione. È la stessa giurisprudenza, però, a definire come essenziale che sia lo Stato e non il singolo giudice a rispondere in modo diretto per eventuali violazioni del diritto dell'Unione commesse nell'esercizio della giurisdizione.
Per quanto specificamente attiene al pubblico ministero, la Raccomandazione n. 19 del 2000, che più volte ho avuto già modo di richiamare, impegna gli Stati a fare sì che i membri dell'ufficio del pubblico ministero possano adempiere al loro mandato senza ingiustificate interferenze e - così è scritto - «senza rischiare di incorrere, al di là di quanto ragionevole, in responsabilità civili, penali o di altra natura». È interessante notare che tali condizioni nella raccomandazione vanno di pari passo in modo esplicito con un'esigenza di trasparenza.
Venendo conclusivamente agli ultimi due punti, che credo sempre in prospettiva europea possano essere oggetto di rapidissima osservazione, anche se meriterebbero un ben più approfondito studio, l'articolo 109 della Costituzione come riformulato è quello che concerne i rapporti con la polizia giudiziaria. In questa materia, ancora una volta è noto che gli ordinamenti statali presentano regimi molto differenziati


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in Europa, dei quali la Raccomandazione n. 19 del 2000 prende espressamente atto, indicando come gli Stati devono orientarsi e quando sia prevista una diretta disponibilità della polizia giudiziaria da parte del pubblico ministero o quando le inchieste sono dirette o controllate dal pubblico ministero.
Nella Raccomandazione si afferma, infatti, che lo Stato deve garantire che il pubblico ministero possa dare istruzioni utili ai servizi di polizia per un'applicazione effettiva delle priorità di politica penale, possa assegnare ogni singola inchiesta al servizio di polizia che ritiene più adeguato, possa controllare l'osservanza delle sue istruzioni e della legge e possa sanzionare o far sanzionare eventuali violazioni.
Ancora la Raccomandazione ammette che esistono anche Stati in cui la polizia è indipendente dal pubblico ministero, i quali devono comunque adottare misure appropriate affinché le due istituzioni cooperino in modo adeguato ed efficace. Resta fermo nella Raccomandazione - è un concetto importante, richiamando quello che poco fa ho accennato, vale a dire il ruolo del pubblico ministero e i diritti ispirati all'imparzialità nella sua azione - in ogni caso il dovere del pubblico ministero di controllare la legalità delle inchieste di polizia e il rispetto dei diritti dell'uomo anche da parte della polizia stessa.
A me sembra dunque che proprio da questa alternativa che la Raccomandazione concepisce derivi una evidente legittimazione non soltanto del modello ordinamentale italiano, ma sicuramente anche del modello ordinamentale che prevede la dipendenza funzionale della polizia giudiziaria.
Credo non si possano sottovalutare i rischi connessi alla riforma per le ripercussioni potenzialmente negative sulla tutela del principio di eguaglianza, perché la diretta disponibilità della polizia da parte dell'autorità giudiziaria proprio rispetto al pubblico ministero è presidio per evitare il rischio di una minore effettività del principio di obbligatorietà dell'azione penale, che resta anche nella stesura del disegno di legge costituzionale. Limitare le iniziative del pubblico ministero volte alla repressione dei reati commessi è un'altra eventualità che non può essere esclusa proprio dalla eventuale innovazione e mancanza di diretta disponibilità della polizia.
L'ultimo punto che vorrei toccare fa riferimento nella relazione al disegno di legge costituzionale alla vera e propria «frammentazione della funzione requirente». A questo proposito, per uno spirito costruttivo e di spassionata considerazione del testo della riforma, considero doveroso sottolineare che effettivamente concetti di coordinamento e di uniformità di indirizzo sono propri della figura del pubblico ministero come concepita in ogni ordinamento del nostro continente, sono caratteri necessari a un'azione efficace e corretta del pubblico ministero.
Da questo punto di vista, se è vero che occorrono coordinamento e uniformità di indirizzo, credo che questa frammentazione della funzione requirente possa essere studiata e probabilmente trovare rimedio in interventi che non necessariamente devono portare a questo rimaneggiamento dell'assetto costituzionale, perché non possono trascurarsi, ad esempio, gli effetti benefici che da questo punto di vista sono derivati dalla definizione del ruolo e dei poteri dei procuratori della Repubblica nella riforma del 2006, con l'emanazione del decreto legislativo n. 106 del 2006, né possono trascurarsi le funzioni di vigilanza attribuite ai procuratori generale delle Corti d'appello, che peraltro riferiscono al procuratore generale della Corte di cassazione ai sensi dell'articolo 6 dello stesso decreto legislativo n. 106 del 2006.
