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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite (I e V)
1.
Lunedì 17 ottobre 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Bruno Donato, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DEI PROGETTI DI LEGGE C. 4205 COST. CAMBURSANO, C. 4525 COST. MARINELLO, C. 4526 COST. BELTRANDI, C. 4594 COST. MERLONI, C. 4596 COST. LANZILLOTTA, C. 4607 COST. ANTONIO MARTINO, C. 4620 COST. GOVERNO E C. 4646 COST. BERSANI, RECANTI INTRODUZIONE DEL PRINCIPIO DEL PAREGGIO DI BILANCIO NELLA CARTA COSTITUZIONALE

Audizione dei professori Manin Carabba, consigliere del CNEL, Francesco D'Onofrio, emerito di diritto pubblico, Università La Sapienza di Roma, Massimo Luciani, ordinario di diritto costituzionale, Università La Sapienza di Roma, Nicola Lupo, ordinario di diritto delle assemblee elettive, Università Luiss Guido Carli, Enrico Nuzzo, già ordinario di diritto tributario, Università Federico II di Napoli, Rita Perez, ordinario di diritto pubblico, Università La Sapienza di Roma e Serena Sileoni, ricercatrice dell'Istituto Bruno Leoni:

Bruno Donato, Presidente ... 3 25 29 34
Calderisi Giuseppe (PdL) ... 26
Cambursano Renato (IdV) ... 27
Carabba Manin, Consigliere del CNEL ... 3
D'Onofrio Francesco, Professore emerito di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma ... 6 30
Luciani Massimo, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università La Sapienza di Roma ... 8 29
Lupo Nicola, Professore ordinario di diritto delle assemblee elettive presso l'Università Luiss Guido Carli ... 12 33
Nuzzo Enrico, Già professore ordinario di diritto tributario presso l'Università Federico II di Napoli ... 16 32
Occhiuto Roberto (UdCpTP) ... 26
Perez Rita, Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma ... 19 34
Sileoni Serena, Ricercatrice dell'Istituto Bruno Leoni ... 22 33
Tassone Mario (UdCpTP) ... 29
Volpi Raffaele (LNP) ... 29
Zaccaria Roberto (PD) ... 25
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A.

COMMISSIONI RIUNITE
I (AFFARI COSTITUZIONALI, DELLA PRESIDENZA DEL CONSIGLIO E INTERNI) E V (BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di lunedì 17 ottobre 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA I COMMISSIONE DONATO BRUNO

La seduta comincia alle 11,40.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso, la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati e la trasmissione diretta sulla web-tv della Camera dei deputati.

Audizione dei professori Manin Carabba, consigliere del CNEL, Francesco D'Onofrio, emerito di diritto pubblico, Università La Sapienza di Roma, Massimo Luciani, ordinario di diritto costituzionale, Università La Sapienza di Roma, Nicola Lupo, ordinario di diritto delle assemblee elettive, Università Luiss Guido Carli, Enrico Nuzzo, già ordinario di diritto tributario, Università Federico II di Napoli, Rita Perez, ordinario di diritto pubblico, Università La Sapienza di Roma, e Serena Sileoni, Ricercatrice dell'Istituto Bruno Leoni.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva in relazione ai progetti di legge C. 4205 cost. Cambursano, C. 4525 cost. Marinello, C. 4526 cost. Beltrandi, C. 4594 cost. Merloni, C. 4596 cost. Lanzillotta, C. 4607 cost. Antonio Martino, C. 4620 cost. Governo e C. 4646 cost. Bersani, recanti introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale, l'audizione dei professori Manin Carabba, consigliere del CNEL, Francesco D'Onofrio, emerito di diritto pubblico, Università La Sapienza di Roma, Massimo Luciani, ordinario di diritto costituzionale, Università La Sapienza di Roma, Nicola Lupo, ordinario di diritto delle assemblee elettive, Università Luiss Guido Carli, Enrico Nuzzo, già ordinario di diritto tributario, Università Federico II di Napoli, Rita Perez, ordinario di diritto pubblico, Università La Sapienza di Roma e Serena Sileoni, ricercatrice dell'Istituto Bruno Leoni.
Avverto che la Fondazione Magna Carta, invitata a partecipare all'audizione odierna, ha comunicato di non poter intervenire ed ha inviato una nota scritta che è in distribuzione.
Ringrazio gli intervenuti all'audizione odierna e do loro la parola nell'ordine in cui li ho elencati, cominciando quindi dal professor Manin Carabba, consigliere del CNEL.

MANIN CARABBA, Consigliere del CNEL. Grazie, presidente. Sono naturalmente onorato di essere stato chiamato per questa audizione. Ho consegnato alla Presidenza un testo più ampio che taglierò nell'esposizione orale per rimanere all'interno dei tempi previsti.
L'inserimento dei princìpi del Trattato sul funzionamento dell'Unione europea in materia di finanza pubblica - articolo 126 del testo consolidato del Trattato di Lisbona, articolo 104 testo TCE (Trattato che istituisce la Comunità europea) - nella Costituzione italiana è certamente opportuno, soprattutto dopo le ambiguità della giurisprudenza costituzionale tedesca, che da ultimo (con una sentenza del 2009) ha indebolito i princìpi di automatica integrazione fra Trattato e Costituzione degli Stati membri.


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Questo inserimento - presente sia pure con formule diverse nelle recenti riforme costituzionali, come quella oggetto di un progetto di legge in Francia e di una legge definitivamente approvata in Spagna - dovrebbe essere inserito nella nostra Costituzione nella sede specifica della nuova formulazione dell'articolo 81.
La collocazione di una norma generale di questa natura come emendamento integrativo dell'articolo 11 della Costituzione non è consigliabile; la materia del rapporto tra ordinamento dell'Unione europea e ordinamento degli Stati membri, nei termini generali, dovrebbe essere lasciata - al di là di un'ipotesi specifica come quella concernente i bilanci pubblici qui considerata - all'evoluzione della giurisprudenza comparata della Corte di giustizia europea e delle Corti costituzionali degli Stati membri.
L'adozione espressa di una norma costituzionale che costruisce il principio di stabilità dei bilanci pubblici, con riferimento vincolante alla «costituzione fiscale» europea, è presente - lo ripeto - con una norma specifica nella riforma costituzionale spagnola ed appare una soluzione adeguata, che concilia la forte esigenza di stabilire un certo grado di rigidità nella Costituzione dello Stato membro con la salvaguardia di un grado opportuno di flessibilità.
Sembrano persuasive le argomentazioni della dottrina, economica e giuridica, che affermano l'inadeguatezza dell'introduzione in Costituzione di un rigido principio di pareggio e di divieto di ricorso al debito. Princìpi, del resto, restituiti a un grado difficilmente governabile di indeterminatezza che, nell'ipotesi di assoluta rigidità del principio del pareggio, richiamano concetti presenti in molti progetti di legge sottoposti al vostro esame, come quello dello stato di necessità, che è per sua natura privo di quel rigore che si intende conseguire.
Il richiamo e il recepimento in Costituzione della disciplina dell'Unione europea sui «disavanzi eccessivi» implicano - giova ricordarlo - la lettura di questo stesso principio nel contesto dell'intera disciplina del Titolo VIII del Trattato, che pone il tema del raccordo fra politiche di bilancio e fiscali e politica economica e monetaria, ispirate al rispetto dei princìpi di coesione e di tutela di un'economia di mercato aperto e in libera concorrenza.
È posto, fra i temi di questa audizione, il quesito intorno al rapporto fra principio del pareggio del bilancio, una volta introdotto in Costituzione, e tutela dei diritti fondamentali costituzionalmente protetti.
Per quanto attiene ai diritti sociali di cittadinanza, più rilevanti per la loro incidenza sull'economia, garantiti dalla Costituzione - ora legati alla determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni affidata alla legislazione esclusiva dello Stato - ritengo che la tutela di questi diritti della persona costituzionalmente tutelati non possa ritenersi automaticamente subordinata al principio dell'equilibrio di bilancio, anche se questo fosse tutelato in modo rafforzato dall'eventuale nuova formulazione dell'articolo 81, inclusiva del principio del pareggio di bilancio. La valutazione e ponderazione dell'eventuale contrasto fra tutela dei diritti sociali, assicurata dal legislatore ai cittadini, ed equilibri di bilancio può dar luogo, peraltro, a un conflitto il cui merito dovrebbe essere valutato di volta in volta dal bilanciamento affidato alla giurisprudenza della Corte costituzionale.
Proprio per non turbare il bilanciamento tra diritti fondamentali e regole sul bilancio è opportuno mantenere la norma in materia di equilibri di bilancio all'interno della Parte seconda della Costituzione, non mutando quindi l'attuale collocazione dell'articolo 81.
Per non appesantire la Carta introducendo in Costituzione troppi tecnicismi ed irrigidimenti, è opportuno configurare la legge organica sul bilancio e la contabilità pubblica - questa l'espressione che propongo di usare - attuativa dell'articolo 81 della Costituzione, come legge rinforzata non modificabile da leggi ordinarie.
Propongo questa innovazione limitatamente alla legislazione di bilancio e non come correzione di portata generale alla


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gerarchia delle fonti. Escludo, quindi, l'opportunità di una correzione o integrazione dell'articolo 11 della Costituzione.
Mi pare persuasiva la formula - mi sembra sia presente nella proposta di legge Lanzillotta - in base alla quale le disposizioni della legge organica di bilancio e contabilità pubblica non possono essere derogate dai regolamenti parlamentari o dalle leggi ordinarie, con la previsione di una maggioranza qualificata meno vasta di quella necessaria per i disegni di legge di revisione costituzionale, quale la maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna Camera, per l'approvazione e per le modifiche ed integrazioni alla stessa legge organica.
Nel contesto sin qui delineato appare evidente la necessità di modificare l'articolo 117 della Costituzione per assumere la materia dell'armonizzazione dei bilanci pubblici e del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario fra quelle di competenza esclusiva della legislazione statale, tanto più in quanto, come si sottolineerà più avanti, il principio dell'equilibrio di bilancio vincolato alle regole europee si estende a tutto il settore pubblico, compreso il sistema delle autonomie, delle regioni e degli enti locali.
La conformazione della legge organica sul bilancio e la contabilità pubblica come «legge rinforzata» consente di rinviare a questa sede la definizione dei contenuti tipici della legge di bilancio, abolendo la divisione della stessa decisione di bilancio nei due diversi provvedimenti della legge finanziaria e della legge di bilancio in senso proprio.
Del resto posso dire anche come testimone, avendo lavorato a quel tempo sia alla programmazione sia in collaborazione con la Commissione bilancio della Camera, che la stessa idea della legge finanziaria nacque come aggiramento dell'interpretazione rigida prevalente dell'articolo 81, comma terzo, che vede la legge di bilancio come legge formale.
La legge organica sul bilancio assegnerà alla legge di bilancio i seguenti compiti: definire la manovra volta a conseguire la compatibilità degli equilibri di finanza pubblica con limiti posti dall'Unione europea, ora inseriti espressamente in Costituzione, in questa ipotesi, e con il quadro macroeconomico; decidere sull'assegnazione delle risorse in base a una struttura programmatica del bilancio secondo lo schema delineato per la prima volta dalla legge n. 94 del 1997, la legge Ciampi, e molto più tardi, articolato per missioni e programmi, seguendo l'esempio della legge organica francese del 2001.
In questo senso, una specifica proposta, in quel caso inserita nell'articolo 81 riformato, si trova in un documento redatto a cura di Antonio Maccanico, allora Ministro per le riforme istituzionali, pubblicato nell'aprile del 2001 e dedicato, appunto, alla riforma dell'articolo 81.
L'inserimento in Costituzione dei princìpi e dei limiti posti dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea rende necessaria la costruzione del bilancio in esplicito raccordo, sin qui non posto con chiarezza sufficiente alla base delle decisioni del Parlamento, con il quadro complessivo del conto consolidato delle pubbliche amministrazioni, inserito all'interno della contabilità economica nazionale, in modo tale da rendere possibile in modo effettivo l'applicazione dei limiti costituzionalmente rilevanti all'evoluzione della finanza pubblica a tutto il comparto pubblico (Stato, previdenza, regioni, governi locali).
È infatti il conto delle pubbliche amministrazioni, conformato secondo le regole europee del SEC, a costituire il parametro per le valutazioni di compatibilità da esercitarsi nelle istituzioni europee, a partire dal saldo dell'indebitamento netto. Il riferimento al conto consolidato delle pubbliche amministrazioni rende necessario - secondo le riflessioni che ho maturato anche nella mia trentennale esperienza come magistrato della Corte dei conti - il cammino verso l'adozione del criterio della competenza economica. Una contabilità per competenza economica (accrual) non registra le obbligazioni assunte dai centri di decisione pubblica, gli impegni, e non coincide con la cassa, in quanto rileva il valore dei beni e servizi forniti dal


