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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite (I e II)
11.
Lunedì 13 giugno 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bruno Donato, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DEL DISEGNO DI LEGGE C. 4275 COST. GOVERNO, RECANTE «RIFORMA DEL TITOLO IV DELLA PARTE II DELLA COSTITUZIONE» E DELLE ABBINATE PROPOSTE DI LEGGE C. 199 COST. CIRIELLI, C. 250 COST. BERNARDINI, C. 1039 COST. VILLECCO CALIPARI, C. 1407 COST. NUCARA, C. 1745 COST. PECORELLA, C. 2053 COST. CALDERISI, C. 2088 COST. MANTINI, C. 2161 COST. VITALI, C. 3122 COST. SANTELLI, C. 3278 COST. VERSACE E C. 3829 COST. CONTENTO

Audizione del dottor Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia:

Bruno Donato, Presidente ... 3
Bongiorno Giulia, Presidente ... 11 13 18
Bressa Gianclaudio (PD) ... 12 17
Ferranti Donatella (PD) ... 12
Grasso Pietro, Procuratore nazionale antimafia ... 3 11 13 15 17
Pecorella Gaetano (PdL) ... 11 15

Audizione dell'avvocato Michele Vietti, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura:

Bongiorno Giulia, Presidente ... 18 29 31
Pecorella Gaetano (PdL) ... 29
Vietti Michele, Vice presidente del Consiglio superiore della magistratura ... 19 29
Zaccaria Roberto (PD) ... 29
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Iniziativa Responsabile (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): IR; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.

COMMISSIONI RIUNITE (I E II)
I (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) E II (GIUSTIZIA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta pomeridiana di lunedì 13 giugno 2011


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE
DELLA I COMMISSIONE DONATO BRUNO

La seduta comincia alle 14,35.

(Le Commissioni approvano il verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione del dottor Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del dottor Pietro Grasso, procuratore nazionale antimafia.
Informo che il dottor Grasso, che ringrazio per aver accettato il nostro invito, ha predisposto una relazione scritta che ha messo a disposizione delle Commissioni.
Do la parola al dottor Grasso.

PIETRO GRASSO, Procuratore nazionale antimafia. Ringrazio i presidenti e i componenti delle Commissioni per l'onore di potere esprimere l'opinione su questo rilevante passo istituzionale, questa riforma della giustizia che rappresenta un punto veramente importante di svolta rispetto all'attuale legislazione costituzionale.
Il disegno di legge a cui farò riferimento, rispetto a quelli abbinati, sarà quello di iniziativa governativa, anche perché gli argomenti e i temi si ripetono. Una prima annotazione è data dal fatto che il disegno di legge C.4275, presentato il 2 aprile 2011 alla Camera dei deputati dal Presidente del Consiglio dei ministri e dal Ministro della giustizia, appare connotato da una particolare tecnica legislativa che può essere definita come una sostanziale decostituzionalizzazione di princìpi.
Invero alcuni princìpi fondamentali della nostra Carta costituzionale, pur se apparentemente non riscritti, modificati o negati, assumono di fatto una diversa valenza e natura, in quanto diventano in concreto determinabili nella loro reale portata nell'ordinamento giuridico con atti di legislazione ordinaria, e quindi sempre successivamente modificabili con atti di pari forza e valore normativo ovvero con atti parlamentari approvati con maggioranze non qualificate o frutto di decisioni del potere politico della maggioranza parlamentare del momento.
Il mero rinvio alla legge ordinaria della regolazione di aspetti fondamentali attinenti a temi importanti come l'assetto della magistratura, in materia di indipendenza


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del pubblico ministero, l'inamovibilità dei magistrati, l'obbligatorietà dell'azione penale, i rapporti tra magistratura e polizia giudiziaria, senza nemmeno l'indicazione in Costituzione dei princìpi e criteri direttivi cui la legge dovrebbe uniformarsi o senza la previsione di maggioranze qualificate, affievoliscono di fatto l'attuale, netta separazione dei poteri e ne favoriscono a mio avviso uno squilibrio a favore di una più accentuata influenza del potere politico sul potere giudiziario, fino a farlo quasi scomparire come tale, in contrasto con l'immutato principio dell'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge.
Fra tutti gli aspetti affrontati dalla proposta di riforma governativa intendo dare massima priorità alla definizione del nuovo ruolo del pubblico ministero. Ritengo infatti che fra tutti i soggetti processuali il pubblico ministero sia da sempre destinato in qualsiasi sistema a connotare non solo l'amministrazione della giustizia, ma il tipo di regime politico, l'assetto democratico e il grado di civiltà di una nazione.
Con riferimento al ruolo, alle funzioni, ai poteri del pubblico ministero, il disegno di legge in esame, mediante la descritta tecnica di ricorso a un'indefinita riserva di legge, opera un articolato intervento, che, plurimo e concentrico, finisce per stravolgere totalmente la figura del PM disegnata dal costituente del 1947 e con essa l'attività di investigazione di competenza dell'autorità giudiziaria, ovvero esercitata sotto il controllo e/o la direzione di essa.
In particolare, il testo dell'articolo 104 della Costituzione proposto, il quale prevede che dovranno essere le emanande nuove norme dell'ordinamento giudiziario a dover assicurare l'autonomia e l'indipendenza dell'ufficio del pubblico ministero, al quale non viene riconosciuta e costituzionalmente garantita la stessa autonomia e indipendenza riconosciuta ai giudici dal nuovo articolo 101 della Costituzione, realizza non solo la separazione delle carriere, ma anche il sostanziale sganciamento del pubblico ministero dalle prerogative di rango costituzionale della giurisdizione, atteso che la riserva di legge ordinaria ben potrebbe consentire una meno intensa tutela dell'autonomia e dell'indipendenza del pubblico ministero rispetto a quella dei giudici, la quale rimane intangibile perché scolpita soltanto in Costituzione.
Pertanto, il regime di tutela dell'autonomia e dell'indipendenza del pubblico ministero e l'organizzazione del relativo ufficio affidato alla legge ordinaria ne determinano di fatto la dipendenza dalla maggioranza politica di turno, con non pochi ed evidenti riflessi sull'effettività del tasso di autonomia e indipendenza a esso riservato e sulla libertà da condizionamenti politici delle funzioni in concreto esercitate.
Anche il riferimento non più al pubblico ministero, come recita l'attuale articolo 107 della Costituzione, bensì all'ufficio del pubblico ministero, secondo il nuovo testo proposto dell'articolo 104, sembra riservare esclusivamente tali prerogative - peraltro costituzionalmente previste, ma lo si ribadirà sempre - in concreto delineate e regolate dalla legge ordinaria, all'intero ufficio e non anche ai singoli magistrati, con le conseguenze ulteriori, da un lato, dell'accentuazione di quegli aspetti di gerarchizzazione dell'ufficio del pubblico ministero e di ancora più marcata esaltazione verticistica sotto il profilo organizzativo interno e funzionale esterno, già delineati con la riforma dell'ordinamento giudiziario del 2006 e, dall'altro, il fatto che il singolo magistrato del PM sarebbe fortemente esposto a forti condizionamenti nell'esercizio della sua attività.
È appena il caso di ricordare che la storia recente e passata della lotta alla criminalità mafiosa è stata scritta dal coraggio, dall'impegno, a volte isolato, e anche dal sacrificio dei singoli magistrati, perché un potere diffuso e indipendente, qual è stato quello giudiziario in questi anni, più difficilmente controllabile e condizionabile, ha consentito di rendere ancor più efficace l'azione di contrasto alle più gravi forme di criminalità.


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Infine, va rilevato che la proposta di modifica dell'articolo 102 della Costituzione, secondo la quale la «giurisdizione» e non più la «funzione giurisdizionale» viene esercitata non più dai «magistrati ordinari» bensì dai «giudici ordinari», unitamente al termine «ufficio» utilizzato, come già ricordato, nel nuovo articolo 104, per il pubblico ministero sembra chiaramente collocare il pubblico ministero, quanto alla natura delle funzioni attribuitegli, assolutamente al di fuori della giurisdizione e, dandone per altri versi una mera rilevanza organizzativa d'ufficio e non di funzione, sembra, altresì, indirettamente delineare tali funzioni in una prospettiva che si pone quasi ai limiti dell'attività amministrativa.
La portata reale e complessiva dell'intervento va vista unitamente anche alle modifiche proposte in tema di disponibilità della polizia giudiziaria da parte del giudice e del pubblico ministero, con il nuovo articolo 109 della Costituzione, e di obbligatorietà dell'azione penale da parte del pubblico ministero, con il nuovo articolo 112 della Costituzione.
Invero, la versione proposta dal nuovo testo dell'articolo 109 prevede che «il giudice e il pubblico ministero dispongono della polizia giudiziaria secondo le modalità stabilite dalla legge» e il nuovo testo dell'articolo 112 che «l'ufficio del pubblico ministero ha l'obbligo di esercitare l'azione penale secondo i criteri stabiliti dalla legge».
In queste previsioni si rinviene la tecnica della decostituzionalizzazione, che non è solo normativa, di affermazione solo apparentemente in Costituzione dei princìpi, perché, in assenza di ulteriori indicazioni e di più specifici riferimenti in Costituzione, si finisce poi per rimettere alla competenza esclusiva e alla piena libertà del legislatore ordinario la determinazione dei parametri a cui ispirarsi anche nella determinazione dei rapporti tra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria, e dei criteri per l'esercizio dell'azione penale.
Appare chiaro che i plurimi e concentrici interventi sull'assetto del pubblico ministero, sul rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, sull'obbligatorietà dell'azione penale, che sono i tre punti cruciali per cui viene prevista un'indefinita riserva di legge ordinaria, hanno diretta incidenza sulla qualità ed efficacia della complessiva azione investigativa dello Stato.
L'effetto del previsto intervento di riforma costituzionale sarà quindi quello di lasciare l'intero sistema della investigazione nella più assoluta incertezza e precarietà, perché sempre soggetto a modifiche con leggi ordinarie, sia in ordine al ruolo e alle funzioni dell'organo inquirente giudiziario, sia in ordine ai suoi rapporti con la polizia giudiziaria, sia infine alle priorità da dare agli illeciti penali che si intendono perseguire.
Rimettere la politica criminale alle scelte della maggioranza parlamentare di turno, a ben riflettere, finisce a mio avviso per indebolire la stessa classe politica perché la espone ancora di più alle pressioni e ai condizionamenti dei poteri criminali forti, laddove ciò sinora non è avvenuto - e lo dimostra la storia dei risultati raggiunti in questi anni nel perseguire le infiltrazioni della criminalità organizzata nei pubblici poteri - perché siffatte competenze sono state protette dall'argine dello scudo forte dell'istituzione giudiziaria, giudicante e inquirente, indipendente e autonoma, di per sé non esposta alla soggezione alla regola del consenso.
In materia di criminalità organizzata poi, sarà ancora più possibile il rischio di sovrapposizioni di indagini nei medesimi contesti territoriali e a carico delle stesse organizzazioni criminali, ovvero di indagini che necessitano di un collegamento o di un coordinamento investigativo, anche al fine di evitare pregiudiziali interferenze, di assicurare la non dispersione di dati conoscitivi in possesso di questa o quell'articolazione di forze di polizia giudiziaria operante sul territorio e di consentire una lettura strategica di insieme che solo sotto la direzione, il coordinamento e il


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controllo del pubblico ministero, come sinora efficacemente avvenuto, può essere assicurato.
Se da un lato un'attenuazione della dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero finisce di fatto con l'incidere negativamente sullo stesso esercizio dell'azione penale, sottraendo all'autorità giudiziaria i mezzi necessari per effettuare indagini e concluderle celermente, dall'altro avrà l'effetto di determinare, inevitabilmente, interferenze e sovrapposizioni nelle attività investigative dei vari organi di polizia, che peraltro, nelle loro diverse articolazioni, centrali e territoriali, pur dipendono gerarchicamente dal Governo nel suo complesso e dai singoli ministri in particolare.
Non va trascurato che se dovesse venir meno completamente la dipendenza funzionale diretta della polizia giudiziaria dal pubblico ministero, questa non potrebbe che omogeneizzarsi alla già esistente dipendenza organica, amministrativa e gerarchica dai singoli ministri, e ciascun ministro avrebbe a disposizione la propria polizia giudiziaria - Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza, Polizia penitenziaria, forestale, Polizia ambientale, rispettivamente dipendente dai ministri dell'Interno, della Difesa, dell'Economia, della Giustizia, dell'Agricoltura, dell'Ambiente e così via; polizia giudiziaria da utilizzare secondo precise direttive che potrebbero appunto indirizzarla verso avversari politici o bloccarla nei confronti di soggetti di parte.
Appare ovvio che, nella carenza di una funzione di coordinamento investigativo esterno, diventa più forte la tendenza a trasferire sul piano politico la tutela di particolari istanze di efficienza dell'azione repressiva e a privare il pubblico ministero di una funzione di direzione e di impulso, che è essenziale tanto alla tenuta degli immutati principi di obbligatorietà di azione penale e dell'eguaglianza dinanzi alla legge, quanto all'indefettibile funzione di garanzia dei diritti individuali coinvolti nelle indagini.
Appaiono pertanto chiare le evidenti ricadute del progetto di riforma anche sulle competenze in materia di collegamento, coordinamento e impulso delle indagini di criminalità organizzata del procuratore nazionale antimafia, come previsto dall'articolo 371-bis del codice di procedura penale, e dalle sue attribuzioni in ordine alla disponibilità della Direzione investigativa antimafia, dei servizi centrali interprovinciale delle forze di polizia, al fine di impartire a tali organismi direttive intese a regolarne l'impiego ai fini investigativi, nonché in ordine alle competenze riconosciutele per garantire la funzionalità della polizia giudiziaria nelle sue diverse articolazioni, per assicurare la completezza e tempestività delle investigazioni nella lotta alle più gravi forme di criminalità anche a livello internazionale.
La riforma costituzionale in esame avrà l'ulteriore effetto di imporre, in sostanza, di ripensare e scrivere, inevitabilmente, anche un nuovo assetto, una nuova strategia complessiva sul piano istituzionale normativo e organizzativo della lotta dello Stato alla criminalità mafiosa - qui incertezze ed errori non saranno consentiti - cancellando così con un tratto di penna anche un'esperienza investigativa che in questi anni, e in particolare dagli anni tragici delle stragi fino ad oggi, ha consentito di raggiungere storici risultati, riconosciuti anche in sede internazionale, di cui il Governo e il Paese tutto sono fieri.
In questi anni è sempre cresciuta la consapevolezza, propugnata da Giovanni Falcone, di quanto sia importante per la completezza e la tempestività delle indagini, dunque per la loro efficacia, la messa in comune e la condivisione delle informazioni, la concertazione delle iniziative, l'esercizio dei poteri propri di una funzione di coordinamento in grado di orientare razionalmente i comportamenti e le risorse di tutti, l'abbandono di pericolose tendenze a interpretare con superficialità, quando non con aperta insofferenza o riottosità, gli obblighi connessi alla stessa idea di una funzione di coordinamento investigativo.