In particolare, mi sembra che queste funzioni dei procuratori generali proprio sul versante di quella lamentata frammentazione abbiano recato considerevoli profili di novità nel funzionamento della magistratura requirente sia perché l'esperienza ha dimostrato che quello strumento (l'articolo 6 del decreto legislativo n. 106 del 2006) è stato utilizzato in occasione di contrasti insorti tra Procure con risultati


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che credo si possano definire positivi e per altro verso quell'articolo è stato ritenuto una base adeguata per istituire una diffusione di best practices con l'istituzione - curata dall'ufficio in cui presto servizio, la procura generale della Corte di cassazione - di un apposito ufficio impegnato a verificare (e quindi ad elaborare i risultati della verifica e a cercare di riversare sugli uffici gli aspetti positivi di questo controllo) alcuni profili, espressamente indicati dal citato articolo 6 del decreto legislativo n. 106 del 2006, che sono a mio avviso di portata assolutamente innovativa nel nostro ordinamento.
Il «corretto ed uniforme esercizio dell'azione penale» di cui parla l'articolo 6 è concetto che probabilmente non era mai comparso nella legislazione italiana, eppure oggi il procuratore generale vigila sul corretto e uniforme esercizio dell'azione penale, vigila sul rispetto delle norme sul giusto processo e ancora per lo stesso articolo 6 «sul puntuale esercizio da parte dei procuratori della Repubblica dei poteri di direzione, controllo e organizzazione degli uffici ai quali sono preposti».
È una prospettiva che io considero positiva, che dimostra come il legislatore ordinario abbia ampi spazi utili di intervento, che è proficua nell'ottica del miglioramento anche della cooperazione giudiziaria internazionale, soprattutto europea, rispetto alla quale la legislazione processuale e quella di ordinamento giudiziario sono i settori nei quali si può utilmente intervenire. Questo a mio avviso è possibile immaginarlo anche a schema costituzionale invariato.

PRESIDENTE. La ringrazio. Do la parola al professor Alessandro Pace, professore emerito di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma.

ALESSANDRO PACE, Professore emerito di diritto costituzionale presso l'Università degli studi La Sapienza di Roma.
Ringrazio il presidente e le Commissioni riunite di avermi invitato a questa importante audizione. Dico subito che, essendo la mia formazione culturale liberale, è ben difficile che un testo come quello contenuto nel disegno di legge costituzionale all'esame delle Commissioni possa incontrare la mia soddisfazione. Invece, per quanto possa determinare una qualche sorpresa, proprio sulla responsabilità del giudice non sarei così contrario al testo sottopostoci come l'ANM e numerosi colleghi.
Ho esaminato tutte le modifiche, ma cercherò di riassumere il mio pensiero per non appesantire troppo la discussione.
Per quanto riguarda la modifica delle rubriche, è bene non seguire la proposta per ragioni molto semplici. Lo stesso Ruini, se non sbaglio, all'Assemblea costituente affermò che la ripartizione dei titoli nella seconda parte della Costituzione, intestati al Presidente della Repubblica, al Governo, al Parlamento e alla Magistratura era stata fatta guardando agli organi e non agli obiettivi. Una volta che è stata scelta quella via, non ha però senso che senza alcun serio motivo il titolo relativo alla «Magistratura» venga chiamato «La Giustizia». Che cosa dovremmo fare allora per il Governo e per il Parlamento? Sostituire i titoli con «Perseguimento dell'interesse pubblico»? Mi sembra inutile e comunque eccessivo.
La rubrica relativa alla sezione prima si vorrebbe cambiarla da «Ordinamento giurisdizionale» a «Gli organi». Ma in quella sezione non si parla soltanto di organi; si parla di funzioni e quindi dell'ordinamento giurisdizionale.
Da ultimo, la rubrica della sezione seconda («Norme sulla giurisdizione») dovrebbe essere sostituita con «La giurisdizione». In effetti ci sono però delle norme sulla giurisdizione, quindi, tutto sommato, «molto rumore per nulla».
Passiamo ora a problemi più importanti. Ci sono due disposizioni tra loro correlate. Una è il nuovo articolo 104 della Costituzione, che ci dice: «I magistrati si distinguono in giudici e pubblici ministeri». Poi però, al nuovo articolo 101, si dice: «I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere e sono soggetti soltanto alla legge», cambiando


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così il notissimo enunciato «I giudici sono soggetti soltanto alla legge», che ha una importante giurisprudenza e un'altrettanto importante elaborazione dottrinale alle sue spalle.
Ci dobbiamo allora chiedere che cosa si intenda con la nuova locuzione «I giudici costituiscono un ordine autonomo e indipendente da ogni potere». Si fa riferimento soltanto ai giudici? Non credo. Evidentemente si fa riferimento anche ai pubblici ministeri, e quindi a tutti i magistrati. Ma perché allora sostituire l'enunciato classico, nel quale, riferendosi anche alle giurisdizioni speciali, sia a quelle anteriori sia a quelle successive previste in Costituzione, si garantisce che nell'esercizio della giurisdizione, quale che sia l'organo, esso debba essere soggetto soltanto alla legge? Mi sembra un enunciato assai perspicuo, che andrebbe, a mio avviso, conservato.