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settore pubblico indipendentemente dal fatto che siano stati pagati o meno, e consente quindi di valutare in modo più significativo l'impatto della finanza pubblica sull'economia reale.
Secondo la dottrina in materia di finanza pubblica e di contabilità economica (almeno una parte della dottrina) il passo di avvicinamento all'adozione tecnicamente complessa di questo criterio di accrual, il solo coerente con il confronto europeo, si identifica con l'adozione del solo bilancio di cassa, con la conseguente abolizione della competenza giuridico-finanziaria che costituisce una peculiarità della disciplina contabile italiana.
Per questo si deve ritenere non utile il passo indietro compiuto dalla recente legge 7 aprile 2011, n. 39, laddove all'articolo 5 si modifica radicalmente la norma di delega recata dall'articolo 42 della legge 31 dicembre 2009, n. 196, che disciplinava, sia pure con una anche troppo prudente gradualità, il passaggio al bilancio di sola cassa. Si veda ora il testo dell'articolo 42 della legge n. 196 come modificato dalla legge n. 39 del 2011.
L'adozione del bilancio di cassa rende più comprensibile per il Parlamento e per i cittadini l'impatto economico delle decisioni di finanza pubblica e la valutazione della conformità degli andamenti della gestione finanziaria del settore pubblico, con i criteri fissati dall'Unione europea, in termini di contabilità economica nazionale.
Da ultimo, nel contesto di un nuovo articolo 81 della Costituzione che includa il vincolo delle regole dell'Unione europea, resta essenziale il principio della necessaria copertura delle leggi che recano maggiori spese o minori entrate. Questa norma deve essere rafforzata. Una soluzione utile sembra quella originariamente proposta all'Assemblea costituente dal Mortati, con il consenso di Vanoni ed Einaudi: le leggi le quali comportino maggiori oneri finanziari devono provvedere ai mezzi necessari per fronteggiarli. Aggiungo che ove si adotti il principio del bilancio in pareggio e del divieto del debito diventa assolutamente ridondante e inutile il comma terzo dell'articolo 81 della Costituzione, e quindi le norme sulle coperture, in quello scenario, andrebbero cancellate.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Professore emerito di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma. Presidente, anch'io desidero ringraziare le Commissioni riunite per la possibilità che mi hanno offerto di esprimere un'opinione che non è riferita a singoli progetti di legge, ma a una questione in qualche misura preliminare. La mia esperienza parlamentare mi insegna che è estremamente difficile mettere insieme la cultura economica e quella costituzionalistica. Occorre capire, in altri termini, perché la Costituzione italiana invece mantiene, da questo punto di vista, una complessiva unità di fondo rispetto alla quale l'intervento concernente la parità di bilancio è destinato ad operare.
Io ritengo, contrariamente a tutti i progetti di legge presentati, che questa materia debba trovare ingresso o tra i princìpi fondamentali della Costituzione - parlo dei primi dodici articoli che rappresentano il quadro complessivo all'interno del quale vi sono tutte le altre parti della Costituzione - o, se si ritiene storicamente tale previsione una conseguenza della nostra partecipazione al processo di integrazione europea, dovrebbe trovare collocazione nell'articolo 11, non per un generico richiamo alla costruzione europea, che non c'è in Costituzione, ma per indicare la specifica necessità di cambiamento che questa costruzione richiede.
Dico questo perché mi sembra che in tutti i progetti di legge ci sia una prevalenza astratta di cultura di necessità economico-finanziaria rispetto alla cultura di carattere giuridico-costituzionale che deve comprendere la parte economico-finanziaria, ma non può fare parte di un oggetto distinto.
La mia opinione è che il principio della parità di bilancio costituisce una radicale innovazione che va collocata o tra i princìpi fondamentali in quanto tale, eventualmente come un articolo aggiuntivo, non un pezzo in più rispetto ai dodici, perché


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modifica complessivamente il quadro dei princìpi fondamentali e li rende molto più cogenti di quanto probabilmente questo testo non ritiene, oppure nell'articolo 11 qualora si ritenga che l'occasione - come tutti i progetti di legge indicano, ad iniziare dalla proposta di legge Cambursano - per questa riforma è data dal processo di integrazione europea, come tale determinato dal Trattato di Lisbona che istituisce l'Unione europea. Non è un generico processo, è un atto giuridico vincolante molto specifico.
La mia opinione, dunque, è che questo principio dovrebbe trovare ingresso in questa parte. Lo dico soprattutto perché nei progetti di legge, soprattutto nella proposta di legge Beltrandi, si opera una più che opportuna ricostruzione storica, dall'Unità d'Italia in poi, della politica di bilancio ai fini sia dell'unità nazionale e della tutela delle diverse parti del territorio nazionale, sia delle diverse forme di produzione del reddito.
Da questo punto di vista, occorre capire che se la riforma ha a fondamento un'idea di fondo dell'Italia, della coesione nazionale, delle parti sociali interessate, il principio deve trovare ingresso nelle parti che ho richiamato.
Ovviamente, questo avrà rilievo anche in riferimento ad altre due questioni. La prima opinione è del tutto eterogenea rispetto a tutti i progetti di legge esaminati, i quali operano, invece, qualcuno in riferimento all'articolo 23 sull'imposizione fiscale, qualcuno all'articolo 53 sul principio della progressività delle imposte, molti all'articolo 81, che specificamente parla del bilancio; qualcuno, molto indirettamente, si riferisce all'articolo 119 relativo all'autonomia finanziaria degli enti locali e, in piccola parte, all'articolo 117 della Costituzione.
La prima opinione, dunque, è che se la materia è costitutiva di un principio nuovo, ossia la parità di bilancio senza indebitamento aggiuntivo o surrettizio, tale principio fa parte dei princìpi fondamentali della Costituzione, tra i quali vi sono il lavoro, la solidarietà, i diritti e i doveri, l'unità della Repubblica e le autonomie locali, e via dicendo. Sono tutti aspetti coinvolti dal principio della parità di bilancio. Questo coinvolgimento richiede che tra i princìpi ci sia la parità di bilancio come principio nuovo, se lo si vuole come tale. Se, invece, lo si vuole come conseguenza dei Trattati dell'Unione europea, va inserito nell'articolo 11 come comma aggiuntivo.
In questo senso, il progetto del Governo mi sembra significativo perché parla, sebbene impropriamente riferendosi all'articolo 53, molto esplicitamente di questo collegamento stretto tra il principio di pareggio di bilancio e l'appartenenza all'Unione europea. Questo mi sembra il problema di fondo.
Personalmente - vengo alla seconda considerazione - sono contrario a immaginare forme nuove di ricorso alla Corte costituzionale. Ritengo che i princìpi costituzionali, per loro natura, possano tutti trovare giustiziabilità in Corte costituzionale, secondo le procedure opportunamente considerate tali. Vi è stato un dibattito di estrema importanza sia sul «se» la Corte costituzionale dovesse esistere sia sul «come» giungere al giudizio di costituzionalità. Sono contrario, da questo punto di vista, a prevedere nuovi strumenti di ricorso alla Corte costituzionale da parte della Corte dei conti e del Parlamento. Sono totalmente contrario a prevedere ricorsi addirittura a iniziative di minoranze.
Vorrei evitare che la materia del bilancio diventasse impropriamente una materia non più di competenza del governo della Repubblica. Quindi, concordo con l'impostazione data dal Governo secondo la quale non esiste uno strumento di giustiziabilità aggiuntivo rispetto a quelli esistenti, i quali consentono di andare in Corte costituzionale. Non ne considero opportuni altri.
Sulla questione dell'articolo 117 della Costituzione, è di tutta evidenza che qui occorre capire che cosa si ha in mente. Se si ha in mente una riforma costituzionale a Costituzione immodificata, nella quale non esiste ipotesi, neanche indiretta, di federalismo, è ovvio che se ne deve occupare


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il Parlamento nazionale; non so a quale titolo potrebbero occuparsene altri enti.
Se, invece, si ritiene che, anche se con difficoltà - mi sembra che sia all'esame del Parlamento anche la riforma costituzionale dell'ordinamento della Repubblica - esiste il passaggio dall'ordinamento regionale a quello federale, se questo è consentito in base all'articolo 5 della Costituzione, mi sembra normale che il principio del pareggio del bilancio coinvolga necessariamente lo Stato e le regioni su un piede di sostanziale parità. Ovviamente ritengo che la materia debba essere di competenza concorrente, con la precisazione che la parità di bilancio, come tale, deve riguardare tutti, ma il modo non debba essere deciso soltanto dal Parlamento nazionale, quasi che quelli regionali fossero considerati alla stregua di soggetti istituzionalmente minori.
Da questo punto di vista, sono contrario alla previsione in Costituzione di leggi con maggioranze qualificate. Non ero favorevole alla modifica della Costituzione relativa all'amnistia e all'indulto, e ritengo che la legislazione sia naturalmente dominio costituzionale della maggioranza di governo. Tutte le formule che prevedono maggioranze qualificate o hanno attinenza, per esempio, ai rapporti con le confessioni religiose, che è una questione distinta, o hanno attinenza alle modifiche della Costituzione che, se si vogliono mantenere come tali, possono richiedere procedure particolari. Sono, quindi, contrario a prevedere maggioranze di due terzi, tre quinti, tre quarti sulle leggi in materia di bilancio: non vorrei che il bilancio fosse sottratto alla normale competenza governativa, perché mi sembra già molto che l'Italia abbia ridotto la propria sovranità nei confronti del contesto europeo, il quale ovviamente vincola tutti, e innanzitutto lo Stato italiano il quale è rappresentato normalmente dal Governo pro tempore. Non esiste la possibilità che la materia del bilancio sia trattata da un soggetto diverso dalla maggioranza di governo pro tempore.
Da questo punto di vista, la mia opinione, costituzionalmente parlando, è la seguente: il pareggio di bilancio, se lo si vuole come principio generale, va trattato come principio generale della Costituzione in quanto tale; va inserito nell'articolo 11 se lo si ritiene dovuto, come conseguenza diretta, al processo di integrazione europea previsto dal Trattato di Lisbona; va prevista una compartecipazione di Stato e regioni in materia di bilancio, se questo è l'orientamento del Governo. Capisco che con questo disegno di legge stiamo esaminando un articolo della Costituzione, ma non so che succede degli altri articoli. Non può non esservi una qualche visione comune dei due aspetti, mi riferisco soprattutto dell'iniziativa governativa. Le iniziative parlamentari possono essere anche disomogenee, ma quella governativa non ritengo possa avere due idee diverse.
Sono contrario a prevedere maggioranze qualificate per le leggi di attuazione del bilancio come necessità costituzionale. Che poi vi possa essere l'opportunità di un'intesa più larga, questo fa parte della natura delle cose. L'abbiamo visto anche nell'esame che Beltrandi molto opportunamente ci fa conoscere nella relazione alla proposta di legge di cui è primo firmatario. Evidentemente la maggioranza più larga può essere oggetto di una decisione politica del Governo in carica del momento, ma non di una norma costituzionale.
Sono infine contrario ad un ricorso specifico in Corte costituzionale per le leggi di bilancio.

MASSIMO LUCIANI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università La Sapienza di Roma. Signor presidente, normalmente si è auditi in sede parlamentare su concrete proposte politiche, quindi gli studiosi hanno sempre qualche imbarazzo perché il loro dire potrebbe essere ritenuto in qualche modo condizionato da un pregiudizio politico.
Confido che queste Commissioni non abbiano mai sospettato questo nei confronti di chi vi parla, pur tuttavia sarebbe un dubbio legittimo. In questo caso tale dubbio non può essere nutrito per la ragione molto semplice che personalmente


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sono in disaccordo - un disaccordo di fondo - tanto con le proposte della maggioranza quanto con le proposte dell'opposizione.
Sono in disaccordo per la ragione molto semplice che non condivido l'idea della costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio. Cercherò di spiegare perché e lo farò in modo il più possibile rapido, anche se si tratta di questioni di complessità tale che suggerirebbero la maggiore meditazione possibile.
L'origine di tutto questo, come sappiamo, è nella crisi e nelle pressioni che sono arrivate al nostro Paese dall'esterno. Mi riferisco tanto alle pressioni venute da due forti Stati europei, la Francia e in particolare la Germania, quanto alla lettera dei due governatori della Banca centrale europea. Una lettera a dire il vero, signor presidente, singolare poiché risulta essere stata scritta il 5 agosto del 2011, ma essere stata resa nota a tutti noi dal Corriere della Sera del 29 settembre 2011, ancorché essa sollecitasse non solo interventi del Governo italiano, ma interventi di codesto Parlamento. Questo - lo dico con sincerità - lascia francamente perplessi.
Ebbene, nemmeno in questa lettera, però, vi è una sorta di imposizione a introdurre il principio del pareggio di bilancio nella Costituzione repubblicana. Si legge: «A constitutional reform tightening fiscal rules would also be appropriate». Appropriate, appunto, cioè opportuna, ma non è scritto che sia assolutamente necessaria. Nemmeno si dice qualche cosa di analogo nelle conclusioni del Consiglio europeo del 24 e 25 marzo del 2011, che nell'allegato 1 recano il cosiddetto «Patto euro plus». Tale patto precisa espressamente che «ciascun Paese conserverà la competenza di scegliere gli interventi politici specifici che si riveleranno necessari per conseguire gli obiettivi comuni» e per quanto riguarda, in particolare, la disciplina di bilancio dispone che gli Stati membri partecipanti si impegnino a recepire nella legislazione nazionale le regole di bilancio dell'Unione fissate nel Patto di stabilità e crescita. Gli Stati mantengono la loro discrezionalità. Debbono scriverlo in Costituzione o in altra fonte, se serve, purché abbia un adeguato grado di vincolatività.
Il margine di apprezzamento da parte del nostro Paese, ancorché condizionato fortemente dagli eventi, resta intatto. È per questo che io registro con qualche sorpresa la celerità con la quale tanto la maggioranza quanto l'opposizione si sono attivate per recepire indicazioni che non erano invece così vincolanti.
Di mestiere faccio lo studioso di diritto costituzionale, ma non posso non toccare questioni che non attengono specificamente alla stretta tecnica di interpretazione della Costituzione. Segnalerei anzitutto un problema di strategia geopolitica e forse anche di dignità nazionale. È vero che qualcosa deve essere fatto e deve essere fatto rapidamente, ma avendo chiaro il quadro del titanico scontro fra aree del pianeta che è in corso. Si potrebbero negoziare con i nostri partner europei concreti interventi strutturali sull'economia piuttosto che abbandonare all'intimazione esterna la massima espressione della sovranità, cioè la determinazione dei contenuti della Costituzione.
Occorrerebbe, inoltre, chiedersi quale idea della politica economica giaccia sotto la dottrina del pareggio di bilancio. Come è stato ricordato precedentemente, questa dottrina non è pacifica né tra gli scienziati della finanza né tra i giuristi e non è neanche innocente, non ha una sua astratta oggettività, non deriva logicamente dall'esigenza di non spendere più di quanto si guadagni. Questo vale per le famiglie, infatti vale per ciascuno di noi, ma non per gli Stati: non si applicano i princìpi dell'economia domestica all'economia pubblica.
L'insistito richiamo alle esigenze di pareggio di bilancio e di riduzione della spesa pubblica, a mio avviso, sottintendono una precisa imputazione dell'attuale crisi finanziaria, che si ritiene ascrivibile ai presunti eccessi dello stato sociale. Certamente la spesa pubblica italiana non è stata governata adeguatamente. Anche questo è un rilievo che non fa torto a