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Come si potrebbe dopo questa riforma ritenere di realizzare le complesse operazioni di polizia contro la 'ndrangheta in Lombardia e in Piemonte senza il coordinamento da parte della Procura nazionale della Direzione distrettuale antimafia di Milano, Torino, Reggio Calabria e di tutte le forze di polizia in campo (Polizia di Stato, Carabinieri, Guardia di finanza, DIA), ciascuna apportando encomiabili contributi di esperienza e di specializzazione?
Il concetto di coordinamento è ormai una realtà anche nell'ambito della cooperazione internazionale ed è largamente avvertita l'esigenza che le difficoltà della collaborazione fra Stati diversi non siano aggravate dall'ulteriore peso di un coordinamento interno debole e incerto. Si è sempre di più affermata la consapevolezza che l'attribuzione a un organo giudiziario di poteri di indirizzo renda assai più improbabili conflitti e lacerazioni, che possono determinare anche evidenti crisi di credibilità del sistema repressivo.
Tali considerazioni dovrebbero far riflettere sull'opportunità di mantenere anche per il pubblico ministero un'idea di giurisdizione costituzionalmente orientata verso obiettivi di effettività, di efficienza, senza per questo avvertire il timore di attraversare terreni minati da preoccupazioni di tenuta corporativa. Del resto, avuto riguardo alla riferibilità al pubblico ministero del concetto di giurisdizione contemplato all'articolo 102 della Costituzione, proprio la Carta costituzionale ha affermato che in tale concetto deve intendersi non solo l'attività decisoria, che è peculiare del giudice, ma anche l'attività di esercizio dell'azione penale, che con la prima si coordina in un rapporto di compenetrazione organica ai fini di giustizia, e che l'articolo 112 della Costituzione attribuisce al pubblico ministero.
Ci si chiede quindi che valore abbiano l'autonomia e l'indipendenza del giudice senza l'autonomia e l'indipendenza del pubblico ministero, cosa arriverà al giudice rispetto a quello che dovrebbe arrivare in condizioni diverse di autonomia e indipendenza del pubblico ministero, e a che valga avere questa autonomia e indipendenza se poi ci sono a monte dei filtri che possono evitare che determinate indagini o inchieste possano trovare luce anche sotto il profilo processuale.
Per quanto riguarda la polizia giudiziaria, la modifica più rilevante è costituita dalla soppressione dell'avverbio «direttamente», che connota il rapporto fra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria e nell'attribuzione alla legge della definizione delle modalità in cui si sostanzia tale rapporto. Nel testo vigente l'articolo 109 della Costituzione prevede che l'autorità giudiziaria disponga direttamente della polizia giudiziaria. L'espressione «direttamente» scompare nel progetto di legge e tutto dovrebbe essere definito dalla legge ordinaria in relazione al rapporto tra autorità giudiziaria e polizia giudiziaria.
Si ricorda che l'attività di polizia giudiziaria è attribuita agli stessi soggetti che svolgono anche altre funzioni sul piano amministrativo e sul piano di ordine pubblico, soggetti che sono alle dipendenze del potere esecutivo. Come rilevato dalla Corte costituzionale, la potestà che l'articolo 109 della Costituzione conferisce all'autorità giudiziaria di disporre direttamente della polizia giudiziaria, se trova la sua piena giustificazione nelle superiori esigenze delle funzioni di giustizia e nella necessità di garantire alla magistratura la più sicura e autonoma disponibilità dei mezzi di indagine, non subisce limitazioni per via dei rapporti di dipendenza gerarchica tra gli organi della polizia giudiziaria e il Governo.
L'articolo 109 pone la polizia giudiziaria di fronte all'autorità giudiziaria in un rapporto di subordinazione meramente funzionale, che non determina collisione alcuna con l'organico rapporto di dipendenza burocratica e disciplinare in cui i suoi organi si trovano col potere esecutivo.
Sempre secondo la Corte, l'articolo 109 della Costituzione, a prescindere dalle sue possibili implicazioni di carattere organizzativo, ha il preciso e univoco significato di istituire un rapporto di dipendenza funzionale


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della polizia giudiziaria dall'autorità giudiziaria, escludendo interferenze di altri poteri nella condotta delle indagini, in modo che la direzione ne risulti effettivamente riservata all'autonoma iniziativa dell'autorità giudiziaria medesima.
Secondo quanto affermato nella relazione illustrativa al disegno di legge, le nuove previsioni completano il disegno rivolto a perfezionare la capacità repressiva dello Stato attraverso una chiara distinzione dei ruoli che spettano alla polizia e alla magistratura, in particolare a quella inquirente.
Alla prima dovrà essere riconosciuta piena autonomia nell'attività di preinvestigazione che tende a verificare l'esistenza e l'evoluzione dei fenomeni criminali e che consiste nel ricercare e acquisire liberamente le notizie di reato attraverso ogni strumento di conoscenza e osservazione della realtà, per esempio la conoscenza diretta del fatto, la confidenza privata, l'informazione giornalistica, il fatto notorio, mentre all'ufficio del pubblico ministero sarebbero riservate, conformemente alla sua natura di autorità giudiziaria, le attività di carattere processuale relative alla valutazione dei risultati dell'investigazione, alle richieste da presentare al giudice, all'esercizio dell'azione penale e alla funzione di accusa nel dibattimento.
Tale modello del pubblico ministero, avvocato della polizia, propugnato dai sostenitori della separazione delle carriere, a mio avviso, spinge al carrierismo, al successo basato sulla ricerca esasperata dei risultati senza la mediazione dei valori da perseguire.
Tale modello non può vivere senza compromessi con il consenso dell'opinione pubblica, che impone in tanti casi la ricerca di un colpevole qualsiasi a ogni costo piuttosto che la ricerca della verità, della prova, della responsabilità.
Tale modello, a mio avviso, non può vivere senza che i pubblici ministeri finiscano, nonostante la conclamata autonomia e indipendenza da realizzare attraverso le norme dell'ordinamento giudiziario, col dipendere di fatto dalle indagini della polizia giudiziaria e, quindi, dal potere esecutivo e dalla parte politica che di volta in volta prevale.
Bisogna riflettere come mai si è arrivati a questo progetto di riforma. Bisogna fare anche un po' di autocritica. È certamente riprovevole porre in cantiere indagini che finiscono, in nome di una competenza universale, per coinvolgere capi di Stato esteri o di comunità religiose, etniche o esponenti dell'alta finanza e della politica per dimostrare ipotesi cervellotiche e prive di qualsiasi fondamento giuridico e pratico. Purtroppo ci sono stati casi di questo genere, ma isolati.
Tuttavia, bisogna avvertire che esistono dei reati, come omicidio, rapina e incendio, che si evidenziano con eventi assolutamente visibili dagli inquirenti, i quali devono disporre indagini soltanto per dare un nome ai responsabili. Di contro, esistono altri reati a contenuto atipico, come può essere l'associazione di tipo mafioso - non si è mai vista nessuna denunzia di associazione di tipo mafioso - il traffico di stupefacenti, il riciclaggio e quant'altro, che, comportando attività criminali nascoste e segrete, non sempre definibili, richiedono iniziative investigative fondate anche sul sospetto dell'esistenza della notizia di reato, che non possono certamente essere sottratte in maniera assoluta al pubblico ministero per essere assunte, ad esempio sotto forma di accertamenti conoscitivi e preliminari, da organi di polizia, con l'obbligo semmai, in caso di esito positivo, di riferirne all'autorità giudiziaria.
Affermare che anche in questi casi la notizia di reato è ancora da ricercare e che si tratta di attività propedeutica all'inizio delle indagini di polizia preventiva significherebbe ridimensionare il ruolo del pubblico ministero in un'attesa passiva di quanto ha ritenuto di accertare l'organo di polizia. Ciò porrebbe il pubblico ministero al di sotto dei limiti disegnati dalla Costituzione - e forse lì vuole portarlo questa riforma - interpretando la quale, «realizzare la legalità nell'eguaglianza», come ha definito la funzione del pubblico ministero la Corte costituzionale, non sarebbe concretamente


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possibile se l'organo cui l'azione penale obbligatoria è demandata non fosse completamente indipendente da altri poteri.
Le tanto lamentate distorsioni del pubblico ministero discendono in primo luogo proprio dalle modalità effettivamente seguite nell'esercizio dell'attività di indagine. Nel contempo, la polizia giudiziaria, avendo assunto spesso un ruolo sempre più servente, diretto alla mera verifica di elementi spesso acquisiti direttamente dal pubblico ministero, come nel caso di indagini svolte con lo strumento dei collaboratori di giustizia, non svolge indagini di iniziativa, né propone piste di indagine, né ricorre a operazioni di preinvestigazione specializzate, come le operazioni sotto copertura o le consegne controllate, senza rimanere ancorata alla delega e alle direttive del pubblico ministero, che talvolta tra l'altro, per la sua inesperienza, potrebbe non avere appieno maturato la professionalità di investigatore.
Effettivamente in alcuni casi si può correre il rischio che la polizia giudiziaria si senta deresponsabilizzata, demotivata, indotta a compiere solo atti di investigazione dovuti. A fenomeni del genere si è assistito all'indomani dell'entrata in vigore del codice, quando erano imposti sia l'obbligo di informativa al pubblico ministero entro quarantotto ore, sia la possibilità di attività di iniziativa soltanto fino all'intervento del pubblico ministero, con il comprensibile effetto della paralisi investigativa e dell'accumulo sui tavoli dei sostituti procuratori di concise e sterili informative a cui poi non si dava seguito.
Dopo le modifiche degli articoli 347 e 348 del codice di procedura penale, introdotte dalla legge n. 356 del 1992, il problema è stato risolto, a mio avviso, in maniera brillante, con la previsione che la polizia giudiziaria possa svolgere, anche dopo la comunicazione della notizia di reato e dopo l'intervento del pubblico ministero, ogni attività di indagine sia nell'ambito che al di fuori delle direttive da questi impartite. Ciò realizza una sorta di equilibrio per cui non c'è nessuna dispersione dell'attività di indagine, che è delegata dal pubblico ministero o compiuta per iniziativa della polizia giudiziaria.
Il problema non è tanto di norme, quanto piuttosto forse di prassi correttive. Occorre restringere l'attività del pubblico ministero all'indagine proiettata sul processo. Questo è il punto, recuperare il ruolo investigativo puro della polizia giudiziaria, diversificare effettivamente gli organi dell'indagine evitando sovrapposizioni, sovraesposizioni, ruoli serventi. È opportuno, infine, evitare l'ingiustificato e talvolta strumentale ricorso all'iscrizione nel registro degli indagati quando vi siano elementi investigativi così labili ed evanescenti da non configurare neppure potenziali illeciti penali o notizie di reato, iscrizione che, malgrado le previsioni di segretezza, talvolta viene svelata, compromettendo spesso in modo irreversibile la dignità di persone spesso solo sfiorate da ipotesi di illeciti certamente destinati all'archiviazione e, invece, anticipatamente condannate dai mass-media e dalla pubblica opinione.
Per risolvere questi problemi, tuttavia, di rapporti tra polizia giudiziaria e magistratura è necessario modificare la Costituzione e attenuare la dipendenza funzionale della polizia giudiziaria dal pubblico ministero? Io non sono tanto preoccupato di un pubblico ministero che, sulla base di elementi di sospetto, vada alla ricerca di elementi che costruiscono ulteriormente la notizia di reato. Sarei preoccupato di una polizia giudiziaria slegata dall'autorità giudiziaria e, inevitabilmente, organicamente collegata al potere esecutivo, che potrebbe essere condizionata dalle scelte di questo anche nella estremamente delicata fase preprocedimentale.
Siamo certi di essere al riparo dal pericolo che sempre si profila quando la giustizia appare all'opinione pubblica come una variante impazzita del sistema, come ammoniva Giovanni Falcone dinanzi alla diffusione della sensazione che vi fossero interventi talora tempestivi per fatti di scarsa rilevanza sociale e talora tardivi