Passo adesso alla separazione delle carriere per affrontare poi all'indipendenza del pubblico ministero, ai rapporti della polizia giudiziaria con il pubblico ministero e all'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale.
Diversamente da quanto si opina nella relazione al disegno di legge costituzionale n. 4275, va subito precisato che questa separazione non è resa necessaria - come si dice a pagina 5 della relazione - dai princìpi che regolano il giusto processo, introdotti con la modifica dell'articolo 111 della Costituzione. Tale separazione non serve per attuare nel massimo grado l'imparzialità e l'indipendenza dei giudici, già costituzionalmente assicurata, ma incide, assai esplicitamente, sull'indipendenza del pubblico ministero nei confronti della politica. Ciò è, del resto, confermato dall'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale e dai mutati rapporti del pubblico ministero con la polizia giudiziaria.
Quanto al primo rilievo, e cioè che la separazione non serva per attuare ancor di più l'imparzialità e l'indipendenza dei giudici, è facile osservare che la parità della difesa e dell'accusa è assicurata dall'articolo 111 della Costituzione, ma solo sul piano funzionale. In tale ottica, il pubblico ministero dovrebbe anzi sempre essere considerato parte a tutti gli effetti, anche se, a differenza del cosiddetto «avvocato dell'accusa» di cui si parla, il pubblico ministero può chiedere il proscioglimento. L'avvocato dell'accusa tutt'al più potrebbe rinunciare al mandato o all'azione, ma non potrebbe mai chiedere il proscioglimento. Questo è un punto importante.
Se nel processo vi è parità tra accusa e difesa ai sensi dell'articolo 111, della Costituzione non vi è, invece, parità tra difesa e accusa sul piano ordinamentale. Il pubblico ministero, per le funzioni ad esso attribuite, cioè vegliare all'osservanza delle leggi, alla pronta e regolare amministrazione della giustizia, alla tutela dei diritti di stato delle persone giuridiche e degli incapaci, è, infatti, ancora oggi considerato anche dalla Corte costituzionale organo di giustizia, a tal punto che - a mio avviso erroneamente - la Corte costituzionale non lo ritiene parte nei giudizi di legittimità costituzionale, ancorché sia stato lo stesso pubblico ministero a sollevare la questione di costituzionalità.
È esatto, quindi, a mio avviso - e rispondente al diritto vigente - distinguere l'imparzialità istituzionale del pubblico ministero dalla sua parzialità funzionale e sottolineare che, sotto il primo punto di vista, cioè quello dell'imparzialità istituzionale, come e più di ogni altro funzionario della pubblica amministrazione, quando si accinge ad agire, egli sia indifferente al risultato della sua azione, che deve essere soltanto governata da una neutrale legalità. Questa è la differenza rispetto all' «avvocato dell'accusa».
Altrettanto indubbio è che la separazione delle carriere non serve ad accrescere l'indipendenza del giudice, indipendenza che un magistrato serio e onesto sa benissimo come salvaguardare. Il ministro Alfano usa dire, argutamente, che giudice e pubblico ministero non dovrebbero darsi del «tu». Ma la quotidianità e la familiarità di rapporti non pregiudica mai la reciproca dignità dei magistrati se si è tra persone oneste.


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La separazione delle carriere, mentre non serve ad accrescere l'indipendenza del giudice, certamente diminuisce l'indipendenza del pubblico ministero. Un bel libro di Armando Spataro, intitolato «Ne valeva la pena», mi ha convinto non solo della crescita di professionalità che consegue dallo stretto rapporto tra polizia, pubblico ministero e giudice delle indagini preliminari ma anche del fatto che il pubblico ministero deve sempre ragionare come se fosse il giudice.
La separazione delle carriere, mentre non serve - lo ripeto - ad accrescere l'indipendenza del giudice, certamente diminuisce l'indipendenza del pubblico ministero, ma non perché, come si legge nella relazione, a pagina 6, «i magistrati del pubblico ministero assumono uno status costituzionale proprio, nel quale l'autonomia e l'indipendenza sono prerogative dell'ufficio requirente e non del singolo magistrato, e sono dunque funzionali all'efficienza, alla responsabilità e all'eguaglianza nell'esercizio dell'azione penale, obiettivi al cui conseguimento è preordinato l'ufficio del pubblico ministero». Sono bellissime parole, ma sono già nella Costituzione vigente. Basta leggere l'articolo 107, quarto comma, per trovarvi scritte queste stesse cose, in conseguenza delle quali la Corte costituzionale, in talune famose sentenze, negò l'indipendenza del pubblico ministero all'interno dell'ufficio. Confermò bensì l'indipendenza nei confronti dell'esterno, tanto che, come tutti sapete, il pubblico ministero può essere parte nei conflitti di attribuzione tra poteri, ma non nei confronti del procuratore capo. Certamente anche lì ci deve essere un po' di democrazia, non quel livellamento che si pretendeva nel 1970, quando sembrava che tutti i sostituti procuratori potessero porsi sullo stesso piano del procuratore capo. Che ci debba essere un dirigente dell'ufficio del pubblico ministero, e quindi una gerarchia, era quindi chiaro già dalla Costituzione, ed è stato ribadito dalla Corte costituzionale.