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nessuno, signor presidente, perché riguarda governi e legislature molteplici. Non è stata governata con particolare perizia, e pur tuttavia ci si dovrebbe chiedere quanto pesino sulla crisi della nostra spesa pubblica e sul nostro debito le vicende economico-finanziarie generali.
Faccio il caso degli Stati Uniti per evitare di entrare nelle nostre vicende. La bolla immobiliare del 2008 è stata determinata dalla scelta di tenere depressi i salari e di finanziare le famiglie con un accesso facile al credito, fino a che la bolla non è esplosa. Lo stesso Presidente degli Stati Uniti nel 2008 aveva puntato il dito contro la responsabilità delle grandi istituzioni finanziarie, salvo poi rimanere relativamente inerte e riscoprire il problema di recente anche con gli interventi di fronte al Congresso che tutti quanti conosciamo.
Anche se l'economia pubblica dovesse ispirarsi ai medesimi criteri dell'economia domestica, peraltro ci si potrebbe chiedere se sia utile una norma costituzionale che irrigidisce i vincoli in modo tale da impedire o da rendere comunque difficile, ad esempio, che un bilancio in attivo di un esercizio finanziario compensi il bilancio passivo di un esercizio finanziario precedente? Questa è un'ipotesi che si fa in alcune delle proposte, ma quello di cui si parla è solo il bilancio immediatamente successivo. È da chiedersi perché non si consideri anche un periodo di tempo più lungo.
In base alla motivazione che è stata data, occorrerebbe dar corso alla modifica perché sarebbe un passo essenziale verso il rafforzamento dell'integrazione europea. Anche qui, signor presidente, ho qualche dubbio. Non so se la sollecitazione derivi dall'anelito verso il rafforzamento dell'integrazione comunitaria, ovvero non derivi da esigenze e interessi specificamente nazionali. Bisognerebbe chiedersi quali sono, per ciascuno dei Paesi europei, gli interessi nazionali attualmente in gioco e se sia il nostro interesse nazionale legarci le mani con l'inserimento in Costituzione del principio del pareggio di bilancio.
Il pareggio di bilancio può andare benissimo in molte occasioni, ma, a parte il fatto che un ordinamento come il nostro ha terribili difficoltà a raggiungere tale pareggio e a parte la evidente difficoltà di identificare sanzioni nazionali efficaci (questo è un punto fondamentale, come si sanziona la violazione della norma?), ci sono congiunture economiche, e non solo evenienze straordinarie (poi vedremo cosa dicono il disegno di legge del Governo e la principale proposta di legge dell'opposizione), nelle quali è indispensabile uno sbilancio per rilanciare l'economia.
Gli stessi economisti sono più che perplessi sull'irrigidimento. Cito soltanto l'esempio della nota lettera che otto economisti statunitensi hanno inviato al Presidente degli Stati Uniti. Tra essi ci sono cinque premi Nobel e il primo firmatario è Kenneth Arrow, che non è propriamente considerabile uno studioso lontano dalle esigenze del liberismo economico. Gli argomenti della lettera sono noti ai componenti delle Commissioni, quindi non li elencherò. Si tratta di sette, otto argomenti che condivido pienamente e che mostrano come effettivamente un irrigidimento di questo genere sia del tutto sconsigliabile. Del resto gli economisti hanno già detto più volte che è ben singolare che in un mondo «flessibilizzato» come quello attuale i Paesi europei si stiano legando mani e piedi in tutti i modi con la conseguenza di essere totalmente non competitivi sullo scenario internazionale.
È stato dimostrato dalla letteratura più recente che il progresso collegato all'innovazione tecnologica non è frutto dell'iniziativa privata, ma è frutto degli investimenti pubblici e dell'utilizzazione pubblica delle scoperte. Ma come si può fare questo se, vincolati dal pareggio di bilancio, non distinguiamo tra spese produttive e spese improduttive? So bene che questa distinzione è discutibile e discussa tra gli economisti, ma non c'è possibilità di crescita se non si considerano a parte le spese relative alla ricerca, all'istruzione o alle infrastrutture.
Nella specifica dimensione del diritto costituzionale che mi è propria, mi chiedo


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se il vincolo del pareggio di bilancio non debba esigere motivazioni particolarmente stringenti. Il costituzionalismo moderno nasce proprio con la presa del bilancio da parte delle assemblee parlamentari. Certo, resta affare del Governo la determinazione delle scelte fondamentali del bilancio, ma non possiamo dimenticare che la legge di bilancio è una legge parlamentare.
Trovo paradossale il fatto che, mentre qui in Italia ci si affannava nel tentativo di inserire in Costituzione il principio di cui discutiamo, il Bundesverfassungsgericht adottava una decisione che sottolinea l'assoluta sovranità del Parlamento tedesco sul proprio bilancio. Mi riferisco ovviamente alla decisione del 7 settembre 2011 (sulla questione Grecia direi, per semplificare, ma in realtà la decisione verteva anche su altri oggetti).
Irrigidire in Costituzione il vincolo al pareggio, impedendo anche transitori scostamenti, mi sembra poi ribaltare il complessivo impianto costituzionale dei rapporti dell'economia con la politica. Infine, ritengo che sarebbe più opportuno interrogarsi sul se e come intervenire sulla composizione della spesa, e quindi sulla normazione di rango primario, e in particolare sulla scelta del finanziamento di interventi strutturali, infrastrutturali e relativi alla ricerca.
Il problema inoltre non si risolve se non si interviene sulla questione, che sembra essere data per scontata, ma che scontata non è, dell'assoluta libertà di movimento dei capitali. Come è noto, il problema del debito pubblico esiste solo nella misura in cui esso è detenuto da investitori stranieri. Se il debito è detenuto da investitori interni, infatti, lo Stato può manovrare con la leva fiscale e il problema è soltanto un problema di redistribuzione e di riallocazione delle risorse.
Concludo, signor presidente, con alcune osservazioni puntuali su due soltanto dei progetti di legge, il disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa e la proposta a firma Bersani ed altri. Anche gli altri progetti sono ovviamente importanti, li ho studiati e ci sarebbe molto da dire, ma non li prendo in esame per questioni di tempo. Fermi restando i rilievi generali che facevo precedentemente, a proposito del disegno di legge governativo mi chiedo che cosa accadrebbe se non si raggiungesse la maggioranza dei due terzi per l'approvazione della legge che deve stabilire princìpi e criteri del perseguimento dell'equilibrio di bilancio.
È stato qui ricordato in precedenza che le leggi ordinarie a maggioranza qualificata presentano sempre qualche problema, come dimostra anche l'altro esempio della legge di amnistia. Bisogna comunque maneggiarle con grande cautela.
Che cosa si intenda per fasi avverse del ciclo economico, francamente non lo so. Non è chiaro se si parli di stagnazione, inflazione, recessione o stagflazione. Si prevede, inoltre, la maggioranza assoluta per poter derogare, nel caso di eventi eccezionali, al principio del pareggio. Ma è coerente che per le fasi avverse del ciclo economico non sia richiesta la maggioranza assoluta?
La mia ultima osservazione sul disegno di legge governativo riguarda la previsione che «le disposizioni di cui alla presente legge costituzionale entrano in vigore a decorrere dall'esercizio finanziario relativo al 2014». Questo smentisce il collegamento con l'emergenza attuale.
Per quanto riguarda la proposta di legge Bersani, l'articolo 82-bis della Costituzione introdotto dalla proposta di legge prevede una sorta di singolare rinvio «mobile». Che cosa significa che il saldo strutturale deve essere coerente con l'appartenenza all'Unione europea? Significa che il nostro bilancio viene calibrato costantemente su decisioni che ci vengono dall'Unione, che esiste un rinvio mobile, in cui tutto è flessibile, senza alcun elemento di rigidità nel nostro adeguarci a princìpi etero-decisi? Anche qui poi francamente non so che cosa significhi fasi avverse del ciclo economico. Allo stesso tempo si dice che si può derogare al principio quando vi sia una «situazione che pregiudichi la sostenibilità economica o sociale dell'ordinamento della Repubblica», il che significa flessibilizzare quanto si è voluto irrigidire.


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L'articolo 82-ter della Costituzione proposto del progetto in commento prevede che il Presidente della Repubblica possa rinviare alle Camere le leggi per violazione dell'articolo 81 e che la legge possa essere riapprovata soltanto a maggioranza dei tre quinti. Ma le altre violazioni rilevabili dal Presidente della Repubblica in sede di rinvio sono meno importanti? Quando il Presidente della Repubblica rileva, ad esempio, la violazione del principio di eguaglianza tra l'uomo e la donna, si tratta di un vizio meno importante della violazione dell'articolo 81? Per quale motivo nel primo caso si può riapprovare a maggioranza semplice e nel secondo caso si deve approvare, invece, a maggioranza dei tre quinti?
La Corte dei conti, infine, può promuovere entro trenta giorni dalla pubblicazione le questioni di costituzionalità. Questa non è una questione di costituzionalità; questo a mio parere è un vero e proprio ricorso diretto della Corte dei conti nei confronti della legge. È opportuno? Io ho i miei dubbi. Ritengo che la giuridicizzazione dei problemi di bilancio, per ragioni che sono state dette anche in precedenza, sia altamente sconsigliabile.
La mia posizione, signor presidente, è dunque presto detta. Ritengo che sarebbe opportuno non fare nulla di tutto questo, vale a dire non intervenire sul testo della Costituzione, ma intervenire (anche duramente) a livello di legislazione ordinaria. Se proprio si vuole intervenire sulla Costituzione, si adottino gli strumenti più flessibili, meno vincolanti e meno irrigidenti che si possano immaginare.

NICOLA LUPO, Professore ordinario di diritto delle assemblee elettive presso l'Università Luiss Guido Carli. Signori presidenti, onorevoli deputati, anzitutto ringrazio per questo gradito invito, che mi onora e mi impegna non poco.
Ho ritenuto di interpretare il compito a me assegnato provando a rispondere ad alcuni dei quesiti dell'interessante e impegnativo questionario che ci è stato sottoposto. Partirei in particolare dal primo dubbio, circa l'opportunità di una riformulazione dell'articolo 11 della Costituzione. Oltre che esprimere in proposito una opinione negativa e sottolineare quali siano i meriti dell'articolo 11 fin qui sperimentati, questo punto di attacco, infatti, mi consente anche di esplicitare quella che è la mia chiave di lettura rispetto alla natura della Costituzione europea, e quindi al rapporto tra trattati europei e Costituzione italiana. La comprensione della natura di questo rapporto è a mio avviso necessaria per analizzare in modo adeguato i fenomeni di cui le Commissioni affari costituzionali e bilancio sono protagoniste nel momento in cui si accingono all'esame di questi progetti di revisione costituzionale.
La mia opinione, in proposito, è che la Costituzione europea esista, e che essa sia il frutto della reciproca limitazione e del mutuo riconoscimento tra i trattati europei e le Costituzioni nazionali. Da un lato, i trattati europei riconoscono sia le tradizioni costituzionali comuni, sia l'identità costituzionale degli Stati membri. Dall'altro, le Costituzioni nazionali, attraverso le clausole europee, nel nostro caso l'articolo 11, così come interpretate dalle Corti costituzionali e dagli stessi parlamenti, riconoscono e cedono sovranità ai trattati.
Se questo è il quadro, una clausola elastica e ampia, quale è quella che per ragioni storiche l'Italia si porta appresso, da Paese sconfitto nella seconda guerra mondiale e quindi aperto all'ordinamento internazionale, presenta enormi vantaggi e ha consentito al nostro ordinamento di adattarsi al processo di integrazione europea senza particolari difficoltà. Da questo punto di vista, ridefinire l'ampiezza della clausola potrebbe avere esclusivamente il fine di restringerla, e quindi non certo di «europeizzare» l'ordinamento italiano, posto che mi pare difficile riuscire a renderlo, sul piano costituzionale, più «europeizzato» di quanto sia attualmente.
Non credo quindi, riguardo all'opinione richiesta nel questionario, che l'incremento dei «vincoli europei» - o, forse meglio, delle politiche europee - in materia