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per episodi di elevata pericolosità? Questo è il nodo, questo il problema da risolvere.
I rimedi istituzionali e ordinamentali da affrontare riguardano, a mio avviso, il ruolo della procura generale presso la Corte di cassazione e con esso quello della collocazione non solo della Direzione nazionale antimafia, ma delle funzioni di collegamento e coordinamento nell'ambito dell'ufficio del PM. Le tensioni evidenti che attraversano il Paese nell'articolazione delle politiche criminali di competenza del Governo e del Parlamento e le politiche giudiziarie frammentate tra i 162 procuratori della Repubblica e, in definitiva, tra oltre un migliaio di sostituti, possono e devono essere ricomposte operando sul duplice versante della coerenza e coesione interna della parte pubblica nel processo penale; coerenza e coesione che si perseguono attraverso un rafforzamento dei poteri di coordinamento e di impulso e la costituzione di un canale unitario di controllo sull'efficacia delle scelte investigative.
Il permanere di un potere inquirente diffuso non è in contraddizione con le esigenze di evitare contrasti tra uffici del pubblico ministero, duplicazioni di indagini convergenti, costi ingovernabili del processo. Questo è un problema che investe le modalità di esercizio dell'azione penale in tutto il Paese, o meglio, delle investigazioni che precedono l'esercizio dell'azione penale. In tutto il Paese, infatti - sarebbe qui lungo indicarne le cause - si assiste a taluni processi involutivi e distorsivi sicché l'intervento di una singola procura o di più procure territoriali, anche di Corte d'appello, ha tutti i limiti che nascono dalla loro dimensione.
Io penso che ci sia spazio per un intervento di una procura centrale che si assuma l'onere di richiamare l'attenzione degli uffici territoriali sulle disfunzioni che derivano da certe prassi o che in altri casi si faccia portavoce presso altre istituzioni delle esigenze della parte processuale pubblica, che insomma sia l'interprete del migliore esercizio dell'azione penale. C'è spazio nel nostro ordinamento perché sia la procura generale della Cassazione a colmare questo vuoto? Qui stiamo discutendo del principio di responsabilità nella dirigenza delle procure, bisogna allora chiedersi se ne debba restare esclusa quella che di esse è la capofila.
È sotto gli occhi di tutti, e da tutti condiviso, il ruolo del tutto marginale nell'economia del sistema giustizia della procura generale, procura solo di nome, che si limita a fare da mero traino alla Cassazione e a esaurire il suo compito nelle requisitorie di legittimità, a parte l'attività delle indagini sull'azione disciplinare.
Il tema della responsabilità può riguardarla nella misura in cui le faccia acquisire consapevolezza che, pur nell'attuale sistema, essa è in condizione di contribuire alla gestione delle problematiche che investono l'organo dell'accusa e a dare uniformità all'esercizio dell'azione penale anche nella fase delle indagini. Perché non sfruttare le funzioni di coordinamento nazionale riconosciute alla Procura nazionale antimafia dall'ordinamento giudiziario?
La Direzione nazionale antimafia rappresenta per la Procura generale la finestra su un modo più moderno di concepire la funzione. Uso il termine «finestra» non solo metaforicamente, ma proprio come chiave giuridica che legittimi una sua dimensione più estroflessa.
Non è un elemento neutro il fatto che la DNA sia istituita nell'ambito della Procura generale. A un capo delegazione cinese ho avuto difficoltà a spiegare che cosa significasse nel nostro ordinamento essere nell'ambito di una Procura generale. Voleva alcuni esempi concreti per capire.
Siamo nell'ambito della Procura generale e il fatto che essa sia sottoposta alla sorveglianza del procuratore generale, nonché che il procuratore generale sia legittimato a entrare nel merito dell'azione della Procura nazionale, tanto che il procuratore nazionale gli comunica l'attività svolte e i risultati conseguiti, fanno della


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Procura nazionale per la Procura generale la chiave non solo giuridica, ma anche pratica per la comprensione di quelle dinamiche di esercizio dell'azione penale da cui ora la esclude la dimensione esclusivamente nomofilattica della sua azione.
Dalla simbiosi dei due organi, peraltro prefigurata con chiaroveggenza dal legislatore del 1992, seppur con quell'espressione da definire nell'ambito, può nascere una procura centrale moderna che sia investita dell'intera materia penale e che non soffra di quelle artificiali distinzioni tra diverse tipologie di criminalità che le logiche dell'emergenza hanno introdotto, ma di cui bisognerebbe nutrire speranza che il tempo abbia ragione.
Ai sensi dell'articolo 6 del decreto legislativo n. 106 del 2006, la normativa sull'ordinamento giudiziario prevede già che il procuratore generale relazioni almeno annualmente al procuratore generale della Cassazione sui dati da lui acquisiti circa l'esercizio dell'azione penale nel distretto. Se ne può dare un'interpretazione burocratica e concepire il procuratore generale solo come recettore passivo di questi dati, ma la si può anche interpretare in chiave più concreta, di controllo sull'azione delle procure, nel qual caso sarebbe più vicina a una concessione verticistica del rapporto tra uffici.
Quale può essere, invece, un'attuazione democratica informata al principio di responsabilità? Non evidentemente un'interlocuzione sui singoli procedimenti, che del resto le norme non consentono minimamente, ma la possibilità di enucleare, da quell'osservatorio privilegiato, regole e prassi in tutti i possibili campi che abbiano ricadute sull'esercizio dell'azione penale e che possano, quindi, essere proposte e suggerite, ma mai imposte alle procure territoriali.
Si tratta di immaginare una procura che abbia già nel suo DNA l'antigene nomofilattico, di farsi motore di giustizia, di indirizzarsi verso una direzione in cui la capacità di muoversi sul piano delle regole si esplichi anche in seno alla realtà del pratico esercizio dell'azione penale, ma sempre restando sul piano delle regole.
Questo è la parte della mia relazione sul ruolo del pubblico ministero. Poi ci sono tutte le altre norme costituzionali. Ci tenevo a mettere a fuoco questi concetti relativi al pubblico ministero.

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA II COMMISSIONE GIULIA BONGIORNO

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GAETANO PECORELLA. Credo di condividere tutta la seconda parte della relazione. Lei ha più volte citato Falcone, però non ha detto una parola sul convincimento di Falcone circa la necessità della separazione delle carriere. Le chiederei anche su questo punto, ovviamente fondamentale per il pubblico ministero, qual è la sua valutazione.

PIETRO GRASSO, Procuratore nazionale antimafia. Non è il mio convincimento, è quello di Falcone.

GAETANO PECORELLA. Mi ha già risposto.
Inoltre, mi pare che abbia manifestato una notevole preoccupazione per il mantenimento dell'indipendenza del pubblico ministero. Confrontando l'attuale articolo 107 della Costituzione con la modifica proposta dell'articolo 104, non le sembra che addirittura si rafforzi, citando esso espressamente l'autonomia, l'indipendenza e il ruolo del pubblico ministero come soggetto autonomo rispetto al potere politico? Conoscerà benissimo le norme, ma nell'attuale articolo 107 della Costituzione non si fa riferimento all'autonomia e all'indipendenza del pubblico ministero.
Inoltre, non mi è chiaro come sia compatibile un principio che io condivido pienamente, cioè quello della gerarchizzazione del pubblico ministero sino ai vertici - più


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volte ci siamo detti che la criminalità organizzata è organizzata sul territorio, mentre le procure non sono organizzate - con l'altra affermazione relativa alla sostanziale autonomia di ogni singolo pubblico ministero, se ho ben capito il suo pensiero.
Per quanto riguarda l'obbligatorietà dell'azione penale, vorrei capire se, secondo lei, mantenere le priorità affidate alle procure, così come avviene oggi o per un espresso documento o per scelte tacite, è preferibile perché, se ho capito bene, il Parlamento potrebbe essere soggetto a influenze della criminalità organizzata. In un suo passaggio ha detto che il Parlamento, per motivi di consenso, potrebbe essere più sensibile e condizionato. Queste è il concetto che lei ha espresso a un certo punto della sua relazione.
Da ultimo, molti Paesi europei, per esempio l'Inghilterra, prevedono che addirittura il ministro della Giustizia, che ha un nome diverso, stabilisca l'ordine con cui il pubblico ministero deve intervenire nell'esercizio dell'azione penale, cioè le priorità, così come in quasi tutti i Paesi europei si prevede che il pubblico ministero dipenda o sia sotto il controllo stretto del potere politico.
Lei ritiene che questi sistemi giudiziari siano meno garantisti di un sistema giudiziario come il nostro, dove il pubblico ministero è soggetto indipendente, ma anche irresponsabile, in senso tecnico naturalmente, per le scelte che fa nell'individuare le priorità dell'esercizio dell'azione penale?

GIANCLAUDIO BRESSA. Ringrazio il procuratore perché ha espresso in maniera molto chiara le preoccupazioni che, in qualche modo, erano sottese da una parte non piccola di queste Commissioni e che non avevano trovato una risposta sufficientemente approfondita nella relazione che ci è stato inviato dai vertici delle forze di Polizia.
Le leggo un passaggio di questa relazione. Si afferma che secondo loro la norma in oggetto non cambia molto, «tuttavia, la ridefinizione del rapporto della polizia giudiziaria, rispettivamente, con il giudice e con il pubblico ministero è rimessa alla legge ordinaria che dovrà operare nell'ambito della nuova cornice della riforma del Titolo IV della parte II della Costituzione. Pertanto, valutazioni più compiute sulla concreta incidenza dell'attuazione del nuovo articolo 109 della Costituzione sulle funzioni e sulle attività svolte dalla polizia giudiziaria potranno essere formulate in sede di elaborazione delle eventuali modifiche».
Lei ci ha spiegato invece quali sono i rischi evidenti e immediati che l'eventuale approvazione di questo testo potrebbe avere sulle indagini relative alla criminalità organizzata innanzitutto, con le conseguenze anche di problemi nei rapporti internazionali, venendo meno la funzione di coordinamento e così via.
Mi pare che questo sia estremamente chiaro e non lasci adito a dubbi. Dando per scontate, invece, alcune asserzioni e condividendole, a un certo punto lei ha sostenuto che la Direzione nazionale antimafia è il modo più moderno per concepire la funzione e ha fatto un parallelo con la procura generale presso la Cassazione. Se non ho capito male, la sua proposta è che ciò che avviene a livello di procura nazionale antimafia dovrebbe avvenire per gli altri reati a livello della procura generale presso la Cassazione e questa dovrebbe, dall'alto del suo osservatorio, essere in grado di fornire elementi di giudizio alle singole procure per procedere alla priorità nelle indagini. Intendeva dire questo quando faceva il parallelo tra la procura nazionale antimafia come modo più moderno per concepire la funzione inquirente?

DONATELLA FERRANTI. Procuratore, noi riteniamo che i punti critici - e non siamo soli perché questo disegno di legge costituzionale è stato sufficientemente demolito da una serie di audizioni - siano tanti. Tuttavia, data la sua presenza, mi focalizzerò proprio sull'obbligatorietà dell'azione penale, sui criteri e sul rapporto


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di dipendenza con la polizia giudiziaria, che credo siano tra i perni fondamentali su cui vertono l'indipendenza del pubblico ministero, la garanzia della legalità e dell'uguaglianza dei cittadini e l'indipendenza dei giudici.
Il collega Bressa le ha già rivolto una domanda che faccio mia. Lei ha accennato al modello della procura nazionale, però gli addetti ai lavori sanno che la procura nazionale ha grosse difficoltà di coordinamento e di incidenza effettiva perché forse il passaggio organizzativo non è addivenuto appieno, ci sono sempre problematiche attinenti anche all'autonomia dei magistrati delle varie DDA, alla posizione del procuratore nazionale antimafia e, soprattutto, dei sostituti quando vengono affiancati. Parlando a livello generale, a prescindere dalla decostituzionalizzazione di azione che lei già ha indicato, a prescindere dal fatto che questo disegno di legge non dice quali sarebbero i criteri, lei ritiene, dato che la critica maggiore che si fa alla magistratura è quella di una discrezionalità diffusa nelle priorità, che possano esserci dei correttivi dal punto di vista dei vari coordinamenti dei procuratori della Repubblica, magari con il territorio e poi con il procuratore generale della Cassazione?
Si tratta non di eliminare il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale - questo non è scritto palesemente nel disegno di legge - ma di renderlo efficace, trasparente ed effettivo: possono esserci delle strade, dei percorsi metodologici che non calino dalla maggioranza politica di turno il criterio di priorità dell'indagine oppure di esercizio dell'azione penale, ma garantiscano, attraverso una procedimentalizzazione uniforme che passi anche attraverso i territori, le procure distrettuali, questa efficacia a un principio costituzionale che deve rimanere integro?
Inoltre, lei che conosce, per averlo praticato, il processo accusatorio, non ritiene che il processo del 1989, quindi quello attualmente in vigore, fosse proprio basato, per l'efficacia delle indagini e anche del dibattimento, su un ruolo diverso e direttamente collegato del PM alla polizia giudiziaria, che doveva dare effettività e conoscenza diretta alle indagini, e anche compiere una prognosi riferita al dibattimento? Adesso ciò verrebbe spezzato, se non c'è più il legame diretto della polizia giudiziaria nei confronti del pubblico ministero nei casi di indagine.
Ho apprezzato molto il fatto che lei abbia ricondotto anche alla necessità di autonomia da parte della polizia giudiziaria l'intervento felice che ha compiuto nel 2001 il legislatore, in cui non ha escluso l'iniziativa autonoma e parallela della polizia giudiziaria, anche se il PM conduce le indagini. Non c'è un'esclusione dall'iniziativa. È un punto che alcune volte non viene chiarito a sufficienza.
È compatibile e come lo è un ritornare indietro rispetto al rapporto diretto della polizia giudiziaria rispetto al processo accusatorio e, quindi, anche alla prognosi dibattimentale?