Il pregiudizio all'indipendenza del pubblico ministero emerge sotto quattro profili. In primo luogo, dalla sottrazione all'autorità giudiziaria della diretta disponibilità della polizia giudiziaria; in secondo luogo, dall'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale; in terzo luogo, dall'attribuzione costituzionale al ministro della Giustizia della funzione ispettiva; infine, dall'attribuzione al ministro della Giustizia del compito di riferire annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine, che è un po' la summa di quello che si vorrebbe con questa modifica.
Il primo e il secondo punto - e cioè la disponibilità della polizia giudiziaria da parte dell'autorità giudiziaria e l'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione penale - sono la ragione per la quale ho portato con me questo volume collettaneo, intitolato «Problemi attuali della giustizia in Italia», edito da Jovene, che riporta gli atti di un seminario organizzato dall'Associazione Italiana dei Costituzionalisti, di cui allora ero presidente, e che si tenne a Roma nel giugno 2009. Vi collaborarono costituzionalisti e processualpenalisti di diversa formazione culturale. L'ho portato con me perché contiene l'intervento a quel seminario del compianto collega Vittorio Grevi, che disse delle cose risolutive su entrambi i temi. È un libro che merita di essere letto, se non altro per le ultime dieci pagine di Grevi, di cui, per l'affetto e la stima che avevo nei suoi confronti nonché per l'obiettività e l'autorevolezza con le quali egli si esprimeva, riporto alcune parole. Prendendo in considerazione il disegno di legge Alfano n. 1440, allora in discussione, Grevi denunciò «il grande indebolimento del ruolo del pubblico ministero» determinato da quel disegno di legge, osservando come, per i reati di media gravità, la polizia avrebbe potuto svolgere tutte le indagini di sua iniziativa per un periodo di sei mesi; come l'intento del legislatore (ora confermato da questo disegno di legge costituzionale) fosse quello di riservare in via esclusiva alla polizia giudiziaria il compito di ricerca delle notizie di reato, con il risultato, del pari esplicitamente voluto e annunciato, di sottrarre così al pubblico ministero


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il corrispondente potere di iniziativa. Osservò poi come tutto ciò implicasse che il pubblico ministero non potrebbe far nulla finché non «ricevesse una notizia di reato». Il professor Illuminati, ascoltato dalle Commissioni riunite in una precedente audizione, in questa stessa linea ha affermato che il pubblico ministero si ridurrebbe a «un mero recettore dell'iniziativa della polizia giudiziaria».
C'era quindi in quel disegno di legge, e ancora più c'è nell'attuale disegno di legge costituzionale, un rifiuto totale del sistema attualmente vigente - che pure è nello spirito della nostra Costituzione -, nel quale, ai sensi dell'articolo 109, la polizia giudiziaria non è un soggetto «altro», a fronte dell'autorità giudiziaria, ma è un soggetto di cui si avvale il pubblico ministero in chiave collaborativa, «cosicché il rapporto tra i due organi si può definire di tipo complementare e quindi accessorio».
Aggiungeva ancora Grevi che, poiché gli organi di polizia giudiziaria, se quel disegno di legge fosse stato approvato, sarebbero dipesi, sotto il profilo gerarchico, dai vertici del potere esecutivo, non sarebbe stato «azzardato immaginare che tali vertici possano essere tentati, attraverso circolari ufficiali e anche attraverso direttive non scritte, di dare indicazioni ai medesimi organi di polizia circa gli indirizzi da seguire sul terreno delle indagini, sia nel senso di concentrare l'attività investigativa su determinati settori a preferenza di altri, sia soprattutto nel senso di evitare di indagare verso ambiti particolari alla ricerca di presumibili attività delittuose». Il che sarebbe invece assolutamente impossibile se la normativa rimanesse quella attuale.
Voglio richiamare un'altra osservazione di Grevi: la sottrazione alla dipendenza funzionale della polizia giudiziaria sarebbe comunque esiziale qualora si eliminasse l'obbligatorietà dell'azione penale. Con il che il cerchio viene a chiudersi, giacché oggi addirittura si pretende addirittura l'eliminazione dell'obbligatorietà dell'azione penale.