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economico-finanziaria richiedano una modifica dell'articolo 11 della nostra carta costituzionale.
Il secondo quesito su cui vorrei soffermarmi è quello relativo alla collocazione più appropriata, all'interno della Costituzione italiana, del principio del pareggio di bilancio. Premetto che spesso si afferma che la «Costituzione economico-finanziaria» italiana - una formulazione oggetto di non poche critiche in dottrina - è superata dai trattati europei. Se il quadro è quello che delineavo prima, questo giudizio è piuttosto impreciso. Le costituzioni nazionali continuano a contare, continuano a essere un elemento costitutivo della Costituzione europea. Secondo me le dichiarazioni del marzo di quest'anno, prima ricordate e l'impegno del Governo italiano nel Documento di economia e finanza del 2011 si spiegano alla luce del fatto che è necessario modificare le costituzioni nazionali per introdurre anche un vincolo interno, laddove, evidentemente, il vincolo esterno non si è dimostrato sufficiente.
L'introduzione del pareggio di bilancio nelle Costituzioni nazionali può, tra l'altro, contribuire a far valere maggiormente il principio della responsabilità politica. Nei sistemi istituzionali a più livelli, infatti, il principio della responsabilità politica tende a perdersi, perché tende a verificarsi quel gioco di «scaricabarile», per effetto del quale ciascun livello è incline a imputare la responsabilità politica della decisione assunta a un altro livello. Introdurre un vincolo sia a livello nazionale, sia a livello sub-nazionale, come giustamente è stato proposto e in alcuni casi introdotto, oltre che a livello di Unione europea, aiuterebbe a identificare le responsabilità delle singole scelte compiute.
Da questo punto di vista, non mi scandalizza nemmeno che ciascuna Costituzione nazionale adotti una lettura diversa del principio del pareggio di bilancio. Spagna, Francia e Germania non stanno seguendo la stessa strada e questo aspetto mi sembra compatibile con il margine di autonomia rimesso a ciascuna Costituzione nazionale.
Veniva posto il quesito su dove collocare questa previsione. Sinceramente non mi scosterei molto dall'articolo 81 (oltre che nell'articolo 119 della Costituzione). Non condivido la collocazione nell'articolo 53 proposta dal disegno di legge del Governo, perché mi sembra che schiacci tutto il problema sull'entrata, con una visione davvero asimmetrica. È vero che questa è la visione che più o meno corrisponde alla situazione attuale, ma mi sembra abbastanza improprio collocarla lì nell'architettura costituzionale.
Trovo rafforzata questa conclusione dalla norma inserita nell'articolo 31 della Costituzione, per come riscritto dal disegno di legge costituzionale che la Camera dei deputati ha approvato in prima lettura poche settimane or sono, con riferimento all'equità tra generazioni. Credo che la regola del pareggio di bilancio possa rinvenire e, a mio avviso, legittimamente abbia un appiglio forte, anche a livello di princìpi fondamentali, proprio con l'equità intergenerazionale. È vero, come veniva prima ricordato, che ciascuno Stato è libero di indebitarsi, ma quell'indebitamento inevitabilmente si scarica su qualcun altro, e in particolare sulle generazioni future. Credo, quindi, che il principio dell'equità tra generazioni, specie come riformulato dalla Camera, ben si presti a fare eco, nella prima parte della Costituzione, alla regola del pareggio di bilancio, che invece va collocata nella seconda parte della Costituzione, trattandosi di una regola di natura organizzativo-procedurale.
Riguardo al principio di equità intergenerazionale, avrei, tuttavia, un paio di osservazioni sulla formulazione prescelta. Nel disegno di legge costituzionale approvato dalla Camera in prima lettura mi sarebbe piaciuto leggere, e mi pare abbastanza grave che non ci sia, una disciplina volta ad attenuare, se non a eliminare, la distinzione dell'elettorato attivo tra Camera e Senato. In nessun Paese al mondo, infatti, esiste una differenza di ben sette anni per votare alla Camera e al Senato.
Mi sarebbe anche piaciuto che la norma costituzionale, invece di riferirsi ai «giovani», si fosse riferita ai «più giovani».


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Giuridicamente, infatti, il concetto di giovane è molto debole, mentre il concetto di più giovane è un concetto che si presta a essere impiegato in modo più preciso e più proficuo. Sono due osservazioni che non attengono ai disegni di legge in discussione: mi scuso, perciò, se le ho formulate in una sede forse non molto opportuna, ma il fatto che il presidente Bruno nella sua relazione introduttiva sui progetti di legge in esame abbia richiamato questa iniziativa di riforma costituzionale forse mi consentiva tale piccola licenza.
Sempre molto sommariamente e scusandomi anche di questo, mi permetto di fare un'osservazione sulla grande questione - cui pure si accenna nel questionario, ma su cui non sarò in grado di dire cose del livello di quelle espresse dai miei colleghi - relativa al rapporto tra i diritti fondamentali e il pareggio di bilancio. La mia sensazione è che tutti i diritti - mi appoggio in ciò ad a uno studio di due costituzionalisti statunitensi, Holmes e Sunstein - «costino»: quelli sociali in modo diretto e più evidente, ma anche i diritti di libertà tradizionali, perché, ad esempio, anche il diritto alla proprietà o la libertà personale richiedono un apparato posto a loro tutela. Qualcuno prima o poi, in questa generazione o nella prossima, in questo territorio o in un'altra parte del globo, quel diritto lo paga, nel senso che sopporta i costi legati alla sua tutela.
Se è così, se come dicono gli economisti «nessun pasto è gratis», se nessun diritto è privo di un suo costo in termini di doveri o oneri, allora l'introduzione in Costituzione del principio di pareggio del bilancio può essere interpretata anche in una chiave molto più debole rispetto all'alterazione completa dei rapporti intersoggettivi dal punto di vista giuridico. Essa esplicita sul piano dei rapporti tra norme un dato che è nella realtà e si limita, quindi, a rendere forse un po' più trasparente quell'operazione di bilanciamento che spesso compiono le nostre corti. Non è vero che le corti non considerano in nessun modo il costo dei diritti. Tendono a considerarlo, ma perlopiù senza esplicitare fino in fondo l'operazione che compiono. Come ripeto, quello che ho avanzato è solo un dubbio e so di andare assolutamente controcorrente. Però mi sembrava uno stimolo che i progetti di legge in esame consentivano di avanzare.
Passo alla questione dell'opportunità o meno di prevedere una legge ad hoc per dare attuazione al principio del pareggio di bilancio. Qui la distinzione è ben nota: nel nostro ordinamento non è prevista una categoria di leggi organiche, che invece esiste, seppure in forme non coincidenti, sia in Spagna che in Francia. È emblematico che la revisione costituzionale spagnola utilizzi ampiamente le leggi organiche, mentre quella francese addirittura si spinga a delineare una nuova categoria di leggi, le leggi quadro di equilibrio delle finanze pubbliche, che si configura come una categoria intermedia tra leggi organiche e leggi ordinarie: quindi, un ulteriore gradino nel sistema gerarchico delle fonti.
Non so se questa sia la sede più opportuna per introdurre anche nell'ordinamento italiano una categoria di questo tipo. Forse andrebbe svolta una riflessione più accurata e meditata in proposito, alla luce di una visione più generale. Ritengo, in ogni caso, che la scelta di prevedere in Costituzione una legge attuativa di un precetto costituzionale e contenente una disciplina a regime - in ciò, pertanto, molto diversa da una legge di amnistia, che è una legge-provvedimento per definizione -, da approvarsi a maggioranza più elevata rispetto alla stessa Costituzione e alle leggi di revisione costituzionale, sia una scelta piuttosto discutibile sul piano del sistema delle fonti, pur essendo assolutamente comprensibile sul piano politico. Qui, come in tante altre questioni, si sconta il mancato adeguamento della forma di governo e della carta costituzionale al sistema elettorale maggioritario.
Rispetto a questa scelta, dunque, riterrei preferibile l'opzione di costituzionalizzare qualcosa in più, tenendo presente che non necessariamente tutto ciò che si costituzionalizza va introdotto in Costituzione: nulla impedisce, infatti, che nella legge di revisione costituzionale siano introdotti


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alcuni articoli che non confluiranno in Costituzione. Il nostro ordinamento è pieno di esempi di leggi di revisione costituzionale i cui ultimi articoli non vanno a novellare e a modificare espressamente il testo della Costituzione.
In questo modo sarebbe anche più semplice garantire il rispetto delle prescrizioni perché sarebbero a pieno titolo fonti di rango costituzionale ed entrerebbero perciò nel parametro di giudizio della Corte costituzionale e del Presidente della Repubblica. A proposito di quest'ultimo, confesso che anche a me ha un po' sorpreso la proposta di consentire la riapprovazione della legge da parte delle Camere solo a maggioranza qualificata, la quale riprende, tra l'altro, una vecchia proposta che Aldo Bozzi ripresentò negli anni '80, in seno alla Commissione bicamerale da lui presieduta, dopo averla avanzata già in sede di Assemblea costituente, dove fu respinta perché si obiettò che non c'era più il Re che partecipava alla funzione legislativa.
Come dicevo, ove venissero introdotte con legge costituzionale, le prescrizioni così introdotte entrerebbero a far parte del parametro di giudizio del Presidente della Repubblica e della Corte costituzionale. Personalmente, ho una posizione più aperta all'arricchimento dei soggetti che possono adire la Corte costituzionale nel caso in cui ci sia difficoltà ad identificare altrimenti i soggetti interessati a farlo. Da questo punto di vista, valuto positivamente sia l'ipotesi di potenziare la Corte dei conti, consentendole di attivare il giudizio di legittimità costituzionale, sia l'eventuale ricorso di minoranze parlamentari, che in prospettiva vedrei possibile anche per vizi procedurali. Ma su questo so di essere in minoranza, almeno tra i costituzionalisti.
Segnalo infine la necessità di disporre di apparati indipendenti in grado di attestare l'attendibilità delle cifre finanziarie prodotte dal Governo e dal Parlamento. Il caso della Grecia ce lo mostra in maniera emblematica. Penso che o l'istituzione di un'agenzia indipendente o, forse meglio, la creazione di una struttura comune tra Camera e Senato, sull'esempio del Congressional budget office statunitense, potrebbero essere positive e fungere pure da modello per una revisione delle amministrazioni parlamentari in una logica di razionalizzazione del bicameralismo e di adeguamento al sistema maggioritario.
Alcune osservazioni più puntuali, in rapida carrellata, anzitutto circa le deroghe al principio del pareggio di bilancio. Non trovo felicissima, a questo proposito, la formula dello «stato di necessità»: sinceramente, dal punto di vista costituzionale mi pare una formula molto forte, con ascendenze schmittiane e weimariane, per cui tutto sommato, se fosse possibile, nel testo costituzionale cercherei di evitarla. Capisco l'eventuale innalzamento del quorum e, anzi, lo trovo positivo se riferito a un atto di natura non legislativa, come in alcuni progetti di legge all'esame si fa. Meglio, in sostanza, alzare il quorum non su un testo legislativo, bensì su un atto di indirizzo, che attivi e consenta l'attivazione di una serie di procedure. In quel caso riterrei opportuno un esplicito coinvolgimento del Governo, almeno in termini di proposta: essendo il Governo pienamente compartecipe delle decisioni assunte a livello di Unione europea, mi sembra giusto che la parte di responsabilità che gli compete nel proporre l'adozione di questo atto venga esplicitato.
Non vedo, infine, particolari problemi riguardo alla soppressione del terzo comma dell'articolo 81, che mi pare incoerente con l'evoluzione della legislazione di contabilità pubblica, sebbene con l'accortezza di evitare che la legge di bilancio diventi una «superlegge» in grado di apportare qualunque modifica legislativa, tipizzandone perciò accuratamente il contenuto.
In conclusione, traendo spunto dall'ultimo quesito rivolto agli economisti - e perciò andando un po' fuori dal seminato rispetto alle mie competenze -, mi sia consentita una raccomandazione: quella di cercare di evitare un eccessivo irrigidimento del testo costituzionale e, al tempo stesso, di «prendere sul serio» le norme che in Costituzione si inseriranno. È bene far sì che le norme costituzionali, una


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volta approvate, abbiano seguito. Il rischio di annunci disattesi è alto. Abbiamo vissuto la vicenda del Titolo V della Costituzione, che secondo me ha introdotto come conseguenza non positiva proprio la sfasatura tra norma costituzionale approvata e dichiarazioni fatte in quell'occasione, da un lato, e la realtà dei fenomeni che vi hanno fatto seguito, dall'altro. Che si decida di modificare la Costituzione o meno, il mio invito è quello di evitare di inserire in Costituzione «norme manifesto» e, laddove si introducano, di far seguire a quelle norme politiche concrete in grado di dare realizzazione ai princìpi affermati in Costituzione.

ENRICO NUZZO, Già professore ordinario di diritto tributario presso l'Università Federico II di Napoli. Ringrazio il presidente e i componenti delle Commissioni per l'invito.
Ho la «fortuna» di intervenire dopo aver ascoltato gli altri colleghi, con i quali, a seconda degli argomenti, mi trovo in parziale accordo, in completo accordo o in totale disaccordo. Probabilmente gioca molto - in talune affermazioni di principio e anche di richiami all'opportunità di rifarsi a certe regole - mettere in chiaro le premesse dalle quali si muove e il tipo di collocazione ed il ruolo che a talune soluzioni si intende conferire. Poiché ho già inviato il testo scritto su tutti i quesiti posti, mi trovo nella condizione di svolgere il mio intervento in maniera, per così dire, più libera e di tenere conto di quanto è stato detto da coloro che mi hanno preceduto.
In questa sede parliamo di modificare la nostra Tavola dei Principi e dei Valori. Nell'esaminare il questionario che mi è stato trasmesso, mi sono trovato, tra l'altro, a riguardare il materiale che sta alla base dell'articolo 138 della Costituzione e, nel fare ciò, a vedere rinsaldato quello che è stato un convincimento di sempre. E cioè a dire che la Costituzione va considerata con rispetto. Oggi con molta facilità si parla di interventi su di essa. I nostri Padri Costituenti la pensarono come un documento - e uso il termine documento nel senso più nobile - stabile, da modificare per sintagmi, per piccole norme e/o frammenti di norme. Oggi, invece, assistiamo ad un'alluvione di proposte di modifica estese dalla stessa. È necessario recuperare il valore della Carta e anche la sua portata simbolica, riconoscendo ad essa anche il diritto di invecchiare.
Fatta questa premessa, ritengo di chiarire da subito che, a mio avviso, il principio di pareggio di bilancio, che si intende «inserire» in Costituzione, debba essere valutato con particolare accortezza. C'è un punto sul quale richiamo l'attenzione dei presenti. Negli ultimi mesi abbiamo osservato che i destini del nostro vivere civile sono dettati non più da regole interne, dal nostro legislatore, dai nostri governanti, ma dipendono dal mercato, che fa alzare gli spread, condiziona le scelte di governo ed incide pesantemente sulla qualità e condizioni di vita. Per quanto detto, la questione non può esser trattata sulla base di convinzioni che non tengono conto del particolare momento - che è un momento di «allarme» - su cui richiama l'attenzione l'Unione europea, il Fondo monetario, la BCE.
Per esempio, ho colto la brillante, ma non condivisibile, osservazione del professor Luciani a proposito delle misure suggerite come appropriate dalla famosa lettera inviata il 4 agosto ultimo scorso dalla BCE al nostro governo! La mia esperienza di quasi dieci anni nel Consiglio Superiore della Banca d'Italia mi rende fin troppo agevole leggere in quel documento che il riferimento a «misura appropriata», più che un suggerimento sia, in realtà, un invito, E si tratta di invito ad adeguarsi alle indicazioni contenute in quella lettera. Inviti così congegnati vengono formulati quando si intravede una situazione non di crisi, ma di pericolo. Il fatto che, d'altra parte, sia attualmente diffusa l'idea che il principio di pareggio di bilancio vada inserito nei Trattati e che parecchi Paesi sono sulla strada per recepirlo, la dice lunga sull'opportunità di prestarvi la dovuta attenzione e di discutere in ordine