PRESIDENTE. Faccio presente all'onorevole Ferranti che molte delle sue domande trovano già risposta nella relazione scritta consegnata dal dottor Grasso. Le segnalo, in particolare, le pagine 18 e 19. Chiederei, però, al procuratore nei limiti del possibile di fornire anche una risposta a voce.
Do la parola al dottor Grasso per la replica.

PIETRO GRASSO, Procuratore nazionale antimafia. Ringrazio il presidente Pecorella per la domanda che mi ha posto su Falcone, proprio perché ho potuto notare che egli viene citato spesso a sproposito, estrapolando singole frasi da discorsi più ampi e articolati, che io conosco perché sono stato un suo diretto interlocutore e perché tutti i suoi scritti, come sapete, sono raggruppati in un volume.
Non si può compiere il gioco di prelevare alcune frasi e attribuirle a Falcone, il quale, peraltro, non può purtroppo né contestare, né chiarire il suo pensiero. Per riportare nei giusti termini il pensiero di Falcone riguardo alla separazione delle


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carriere bisogna storicizzarlo e riportarlo all'entrata in vigore del nuovo codice del 1989, vale a dire al momento in cui il pubblico ministero, in sostituzione del giudice istruttore, ereditava funzioni di effettiva direzione delle indagini per l'individuazione di elementi di prova da utilizzare poi nel dibattimento, nel pieno contraddittorio delle parti. Era una novità assoluta.
Falcone poneva l'accento sulla necessità di una diversa professionalità del PM. Io ho fatto il PM anche col vecchio codice - non mi è mancato nulla; sono stato giudice col vecchio codice e poi sono diventato pubblico ministero - e il passaggio era traumatico, perché con quel codice il pubblico ministero era proprio l'avvocato della polizia che sostanzialmente si vuole ripristinare.
Arrivavano i rapporti delle forze di polizia, che non avevano alcuna direttiva, perché essa era assolutamente libera di indagare, e alle volte sullo stesso omicidio arrivavano rapporti che davano causali diverse tra Polizia e Carabinieri. Tutto ciò non poteva che rendere felici i difensori, che naturalmente si trovavano di fronte, sin dal nascere delle indagini, a contraddizioni che non avrebbero certamente potuto portare ad alcuno sviluppo processuale serio.
Da questa situazione si doveva passare, invece, a sostituire il giudice istruttore, che aveva una duplice funzione, di inquisitore e di giudice. Falcone poneva l'accento sulla necessità di una diversa professionalità del pubblico ministero, che non era preparato a questo passaggio, di un diverso assetto istituzionale, di una specificità della funzione requirente rispetto alla giudicante. Avrebbe dovuto essere diversa per lui la formazione, la regolamentazione, l'organizzazione dell'ufficio, le attitudini. Avrebbe dovuto avere una particolare carica, un habitus mentale diverso, aggressivo, attivo, differente da quello del giudice passivo terzo.
Il fine di Falcone era quello di dare slancio e incisività all'azione penale, garantendo però la massima autonomia e indipendenza del pubblico ministero. Lo dimentica chi cita Falcone, quando trascura questi aspetti.
Io ho ripreso alcuni suoi scritti raccolti in un libro, risalenti a pochi mesi dalla sua morte, nei quali afferma che il punto fondamentale è avere un PM autonomo e indipendente, ma anche efficiente. Era questo il suo pallino. Non basta l'autonomia e l'indipendenza se non si riesce a svolgere bene professionalmente il proprio lavoro.
Il PM deve avere (sono parole di Falcone) un tipo di regolamentazione ordinamentale differente rispetto a quella del giudice, non necessariamente separata, ma in ogni caso non tesa ad assoggettarlo, come i suoi detrattori affermavano, all'esecutivo - Falcone veniva accusato per queste sue idee di volere un pubblico ministero assoggettato all'esecutivo - ma, al contrario, per esaltarne l'indipendenza e l'autonomia. Ciò significa che bisogna creare le condizioni affinché acquisti effettività l'esercizio dell'azione penale.
Questo era il pensiero di Falcone. In uno scritto proprio dei primi di maggio del 1992, venti giorni prima che morisse, così conclude: «Ormai non c'è più tempo per astratte affermazioni di principio. Occorre fare in modo che queste soluzioni riguardanti il PM e soprattutto l'autonomia e l'indipendenza della magistratura rispondano alle reali esigenze della collettività e, come tali, vengano riconosciute come un valore da custodire e rafforzare da parte di tutta la società e non già come un privilegio di casta, odioso come tutti i privilegi». Questo è il pensiero di Falcone.
Si potrebbe anche ipotizzare la separazione delle carriere in relazione a questa assoluta diversità, ma non importa. Ciò su cui si basava era certamente l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, l'obbligatorietà dell'azione penale, che lui non voleva fosse un usbergo, uno scudo per nascondere elementi che non erano trasparenti e per condurre le indagini che più si preferivano piuttosto che altre. Questa era la sua posizione: autonomia e indipendenza,


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obbligatorietà e soprattutto direzione della polizia giudiziaria da parte del magistrato.
Tutto il sistema che ha creato del coordinamento delle indagini, delle DDA, del pool investigativo e della Procura nazionale era in funzione proprio di questa direzione illuminata e ottenne grandi risultati, perché, quando si mettono insieme a far lavorare Polizia, Carabinieri, Guardia di finanza e forestale - spesso ci riusciamo e con ottimi risultati - è veramente un successo, un evento che per l'esperienza pregressa del vecchio codice non avveniva quasi mai e che non poteva avvenire.
Naturalmente si deve creare questa simbiosi, questo bel rapporto. Da procuratore di Palermo, per sei anni ho avuto la fortuna di potere creare con la polizia giudiziaria questo rapporto, per cui non c'era alcun problema nel far lavorare insieme forze di polizia che prima non avrebbero nemmeno sognato di farlo.
È questa l'idea. Adesso si tratterebbe di smantellare tutto ciò. Vi ricordo che prima c'era il giudice istruttore che recuperava da inquirente un'eventuale carenza o un buco nelle indagini della polizia. Ora, a volte ci sono poliziotti più bravi di magistrati, marescialli che sanno condurre le indagini molto meglio di un sostituto appena arrivato, però molto spesso si riesce a trovare questo connubio tra magistratura e polizia giudiziaria e, quando si trova, i risultati sono eccezionali. Perché scalfire tutto ciò? Nel momento in cui non c'è più la direzione diretta delle indagini, come si regge l'intero sistema del coordinamento? La procura nazionale ha ancora senso? Chi deve coordinare? La Polizia non la può coordinare. Tutt'al più si potranno trovare degli organismi all'interno delle Forze di polizia che debbono fare il coordinamento tra di loro, ma questa è la prospettiva. Sotto questo profilo, quindi, io sono fermamente convinto, anche proprio sulle parole di Falcone, che questa sia la ricetta.
Del resto, i successi recenti contro la criminalità organizzata sono frutto di questo tipo di lavoro. Forse qualche indagine devia dai modi più corretti di arrivare all'esercizio dell'azione penale - stiamo parlando della fase investigativa, funzionale all'esercizio dell'azione penale, quindi preliminare - ma ribadisco che per me è un salto nel buio togliere questo rapporto di disponibilità diretta.
Peraltro, devo dire anche, onestamente, che parecchi funzionari di Polizia, Carabinieri e quant'altro alle volte si sentono protetti dal fatto che il magistrato possa fare da scudo rispetto non dico a pressioni, non si tratta di questo, ma a indirizzi che possono venire dall'organismo da cui dipendono gerarchicamente o organizzativamente. Non c'è dubbio, quindi, che questo può agevolare e dare il meglio nelle indagini.
Quanto al nuovo articolo 104 della Costituzione, la proclamazione dell'autonomia e indipendenza del pubblico ministero fatta in Costituzione, con riferimento all'ordinamento giudiziario, era già nell'articolo 107, quindi non c'è nulla di nuovo.

GAETANO PECORELLA. Se si confrontano non sono uguali.

PIETRO GRASSO, Procuratore nazionale antimafia. Non sono uguali, però l'autonomia c'era, non per il giudice, ma con riferimento all'ordinamento giudiziario c'era per il pubblico ministero, non con la dichiarazione di autonomia e indipendenza, che però non è il problema. Infatti, cosa si dovrebbe fare? Per ogni legge si dovrebbe trovare il modo per valutarne la costituzionalità, e quindi il problema non è solo questo, ma è anche che, nel momento in cui si inseriscono in Costituzione altri princìpi, che comunque potrebbero entrare in conflitto con le norme a garanzia anche dell'autonomia e dell'indipendenza, non c'è dubbio che possa esserci questo contrasto.
Con l'articolo 112, ad esempio, in materia di obbligatorietà dell'azione penale, si inserisce un altro principio al buio; oppure, ci sono delle norme non scritte che, però, liberano determinate prospettive che


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si possono gestire, appunto, con la legge ordinaria e ci sono dei princìpi costituzionali che non è detto garantiscano l'autonomia e l'indipendenza del pubblico ministero. C'è, inoltre, l'ufficio del pubblico ministero, del quale è garantita l'autonomia e l'indipendenza, non del pubblico ministero. Quindi, sussiste questa differenza rispetto all'articolo 107 della Costituzione.
Per quanto riguarda i concetti di gerarchizzazione e autonomia dei singoli, anche i singoli si possono gestire fissando regole da rispettare nell'ambito degli uffici. Gerarchia non significa necessariamente una gestione tale da mortificare le individualità dei singoli. Penso che si possano conciliare.
Chi ha diretto un ufficio come quello di Palermo, come è capitato a me, ha affrontato ogni giorno il problema di riuscire a imporre regole. Quando le regole sono trasparenti e vengono imposte per il buon funzionamento dell'ufficio, penso che nessuno possa lamentare un attacco all'autonomia del singolo perché le regole sono condivise da tutti. Queste almeno sono state le mie esperienze.
Circa l'obbligatorietà e le priorità, credo che la domanda si riferisse all'articolo 112. L'obbligatorietà dell'azione penale è un principio basilare per quanto riguarda la posizione del pubblico ministero, tanto che si dice che l'autonomia e l'indipendenza hanno come caposaldo l'obbligatorietà dell'azione penale e il principio di eguaglianza dinanzi alla legge.
È evidente che non è possibile perseguire tutti i reati, ma non solo nel nostro Paese. Succede anche negli altri Paesi. Bisogna perciò trovare dei sistemi correttivi. Col nuovo codice si pensava che i sistemi deflativi dal punto di vista penale potessero risolvere questo problema, ma tutto ciò è fallito. Come sappiamo, negli Stati Uniti, per esempio, va a processo soltanto il 5-7 per cento delle cause penali; tutto il resto si risolve prima e in vari modi. Quello è un modo di risolvere il problema.
Io penso che, con questa norma costituzionale, sostanzialmente si decostituzionalizzi il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale perché si introduce il concetto dei criteri di priorità che si possono introdurre con legge ordinaria. Io sosterrei, come hanno già fatto molti altri, che, siccome il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale ha bisogno di presupposti di legge, contiene in sé i germi per potere attuare criteri di priorità che non sono criteri di non esercizio dell'azione penale. Si tratta di posporre l'azione penale.
Oppure si possono trovare altre soluzioni. Per esempio, da anni sono stati avanzati tanti rimedi che potrebbero portare a qualche risultato soltanto se fossero adottati tutti e costantemente. Penso a una maggiore politica di depenalizzazione dei reati minori e di quelli tributari, a un allargamento dell'area dei reati perseguibili a querela, all'inserimento nella fattispecie di reato, sotto forma di condizioni obiettive di punibilità, di situazioni che sconsigliano il ricorso all'azione penale, al potenziamento di istituti quali l'oblazione o il tentativo di conciliazione, all'attribuzione al giudice di pace di maggiori competenze, all'estensione della non punibilità per mancanza o irrilevanza della lesione dell'interesse tutelato, sulla scia dell'enunciato dal secondo comma dell'articolo 49 del codice penale, all'introduzione di un meccanismo impeditivo dell'esercizio dell'azione penale analogo a quello previsto nel procedimento minorile per irrilevanza del fatto (dunque già esiste nel nostro sistema), alla sospensione o all'abbandono parziale dell'azione penale in situazioni di possibile cumulo di sanzioni o di imputazioni.
Ci sembra un inutile spreco di attività giudiziaria fare un processo per guida senza patente a un ergastolano oppure continuare a fare processi, che hanno dei costi, a un ergastolano che è già stato condannato a dieci ergastoli, come si fa per Riina, laddove invece si potrebbe pensare a una sospensione o a una moratoria. Inoltre, spesso si fanno processi ai contumaci, processi inutili a gente che magari è