Beninteso, il nuovo articolo 112 della Costituzione non nega l'obbligatorietà dell'azione, ma è come se lo facesse perché è evidente che la norma, per il mero fatto che non proclama l'obbligatorietà nella sua assolutezza, costituisce un arretramento rispetto all'attuale enunciato, Un arretramento evidenziato dal fatto che «l'obbligo di esercitare l'azione penale» dipende dai criteri stabiliti dalla legge. Se lo spirito di quella futura legge sarà lo stesso che ispira questo disegno di legge costituzionale, è facilmente ipotizzabile che competente a dettare i criteri per l'esercizio dell'azione penale finisca per essere o il Consiglio dei Ministri oppure lo stesso Ministro della Giustizia, tutt'al più sulla base di una mozione delle Camere.
Ebbene, se i criteri si sostanzieranno nell'indicazione dei reati da perseguire a preferenza di altri, il risultato è che ovviamente taluni reati verranno taciuti in quell'elenco. Non dico la corruzione in atti giudiziari, il falso in bilancio o simili, ma certamente reati considerati minori, come il furto o il maltrattamento in famiglia. Con il che, pur senza volerlo, si apriranno spazi di tolleranza di fatto per la delinquenza, sia essa professionale o tra le mura di casa.
Il professor Spangher, che molto stimo personalmente, ha suggerito una via di uscita. I criteri riguarderebbero la priorità dell'investigazione e non dell'esercizio dell'azione. Il suggerimento è abile, ma non mi persuade. Se i criteri sono vincolanti per il pubblico ministero, è di tutta evidenza che i reati per i quali l'investigazione non è ritenuta prioritaria, finiranno automaticamente nel dimenticatoio. E dunque, in buona sostanza, si avrà l'eliminazione totale dell'obbligatorietà dell'azione penale.
A questo punto, però, deve essere ricordato con la Corte costituzionale che, eliminando l'obbligatorietà dell'azione penale, non viene meno solo l'indipendenza del pubblico ministero, ma viene altresì gravemente pregiudicata l'eguaglianza dei cittadini davanti alla legge.
Tracciando le possibili conseguenze dell'abolizione dell'obbligatorietà dell'azione


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penale, Paolo Barile - lo cito volutamente per dimostrare che queste sono battaglie di civiltà che non hanno età e che non si rivolgono contro una data persona o un dato partito - osservava più di vent'anni fa come l'abrogazione dell'articolo 112 della Costituzione implicasse di per ciò stesso la violazione anche degli articoli 3, 25, secondo comma, e 101, secondo comma: il primo in punto di difesa da ogni discriminazione, il secondo in quanto consacrante il principio di legalità dei delitti e delle pene, il terzo in quanto assoggetta i giudici «soltanto alla legge» nel senso, già detto, della indipendenza meramente esterna del pubblico ministero. E Barile ricordava a sua volta l'affermazione del suo Maestro, Piero Calamandrei, «secondo cui il principio di legalità nell'esercizio dell'azione penale comporta necessariamente l'istituzione di un pubblico ministero indipendente e inamovibile, si completa, quindi, con quella secondo cui lo stesso principio di legalità impone, anche sotto il profilo della non disparità di trattamento, l'obbligatorietà dell'azione penale. Nello Stato di diritto l'obbligatorietà è corollario della libertà e ad essa deve attenersi anche chi è chiamato a perseguire la responsabilità penale e non soltanto colui che è tenuto a reprimere i reati».
Passo al terzo e al quarto punto. Quanto al terzo, l'attribuzione costituzionale al ministro della Giustizia della funzione ispettiva fa ragionevolmente ritenere, se le parole hanno un senso, che, secondo i proponenti, questa nuova competenza costituzionale dovrebbe consentire al ministro di andare oltre quanto attualmente consente l'articolo 9 della legge n. 1311 del 1962 e, quindi, di raccogliere informazioni sul personale che presta servizio nell'ufficio ispezionato.
L'attribuzione al ministro della Giustizia del potere di riferire annualmente alle Camere sullo stato della giustizia, sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine contribuisce nell'immaginario collettivo a conferire al ministro della Giustizia non solo il ruolo direttivo della politica della giustizia in senso alto, ma anche quello della individuazione dei reati da perseguire e, quindi, «sotto sotto», nei confronti di chi orientare le indagini. Il che, come osservava ancora il professor Illuminati, con più garbo di me ma con pari decisione, è davvero assolutamente inopportuno.
Passo al raddoppio del CSM. In coerenza con quanto già detto a proposito del pubblico ministero, che, secondo me, dovrebbe continuare a essere «organo di giustizia» e, quindi, un magistrato indipendente dall'esterno e non un funzionario prossimo al potere politico, non vedo la necessità di un doppio CSM. E non avrei altro da aggiungere.
Il presidente del Consiglio di Stato, Pasquale de Lise, ha parlato di una «Megacorte» di disciplina in cui dovrebbero entrare magistrati amministrativi, contabili e ordinari. Dal canto suo il professor Spangher ha suggerito di spostare la sezione disciplinare fuori dal CSM.