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all'opportunità o meno dell'«introduzione» dello stesso anche nel nostro Testo Fondante.
Tuttavia, prima di parlare della norma costituzionale che dovrà recepirlo e/o dell'essenza stessa del principio da «introdurre», è bene intendersi sulla sostanza delle cose. Mi rifaccio di nuovo al professor Luciani che ha lanciato un'acuta provocazione: non possiamo trasferire nel settore pubblico i criteri di gestione in uso per la cosa privata ed in applicazione dei quali si spende quello che si ha. Con molta cautela invito a guardarci intorno. Il quadro di riferimento sta cambiando assai pericolosamente. Per questo motivo, oggigiorno, anche nell'economia pubblica, e nella stessa cultura economica statunitense, comincia a farsi strada il convincimento che bisogna commisurare le spese alle risorse a disposizione.
Quello delle risorse disponibili è un dato che ci vincola e condiziona, perché il «grande fratello» mercato dei capitali ci osserva e ci fa pagare cara e amara ogni scelta inappropriata.
È chiaro che sto discorrendo dell'opportunità di «introdurre» o meglio di riaffermare il principio del pareggio di bilancio in Costituzione. Se riguardate i lavori delle sottocommissioni all'epoca della Costituente, potrete facilmente constatare che ogni intervento sull'argomento è permeato dall'idea che le spese debbono essere commisurate alle entrate. È stata l'evoluzione successiva della prassi parlamentare che ha portato queste due componenti a divaricarsi, dando la stura all'esplosione del debito pubblico.
Incontrovertibile anche la vigenza di un altro principio che pure va ribadito. Il bilancio del quale si parlava all'epoca delle formulazione della nostra Carta, tra l'altro mutuato dall'esperienza britannica, era il bilancio di competenza, sicché le spese e gli interventi di politica governativa si decidevano in base alle risorse disponibili in termini di afferenza nell'esercizio, non avendo riguardo di quelle semplicemente incassate in esso. È su questo centrale dato che si misuravano e decidevano gli interventi di spesa. V'era una ragione fondante, chiara sin da allora, alla base del principio di cui si discorre: era a tutti evidente che doveva essere rotto il binomio secondo cui la spesa giustifica l'entrata così come l'entrata può giustificare la spesa. Ci sono palesi indirizzi in questo senso e precisi orientamenti culturali, tutti visibili sullo sfondo degli entusiastici saluti di Luigi Einaudi al pareggio di bilancio, raggiunto in Italia nel 1924.
Oggigiorno non possiamo continuare a fare finta che questi modi di vedere, questa cultura di governo, siano semplici retaggi del passato. C'è il problema della spesa da porre sotto controllo. E se, per fare ciò, si prospetta di intervenire al punto da scomodare i testi costituzionali e i trattati comunitari significa che si avverte una situazione di allarme da tenere nella giusta considerazione.
Precisato quanto innanzi, procedo ad indicare sommariamente alcune delle questioni di ordine costituzionale e di quelle altrettanto importanti di carattere economico-sostanziale che l'introduzione di questo principio implica e in qualche modo determina rinviando, per quelle non espressamente trattate, al testo scritto, già inviato in Commissione.
Per quanto attiene alla modifica dell'articolo 11 della Carta, sono andato a riguardare la giurisprudenza della nostra Corte costituzionale. Sono consapevole della presenza all'audizione odierna di due autorevolissimi costituzionalisti e della opinione da essi espressa sul punto. Pur tuttavia mi permetto di dissentire da essi evocando quella giurisprudenza alla quale ho appena alluso così come, tra l'altro intesa da un Presidente della stessa Corte (professor Valerio Onida). Ed è proprio la giurisprudenza evocata che rende ben difficile comprendere le ragioni per le quali necessiterebbe modificare l'articolo 11 citato, quando la formula adottata, di per sé, copre, con la partecipazione del nostro Stato agli organismi sopranazionali, tutto quanto da questa partecipazione discende. Mi sembra, quindi, che il testo del citato articolo 11 non necessiti di alcun aggiustamento.


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Sulla collocazione del principio del pareggio di bilancio, la proposta del Governo prospetta che esso venga inserito all'articolo 53 del testo vigente. Secondo me, niente di più inappropriato. L'articolo 53 è compreso nella prima parte della Costituzione dove si parla di diritti e di doveri dei cittadini. Mi chiedo: quali strumenti hanno i cittadini per garantire l'equilibrio di bilancio? Ricordo, poi, la qualificazione che venne data della nostra carta costituzionale: «sintamma», cioè «opera studiosamente composta e con acconcio ordine». Collocare il principio di cui innanzi all'interno dell'articolo 53 della carta Costituzionale significa far venir meno quell'«acconcio ordine» identificato dai Padri Costituenti ed appena innanzi evocato.
Altro problema delicato e centrale è la questione della compatibilità degli impegni assunti in sede europea con la nostra Carta e in particolare con i diritti e le tutele di cui all'articolo 117 della Costituzione. Il discorso diventa di sostanza. In termini di puro principio, però, ritengo che l'intervento sul punto del professor Lupo sia appropriato. La tutela dei diritti costa e, se non ce la si può permettere, l'opinione che se ne fanno i mercati - opinione che oggi conta - è che il Paese viva e/o che voglia vivere al di sopra delle proprie possibilità.
Nemmeno possibile ipotizzare che non soddisfacendo quelle tutele - ovviamente con le attenuazioni del caso - si vada a violare il precetto costituzionale perché, nella fattispecie, non vi è conflitto tra principio comunitario e norma costituzionale, ma tra una situazione di fatto e un diritto che non si riesce a garantire e a tutelare nella misura dovuta. Diventa necessario, quindi, calibrare - e torniamo al discorso di prima - le spese con riferimento alle effettive possibilità, per evitare che il «grande fratello» ci «salti addosso» nella maniera più pesante e inappropriata.
Passando telegraficamente alle questioni di carattere sostanziale, sottolineo che il principio del pareggio di bilancio non è e non può essere inteso come ottusa regola contabile: esso, quindi, non può essere ridotto a un mero confronto tra saldi di conti. Diventa necessario, con tutte le precisazioni sul modo di intendere le fasi del ciclo economico, sussumere nel principio, a mio avviso, due regole fondanti. Tutto quanto attiene all'andamento del ciclo economico deve essere tenuto in debito conto, facendo si che la sua concreta attuazione (del principio di cui si discorre) contempli gli aggiustamenti che il ciclo economico può naturalmente imporre, ovviamente evitando, nel fare ciò, che possa riprender fiato la deprecata «rincorsa alla spesa». Deroghe appropriate per spese di ricerca e investimenti sono, parimenti, quanto mai opportune. Non mi dilungo sul punto, se non evocando una formula fatta di poche parole: la ricerca è il futuro; gli investimenti, intesi come infrastrutture, sono la ricchezza del Paese: un popolo accorto tutela il futuro e preserva e fa crescere la propria ricchezza.
Quanto poi ai profili applicativi, mi limito a telegrafiche osservazioni di sostanza. È essenziale innanzitutto tenere conto del principio di economicità, la qual cosa significa che il controllo sulla spesa non può ritenersi un dato meramente contabile. Occorre, difatti, valutare l'utilità e l'efficacia della spesa e soprattutto, con riferimento alle spese pluriennali che ciclicamente si riproducono, occorre evitare che si perpetui quanto in passato ci ha spinti verso il disastro in più di qualche circostanza: spese ripetitive negli anni ed indeterminate nella loro misura. Da campano, ricordo il terremoto dell'Irpinia: c'è da rimanere sconcertati!
Per documentare cicli ed andamenti di spesa in senso amministrativo sono stati forti i richiami agli interventi sulle leggi di contabilità della Francia, da noi recepiti anche nella legislazione più recente, e che, attentamente considerati, si rivelano assolutamente idonei a consentire la più efficace rappresentazione degli interventi di spesa.
Quello che manca e che, invece, va estremamente rafforzata è la struttura di controllo sulla spesa, non come dato puramente formale, ma in termini di utilità, opportunità e vantaggio della stessa: anche


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questo è un modo per interpretare gli umori dei mercati. Un debitore che non controlla le proprie spese è un debitore inaffidabile; per questo o non ha credito o riesce, quando ci riesce, ad ottenerlo solamente ai costi più alti di mercato.
Un'ulteriore questione riguarda il problema dell'articolo 81, terzo comma, della Costituzione. Se il principio del pareggio di bilancio viene «introdotto» e/o riconfermato nella nostra Carta Costituzionale, è chiaro che quella norma perde di utilità: implicito nel principio del pareggio di bilancio è il fatto che non vi possano essere nuove spese senza nuove entrate. Quanto poi al modo in cui la produzione legislativa debba occuparsi della (re)introduzione, del principio in questione, nella nostra Tavola dei principi e dei valori, mi limito a sottolineare che esso va semplicemente «inserito» nella Carta, rinviando per tutto il resto a norme ordinarie, per evitare di costituzionalizzare princìpi e regole contabili.
In ultimo, l'argomento più forte e più indigesto, sul principio di responsabilità, che oggi è di moda definire di «accountability». Se si volesse veramente accentuare il profilo della responsabilità della nostra classe politica si potrebbe integrare - mi rendo conto che la soluzione è molto forte, quindi va trattata con tutte le cautele del caso - l'articolo 95 della Costituzione, attribuendo alla sfera e alla responsabilità del Presidente del Consiglio, il compito dell'osservanza del principio del pareggio di bilancio: una volta assunta la decisione di «riesumarlo» tanto vale disporre le cose in maniera tale che risulti assicurata pienezza quanto alla sua attuazione ed identificato un preciso centro di responsabilità politica per le ipotesi di sue violazioni.

RITA PEREZ, Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma. Grazie, presidente, per l'opportunità che mi è concessa di esprimere le mie opinioni su questo tema molto importante e delicato. Io non ho presentato, lo posso fare successivamente, un testo scritto. Ho scritto alcune riflessioni e pensavo di rispondere ai quesiti che sono stati posti nel questionario che avete inviato.
La prima osservazione che vorrei fare è che non stiamo discutendo sull'an, cioè se inserire in Costituzione il pareggio di bilancio o se invece non inserirlo, perché il Patto euro plus che abbiamo firmato stabilisce che «gli Stati membri manterranno la facoltà di scegliere lo specifico strumento giuridico nazionale cui ricorrere, ma faranno sì che abbia una natura vincolante e sostenibile sufficientemente forte (ad esempio Costituzione o normativa quadro)».
In sostanza, quindi, noi dobbiamo cercare di capire in che modo possiamo utilizzare questo strumento all'interno degli Stati. Poiché ci siamo impegnati e abbiamo sottoscritto l'Euro plus Pact, dobbiamo capire come le nostre regole fiscali, che porremo in Costituzione perché ci è richiesto che la normativa sia forte, possano essere coerenti con le disposizioni europee.
Innanzitutto, vorrei fare una riflessione sul ruolo delle Costituzioni. Le Costituzioni sono normazioni in cui, in origine, si descriveva la struttura fondamentale dello Stato, la struttura essenziale, tant'è vero che in passato venivano chiamate addirittura brevi. Come ha affermato il professor Lupo, io non penso che si possa scrivere tanto in Costituzione. Bisogna scrivere regole brevi e precise alle quali poi la legislazione, la normazione, i regolamenti e le leggi daranno attuazione. Le costituzioni sono, quindi, documenti che individuano e dispongono di precetti generali ai quali l'altra normativa darà attuazione.
Il problema di introdurre nella Costituzione regole troppo dettagliate è stato sempre molto criticato dalla letteratura americana. Io ritengo che la nostra Costituzione del 1948 sotto questo profilo risponde in pieno alle regole e ai contenuti che un testo costituzionale, sia pur lungo come il nostro, deve possedere.
Il secondo aspetto che voglio trattare, prima di rispondere tecnicamente ai quesiti, riguarda l'estensione della regola del bilancio in pareggio, posto che di questo