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scomparsa. Si potrebbe agire diversamente, naturalmente bloccando la prescrizione, cioè con tutte le prerogative per evitare che si possa sfuggire alla responsabilità penale e al potere punitivo dello Stato.
Cito, ancora, l'introduzione di forme di archiviazione condizionata, ad esempio sottoposta al controllo del giudice, legate a una prognosi nel comportamento successivo dell'indagato, all'imposizione di obblighi come per esempio il risarcimento della vittima o il risarcimento del danno in materia ambientale, il pagamento di una sanzione pecuniaria. Insomma, su un terreno diverso si può porre la prospettiva di evitare criteri predeterminati di priorità nella trattazione della notizia di reato, al fine di regolamentare le scelte che il pubblico ministero è costretto a operare di fronte alla materiale impossibilità di dare corso contestualmente a tutte le notizie di reato.
Esistono già dei criteri nel nostro ordinamento. Naturalmente tutti gli avvocati sanno che i processi con detenuti hanno una priorità. Del resto, ormai si fanno quasi solo quelli. Inoltre, tra le priorità vi sono i processi per i reati che vanno a prescrizione. Comunque, vi sono già dei criteri di priorità che vengono adottati.
Il problema, allora, è di dare trasparenza a tutto ciò, facendo in modo che non ci siano diseguaglianze nell'utilizzo dei criteri di priorità. Quali organismi coinvolgere? Io partirei intanto dai territori, perché le esigenze di un territorio non può che conoscerle chi vive quel territorio e chi vi attua la politica giudiziaria. Non c'è dubbio, quindi, che i primi dovrebbero essere gli organismi locali e io, da un punto di vista giudiziario, potrei intravedere (oltre naturalmente agli uffici giudiziari e quindi alle procure della Repubblica) i Consigli giudiziari, magari allargati agli avvocati o agli amministratori locali, ai sindaci, perché insieme si possano tirar fuori le emergenze del territorio e cercare di colpire consensualmente la criminalità del territorio.
Si può anche arrivare fino al Parlamento, per carità. Forse mi sono lasciato sfuggire una frase che è andata oltre il mio pensiero: non intendevo esprimere dubbi sull'influenza del Parlamento, intendevo dire che il mutare della maggioranza parlamentare potrebbe determinare incertezze oppure cambiamenti repentini. Non volevo, quindi, assolutamente parlare di influenze di criminalità organizzata nell'ambito del Parlamento.
Penso che l'obbligatorietà dell'azione penale non abbia bisogno di una norma che la decostituzionalizzi. La tendenza non può che essere quella di mantenere l'obbligatorietà dell'azione penale. Qual è la alternativa? La discrezionalità, i criteri di opportunità. Ma è molto più facile regolare le eccezioni all'obbligatorietà dell'azione penale. Questa è la mia opinione. Capisco che ci possano essere dei dissensi, ma mi fa piacere che ci siano.
Per me è più facile trovare eccezioni alla tendenza e al principio dell'obbligatorietà, piuttosto che introdurre un principio di assoluta discrezionalità o di opportunità. Non mi pare che ci siano le condizioni per poterlo gestire.
Continuo a ritenere che non ci sia bisogno di modificare la Costituzione che sostanzialmente si svuota di contenuto prevedendo una delega in bianco alla legge ordinaria. Il riferimento alla legge decostituzionalizza il principio dell'obbligatorietà dell'azione penale. Io, quindi, manterrei il principio costituzionale con la possibilità di eccezioni e con i rimedi che ho elencato.
L'onorevole Bressa aveva posto una domanda a proposito della priorità delle indagini, se non ricordo male.

GIANCLAUDIO BRESSA. Lei diceva che la Procura nazionale antimafia è il modo più moderno per concepire la funzione. Come si può estendere questo oltre le funzioni che attualmente svolge l'Antimafia? È un modello riproducibile per la Procura generale della Cassazione?

PIETRO GRASSO, Procuratore generale antimafia. Non è completamente riproducibile.


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Pensavo che si potesse allargare lo spazio di competenza della Procura nazionale non solo ai reati di mafia. Già ci sono parecchie eccezioni nella competenza della Procura nazionale e delle DDA. Ma riportare al Procuratore generale compiti di merito, così come sono definiti rispetto a quelli di legittimità, mi pare che non sia possibile.
Attraverso la Procura nazionale, tenendo contatti e rapporti e seguendo le indagini, non si può che intravedere tutti i problemi e le prassi distorte, come ad esempio il problema dei tempi di iscrizione a registro delle notizie di reato, tutta una serie di aspetti che bisogna portare a uniformità.
Fra l'altro, ormai l'ordinamento giudiziario all'articolo 6 parla di uniformità nell'esercizio dell'azione penale. Questa uniformità si può estendere e ampliare il più possibile per cercare di prevenire le deviazioni che portano ai contrasti tra procure.
Per tutti i reati di competenza della Procura nazionale si sono abbattuti i conflitti positivi e negativi tra i pubblici ministeri. Attraverso le riunioni si riescono a trovare le soluzioni per meglio andare avanti nelle indagini. Noi interveniamo, quindi, nella fase delle investigazioni, non nella fase di regolamento di competenza. Se si arriva a quel punto, eventualmente diamo un parere. Ma noi interveniamo prima, e questo non può che facilitare l'attività investigativa e quindi l'esercizio dell'azione penale.
Attraverso il collegamento col Procuratore generale della Cassazione, come una sorta di braccio conoscitivo - ho parlato di finestra aperta sul mondo delle investigazioni e dell'esercizio dell'azione penale - tutte queste nostre conoscenze possono avere come punto di riferimento il Procuratore generale, che poi può indicare le linee guida.
Io però non alludevo alle linee guida e alle priorità per l'esercizio dell'azione penale perché siamo nel campo dell'azione penale, che è un'altra cosa. Lì non si può entrare, rimane salvo il principio dell'azione penale, che va esercitata, appunto, dal singolo ufficio, non è lì il punto.
Penso che non sia possibile tornare indietro rispetto a quello che abbiamo detto. Io continuo a sostenere, sempre avendo presente Falcone, che i principali punti da mantenere sono l'autonomia e l'indipendenza del pubblico ministero proprio come valori per la collettività. Inoltre, bisogna, all'interno degli uffici di procura, cercare di temperare o eliminare deviazioni che, purtroppo, sono presenti e che non nascondiamo.

PRESIDENTE. Ringrazio anche a nome del presidente Bruno e delle Commissioni il procuratore.
Dichiaro conclusa l'audizione.

Audizione dell'avvocato Michele Vietti, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul disegno di legge C. 4275 cost. Governo, recante «Riforma del Titolo IV della Parte II della Costituzione» e delle abbinate proposte di legge C. 199 cost. Cirielli, C. 250 cost. Bernardini, C. 1039 cost. Villecco Calipari, C. 1407 cost. Nucara, C. 1745 cost. Pecorella, C. 2053 cost. Calderisi, C. 2088 cost. Mantini, C. 2161 cost. Vitali, C. 3122 cost. Santelli, C. 3278 cost. Versace e C. 3829 cost. Contento, l'audizione del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, avvocato Michele Vietti.
Ringrazio anche a nome del presidente Bruno, dei commissari della I e della II Commissione il vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, avvocato Michele Vietti, che ovviamente ben conosce l'aula della Commissione giustizia, della quale è stato protagonista per ben quattro legislature, compresa quella in corso.
Il vice presidente Vietti è accompagnato dal vicesegretario generale del CSM, dottor Marco Patarnello, che salutiamo ed ha


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consegnato alla presidenza un'amplissima relazione, con allegati schemi multimediali, che sarà posta in distribuzione.
Do la parola al vice presidente Vietti.

MICHELE VIETTI, Vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Sono io che ringrazio le Commissioni riunite per questa opportunità. Ringrazio, lei, presidente Bongiorno, il presidente Bruno, gli onorevoli deputati. Stavo per dire «onorevoli colleghi», ma non mi farò trascinare dalla nostalgia.
Ho consegnato ai signori presidenti una relazione molto più ampia di quella che sarà la mia esposizione in questa sede. È una relazione che rappresenta il pensiero del vice presidente del Consiglio superiore della magistratura che, come è noto, si trova in una condizione costituzionalmente molto particolare, poiché da un lato presiede questo organo di rilevanza costituzionale per delega del Capo dello Stato e d'altro canto presiede un organo collegiale.
Questa audizione cade in un momento in cui il Consiglio superiore, pur avendo in corso una pratica sul tema della riforma costituzionale, cioè sul medesimo tema della nostra audizione, non ha ancora reso il proprio parere. Il Consiglio proseguirà i suoi lavori e, nel momento in cui il suo parere verrà reso, credo che questo potrà aggiungersi al contributo che oggi io spero di fornire con la mia relazione e con la mia esposizione.
In ogni caso, desidero dare atto alle Commissioni riunite che proprio questa mattina, nel plenum straordinario che è stato convocato ad hoc, il Consiglio superiore ha condiviso, con un voto a larghissima maggioranza, l'impianto argomentativo della relazione che ho distribuito che, quindi, pur rimanendo la relazione del vice presidente, esprime in larghissima misura il pensiero del Consiglio su questi argomenti.
Una prima osservazione di carattere preliminare riguarda le priorità degli interventi sulla giustizia. Ovviamente - ci mancherebbe altro - nessuno mette in discussione la piena legittimità del Governo e del Parlamento di intervenire a livello della Carta costituzionale. La nostra preoccupazione è che questo tipo di intervento non sembra destinato a produrre, almeno nel breve e medio termine, effetti sui tempi dei processi, che a nostro parere rappresentano la principale criticità dell'attuale «sistema giustizia».
Non c'è dubbio che interventi sull'assetto organizzativo anche della magistratura possono avere e hanno ricadute anche sul funzionamento del sistema giudiziario e dei processi, tuttavia ci pare sommessamente che, quanto meno, i due tipi di interventi, quello di rango costituzionale e quello ordinario sulle misure acceleratorie dei processi, andrebbero condotti di pari passo.
Il disegno di legge di riforma costituzionale in discussione affronta temi che, per la verità, formano oggetto del dibattito politico del nostro Paese da epoca molto risalente. Per fermarsi a una data, basti pensare al 1997, quando la Commissione bicamerale formulò una serie di proposte, anche significative, proprio sui temi della composizione e della funzione del Consiglio superiore, sull'istituzione della Corte di giustizia per i procedimenti disciplinari, sulle modifiche in tema di obbligatorietà dell'azione penale e della disponibilità della polizia giudiziaria da parte del pubblico ministero.
Come è noto, ed è superfluo che lo ricordi alle Commissioni, quelle proposte non ebbero nessuno sbocco attuativo. Certamente qualche timore - anche questo probabilmente ci collega al clima del 1997 - sussiste anche oggi che su questi medesimi argomenti (grosso modo si tratta degli stessi) non si riesca oggi a individuare soluzioni condivise quali, a nostro parere, dovrebbero essere le misure incidenti sull'intervento di carattere costituzionale in materia di giustizia.
Tuttavia, questo richiamo ad alcuni fallimenti di interventi riformatori del passato, non vuole - vorrei essere molto chiaro - giustificare assolutamente un atteggiamento di immobilismo rispetto alle


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criticità del sistema, che ci sono e sarebbe ipocrita negare: la difficoltà dell'organico esistente a far fronte alla domanda di giustizia; alcune tentazioni correntizie della magistratura, riconosciute dagli stessi magistrati; qualche episodio di «spettacolarizzazione» dei processi e di protagonismo improprio di alcuni magistrati; un esercizio dell'azione penale che, pur restando teoricamente obbligatorio, spesso di fatto diventa discrezionale; il ruolo anomalo di taluni pubblici ministeri che, in alcuni casi, ricercano la notizia di reato e per farlo si avvalgono dell'uno o dell'altro ufficiale di polizia giudiziaria a loro fiduciariamente legato.
Credo che non sia mancanza di rispetto nei confronti della magistratura richiamare queste anomalie. Anzi, credo che sia necessario, per poter affrontare con spirito sereno un ragionamento riformatore, farsi carico di questi problemi che esistono, seppure in percentuali molto ridotte, e cogliere l'occasione del disegno di legge in esame per confrontarsi e dibattere sulle norme, senza chiusure aprioristiche.
Noi vogliamo accettare i terreni di interlocuzione che le proposte in discussione pongono, valutandole nel merito, senza chiusure pregiudiziali. Quella che io porto è anzitutto, dal punto di vista del metodo, una disponibilità del Consiglio superiore al confronto. Se e quando verrà anche il parere formale del Consiglio, secondo le nostre procedure regolamentari, credo che questo sarà un'ulteriore occasione per dimostrarlo.
Ciò detto, ovviamente non posso tacere, proprio nel merito della riforma su cui accetto il confronto, di rilevare che la proposta governativa presta il fianco a numerosi rilievi sia per quanto riguarda le singole disposizioni, sia per quanto riguarda il disegno complessivo che le sottende.
Non c'è un rifiuto di confrontarci sui singoli temi oggetto di revisione, nessuno dei quali di per sé rappresenta un tabù che non può essere discusso. Ma le perplessità si appuntano in particolare sulle soluzioni tecnico-giuridiche che nel disegno di legge vengono adottate e in quella che a noi pare una scarsa coerenza dei singoli interventi settoriali rispetto all'architettura complessiva della nostra Carta costituzionale.
Comincerò da una notazione che, scorrendo le altre audizioni già effettuate dalle Commissioni, ho visto aver già formato oggetto di parecchie segnalazioni. Riguarda la tecnica normativa di cosiddetta «decostituzionalizzazione» dei principi riformatori, che attraverso sistematici rinvii alla legge ordinaria affievolisce il presidio di precetti fondamentali che oggi, a Costituzione vigente, sono modificabili soltanto attraverso procedure garantite.
Questo rischia di avere inevitabili conseguenze sull'attuale impianto di separazione dei poteri e, di conseguenza, anche rispetto all'uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, che è il bene primario che la separazione dei poteri vuole tutelare sul versante della giurisdizione.
Lette nel loro insieme, la rivisitazione dell'obbligatorietà dell'azione penale, la separazione delle carriere, l'autonomia della polizia giudiziaria, una magistratura elettiva fortemente più connotata rispetto a quella attuale, un indebolimento della inamovibilità dei magistrati, l'aumento dei componenti di nomina parlamentare dei duplicati Consigli superiori, la riduzione delle loro funzioni ad attività meramente amministrative, l'esclusione di una espressa garanzia costituzionale della figura dell'indipendenza del pubblico ministero, tutte queste norme, riformate, producono, o perlomeno pongono le premesse di un ordine giudiziario certamente non più unitario perché viene spezzato nella sua unitarietà e, a nostro parere, con un forte rischio di essere non solo non più unitario, ma anche meno autonomo e meno indipendente rispetto agli altri poteri.
Ciò detto, in via generale vorrei entrare nel merito dei singoli articoli riformati, anzitutto il tema della «decostituzionalizzazione». La nostra democrazia costituzionale, come è ben noto alle Commissioni, si basa su princìpi fondamentali e