Confesso di essere incerto nella mia valutazione della Sezione disciplinare del CSM, quanto a efficienza e serietà. Mentre gli ex componenti togati, come il dottor Mura, ne hanno parlato bene, gli ex componenti laici, come il prof. Spangher, ne sono critici. In genere, le sezioni disciplinari poste all'interno di una data struttura non costituiscono, per la verità, il massimo di efficienza e di obiettività. In questo senso, la costituzione di un'autonoma Corte di disciplina potrebbe essere consigliabile. Tuttavia è evidente che non basta enunciarne il titolo in Costituzione e rinviarne la disciplina al legislatore ordinario. Si tratterebbe infatti di istituire un vero e proprio giudice speciale in deroga all'articolo 102, secondo comma della Costituzione, e quindi ne andrebbe anche disciplinata la composizione. Gli altri giudici speciali, quelli previsti sia nell'articolo 103 della Costituzione, sia nella VI disposizione transitoria, bene o male l'Assemblea costituente li conosceva. Di questa nuova Corte - mega o mini che sia - non se ne sa niente e non può essere sufficiente un rinvio al futuro legislatore.
Per quanto riguarda gli organi di autogoverno in genere, e quindi anche il


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CSM, deve comunque rimanere fermo che i criteri di loro composizione, se da un lato possono variare in funzione delle caratteristiche peculiari delle singole magistrature speciali, dall'altro devono comunque essere tali da assicurarne in maniera effettiva la necessaria indipendenza, innanzitutto nei confronti del potere esecutivo. Ove così non fosse, la stessa istituzione di questi organi sarebbe del tutto priva di senso. Di qui una netta opposizione alla composizione praticamente paritetica del CSM giudicante e CSM requirente prevista nel disegno di legge costituzionale.
È bensì vero però che resta ferma l'esigenza di evitare che gli organi di autogoverno delle diverse magistrature possano assumere un ruolo di rappresentanza meramente corporativa del rispettivo ordine giudiziario. Su questo siamo tutti d'accordo: il CSM non deve essere una sede di rappresentanza corporativa. Anzi, fu proprio questa l'esigenza tenuta presente dal Costituente quando si scelse il Presidente della Repubblica come suo presidente, una composizione mista togato-laica e un vice presidente che non era togato.
Non bisogna però esagerare in senso contrario. E, con il pretesto di contenere gli eccessi dei magistrati, fare «occupare» dalla politica gli organi di autogoverno. Il che sarebbe un rimedio peggiore del male.
Desidero, a questo punto, fare una breve riflessione a proposito dal nuovo articolo 105, secondo comma, della Costituzione, secondo il quale i due CSM non possono adottare atti di indirizzo politico ed esercitare funzioni diverse da quelle previste in Costituzione.
Il principio di per sé non fa una grinza. Tutti gli organi costituzionali, Parlamento compreso, si muovono in un'ottica di competenza, nel senso cioè che hanno le attribuzioni (più o meno ampie) che la Costituzione assegna loro e dalle quali non possono esulare.
Si deve però tener presente che nei rapporti tra organi costituzionali - e il CSM lo è sicuramente - valgono anche le consuetudini costituzionali, e quindi, come più volte insegnato dalla Corte costituzionale, si può contestare, in sede di conflitto di attribuzione tra poteri, la menomazione, da parte di un altro potere, di un'attribuzione costituzionale fondata esclusivamente su consuetudine (si pensi all'esenzione dei controlli sui bilanci delle Camere e della Presidenza della Repubblica che la Corte fece addirittura risalire all'epoca monarchica!).
Dico questo perché, pur non volendo ripercorrere la storia dei rapporti tra Parlamento e CSM, se c'è stata una stagione nella quale, per modo di dire, il CSM sembrava «legiferare», ciò avvenne perché il Parlamento era assai disattento o compiacente e il CSM, esplicitamente o implicitamente, acquisì numerosi poteri che però di recente sono venuti meno. Non così il riconoscimento al CSM del potere di formulare pareri, che risale addirittura agli anni '70, e che rappresenta oggi un'attribuzione costituzionale del CSM, avente alle sue spalle una vera e propria regola consuetudinaria. Pertanto il CSM può esprimere pareri sia in materia processuale che in materia ordinamentale anche quando il ministro non lo richieda.
Non mi sembra invece che al CSM sia mai venuto in mente di adottare atti di indirizzo politico. È sicuramente un'esagerazione polemica questa prevista nell'articolo 105, secondo comma, del nuovo testo. Direi anzi: un'esagerazione polemica «in veste normativa».