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dobbiamo parlare. In relazione all'estensione, riterrei che, considerata l'entità della finanza locale, che secondo le più recenti statistiche è pari a quella nazionale, il principio del bilancio in pareggio si debba estendere anche alle regioni e ai comuni. Ovviamente non penso che ogni comune debba rispondere di un equilibrio di bilancio. Ritengo che all'interno delle regioni gli enti debbano essere divisi in comparti. Alla difficoltà di un comparto di rispondere e fornire risultati in pareggio, può corrispondere invece la facilità di un altro comparto a produrre bilanci che siano in pareggio. All'interno di questi comparti degli enti pubblici ci sarebbe una sorta di bilanciamento. Noi abbiamo oltre 8.000 comuni, alcuni di trecento abitanti. È quindi impensabile che una regola sia adattabile a questa realtà.
Si discute da cent'anni, a partire da Santi Romano, sui correttivi da apportare a questa situazione. Di fatto, anche le norme che ci hanno provato non hanno avuto successo. Direi che comunque il pareggio vada previsto per il bilancio dello Stato e per il bilancio degli enti, con queste caratteristiche particolari.
Gli enti sono autonomi e sono diventati maggiormente autonomi per effetto della modifica del Titolo V della Costituzione. Questo significa che alcuni saranno in grado di rispondere alle richieste poste loro ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione in ordine ai livelli essenziali delle prestazioni e dell'assistenza e altri invece non lo potranno fare. In questo senso, il pareggio di bilancio deve tenere conto che ci sono diritti sociali che vanno garantiti a tutti, come è stato detto nel corso dell'audizione, ma certamente a un livello inferiore rispetto a quello che è stato garantito fino a oggi. Certamente ci sarà un livellamento di questi diritti verso il basso. Dispiace, ma il pareggio del bilancio d'altronde non significa non spendere. Significa spendere anche molto, ma procurandosi le entrate necessarie affinché il pareggio possa essere effettivo.
Se questo è vero, dobbiamo ricordare che c'è stata una lunga discussione, che si è trascinata per molti decenni, sul ruolo del vecchio - consideriamolo già vecchio - articolo 81 della Costituzione. L'articolo 81 nella stesura originale, prima dell'approvazione da parte dell'Assemblea costituente, prevedeva che le leggi che comportassero oneri finanziari maggiori dovessero provvedere ai mezzi per farvi fronte. Poi il repubblicano Perassi obiettò sulla forza di questa normativa e quindi passò la norma vigente, molto più attenuata, secondo cui le leggi che comportano maggiori oneri finanziari devono indicare i mezzi per farvi fronte. Su questo è intervenuta la famosa sentenza della Corte costituzionale, la n. 1 del 1966, che ha aperto la strada a numerose spese. Quando abbiamo rimesso i remi in barca, in realtà era troppo tardi.
L'articolo 81 della Costituzione, come molti studiosi e giuristi affermano, è un articolo che prevedeva un pareggio di bilancio tendenziale per via del combinato disposto dei commi terzo e quarto. Gli economisti, invece, hanno sostenuto che serviva a dire che ogni spesa deve essere valutata in relazione al suo costo. È un'osservazione, a mio avviso, molto più banale. Ogni spesa viene valutata in relazione al suo costo singolarmente, ma complessivamente il terzo e il quarto comma tendevano al pareggio del bilancio. D'altronde, studiando le vicende dei nostri bilanci dall'unità d'Italia in poi, si osserva che la tendenza al pareggio e il pareggio stesso sono molto presenti negli anni fino alla seconda guerra mondiale.
Tuttavia, la tendenza al pareggio ha provocato la situazione che conosciamo e che viviamo. Evidentemente, quindi, le disposizioni iscritte al terzo e quarto comma non hanno funzionato. Questo mi convince, benché non credo che sia la panacea, a inserire in Costituzione il principio del pareggio di bilancio, tenendo conto che deve essere fatto in poche parole e non con un articolo di una pagina e mezzo, come ho visto in alcuni dei progetti di legge all'esame.
Qui si parla di due vicende. Da un lato, quella che riguarda il rispetto e la tutela delle generazioni future mi vede molto favorevole e io ritengo che la sede potrebbe


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essere un ulteriore comma all'articolo 53 della Costituzione, da inserire dopo i due commi che riguardano il carattere delle prestazioni.
La seconda questione riguarda il ciclo economico avverso e lo stato di necessità e urgenza. Mi lascia molto perplesso il fatto che il pareggio di bilancio potrebbe non essere rispettato in questi due casi. Io credo che il ciclo economico avverso non lo possiamo dichiarare noi. Visto che oramai le economie europee sono collegate tra loro, come hanno detto in Germania Schaeuble e tanti altri economisti e giuristi, credo che il ciclo economico avverso debba essere dichiarato dall'Unione europea e non all'interno di ogni singolo Stato, altrimenti ogni Stato potrebbe trovarsi nella situazione della Grecia.
Resta aperto il profilo dei controlli. Io non sarei contraria a un controllo affidato alla Corte dei conti che possa accedere direttamente alla Corte costituzionale. Mi sembra che siano due organi che hanno funzionato abbastanza bene.
Vorrei ora rispondere ai quesiti che ci sono stati posti, anche perché in generale vorrei osservare che in discussione ci sono almeno quattro norme della Costituzione. La prima norma di cui si è parlato questa mattina è l'articolo 11 della Costituzione. Noi abbiamo fatto moltissime cose con l'articolo 11 e in teoria non abbiamo bisogno di un altro articolo che dichiari, come l'articolo 117 della Costituzione, che teniamo conto della normativa europea. Tuttavia, l'articolo 11 della Costituzione è stato pensato nel 1946 e approvato nel 1948, il Trattato di Roma è del 1957 e l'Unione europea del 1992: non mi straccerei le vesti se dovesse essere approvato un articolo che sottopone l'attività normativa e legislativa in generale alle disposizioni dell'Unione europea. L'articolo 117 della Costituzione, come dicevo, stabilisce che la potestà legislativa è esercitata dallo Stato e dalle regioni nel rispetto della Costituzione, nonché dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario. All'articolo 11 potrebbe essere aggiunto un capitolo generale che riguardi l'ordinamento comunitario.
Per quanto riguarda l'articolo 53 della Costituzione e quindi la tutela delle generazioni future, come ho già detto, andrebbe aggiunto un nuovo comma. L'articolo 117 della Costituzione non c'entra forse direttamente con il bilancio in pareggio, ma io trasferirei - e mi sembra che la proposta di legge Lanzillotta lo preveda - l'attività di coordinamento dal terzo al secondo comma dell'articolo 117, lasciando, quindi, la competenza allo Stato.
Per quanto riguarda l'articolo 119 della Costituzione, toglierei l'ultimo comma, perché, se si adotta il principio dell'equilibrio del bilancio, l'ultimo comma del 119, che consente il debito soltanto per le spese in conto capitale, non ha più ragione di essere.
Per quanto riguarda il terzo comma dell'articolo 81 della Costituzione, è stato affermato da più parti, e più volte questa mattina, che anch'esso non ha più ragione di esistere, se esiste il principio del bilancio in pareggio. Le spese si possono compiere, purché ci siano entrate adeguate per consentire tale pareggio.
Rispondo ora brevemente ai quesiti che mi sono stati rivolti.
È necessaria la riformulazione dell'articolo 11 della Costituzione? Si può effettuare, anche per i motivi che, in fondo, l'articolo 11 è un articolo che ci ha già consentito tutto. Non è necessario, ma di fatto equilibrerebbe e completerebbe le disposizioni dell'articolo 117 della Costituzione.
La collocazione più appropriata del principio di pareggio di bilancio è l'articolo 53 della Costituzione, come prevede il disegno di legge del Governo? No, a mio avviso, è l'articolo 81 della Costituzione.
Quali sono gli effetti che l'introduzione nella Costituzione del principio del pareggio di bilancio potrebbe determinare? Certamente il pareggio di bilancio, come è successo e come sta succedendo in Germania, livella verso il basso i diritti sociali dei cittadini.
Passando a un altro quesito, il disegno di legge del Governo prevede che una legge stabilisca i princìpi e i criteri sulla base dei quali sono perseguiti gli equilibri di bilancio


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e il contenimento del debito. Quali dovrebbero essere la natura e i contenuti indefettibili di tale legge? Per quanto riguarda le verifiche a consuntivo e i controlli, penso che essi possano di nuovo essere competenza della Corte dei conti. Per quanto riguarda i contenuti, cerchiamo di non spaventarci con la maggioranza dei due terzi. Mi sembra che anche l'articolo 77 della Costituzione per l'amnistia e l'indulto preveda leggi che debbono essere varate a maggioranza qualificata.
Delle forme di giustiziabilità ho già parlato, come anche dell'adozione del principio che stabilisce i princìpi. Il disegno di legge del Governo prevede la possibilità di ricorrere all'indebitamento solo in due casi, ossia nelle fasi avverse del ciclo e per uno stato che non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio. Per le fasi avverse del ciclo io non credo che siano gli Stati che possono prendere queste decisioni, perché le prenderebbero con più leggerezza. Dovrebbe essere competenza, invece, dell'Unione europea.
Al quesito che chiede se potrebbe essere opportuna la modificazione dell'articolo 117 della Costituzione e, quindi, il passaggio dalla materia del coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario alla competenza esclusiva dello Stato, rispondo senz'altro di sì.
Quali conseguenze determina la soppressione nell'articolo 81 dell'attuale terzo comma? Non ci sono problemi, se si acquisisce l'equilibrio del bilancio. Grazie.

SERENA SILEONI, Ricercatrice dell'Istituto Bruno Leoni. Onorevoli deputati, proverò a rientrare nei dieci minuti assegnati e, quindi, a leggere tra le righe del questionario che avete predisposto, cercando di soffermarmi su quelli che, almeno a mio avviso, sono i punti cruciali necessari a rendere credibile la riforma che introduce il principio di pareggio in bilancio, dando per scontato, almeno in questa sede e in quest'audizione, la scelta di inserirlo.
Resta fermo poi che, se avrò ancora altro tempo, proverò a soffermarmi sulle questioni che ritengo meno cruciali, ma altrettanto complesse, ovviamente rimettendo alle Commissioni un testo che risponde a tutti i quesiti, anche a quelli che nel corso di quest'audizione sono sembrati di più facile soluzione, come la collocazione del principio di pareggio di bilancio o la necessità di modifica dell'articolo 11 della Costituzione.
L'inserimento in Costituzione del pareggio deve rappresentare la via per risanare i conti pubblici e scongiurare il livello di debito a cui siamo giunti, un livello di debito che l'Istituto Bruno Leoni, che rappresento, aggiorna ogni tre secondi. Il conto totale è praticamente impronunciabile, ma è altrettanto spaventoso il bilancio pro capite, che questa mattina alle 11, era aggiornato a 32 mila euro.
La costituzionalizzazione del principio del pareggio di bilancio è, dunque, l'occasione di risanare i conti pubblici e di scongiurare che si ritorni a questo livello di debito, ma può anche essere l'occasione per dare credibilità alle scelte di finanza pubblica.
La costituzionalizzazione del principio, che darebbe il segnale non soltanto all'Unione europea e agli operatori e agli Stati stranieri, ma prima di tutto alla popolazione italiana, deve accompagnarsi a una legge - si può discutere se sia una legge rinforzata o, come giustamente ha osservato il professor Nicola Lupo, una legge costituzionale estranea al testo della Costituzione - di attuazione dei vincoli prescrittivi che vogliono essere inseriti nella Costituzione stessa.
Si tratta comunque di due livelli, a prescindere dal rango delle fonti a cui appartengono la Costituzione e questa legge rinforzata o costituzionale. Si tratta di due livelli prescrittivi differenti, entrambi indispensabili, che è necessario calibrare bene, evitando che in Costituzione resti una mera dichiarazione di principio alla mercé della maggioranza politica di turno, ma anche, d'altro canto, e questo sembra il rischio che si corre con l'attuale disegno di legge costituzionale,


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che l'intera disciplina sia affidata alla legislazione, per quanto approvata con maggioranze qualificate.
Da questo punto di vista, il disegno di legge costituzionale suona, a mio avviso, debole, poiché, prevedendo che l'equilibrio dei bilanci e il contenimento del debito siano assicurati in base ai princìpi e ai criteri che verranno in futuro stabiliti da una legge, per quanto qualificata o rinforzata, un principio del genere rinvia in realtà l'introduzione del pareggio a un momento indeterminato.
Abbiamo già avuto esperienza di che cosa significhi fare affidamento su leggi di attuazione dei princìpi costituzionali e di quali rischi si corrano in questo senso. La legge rinvia, peraltro, a una fonte che non sembra avere rango appropriato a cogliere e a definire anche da un punto di vista simbolico, perché le Costituzioni hanno anche un valore simbolico, l'enunciazione di un principio così forte, come quello del pareggio di bilancio, che, a mio avviso, è il principio su cui si giocherà non soltanto la tenuta dei conti pubblici, ma anche un cambiamento della vera e propria forma di Stato, o meglio una maturazione o un perfezionamento della forma di Stato sociale. Il riferimento è a una forma di Stato sociale sostenibile, depurata dalle inefficienze, dagli sprechi e dall'assistenzialismo che hanno condotto anche a questo livello di debito.
Pertanto, utilizzare una norma interposta o costituzionale affiancata alla Costituzione è un buon compromesso tra il piano dei princìpi e quello delle regole. Occorre, però, rispetto al disegno di legge d'iniziativa governativa, che la Costituzione sia più rigida nel definire i princìpi di rigore dei conti pubblici, ammesso che tali princìpi di rigore debbano essere approvati.
Prescrivere soltanto che le uscite siano pari alle entrate, quindi prevedere un pareggio di bilancio soltanto in termini di saldo formale, non rappresenta un vincolo sufficiente a garantire la responsabilità fiscale delle pubbliche amministrazioni, compatibilmente con la possibilità di contribuzione da parte dei cittadini. Non è un vincolo sufficiente non solo nei confronti dell'attuale popolazione italiana, ma soprattutto - anch'io mi rifaccio a chi ha richiamato l'equità intergenerazionale - nei confronti delle generazioni future. Perché tale responsabilità sia espressione di scelte di spesa credibili e razionali, nei confronti della popolazione attuale come delle generazioni future, essa deve accompagnarsi, a mio avviso, ad alcune misure.
La prima è la fissazione di un tetto di spesa. Alcuni progetti di legge l'hanno prevista, alcuni studiosi parlano della fissazione di un tetto o di un limite all'imposizione fiscale. Si tratta di due facce della stessa medaglia, ma, a mio avviso, un tetto di spesa dal punto di vista della responsabilità di chi spende rispetto a un limite alla pressione fiscale rende meglio l'idea della responsabilità dei governanti nei confronti dei governati o di coloro che saranno un giorno governati.
Soltanto questo limite alla spesa obbliga, in costanza di un pareggio di bilancio, i governanti a razionalizzare e a ottimizzare l'allocazione delle risorse disponibili.
Rispetto al timore, assolutamente opportuno e anche in questa sede autorevolmente esposto, relativo a come conciliare la fissazione di un tetto alla spesa con gli obblighi dello Stato sociale, prima di tutti la garanzia dei livelli essenziali concernenti le prestazioni e i diritti civili e sociali, l'introduzione del pareggio avrebbe, a mio avviso, l'effetto di obbligare le pubbliche amministrazioni a una maggiore virtuosità nella spesa e nella scelta di dove destinare le risorse.
Come è stato osservato dal professor Nicola Lupo e dalla professoressa Rita Perez, i diritti costano; che ci sia o meno l'espressione del costo dei diritti, essi comunque costano. Non solo i diritti costano, ma i diritti civili e sociali sono già previsti e tutelati in Costituzione.
Si tratterebbe, quindi, evidentemente di far bilanciare due obblighi diversi e complementari dello Stato e delle pubbliche amministrazioni, quello di non spendere più di ciò che hanno e quello di saper spendere nel senso di garantire la tutela