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sugli strumenti apprestati a garanzia di questi princìpi stessi. Quella della Carta, come l'hanno voluta i nostri padri costituenti, è una struttura ad apparato normativo rigido, che intende preservare l'intangibilità di questi princìpi ipotizzando la modificabilità delle norme soltanto attraverso un percorso riformatore qualificato.
Un elemento singolare di questo intervento di riforma che desta perplessità è proprio quello della riclassificazione di alcuni princìpi fondamentali, che non vengono esplicitamente contraddetti, ma assumono una diversa qualificazione e natura nella misura in cui divengono determinabili e modificabili attraverso la legislazione ordinaria. Questa tecnica di «decostituzionalizzazione» è particolarmente significativa laddove ridisegna, attraverso una riclassificazione delle fonti, la valenza di alcuni princìpi costituzionali fondamentali, con il rischio, come ho detto, di affievolire la separazione dei poteri.
Vorrei sottolineare che non sto facendo una questione di pura tecnica normativa, ma una questione che attiene al ruolo e al peso che, attraverso quest'operazione, viene attribuito ai princìpi stessi, tutti posti sostanzialmente, seppure in varia misura, a garanzia del principio cardine della nostra Costituzione, quello dell'uguaglianza dei cittadini e della parità di trattamento nell'esercizio della giurisdizione.
Ora, non possiamo non rilevare come una riforma costituzionale che affidi, sostanzialmente, al legislatore ordinario la possibilità di intervenire modulando, limitando alcuni aspetti dell'esercizio della giurisdizione in base alle determinazioni variabili della maggioranza di turno, finisce inevitabilmente per incidere anche sulla garanzia integrale che deve essere assicurata dagli stessi princìpi fondamentali.
Peraltro, lo stesso Ministro della giustizia ha fatto riferimento a ben undici decreti attuativi, un numero che da solo la dice lunga, forse più di tutte le considerazioni teoriche, riguardo a che cosa consista questa procedura di «decostituzionalizzazione».
La seconda osservazione riguarda la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri che, in forza del rimodulato articolo 104 della Costituzione, come viene rimodulato, deve essere assicurata da legge ordinaria. Questo determina il venir meno di quella idea della giurisdizione come valore comune e unitario, comprensivo paritariamente sia dei magistrati giudicanti sia dei magistrati requirenti, quella concezione unitaria della giurisdizione che i nostri padri costituenti vollero proprio per poter garantire a tutti i magistrati giudicanti e requirenti l'esercizio di un potere autonomo e indipendente, separato da qualunque ingerenza del potere esecutivo e del potere legislativo e attribuito nel suo concreto governo al Consiglio superiore della magistratura.
Ora, il disegno di legge distingue i magistrati, differenziandoli tra giudici e pubblici ministeri. Questo ha una ricaduta anche sull'articolo 102 della Costituzione riformulato; in conseguenza di tale riformulazione la giurisdizione non è più esercitata dai magistrati ordinari nel loro complesso, come oggi recita la Costituzione, ma solo dai giudici ordinari. Questo apre ovviamente dubbi molto seri su quale sarebbe la natura dell'attività che finirebbero per svolgere i pubblici ministeri. Il mancato ancoraggio alla giurisdizione della figura del pubblico ministero porta inevitabilmente alla configurazione di qualche cosa di diverso - è un quid novi, possiamo discutere quanto e come diverso, ma certamente diverso - che rischia, a nostro parere, di orientare verso l'idea di un inquirente chiamato all'esplicazione di un'attività meramente o principalmente amministrativa, suggestione interpretativa peraltro avallata anche dal nuovo articolo 104 della Costituzione che parla di ufficio del pubblico ministero e non più di pubblico ministero.
Altra fonte di perplessità è la garanzia di autonomia e di indipendenza diversa che la riforma intende attribuire ai giudici


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e ai pubblici ministeri. Il nuovo articolo 101 della Costituzione prevede che solo i giudici, dunque non più la magistratura intesa come organismo unitario di cui facevano parte entrambi, costituiscono un ordine autonomo e indipendente, mentre l'attuale articolo 104 pacificamente si riferisce anche ai pubblici ministeri.
L'autonomia e l'indipendenza dei pubblici ministeri e l'organizzazione dei loro uffici vengono rimesse non più alla garanzia di rango costituzionale ma alle determinazioni che saranno assunte a livello di ordinamento giudiziario, cioè a livello di norme primarie, cioè a livello di norme che, non essendo previste maggioranze qualificate, possono essere approvate a maggioranza semplice da una legge ordinaria dello Stato, con la maggioranza politica di turno.
Questo aspetto non è secondario perché, ovviamente, se la funzione inquirente e requirente non ha una garanzia - e noi diciamo non ha una garanzia di rango costituzionale - rispetto alla propria indipendenza, il rischio è che venga pregiudicata non tanto e non solo l'indipendenza del pubblico ministero, ma l'indipendenza di tutto il «sistema giustizia», perché questo rischia di portare con sé il venir meno del principio di uguaglianza di fronte alla legge di tutti di cittadini.
Nel disegno di legge costituzionale viene espunto l'inciso previsto dall'attuale articolo 104 per cui la magistratura è ordine autonomo e indipendente da ogni «altro» potere, prevedendosi soltanto che i giudici, e quindi anche in questo caso non più i pubblici ministeri, costituiscano un ordine autonomo e indipendente «da ogni potere», laddove la soppressione del riferimento a «altro», cioè a ulteriore, porta con sé la non configurazione dell'ordine giudiziario come potere, in se stesso autonomo, dello Stato.
Questo rischia di comportare anche la compromissione di alcune prerogative a questa correlate, tra cui quella, per esempio, di sollevare conflitti di attribuzione con gli altri poteri dello Stato nei casi previsti.
Ci pare che non possa non essere sottolineato come assolutamente ingiustificato il mancato coinvolgimento delle altre magistrature nella riforma del disegno di legge costituzionale. «Costituzionalizzare» il principio della separazione delle carriere e poi non applicarlo a chi, come la magistratura contabile, distingue anch'essa tra magistrati giudicanti e magistrati requirenti rischia di apparire come una irrazionale asimmetria.
So che viene invocata abitualmente come giustificazione pratica - prescindo dal richiamo a ragioni ideologiche sulla separazione delle carriere - quella secondo cui la separazione servirebbe a ovviare all'eccesso di tramutamento tra le rispettive funzioni. Ora, ho fornito nell'allegato 1 alla relazione più ampia dati molto più analitici, ma mi permetto di darne soltanto una sintesi.
I trasferimenti da funzioni requirenti a funzioni giudicanti, cioè da PM a giudice, tra il 2008 e il 2009 sono stati il 2,1 per cento dei complessivi trasferimenti effettuati. Se si calcola che il complesso dei trasferimenti si aggira intorno ai quattrocento, vuol dire che stiamo parlando, per quel biennio, di otto cambi di funzione. Nel periodo 2009-2010, sono stati il 5,6 per cento, il picco più alto, venti in termini assoluti; tra il 2010 e il 2011, il 4 per cento, ossia sedici.
Il passaggio da magistrati giudicanti a requirenti ha percentuali ancora più basse: per il 2007-2008, il 2,7 per cento, cioè otto casi rispetto ai trasferimenti complessivi; per il 2008-2009, 5,5 per cento; per il 2009-2010, il 3,8 per cento; per il 2010-2011, il 2,7 per cento.
Ovviamente tutto questo nel rispetto del nuovo ordinamento giudiziario che prevede che, nel caso di cambio di funzioni, si debba cambiare regione, e quindi ovviamente senza pregiudizio del ruolo di imparzialità. In ogni caso, questi così limitati trasferimenti sono avvenuti in presenza del requisito della incompatibilità.
Per quanto riguarda il doppio Consiglio superiore, la scelta di due organismi separati è la conseguenza della opzione di


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separare radicalmente la carriera requirente da quella giudicante. Tuttavia, non possiamo non notare come questa innovazione modifichi profondamente il ruolo e le funzioni del Consiglio superiore quale è stato voluto nel nostro sistema costituzionale, con un obiettivo indebolimento del rilievo del Consiglio, o dei Consigli, nonostante la sopravvissuta presidenza del Consiglio superiore da parte del Presidente della Repubblica.
Per i componenti laici, non cambia la modalità di elezione. Del tutto nuovo è il sistema di elezione dei togati. Ora, la modalità del sorteggio suscita fortissime perplessità anche perché affievolisce il nesso di rappresentatività tra eletti ed elettori. Come è noto, e questo vale per qualunque sistema elettorale in qualunque campo, il tradizionale scopo rappresentativo del meccanismo elettorale è minato, attraverso il sorteggio, dalla preclusione della possibilità che la categoria, o singoli componenti di essa, possano scegliere individui ritenuti rappresentativi, costringendoli, viceversa, a optare tra persone selezionate in maniera del tutto casuale.
Peraltro, mi permetto anche qui di notare che il sorteggio non elimina il problema dell'influenza delle diverse rappresentanze associative della magistratura sulla designazione dei componenti togati perché, una volta identificata attraverso il sorteggio la platea degli eleggibili, questi si sottopongono a una elezione in cui, se e quando c'è il rischio correntizio, lì si manifesterebbe egualmente, e quindi il problema resta sostanzialmente irrisolto. Mi permetto con una domanda non retorica di chiedermi se davvero sia stato fatto ogni sforzo per identificare un sistema elettorale che, fatto salvo il principio rappresentativo, provi a eliminare gli aspetti deteriori del «correntismo».
Peraltro non posso non notare come sia del tutto singolare che il legislatore decida di inserire in Costituzione il criterio tecnico con cui devono essere scelti i componenti togati del Consiglio. Come è ben noto alle Commissioni, in questi anni più volte è stato cambiato il sistema elettorale del Consiglio superiore ed è sempre stato fatto con legge ordinaria. Ci rendiamo tutti ben conto che irrigidire questo principio addirittura a livello costituzionale porterebbe con sé, di fatto, una straordinaria difficoltà di modificarlo.
Per quanto riguarda la composizione, si immagina di portare i membri togati alla metà rispetto ai due terzi attuali. Questa rappresentanza paritaria introduce un serio rischio che le decisioni che incidono sulla vita professionale di ogni singolo magistrato siano effettivamente condizionate da logiche e interessi esterni alla giurisdizione. Aggiungo che, in mancanza, come la norma riformata propone, di ogni indicazione in Costituzione di una maggioranza qualificata, la maggioranza richiesta per l'elezione dei componenti laici resta rimessa alla legge ordinaria che, come è noto, in base alla legge del 1958, oggi prevede una maggioranza qualificata. Questo, tuttavia, a rigore non metterebbe al riparo dalla possibilità che, soprattutto in un sistema politico rappresentativo a forte connotazione maggioritaria, la maggioranza parlamentare possa condizionare in modo decisivo la scelta dei componenti laici.
Si aggiunga che questo effetto di condizionamento prevalente della componente politica è aggravato dalla circostanza che si continua a immaginare il ruolo del vice presidente e i connessi rilevanti poteri legislativi e regolamentari in capo a un componente laico. Ricordo in proposito che, nel caso di parità in alcune votazioni nel plenum del Consiglio superiore, il voto del vice presidente vale doppio.
Si aggiunga ancora un'ulteriore ragione di perplessità: a parte il vice presidente, ma in ciascun Consiglio superiore è prevista la partecipazione di un altro togato, il primo presidente della Cassazione in quello dei giudici, il procuratore generale in quello dei pubblici ministeri. Questo è in grado di far pendere gli equilibri dei voti verso la categoria rappresentata, cioè si carica questa figura, sostanzialmente, di un ruolo di ago della bilancia, ma in questo modo si attribuisce a queste figure