Tengo comunque a precisare, concludendo il punto, che la disciplina delle cosiddette «circolari e risoluzioni», se in passato è stata scambiata, soprattutto all'interno del CSM, per attività normativa, in effetti non è mai stata considerata tale in sede giurisdizionale, in quanto la loro eventuale violazione non è mai stata qualificata, dal TAR e dal Consiglio di Stato, come «violazione di legge» - che è ciò che presupporrebbe la «considerazione» della circolare o della risoluzione come atto normativo -, ma tutt'al più la loro violazione rileva come sintomo del vizio di eccesso di potere sotto il profilo dell'errore nei presupposti, della disparità di trattamento e così via.


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A ciò deve essere aggiunto che, non esistendo più, se mai è esistita in passato, una pubblicazione «legale» delle circolari e delle risoluzioni, a maggior ragione non si può sostenere che gli atti del CSM abbiano un contenuto normativo. Prima esistevano alcuni volumi nei quali tali atti dovevano essere pubblicati (ma non era una pubblicazione con effetti legali). Adesso questi volumi non esistono nemmeno più. Esiste bensì una pubblicazione per via telematica, ma per attribuire a tale forma di pubblicazione gli effetti vincolanti dell'atto normativo ci vorrebbe comunque una norma di legge che lo prevedesse.
Vorrei fare ora un brevissimo accenno a due norme che solo superficialmente potrebbero qualificarsi di secondaria importanza: l'attribuzione ai magistrati onorari anche di funzioni di organi collegiali, che modifica l'articolo 106 della Costituzione, che lo consente solo per le funzioni attribuite a giudici singoli, e la possibilità di derogare all'inamovibilità dei magistrati in casi di eccezionali esigenze individuate dalla legge.
Sono senz'altro contrario sia all'una, sia all'altra norma.
Alla prima sono contrario perché praticamente incide sul principio per cui le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso, divenendone una via alternativa di accesso. Quel che è peggio, essa conferma l'impressione che al legislatore, sia esso di destra, di centro o di sinistra, purtroppo non interessa come si amministra la giustizia, purché vi sia qualcuno seduto sullo scranno del magistrato giudicante. Penso, a tal riguardo, all'infelicissima stagione dei cosiddetti GOA, i giudici onorari aggregati, previsti dalla legge 27 luglio 1997, n. 276, istitutiva delle sezioni stralcio nei tribunali ordinari, dalla cui superficialità e impreparazione gli avvocati e soprattutto le parti subirono gravissimi danni.
In fondo, assegnando loro le vecchie cause si usava un espediente non dissimile dal cosiddetto «processo breve», che adesso si vorrebbe introdurre nel nostro ordinamento. Mentre il processo breve prevede la «ghigliottina» della prescrizione, l'assegnazione delle cause ai GOA assicurava la morte dopo una lunga agonia.
Per le stesse ragioni ritengo che debba essere rifiutata anche la proposta di derogare all'inamovibilità dei magistrati in casi di eccezionali esigenze individuate dalla legge. Conosciamo bene, con tutto il rispetto per il Governo e il Parlamento, l'inesauribile capacità del legislatore di allargare le ipotesi dei casi eccezionali. Basterebbe pensare all'articolo 77 della Costituzione e constatare ciò che è stato legiferato col pretesto della straordinaria necessità ed urgenza.
Credo, quindi, di essere facile profeta nel ritenere che, una volta che passasse questa aggiunta all'articolo 107 della Costituzione, i casi eccezionali si moltiplicherebbero a dismisura.
E poi, chi ci dice che la norma, magari fra molti anni, non venga utilizzata per colpire un magistrato scomodo? Si è sempre affermato che l'inamovibilità è la garanzia dell'indipendenza dei magistrati: di tutti i magistrati. Introdurre delle deroghe, per quanto eccezionalissime, all'inamovibilità equivale a metterla in dubbio.
Vorrei affrontare, sia pure brevemente il tema della responsabilità dei magistrati. Devo purtroppo tralasciare, per ragioni di tempo, la modifica dell'ultimo comma dell'articolo 111 della Costituzione in tema di appello nel processo penale. Ho però visto che, nel corso delle audizioni ci sono stati ottimi interventi, come quello di Spangher, che è stato illuminante al riguardo.
Passo quindi all'articolo 113-bis che dispone che «I magistrati sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti al pari degli altri funzionari dipendenti dello Stato».
In proposito, da parte dell'ANM ci sono state critiche assai dure contro l'equiparazione ai funzionari amministrativi quanto alla responsabilità diretta. Tuttavia, quando l'articolo 28 della Costituzione parla di responsabilità diretta, allude a tutti i funzionari pubblici, siano essi membri del Governo, parlamentari, funzionari amministrativi e magistrati. Sotto questo


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profilo, il primo e il terzo comma dell'articolo 113-bis sarebbero addirittura inutili perché ripetitivi dell'articolo 28, laddove il secondo comma dell'articolo 113-bis potrebbe diventare il secondo comma dell'articolo 28.