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dei diritti costituzionalmente riconosciuti, la corretta ottimizzazione delle risorse e l'opportuna allocazione delle spese.
Ciò non toglie, evidentemente, che si debba discutere dell'inserimento di alcune clausole che non rendano eccessivamente rigido il pareggio di bilancio e che sono previste in tutte le proposte di modifica, come situazioni di emergenza o eccezionali, previsione dell'andamento ciclico, piani di ammortamento, piani di rientro, misure di compensazione per gli enti locali e via discorrendo. Si tratta, però, di norme che, per quanto fondamentali, non appartengono al testo costituzionale.
Il secondo punto per rendere credibile il pareggio di bilancio, dopo la fissazione di un tetto di spesa, è la previsione di una forte maggioranza qualificata, anche superiore rispetto alla maggioranza assoluta, per ovviare alla sovrapposizione tra maggioranza politica e maggioranza assoluta in costanza di un sistema bipolare - mi riferisco a una maggioranza qualificata anche dei due terzi - per ricorrere ai meccanismi di deroga al pareggio e di ricorso all'indebitamento nei casi che sono da prevedersi nella Costituzione.
Da questo punto di vista è assolutamente vero che precisare a monte che cosa siano uno stato di necessità, uno stato di emergenza, una fase di recessione sono questioni da evitare in un testo costituzionale. L'abbiamo già imparato nell'esperienza della riforma del Titolo V.
Passando al terzo punto, più che prevedere puntualmente che cosa queste fattispecie indichino, sarebbe opportuno proceduralizzare in maniera molto accorta e dettagliata questi meccanismi di deroga al pareggio di bilancio nell'apposita legge rinforzata o legge costituzionale, proprio al fine di evitarne l'aggiramento e l'abuso.
Si tratta della questione forse più delicata, insieme con quella sulle garanzie dei diritti sociali, dal punto di vista della tenuta del principio nei confronti della volontà politica. Per questo motivo ritengo che, più che definire puntualmente le fattispecie, sia opportuno prevedere le procedure necessarie affinché tali fattispecie non generino abusi.
In particolare, per quanto riguarda la questione della fase avversa del ciclo economico, sulla cui definizione si può avere una pezza d'appoggio con parametri riconosciuti, come quelli elaborati dall'ISTAT o dalla Banca d'Italia, più che capire che cosa significhi a monte «fase avversa», è forse opportuno fissare un tetto di sforamento e le modalità per riassorbirlo.
Arrivo al quarto e ultimo punto. Nemmeno io, come la professoressa Perez, sono contraria a meccanismi di enforcement che vedano un ruolo più forte e attivo della Corte dei conti, con la possibilità di un ricorso diretto alla Corte costituzionale. È vero che ci si può arrivare per altre vie, ma è evidente che sono vie più lunghe e più tortuose e non del tutto certe nel risultato.
Si può rafforzare il controllo della Corte dei conti anche in altro senso, per esempio con il controllo preventivo sugli atti aventi forza di legge, in particolare sui decreti - legge. Si può rafforzare anche dal punto di vista degli enti territoriali di governo, con una maggiore efficacia del controllo della Corte dei conti, che è stato introdotto con la legge finanziaria del 2006, sui bilanci degli enti regionali.
Forse - perché no? - si potrebbe ragionare su quella che è stata già citata come la proposta Bozzi, basata su un'approvazione rinforzata dopo un eventuale rinvio presidenziale per violazione del nuovo articolo 81 della Costituzione.
L'enforcement è sicuramente una questione da non trascurare, proprio per evitare che la Costituzione resti semplicemente una dichiarazione di principio e che le maggioranze possano trovare facilmente scappatoie. Il ruolo maggiore della Corte dei conti e quello del Presidente della Repubblica sono questioni su cui credo sia piuttosto facile raggiungere una decisione.
Fornisco due brevi risposte a due quesiti molto complessi.
Il primo problema è quello del regionalismo. È evidente che la responsabilità fiscale, in un sistema regionale decentrato come il nostro, diventa molto più sfuggente. L'unico appunto che mi sento di muovere a questo proposito è che, a mio


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avviso, il pareggio dovrebbe essere costruito per quanto riguarda il bilancio dello Stato e delle regioni, mentre per quanto riguarda gli enti locali sarebbe forse il caso di pensare a strumenti di modulazione del pareggio tramite misure di compensazione o aggregate a livello regionale, che consentano una flessibilità maggiore per gli enti locali stessi.
L'altra questione è il superamento della golden rule. Uno dei quesiti che era stato proposto è, infatti, se si ritiene opportuno il superamento della golden rule.
Capisco che assolutizzare il principio di pareggio di bilancio anche per le spese di investimento significa introdurre una forte catena alle scelte politiche anche in materia di investimento. Ritengo, tuttavia, che sia la via più giusta, nella sua semplicità, per due motivi.
Innanzitutto escludere le spese di investimento dal pareggio di bilancio significa far rientrare dalla finestra ciò che si cerca di far uscire dalla porta. In secondo luogo, specularmente non è detto che non ci siano spese che compaiono in bilancio nella parte corrente, ma che guardano più al futuro, prima di tutto quelle per ricerca e formazione.
Per questa ragione, secondo me, non è rozzezza, ma semplicità quella di evitare di superare la golden rule. Grazie.

PRESIDENTE. Ringrazio tutti gli auditi. Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.
Chiederei ai colleghi, se lo ritengono opportuno, di indicare quali degli ospiti debbono rispondere alle domande che saranno formulate.

ROBERTO ZACCARIA. Rivolgerò la mia domanda al professor Luciani e gli altri auditi valuteranno se intervenire anche loro.
Mi pare che le tre questioni che sono emerse dai vostri interventi pongano il problema di che tipo di vincolo abbia il legislatore in sede di revisione costituzionale a modificare la Costituzione, con riferimento a un vincolo politico o giuridico.
Io ritengo di intendere, nonostante le citazioni anche di atti comunitari, che tale vincolo sia politico, nel senso che una maggioranza, un Governo, se ne può fare carico in sede di proposta, ma nulla di più.
Un'altra questione che tutti gli intervenuti hanno toccato è quella di passare dal non far nulla a intervenire non troppo e comunque con sobrietà sulla Costituzione. Il motivo per cui rivolgo la domanda al professor Luciani è che mi è parso di capire che, tra tutti gli intervenuti, sia stato molto più prudente sul proporre l'ampiezza della modifica.
Dove collocare le disposizioni? Vi siete variamente esercitati sulla base dei quesiti che vi sono stati posti. A mio avviso se si modificano gli articoli 11 e 53 della Costituzione, o comunque la prima parte, il condizionamento dei diritti sociali risulta per tabulas. Se, invece, si affronta il discorso attraverso l'articolo 81 e forse, per quanto riguarda l'ordinamento degli enti locali, il 119, la questione rimane più contenuta.
La domanda riguarda le strade di altri Paesi. Credo che noi dobbiamo essere strabici e non porci il problema di essere i primi della classe, per stare più lontani dal pericolo Grecia. Vediamo quali sono i nostri princìpi fino a questo momento e come possiamo inserire elementi aggiuntivi nella Costituzione con grande garbo, con grande circospezione ed evitando di ripetere, come sosteneva il professor Lupo, questioni che abbiamo già citato, con riferimento al principio di equità tra generazioni e ai più giovani.
Può essere una strada da percorrere quella di inserire in Costituzione, nell'articolo 81, un principio molto leggero? Naturalmente, trattando del principio del pareggio di bilancio - noi abbiamo la documentazione agli atti - è tutt'altro che pacifico stabilire che cosa significhi esattamente.
Si può inserire in Costituzione un accenno molto leggero e coerente con le scritture della Costituzione? Non possiamo ripercorrere la strada dell'articolo


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111 della Costituzione ogni volta che la tocchiamo. Non possiamo scrivere manuali nella Costituzione.
Si può combinare questo intervento con quelli che sembrano essere i percorsi più significativi, quelli di Spagna e Francia? Mi riferiscono che la Francia si sta un po' fermando. A me non dispiacerebbe l'idea, sempre nella logica di un bilanciamento tra l'accenno in Costituzione e il rinvio a fonti subordinate, ma comunque di caratura superiore alla legge ordinaria, di seguire la loro strada.
Da questo punto di vista, con grande garbo, userei le maggioranze qualificate. Il professor Lupo sostiene che si potrebbero introdurre anche leggi costituzionali, senza modificare la Costituzione, però tra leggi quadro, leggi organiche, che noi non abbiamo, e leggi costituzionali, lo sviluppo del principio leggero si può immaginare in una fonte subordinata, una fonte non costituzionale, ma che sia in grado di risolvere quei problemi che, alla fine, sono decisivi, quali lo stato di necessità e il ciclo economico avverso, sui quali tutti vi siete spesi per sostenere che sono formule aperte, che dicono tutto e nulla.
Questa è la domanda. Spero che sia chiara. La rivolgo al professor Luciani, ma naturalmente chiunque altro degli esperti intervenuti può integrare la risposta.

ROBERTO OCCHIUTO. Ho apprezzato tutti gli interventi dei professori e li ringrazio, ma rivolgerò una brevissima domanda al professor D'Onofrio.
Anch'io sono convinto, come affermava il collega Zaccaria, che l'obiettivo debba essere quello di intervenire sobriamente sulla Costituzione per affermare il principio di cui discutiamo. Anch'io sono persuaso, come sosteneva il professor Lupo, che bisogna evitare di produrre una norma-manifesto, peraltro su un principio che dovrebbe essere già una regola aurea del Governo e delle forze politiche, al di là di ciò che è scritto nella Costituzione.
Siamo riuniti per discutere di questo testo e, poiché si tratta di intervenire sobriamente, ho molto apprezzato l'intervento di D'Onofrio, quando, attorno a una questione centrale, quella della giustiziabilità della norma, asseriva di essere contrario a prevedere nuovi strumenti, perché nessun giudizio di costituzionalità aggiunto risulta necessario.
Mi pare che nella Costituzione francese, all'articolo 40, si preveda, per esempio, che le proposte e gli emendamenti formulati dai membri del Parlamento che diano luogo a spese aggiuntive e comunque non coperte siano dichiarati inammissibili. In questo modo probabilmente noi riusciremmo a ottenere che questa norma produca un effetto concreto, senza prevedere altri percorsi di giustiziabilità.
È vero che dovrebbe essere una regola aurea quella del pareggio di bilancio, però solo pochi giorni fa, nell'Aula della Camera dei deputati, si sono approvati alcuni emendamenti che la Commissione bilancio aveva bocciato, ritenendoli privi di copertura.
Mi rivolgo al professor D'Onofrio perché ha affermato che non sono necessari altri strumenti, ma anche in ragione del fatto che la sua esperienza importante dal punto di vista accademico, ma soprattutto copiosa e apprezzata dal punto di vista parlamentare, ci può dare in merito alcuni elementi di valutazione.

GIUSEPPE CALDERISI. Premesso che sono favorevole all'introduzione del principio del pareggio di bilancio in Costituzione e che, al di là delle indicazioni dell'Europa, ritengo che sia un principio da introdurre, rilevo che in realtà i Costituenti pensavano di averlo già inserito attraverso il terzo o quarto comma dell'articolo 81 e il vincolo di ciascuna decisione incrementale di spesa. Pensavano, infatti, che la conseguenza fosse quella del pareggio complessivo del bilancio. Così non è, per motivi che è inutile stare a ripercorrere, perché la situazione è sotto gli occhi di tutti e ha reso indispensabile compiere questo passo.
Dovendo porre una domanda, mi concentro su un tema toccato dal collega Occhiuto. I contributi che ci sono pervenuti sono utili per migliorare il testo del Governo, ma, a mio avviso, ci sono due


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questioni, una connessa all'altra, che non sono state affrontate.
Mi sembra, in primo luogo, che bisogna approfondire bene le conseguenze che l'introduzione del pareggio di bilancio comporta nel rapporto tra Governo e Parlamento. Io credo che si debba affrontare il tema in maniera diretta. Indubbiamente il passaggio dal vincolo di ciascuna decisione incrementale di spesa al vincolo sul saldo complessivo comporta un cambiamento che inevitabilmente riporta in primo piano il problema dei poteri del Governo in materia di legislazione di spesa. Dobbiamo porci il problema del modo in cui sia possibile che questo pareggio del saldo di bilancio possa essere concretamente rispettato.
Il problema nasce perché l'eventuale inidoneità della copertura di una legge di spesa determina l'illegittimità non solo di quella legge, ma anche del bilancio nel suo complesso. Come si fa, di fronte a una situazione del genere, a non introdurre, in materia di finanza pubblica vincolata dal pareggio, l'attribuzione all'Esecutivo del compito di valutare la compatibilità delle iniziative di spesa con riguardo al quadro di finanza pubblica e con il rispetto degli equilibri contabili?
Occorrono inevitabilmente una visione d'insieme e un'adeguata conoscenza degli apparati amministrativi, che non possono essere demandate alle singole deliberazioni di spesa del Parlamento. Io non sono tanto favorevole all'articolo 40 della Costituzione francese, quanto all'articolo 113 di quella tedesca, che attribuisce al Governo questa responsabilità e gliel'attribuiva ancora prima dell'ultima modifica sul pareggio di bilancio.
Tale norma era preesistente e credo che sia indispensabile porla nella nostra Costituzione. Ovviamente essa va compensata e ritengo che questa debba essere l'occasione per un ammodernamento del Parlamento sul livello del controllo della qualità e della quantità della spesa, elemento che è, a mio avviso, molto carente. Credo che tale carenza debba essere compensata attraverso la previsione, magari anche in Costituzione, di una Commissione di controllo a carattere anche paritario sulla qualità e la quantità della spesa.
Ritengo che la norma del pareggio di bilancio necessiti di due integrazioni, oltre ad altri miglioramenti del testo, da una parte, quella di inserire questo potere del Governo - come in Germania, per intenderci - e, dall'altra, di istituire una Commissione parlamentare di controllo, perché, nonostante i tentativi compiuti, che sono indubbi, il ruolo del Parlamento è molto scarso e il tempo e l'energia che le Commissioni e gli apparati dedicano a questo controllo non mi sembrano adeguati.
Credo che l'occasione di questa riforma debba essere rivolta anche a far compiere un grande salto di qualità in chiave di ammodernamento sui ruoli e, quindi, ad attribuire il potere al Governo, da una parte, e, dall'altra, a far sì che il controllo sia adeguato nell'ambito delle funzioni del Parlamento.
Volevo chiedere di approfondire, se non adesso, magari anche con l'invio di note scritte, questo aspetto, perché mi sembra che sia una conseguenza inevitabile dell'introduzione del principio del pareggio di bilancio quella di andare inevitabilmente a toccare il rapporto tra Governo e Parlamento.
Mi sembra indispensabile considerare come affrontare anche questi due aspetti di responsabilità. Al Governo andrebbe affidata anche la responsabilità, in caso di sforamento non intenzionale, di presentare un piano di rientro. È inevitabile, se vogliamo che questa regola abbia un valore. Io penso molto a far leva su sistemi di controllo ancora inseriti dentro il Parlamento, più che a cercarne altri al di fuori. Dobbiamo cercarli innanzitutto al suo interno.