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un peso e un rilievo certamente eccessivo, estraneo al sistema, che inevitabilmente connoterebbe di obiettivi impropri la selezione di questi candidati alle figure apicali.
Aggiungo che i Consigli superiori delle altre magistrature prevedono tutti una netta preponderanza dei componenti interni. Nella Corte dei conti il rapporto è sette a quattro; nella giustizia amministrativa è dieci a quattro; nella magistratura militare addirittura è sei a uno. Questa diversità è difficilmente giustificabile dal punto di vista razionale.
Sul tema della composizione, vorrei dire che l'attuale proporzione, prevista per il Consiglio superiore unico, di due terzi e un terzo non è di per sé un tabù; anche il Consiglio è disponibile a ragionare. Qual è il limite? Ovviamente il limite è che vengano preservate l'autonomia e l'indipendenza, il che certamente non può avvenire se la componente laica diventa addirittura preponderante (non è previsto neppure in questo parere), ma sostanzialmente preponderante attraverso quei ruoli che ho richiamato del vice presidente, del membro di diritto e dei capi di corte.
Addirittura la citata Commissione bicamerale, le cui conclusioni peraltro furono molto criticate, immaginava nell'unico Consiglio superiore due sezioni e in quelle un rapporto tra tre quinti di togati e due quinti di laici. Si aggiunga che la risoluzione dell'ENCJ (la rete europea dei Consigli di giustizia) di Budapest del maggio del 2008 ha raccomandato agli Stati membri e quindi, fino a prova contraria, anche all'Italia, che venga assicurata nei Consigli di giustizia una maggioranza di togati. Dunque, la preoccupazione - non è qui mio compito avventurarmi nel formulare soluzioni numeriche - è che la composizione deve rispondere all'esigenza fondamentale di garantire l'autonomia e l'indipendenza della magistratura, cioè il ruolo istituzionale del governo della magistratura, il che non è attraverso la formula che qui viene adottata.
Per quanto riguarda le competenze, il nuovo articolo 105 della Costituzione pone non poche perplessità. Si introduce, con una elencazione sostanzialmente tassativa, un'indicazione di funzioni amministrative che riguardano la vita dei magistrati; lì viene esclusa sia la funzione disciplinare sia esplicitamente la facoltà di adottare atti politici o di assumere funzioni diverse. Per la verità, debbo dire che a me non risulta che il Consiglio abbia adottato atti politici; il Consiglio ha spesso espresso il proprio parere rispetto alle ricadute che provvedimenti legislativi avevano o hanno sul funzionamento del sistema giudiziario. Certo queste riduzioni di competenze finiscono per accentuare o addirittura ridurre il ruolo del Consiglio a una mera amministrazione burocratica, sottraendogli il ruolo fondamentale che il costituente ha voluto, quello di governo autonomo della magistratura in funzione di tutela e presidio delle istanze che debbono assistere l'esercizio della giurisdizione.
La previsione del nuovo articolo 105 della Costituzione riformato, per cui il Consiglio non potrà più esercitare funzioni diverse da quelle elencate in Costituzione, interrompe una interpretazione, tra l'altro sempre sopravvissuta al vaglio della Corte costituzionale, per cui il Consiglio poteva esercitare tutta una serie di funzioni ulteriori rispetto a quelle che il testo del vecchio articolo 105 elencava.
Penso alla formazione professionale, che rappresenta una delle attività più qualificanti e più rilevanti del Consiglio superiore e che, secondo questa dizione tassativa, addirittura non potrebbe più essere esercitata; e penso alla stessa organizzazione degli uffici giudiziari che paradossalmente, non essendo citata nell'articolo 105, si potrebbe arrivare a sostenere non rientri più tra le attribuzioni del Consiglio.
Mi avvio verso la conclusione. La Corte di disciplina, estranea al Consiglio, porta con sé una prima conseguenza ovvia, che è quella di escludere la funzione disciplinare dalle attività tipiche del Governo autonomo. Si crea questo organismo ad hoc, un organismo che, come hanno rilevato molti costituzionalisti anche auditi


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dalle Commissioni, è di difficile collocazione all'interno dell'architettura costituzionale, fondata sulla separazione dei poteri e dunque fondata su uno schema che incardina il Consiglio superiore nel ruolo di rappresentanza e di garanzia della giurisdizione, a cui è connaturato anche l'esercizio disciplinare.
Anche la composizione di questa corte, con una presenza paritaria di laici e togati, e le funzioni di vertice che vengono attribuite ai membri eletti dal Parlamento, rischiano di rendere questo organo permeabile all'influenza politica. Credo che sia interesse di tutti preservare autonomia e indipendenza dell'organismo di disciplina, comunque lo si voglia costruire, da forme di condizionamento, sia con riferimento alle sanzioni di singole condotte, sia sotto il profilo, che inevitabilmente viene dall'esercizio delle sanzioni, di indirizzo dei comportamenti collettivi della magistratura, che certamente risentono della giurisprudenza disciplinare.
L'estraneità dell'organo di disciplina rispetto a quello di governo autonomo della magistratura rischia anche di sottrarre questa Corte di disciplina alla copertura costituzionale rafforzata che la nostra Costituzione assicura al governo autonomo della magistratura, cioè il Consiglio superiore, in quanto rappresentativo dei principi fondamentali dell'ordinamento - lo dico ancora una volta - collegati al principio della separazione dei poteri.
Dopodiché, sul tema io esprimo una posizione molto laica. Una legge ordinaria che, modificando la norma del 1958, prevedesse l'elezione di una separata sezione disciplinare rispetto al Consiglio superiore, con una chiara incompatibilità tra i componenti della sezione disciplinare e gli altri componenti del Consiglio superiore, credo che potrebbe rispondere esattamente all'esigenza prospettata senza incorrere nei rischi di scarsa corrispondenza rispetto alla funzione di autonomia e all'indipendenza della magistratura, che la soluzione prospettata nel disegno di legge comporterebbe.
Tra l'altro, la sezione disciplinare autonoma rispetto al Consiglio consentirebbe anche di riconoscere a questo un potere di iniziativa disciplinare autonomo, che oggi, come è noto, il Consiglio non ha, per cui sentiamo spesso invocare interventi disciplinari da parte del Consiglio quando, per la verità, i poteri disciplinari spettano al ministro e al procuratore generale e il Consiglio è semplicemente giudice rispetto all'esercizio di un'azione disciplinare che compete ad altri e su cui non ha nessun potere.
Faccio un'altra osservazione che non mi sembra da trascurare: noi continuiamo a non comprendere quale sarebbe la ragione di coerenza costituzionale per cui un intervento così pregnante sulla disciplina della funzione disciplinare separata debba essere adottata nei confronti della sola magistratura ordinaria. Non si vede perché debba essere tralasciata un'analoga attenzione, se si ritiene che questo sia un elemento discriminante, nei confronti di altre magistrature, che pure esercitano in campi certamente non meno significativi la funzione giurisdizionale rispetto a quella esercitata dalla magistratura ordinaria.
Oltretutto - rimando a un allegato nella relazione sui provvedimenti sanzionatori della sezione disciplinare che, a mio parere, anche smentiscono molto il luogo comune della giustizia domestica - faccio anche qui una dichiarazione molto laica. Come ho detto a proposito dei numeri del Consiglio superiore, dico a proposito dei numeri della sezione disciplinare: il rapporto numerico non è un tabù corporativo. Peraltro, c'è una sentenza della Corte costituzionale che, a suo tempo, è intervenuta proprio sulla composizione della sezione disciplinare, attualmente nella formula in vigore, che già consentirebbe un rapporto diverso rispetto a quello attuale tra laici e togati.
Anche qui ricordo pro memoria, non certamente perché voglia farlo mio, che la Bicamerale prevedeva un organo di giustizia disciplinare comune alla magistratura ordinaria e alla magistratura amministrativa


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e sei membri eletti dal Consiglio superiore della magistratura ordinaria, di cui quattro togati e due laici, e tre eletti dal Consiglio superiore della giustizia amministrativa, di cui due togati e un laico.
Credo che anche qui, senza avventurarmi nell'estrazione dei numeri, la preoccupazione che rappresento è quella che la composizione debba assolutamente garantire l'autorevolezza e l'indipendenza dei componenti che devono, tanto più in materia disciplinare, poter dare assoluta affidabilità di terzietà rispetto alla politica.
Ci pare che questa modalità di composizione, fatta anche qui metà e metà, questa affidabilità non la dia. Aggiungo che nel disegno di riforma della Bicamerale il giudice disciplinare era anche giudice della giurisdizione rispetto ai provvedimenti amministrativi del Consiglio superiore. Questo, ovviamente, non c'è nel disegno di legge in esame.
Brevemente, a proposito dell'esercizio dell'azione penale e della modifica del rapporto tra pubblico ministero, polizia giudiziaria e priorità. Si tratta di due temi su cui quella censura preliminare di «decostituzionalizzazione» che ho fatto si applica pienamente. Per quanto riguarda il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria, non sfugge a nessuno che questo ha un'incidenza diretta sulla qualità e sull'efficienza dell'esercizio dell'azione investigativa. Indebolire il rapporto di subordinazione tra polizia giudiziaria e pubblico ministero rischia di sottrarre alla magistratura i mezzi necessari per compiere le indagini. Se la magistratura non dispone pienamente dei mezzi necessari per condurre le indagini, evidentemente in questo modo si finisce per condizionare l'esercizio dell'azione penale.
Per tacere del rischio, che tutti gli operatori del settore ben possono immaginare, che comporterebbero le eventuali interferenze e sovrapposizioni dei diversi organi di polizia giudiziaria: basti pensare a realtà territoriali complesse dove si intrecciano vicende processuali autonome ma riconducibili magari agli stessi gruppi criminali. Peraltro, parliamo di organismi di polizia a cui va la nostra piena e incondizionata fiducia, ma di cui non possiamo tacere la dipendenza gerarchica dal Governo.
Per estrema chiarezza, dico che il ragionamento che ho fatto sul rapporto tra polizia giudiziaria e pubblico ministero evidentemente non nega l'esistenza di disfunzioni nell'attuale assetto - ho citato all'inizio esplicitamente alcune ipotesi di anomalie proprio a proposito dell'utilizzo degli ufficiali di polizia giudiziaria - ma io credo che su questo fronte si possa tranquillamente intervenire con una modifica con legge ordinaria, con una modifica del Codice di procedura penale che disciplini meglio il rapporto (che però resta indissolubile) tra polizia giudiziaria e magistrato inquirente, per esempio ridisegnando le modalità di acquisizione della notizia di reato che sono uno degli obiettivi elementi di criticità nel sistema vigente.
Per quanto riguarda le priorità, l'esercizio dell'azione penale è riferito oggi dalla Costituzione al pubblico ministero; nel nuovo testo viene riferito all'ufficio del pubblico ministero. Questo vuol dire che viene riconosciuto all'articolazione giudiziaria nel suo complesso, che in particolare dopo la recente riforma dell'ordinamento è rappresentata dalla figura del dirigente dell'ufficio di procura e non dal singolo magistrato.
Non si possono sottacere i rischi di questa limitazione. Dico, però, con molta serenità che non c'è un pregiudizio rispetto all'introduzione di criteri di priorità, anzi, proprio sul tema dei criteri di priorità il Consiglio superiore ha avviato da tempo una riflessione. Non ci sfugge - sarebbe ipocrita dire il contrario - che il carico di lavoro che grava sulle procure e soprattutto una legislazione penalistica debordante, insomma una situazione di «panpenalismo» impedisce di fatto la trattazione di tutti i procedimenti pervenuti, costringendo a effettuare delle scelte di approfondimento o di priorità.
Noi diciamo che questa scelta non può tradursi in una teorizzazione della lesione


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del principio di uguaglianza di fronte alla legge, con l'elaborazione di una politica criminale che venga rimessa alle maggioranze parlamentari di turno.
Mi limito a un accenno soltanto alla modifica dell'articolo 110 della Costituzione sui poteri del Ministro della giustizia. Da un lato, la riforma riconosce al ministro esclusivamente competenze a proposito dell'apparato servente all'esercizio dell'attività giurisdizionale, quindi in qualche modo ricalcando l'attuale modello costituzionale. Non si comprende, però, perché il ministro, nella relazione annuale alle Camere, debba riferire sull'esercizio dell'azione penale e sull'uso dei mezzi di indagine, cioè debba riferire su materie rispetto alle quali non ha nessun potere di intervento, dal momento che l'esercizio delle funzioni giudiziarie rimane nell'esclusiva titolarità dei magistrati.
Non mi attardo sulla inappellabilità delle sentenze assolutorie di primo grado, anche per solidarietà affettuosa nei confronti dell'onorevole Pecorella che a suo tempo fu promotore di una proposta di legge in materia. Mi limito a rilevare che ci sembra non vengano indicati in maniera chiara e inequivoca, come invece faceva la legge Pecorella, i limiti dell'appellabilità delle sentenze. Questa mancanza rischia di svuotare di significato l'inserimento in Costituzione di questa previsione. Aggiungo che le limitazioni che vengono introdotte non sembrano compatibili con le condizioni di parità tra le parti processuali sancite dallo stesso articolo 111 della Costituzione ed esplicitate dalla sentenza della Corte costituzionale.
In ogni caso, faccio presente che si «costituzionalizzerebbe» il principio del giudizio di merito di secondo grado. Oggi è «costituzionalizzato» soltanto il ricorso in Cassazione, ma con questa formula verrebbe «costituzionalizzato» anche il giudizio di merito di secondo grado, seppure con una serie di eccezioni che dovrebbero essere fissate dall'ennesimo decreto attuativo. Questo rischia di appesantire la giurisdizione con inevitabili conseguenze sulla ragionevole durata del processo.
Rimando al testo scritto per quanto riguarda l'eleggibilità dei magistrati onorari, convinto che la formula adottata dall'articolo 106 originario, che limitava le funzioni dei magistrati onorari a quelle monocratiche, fosse una saggia previsione, che esprimeva proprio la volontà di limitare le funzioni dei magistrati onorari alla cosiddetta giustizia minore, e volutamente li escludeva dai collegi giudicanti, scelta che ci pare debba essere condivisa tutt'oggi.
La inamovibilità è il penultimo punto; poi dirò soltanto qualcosa sulla responsabilità civile. Il principio di inamovibilità, come credo sia evidente a tutti, è il completamento naturale della riserva di competenza dettata dall'articolo 105 della Costituzione a proposito delle competenze del Consiglio, in cui si dice che il Consiglio è competente, e solo la legge può intervenire sul punto, in tutti i provvedimenti che concernono lo status dei magistrati.
Questo è il cosiddetto presidio della indipendenza esterna, ma è anche il presidio dell'indipendenza interna, cioè il presidio dell'indipendenza del singolo magistrato nei confronti del suo stesso organo di autogoverno. Questo, a legislazione vigente, è esteso a tutti i magistrati giudicanti, requirenti, togati e onorari. Per trasferire un magistrato ad altra sede ci vuole il consenso dell'interessato o il rispetto del giusto procedimento, oltre ai motivi tassativi.
Il disegno di legge interviene solo sui motivi tassativi e rimette la specificazione di questi motivi alla normativa primaria, senza richiamare - e questa è una lesione pericolosa, a nostro parere - la necessità del procedimento garantito, una delle condizioni di tutela dell'autonomia attraverso il principio della inamovibilità.
È inutile dire, ma credo che sarebbero parole al vento, che i problemi di copertura delle vacanze non si risolvono con i trasferimenti coatti, ma si risolvono in un modo solo: rivedendo le circoscrizioni giudiziarie.