Detto questo, merita di essere ricordato che nei primi anni '50 si ritenne - dato appunto l'enunciato dell'articolo 28 («...direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative...») - che tutti i funzionari pubblici dovessero rispondere in egual maniera dei privati, e quindi addirittura per colpa lieve. Ragion per cui, quando intervenne il decreto legislativo 10 gennaio 1957, n. 3, che limitò la responsabilità dei funzionari pubblici al dolo o alla colpa grave, da qualche studioso se ne rilevò l'incostituzionalità, data la disparità di trattamento dei danneggiati a seconda che l'evento fosse stato causato da un privato o da un pubblico funzionario. Non ricordo se la questione giunse in Corte costituzionale, forse no. Ma ricordo bene che fu la Corte di cassazione a risolvere, in pratica, la questione, ristabilendo la parità tra i danneggiati, in quanto statuì che lo Stato, nella sua capacità patrimoniale, risponde sempre per il fatto dei funzionari pubblici ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile, quale ne sia lo stato soggettivo e quindi anche per colpa lieve, salvo poi rivalersi sul funzionario in caso di dolo e colpa grave. Tale principio fu applicato, se non erro, anche ai magistrati in un paio di occasioni. Ma poi, una volta intervenuto il referendum abrogativo del 1987, venne approvata la legge 13 aprile 1988, n. 117, la quale, contrariamente alle aspettative dei referendari, costituì addirittura un arretramento quanto all'estensione della responsabilità (ancorché indiretta) del magistrato. Inoltre, una volta intervenuta la legge n. 117, non poteva nemmeno più essere invocata la citata giurisprudenza sull'articolo 2043 del codice civile, in quanto era ormai la legge n. 117 a determinare «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari» ai sensi di quanto dispone l'articolo 24, comma quarto della Costituzione.
Deve essere altresì ricordato che la Corte costituzionale, pur affermando l'applicabilità al magistrato dell'articolo 28 della Costituzione e pur respingendo la tesi della «negazione totale» della responsabilità, ha ammesso la possibilità di prevedere «condizioni e limiti della sua responsabilità». Non ha però imposto al legislatore la doverosa presenza di condizioni e limiti.
Sotto questo profilo, è quindi eccessivo dedurre dalle garanzie attinenti allo status e miranti, «per quanto possibile», a rendere «l'attività del giudice (...) libera da prevenzioni, timori, influenze che possano indurre il giudice a decidere in modo diverso da quanto dettano scienza e coscienza» (sentenza n. 2 del 1968), la conseguenza che il giudice non dovrebbe essere chiamato a rispondere direttamente, in sede civile, per il proprio operato (ciò che non attiene allo status bensì all'operato del magistrato), come se il metus di un possibile giudizio costituisse un «legittimo impedimento!»
Ma che tale metus debba considerarsi insussistente quand'anche il legislatore abrogasse la legge n. 117 del 1988, discende da tre punti fermi. In primo luogo, anche gli avvocati, non meno dei magistrati, possono essere chiamati a rispondere nei confronti del cliente per eventuali errori nell'interpretazione di atti normativi, ma essi sono garantiti dall'articolo 2236 del codice civile secondo il quale «Se la prestazione implica la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà, il prestatore d'opera non risponde dei danni se non in caso di dolo e di colpa grave» (non diversamente da quanto potrebbe disporre il legislatore, per i magistrati, ai sensi dell'articolo 28 della Costituzione). In secondo luogo, l'attività interpretativa, soprattutto con riferimento ai magistrati, è per definizione «libera», tant'è vero che la Corte di cassazione ritiene che l'attività del giudice «si sostanzia in opera creativa della volontà di legge nel caso concreto» (Cassazione sezioni unite, 19 gennaio 2007, n. 1136). In terzo luogo, la stessa Corte di cassazione ha più volte statuito che l'eccesso di potere giurisdizionale (e cioè


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un'«invenzione normativa» del giudice priva di una qualsivoglia base testuale) avrebbe un rilievo meramente teorico, in quanto, come già detto, l'attività interpretativa si sostanzia sempre in opera creativa.
Anche se su quest'ultimo punto nutro personalmente delle riserve (perché una cosa è interpretare, altra inventare), resta comunque ferma la conclusione che la responsabilità del magistrato connessa all'attività interpretativa è davvero meramente ipotetica, laddove la responsabilità del medesimo che consegua al compimento di «fatti» giuridici non ha alcuna ragione di differenziarsi dalla comune responsabilità per dolo o colpa grave. Infine, nell'ipotesi che la legge n. 117 venisse abrogata, la giurisprudenza della Corte di cassazione sulla responsabilità dello Stato ai sensi dell'articolo 2043 del codice civile diverrebbe nuovamente utilizzabile, e ciò con maggior garanzia per i cittadini che abbiano subito danni. Vi ringrazio.

PRESIDENTE. Ringraziando nuovamente gli auditi, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14.

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