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Se non si mette mano alla vetusta geografia giudiziaria del Paese e a una redistribuzione razionale delle risorse, non si riuscirà mai a dare una risposta alla domanda di giustizia.
Ultimo, ma non ultimo, la responsabilità civile. Non abbiamo preclusioni a che la responsabilità civile trovi anche una collocazione specifica nella Costituzione, se - ma francamente sul punto qualche perplessità in realtà l'abbiamo - la previsione generale dell'articolo 28, che riguarda tutti i dipendenti pubblici e, pacificamente, per interpretazione costante, anche i magistrati, non fosse ritenuta sufficiente.
È inutile che ricordi alle Commissioni la rilevanza che il tema della responsabilità ha per i magistrati. È un tema di straordinaria delicatezza ed è un nervo straordinariamente sensibile perché le modalità attraverso cui si sanzionano i magistrati per i presunti danni cagionati in esercizio delle funzioni incidono direttamente sulla modalità di esercizio della giurisdizione, dunque sulla tutela dei diritti dei cittadini.
Il primo comma del 113-bis modificato riproduce, sostanzialmente, l'articolo 28 della Costituzione, norma già considerata pleonastica e che, quindi, non si comprende perché debba essere a sua volta ripetuta in un altro articolo di identico tenore. Francamente, non si capisce, anche qui, perché il legislatore non possa, ove lo ritenga, intervenire con norma ordinaria. Quello che ci preme e che mi permetto di rappresentare alle Commissioni con grande preoccupazione è che la condotta sanzionabile del magistrato non possa mai riguardare il ragionamento interpretativo seguìto dal giudice in sede di applicazione della norma né la valutazione del materiale probatorio. Questi sono due limiti, a nostro parere, assolutamente insuperabili.
Non commento la responsabilità diretta per i casi di ingiusta detenzione e di indebita limitazione della libertà personale. Il diritto positivo già prevede l'istituto della riparazione per ingiusta detenzione e il riferimento generico a ogni altra indebita limitazione della libertà rischia di esporre il magistrato a possibili azioni risarcitorie in relazione a qualunque provvedimento giurisdizionale restrittivo, o comunque incidente sulle libertà della prima parte della Costituzione, ivi compresa la libertà di corrispondenza per il caso di intercettazioni ambientali o telefoniche e di libera circolazione.
Qualcuno invoca la giurisprudenza e la legislazione europea per dire che, invece, questo intervento in materia di responsabilità civile dei magistrati è indispensabile. È noto il richiamo alle sentenze Köbler e Traghetti del Mediterraneo. Io vorrei sommessamente ricordare, ma certamente è cosa ben nota alle Commissioni, che la Corte di Lussemburgo ha chiarito in modo inequivoco che il principio del risarcimento del danno per violazione, in quel caso del diritto comunitario, ma per analogia anche del diritto interno, non investe la responsabilità personale del magistrato, ma soltanto quella dello Stato. Non si può, cioè, addurre la normativa comunitaria e la giurisprudenza della Corte europea a sostegno della necessità di modificare il regime della responsabilità del giudice nazionale in quanto la Corte di Lussemburgo ha precisato che questa è una questione integralmente interna, irrilevante per il diritto dell'Unione purché sia fatto salvo che un responsabile c'è e quel responsabile è lo Stato.
Mi permetto di ricordare che una rapida analisi delle legislazioni dei Paesi europei su questa materia indica che l'Italia è assolutamente in linea: in Germania la responsabilità civile e personale c'è solo per ipotesi di reato che produca danno, in tutti gli altri casi risponde lo Stato; in Belgio la responsabilità è ipotizzata solo per il caso di dolo intenzionale o frode; nel Regno Unito vi è l'immunità dei giudici secondo common law e equity, quindi ovviamente il giudice non risponde mai per danni; in Francia l'azione civile è possibile solo contro lo Stato, che eventualmente ha azione di rivalsa grossomodo nelle stesse condizioni della legge italiana;


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nei Paesi Bassi la responsabilità fa carico solo allo Stato; in Svizzera solo allo Stato; in Portogallo c'è solo responsabilità personale in caso di condanna penale, in Spagna e in Lussemburgo, accanto allo Stato, c'è anche la responsabilità civile compartecipante del giudice quando si verifichino requisiti che non si sono per la verità mai verificati.
Chiedo scusa se ho abusato della loro pazienza, ma voglio sperare che loro mi perdoneranno, nella consapevolezza che chi rappresenta un organo di rilevanza costituzionale che è profondamente toccato dall'ipotesi di riforma possa avere l'interesse di esprimere con una certa ampiezza anche le proprie ragioni e, magari, possa essere perdonato se lo ha fatto anche con qualche passione. Grazie.

PRESIDENTE. Siamo noi che la ringraziamo, il suo intervento è stato di grande interesse.
Ricordo che la relazione, con una serie di allegati, consegnata dal vice presidente Vietti alla presidenza è in distribuzione. Essa riprende quanto già illustrato in questa sede e riporta ulteriori approfondimenti.
Do la parola ai deputati che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GAETANO PECORELLA. Innanzitutto sulla «decostituzionalizzazione» dei principi, vorrei chiedere se il CSM ha mai preso posizione o comunque ha mai considerato come una norma a rischio l'attuale articolo 107 della Costituzione il quale, nell'ultimo comma, reca: «Il pubblico ministero gode delle garanzie stabilite nei suoi riguardi dalle norme sull'ordinamento giudiziario», evidentemente rinviando alla legge ordinaria le garanzie del pubblico ministero. Questo non mi sembra francamente poco rispetto a questo aspetto.
In secondo luogo, vorrei sapere se comunque il vice presidente Vietti condivide che sia escluso che il CSM possa formulare documenti di indirizzo politico, vale a dire documenti che non sono il parere richiesto, come prevede la legge, da parte del Ministro della giustizia, ma che siano iniziative di critica, per esempio, a scelte legislative, politiche e così via.
Infine, non riesco a capire quale sia il pericolo nell'uso dell'espressione «l'ufficio del pubblico ministero». L'attuale normativa, che peraltro è stata modificata e nel testo attuale deriva da una legge dell'ottobre 2006, quindi dell'epoca del ministro Mastella, reca: «Il procuratore della Repubblica, quale preposto all'ufficio del pubblico ministero, è titolare esclusivo dell'azione penale». Vorrei capire, visto che la legge attuale riporta questa previsione e nulla è stato rilevato dal CSM rispetto a questa formulazione, qual è il rischio dell'espressione «ufficio» all'interno della Costituzione.

ROBERTO ZACCARIA. Vorrei sapere come legge il vice presidente Vietti il riferimento all'autorità giudiziaria che compare nei primi articoli della Costituzione in relazione alle garanzie dei diritti fondamentali. Si parla di autorità giudiziaria: alla luce di questa riforma, cosa vuol dire quell'espressione?

PRESIDENTE. Do la parola al vice presidente Vietti per la sua replica, informandolo che, qualora lo ritenesse opportuno, può riservarsi di produrre in seguito delle risposte scritte.

MICHELE VIETTI, Vice presidente del Consiglio superiore della magistratura. Rispondo ben volentieri subito. L'onorevole Pecorella è troppo esperto e preparato per non sapere che l'articolo 107, quarto comma, nella sua attuale formulazione, all'interno del contesto costituzionale dato, non rappresenta nessuna forma di pericolo con il suo riferimento alla legge dell'ordinamento giudiziario.
Questo perché il pubblico ministero oggi è a pieno titolo componente della giurisdizione a parità del giudice, e quindi gode delle stesse tutele di carattere costituzionale


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per le proprie prerogative di autonomia e indipendenza del giudice.
In uno schema in cui pubblico ministero e giudice sono egualmente magistrati e sono egualmente organi della giurisdizione, anche un riferimento a una norma ordinaria ha un livello di pericolosità infimo, perché la tutela è data dal quadro complessivo e dall'essere le due figure unificate nella giurisdizione.
Nel momento in cui interviene con la separazione e solo la tutela del giudice è di rango costituzionale, mentre invece le tutele di autonomia e indipendenza del pubblico ministero vengono rimesse, queste sì, alla legge ordinaria, con quelle maggioranze che, come detto, potrebbero essere variabili, il riferimento diventa, a mio parere, certamente più pericoloso o quanto meno molto più aleatorio.
Il Consiglio superiore non fa documenti di indirizzo politico, né avrebbe ragione di farli. Il Consiglio superiore esprime il proprio parere, richiesto o non richiesto, perché questa è una prerogativa che attiene alle funzioni istituzionali dell'organo di governo autonomo, che a mio parere deve (non può) dire quali sono le ricadute che disegni di legge e proposte normative hanno sul funzionamento del sistema giudiziario. Altrimenti, non si capisce che cosa dovrebbe fare il Consiglio superiore.
Un organo puramente amministrativo che trasferisce i magistrati da una sede all'altra? No, perché la Costituzione, almeno quella vigente, gli attribuisce espressamente, oltre ai compiti amministrativi, anche il compito di tutela e garanzia e dell'indipendenza e il compito di governo.
Nei compiti di tutela dell'autonomia e dell'indipendenza e nei compiti di governo, certamente rientra, ma senza grandi sforzi di interpretazione estensiva dell'articolo 105 della Costituzione, la possibilità che il Consiglio dica quali possono essere i rischi che alcune normative, che il Parlamento legittimamente - su questo non ci sono dubbi - adotta, possono causare al funzionamento della giurisdizione. Tutto questo viene fatto in uno spirito di leale collaborazione. Poi, non trattandosi di pareri né obbligatori né vincolanti, vengono semplicemente offerti al proprio interlocutore.
Il nostro interlocutore ordinario è il Ministro della giustizia ovviamente, non è il Parlamento. Io oggi sono qui a parlare al Parlamento per una ragione alquanto particolare e specifica. Ma il Consiglio ha il dovere di rappresentare al ministro della Giustizia le sue opinioni.
In questo governo dualistico della magistratura - concetto a cui sono affezionato da altra materia - in cui il ministro si deve occupare del funzionamento dei servizi e il Consiglio si deve occupare dei magistrati, ma in cui, come ben sappiamo, in realtà le due materie finiscono per avere parti di sovrapposizione inevitabili, che il Consiglio dica al ministro se, a proprio parere, quella norma può comportare delle ricadute che provocano disfunzioni sul funzionamento della giustizia, francamente, non lo vedo scandaloso.
Se lei, onorevole Pecorella, mi chiede se questo può diventare un atto di indirizzo politico in senso proprio, certamente io le rispondo di no.
L'onorevole Pecorella pone il problema che la riforma costituzionale che sostituisce il pubblico ministero a ufficio del pubblico ministero sia quasi una questione puramente nominalistica. Se è così - posso anche seguirla su questo - allora direi che è superflua e possiamo evitare di scriverla nella Costituzione. Senza sforzi di interpretazioni maliziose, in realtà do alla riforma un peso e attribuisco alle parole il significato di quello che contano, e allora penso che non vi sia ragione di sostituire «pubblico ministero» a «ufficio del pubblico ministero» o, se lo si fa, a me viene il sospetto, che ovviamente sono pronto a rivedere, che in realtà si voglia fare quell'accentuazione del riferimento alle tutele e alle garanzie soltanto al vertice gerarchico dell'ufficio del pubblico ministero e non a tutti i pubblici ministeri.
All'onorevole Zaccaria credo che di aver sostanzialmente risposto rispondendo al presidente Pecorella a proposito del concetto di giurisdizione modificato obiettivamente


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nel disegno di legge. Nell'attuale sistema la giurisdizione è onnicomprensiva di tutti i suoi protagonisti, e quindi sia del giudice sia del pubblico ministero, sia dei giudicanti sia dei requirenti, i quali costituiscono paritariamente l'ordine giudiziario paritariamente, e dunque godono, paritariamente, di tutte le tutele di rango costituzionale che il costituente ha ritenuto di riconoscere a chi esercita la giurisdizione.
Nel momento in cui la giurisdizione viene spezzata, il pubblico ministero portato fuori dall'ordine giudiziario e i riferimenti alle tutele costituzionali riservati soltanto ai giudici, c'è da chiedersi dove vada a finire questo pubblico ministero. Personalmente, ho anche qualche perplessità che quest'operazione non rischi di avere una sorta di effetto da eterogenesi dei fini, per cui semmai fosse mossa, ma anche questo certamente è un pensiero malizioso, dalla volontà di ridimensionare il ruolo del pubblico ministero, temo che questo, totalmente separato dei giudici, messo fuori dalla giurisdizione, che fa riferimento a un Consiglio superiore in cui ci sono come componente togata soltanto i pubblici ministeri, rischia di diventare una sorta di Chiesa autocefala che non si capisce più a chi risponderebbe, a meno che lo sbocco inevitabile fosse quello, ma prendo atto che tutti lo negano, di sottoporlo al potere esecutivo.

PRESIDENTE. Ringrazio ancora il vice presidente Vietti per il suo contributo e dichiaro conclusa l'audizione, con la quale si conclude l'indagine conoscitiva.

La seduta termina alle 17,15.

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