RENATO CAMBURSANO. Ringrazio tutti gli auditi. I loro contributi sono davvero interessanti, anche se constato, ma non poteva che essere così, che, a fronte di tante teste, ci sono anche idee diverse.


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Ho provato a crearmi uno specchietto. Ho una cultura aziendalistica; me lo consentiranno, oltre che i colleghi, anche gli illustri professori auditi. Un ex Presidente del Senato, che il professor D'Onofrio conosce bene, mi accusava di avere anche in politica una cultura esclusivamente aziendalistica. Ahimè, me la porto appresso.
In sostanza, mi sono costruito uno schema: sulle colonne orizzontali ho posto i cognomi e i nomi e su quelle verticali gli articoli. Ovviamente c'è una varietà di posizioni.
Svolta questa premessa, parto esattamente dal modo in cui la professoressa Rita Perez ha iniziato il suo intervento. Noi non siamo chiamati a discutere se occorra o meno inserire una norma di vincolo di pareggio di bilancio, ma su come farlo, se ho inteso bene, perché qualcuno in rappresentanza del Paese Italia si è recato a sottoscrivere il Patto euro plus. Io continuo a definirlo tale, ossia un patto.
Lor signori ricorderanno - il riferimento è ai colleghi - che alcuni giorni dopo quella riunione si tenne alla Camera dei deputati un'audizione del Ministro dell'economia e delle finanze, il quale confermò la necessità e l'urgenza di inserire in Costituzione una norma che vincolasse il pareggio di bilancio, salvo poi che tale urgenza da parte governativa non ci fu.
Io sono il primo firmatario di una delle proposte di legge in esame. Mi rendo conto che tale proposta è venuta «a caldo», come si usa dire, pochi giorni soltanto dopo la sottoscrizione di quell'impegno semplice, ma mi pare di poter convenire totalmente su quanto ha sostenuto il professor Nuzzo, vale a dire che occorre davvero recuperare il valore della Carta costituzionale e, quindi, non approfittare di una lunga serie di articoli in cui inserire la clausola di cui stiamo discutendo. Bisogna assolutamente riprendere il principio che anche nel nostro Paese occorre introdurre - soprattutto alla luce delle cose che stanno accadendo, che sono accadute e che, ahimè, potrebbero ancora di più accadere - se ho inteso bene, vale a dire quello di commisurare le spese alle entrate.
Sono assolutamente d'accordo. Noi abbiamo vissuto, come lei ha ricordato, professore, al di sopra delle nostre possibilità. Se siamo in queste condizioni, è proprio perché abbiamo vissuto al di sopra delle nostre possibilità.
Chiudo ponendo una domanda al professor Nuzzo. Sia lei, professore, che la professoressa Perez avete accennato - io non sono un costituzionalista e, quindi, non mi confronto direttamente con voi su una materia così difficile per me, ma prendo per corrette le vostre considerazioni - al fatto che nelle sottocommissioni soprattutto dell'Assemblea costituente era stata ampiamente discussa la necessità se già allora formalizzare in modo preciso la necessità del pareggio di bilancio. Si è poi optato per una forma un po' più leggera - io direi un po' più annacquata, ma limitiamoci a chiamarla leggera - che è quella dell'articolo 81 vigente.
Passo alla domanda. Io credo che sia assolutamente indispensabile operare, come mi pare di aver capito dal professor Nuzzo, esclusivamente sull'articolo 81 della Costituzione. Nello stesso tempo, però, mi rendo conto del ciclo economico, ma soprattutto del ritardo che questo Paese accusa. Il professor Nuzzo ha aggiunto addirittura un capitolo molto forte, cioè il ritardo nella ricerca e nell'innovazione, mentre l'avvocato Sileoni ha aggiunto anche quello nella formazione. Inoltre, la mia proposta di legge aveva indicato i ritardi negli investimenti. Sono tutte necessità impellenti per lasciare aperta la porta rispetto a interventi in questa direzione.
L'avvocato Sileoni sosteneva, però, che sarebbe giunto il momento anche per il nostro Paese di superare la golden rule. La domanda è la seguente: esattamente lei come coniugherebbe le due questioni? Anch'io sono convinto che sarebbe il caso di arrivare al superamento, ma, nello stesso tempo, mi chiedo come poterci arrivare e come poter inserire nel testo che andremmo a definire la necessità di


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coniugare le due cose, ossia il superamento della golden rule, ma anche il recupero dei ritardi sui fronti che ho appena citato.

RAFFAELE VOLPI. Volevo scusarmi con la presidenza e con gli autorevoli ospiti per il mio ritardo. Purtroppo non sono riuscito ad arrivare prima. Rivolgo una breve domanda all'avvocato Sileoni, perché il suo è l'unico intervento che ho avuto la fortuna di poter ascoltare.
In un suo passaggio l'avvocato parlava di un'ipotesi che potrebbe considerare di escludere gli enti locali dall'insieme del vincolo del pareggio di bilancio. Andando a modificare la Costituzione, che ovviamente deve avere un carattere generale, e procedendo anche verso la possibilità di avere forme di responsabilità rispetto alla spesa che possano arrivare fino al sistema periferico degli enti locali, lei non trova che l'esclusione degli enti locali dalla compartecipazione alla responsabilità politica della finanza pubblica sia di difficile applicazione?
Premesso che lei ha ricordato anche l'eventualità di una forma aggregata, io credo che all'interno del presupposto in cui stiamo lavorando ci sia la responsabilità e che escludere qualcuno dalla responsabilità, dal mio punto di vista, sarebbe un errore profondo.
Ovviamente ho rivolto la domanda all'avvocato Sileoni perché ho ascoltato il suo intervento, ma non intendo essere scortese con altri degli esperti auditi che vogliano dare un contributo alle questioni che ho posto.

MARIO TASSONE. Svolgo una valutazione di carattere generale. I costituenti, quando hanno predisposto la Costituzione, non pensavano che ci dovesse essere il pareggio di bilancio. A mio avviso, la valutazione del professor D'Onofrio di pensare a questo principio come contenuto eventualmente tra i primi articoli ha un suo fondamento.
Si è parlato ovviamente anche di bilancio delle regioni e dei comuni e bisogna poi tenere presente l'articolo 117 della Costituzione. Occorre considerare il bilancio di che cosa, di chi e dove, visto e considerato che esistono i bilanci regionali, che pesano profondamente? Il potere legislativo è dello Stato e delle regioni ma poi il bilancio è solo quello dello Stato? Inoltre, perché escludere gli enti locali? In tal caso, rivediamo la formulazione dell'articolo 117 sulle materie concorrenti e quelle esclusive. Riconsideriamo alcuni aspetti e alcuni dati.
Ponendo questa domanda, avrete capito qual è il mio orientamento anche per quanto riguarda l'articolo 81 della Costituzione. È un dato economico? È un dato soltanto contabile? Si è parlato anche di diritti civili e di riconoscimento. I diritti civili costano, ma i costi e i benefici come si possono quantizzare in uno Stato? Sul piano aritmetico e ragionieristico o sul piano anche di un investimento sociale? Sono un fatto soltanto ragionieristico, come principio costituzionale, oppure tutto ciò non c'è, perché è un elemento in più di quello che si richiede a un dettato costituzionale?

PRESIDENTE. Do la parola agli auditi per la replica.

MASSIMO LUCIANI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso l'Università La Sapienza di Roma. Grazie, presidente. Sarò molto breve. La questione è se siamo vincolati e se quindi dobbiamo per forza modificare la Costituzione.
I problemi sono due, molto semplici. Personalmente sono un europeista convinto, però, finché non esiste una federazione europea, la legittimazione delle istituzioni comunitarie viene dalle Costituzioni nazionali e non viceversa. Questo è il primo punto. Noi conserviamo la nostra sovranità sulla nostra Costituzione.
Come secondo punto, che cosa è scritto nel Patto euro plus? Io penso che ci sia scritto esattamente quello che ci si legge, vale a dire che noi dobbiamo adottare regole sufficientemente vincolanti, ma non che debbano essere per forza in Costituzione. È esattamente ciò che riportavo. Possiamo anche immaginare che il vincolo


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politico sia più robusto, ma non c'è un vincolo nemmeno sul piano del diritto sovranazionale o internazionale a modificare la Costituzione.
L'onorevole Zaccaria parlava di prudenza e chiedeva come possiamo operare. Io sono così prudente che non farei nulla, questo è il punto, ma gradirei sottolineare un aspetto, signor presidente. Non fare nulla su questo profilo non significa non rendersi conto della gravità della situazione.
Qual è il problema del nostro Paese oggi? È il debito. Se il problema è il debito, ci aiuta il principio del pareggio di bilancio? La risposta è no, non ci aiuta, per una ragione semplicissima: dobbiamo riassorbire il debito. Noi siamo un Paese che non è in grado di governare il costo del servizio del debito. I Paesi europei non possono più governare il costo del servizio del debito, per la ragione semplicissima che non hanno più gli strumenti economico-finanziari per farlo.
Noi dobbiamo ridurre il debito, ma il vincolo del pareggio di bilancio è un problema totalmente diverso, che non c'entra nulla con il problema della riduzione del debito.
Innanzitutto occorre considerare il punto di quali sono le spese che entrano a comporre il calcolo. Sono state evocate le esperienze straniere di Spagna e Germania, in particolare. La Francia, saggiamente, ha rallentato.
Prendiamo la Spagna, che è stata l'esempio per le diverse proposte. È palese che sia stata presa a esempio la riforma spagnola, che però contiene norme che dimostrano ancora di più il terrore di fronte alla situazione nella quale si è trovato quel Paese. C'è una disposizione della quale nessuno parla, il terzo comma dell'articolo 135, che stabilisce che in merito ai crediti per gli interessi del capitale sul debito pubblico «su pago gozará de prioridad absoluta», vale a dire il pagamento di questi crediti ha la priorità assoluta su tutto il resto.
Vogliamo arrivare a questo punto? Io credo che non sia saggio dal punto di vista costituzionale. Credo che sia così poco saggio che una legge di revisione costituzionale che prevedesse una clausola del genere sarebbe costituzionalmente illegittima, a violazione dei princìpi fondamentali della Costituzione stessa.
Si obietta che l'ha fatto la Germania. Perché non lo vogliamo fare anche noi? Innanzitutto la Germania l'ha fatto nel 2009, modificando una già piuttosto rigorosa previsione costituzionale, che prevede soltanto due casi, Naturkatastrophen, catastrofi naturali, e Außergewöhnliche Notsituationen, vale a dire situazioni di necessità eccezionale. Questo prevede il Grundgesetz tedesco, il quale non contempla nemmeno il ciclo economico negativo.
Qual è il problema? Il problema è che la Germania è la Germania. Ogni Paese ha il suo modello di sviluppo e le sue compatibilità di sviluppo. Non possiamo pensare di imitare la Germania per il semplice fatto che la Costituzione, il Grundgesetz tedesco, è scritta bene. Sono due questioni diverse. Noi abbiamo le nostre necessità e io ritengo che il modello di sviluppo tedesco non sia il nostro.
Chiudo con il fatto che continuiamo a fare debiti. Certamente quello che continuiamo a fare debiti è un problema essenziale, ma sul quale dobbiamo chiarirci. Se il punto fosse che con l'indebitamento si finanziano le spese per investimenti, ricerca, istruzione e altre voci - come ripeto, sono consapevole del fatto che in dottrina economica la nozione è controversa - ossia quelle che si possono chiamare spese produttive, allora la situazione cambia completamente. Era quanto era scritto nel Grundgesetz prima della riforma del 2009. Tale ragione sarebbe ampiamente sufficiente e forse non c'è nemmeno bisogno di scriverlo in Costituzione, perché basterebbe un forte impegno politico in questo senso.

FRANCESCO D'ONOFRIO, Professore emerito di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma. L'onorevole Occhiuto pone una domanda in modo particolare. Confermo la mia contrarietà a ulteriori interventi in Corte costituzionale da parte di altri soggetti, perché continuo


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a ritenere che la politica economica faccia parte essenziale del diritto a governare il Paese.
Sono molto preoccupato per il fatto che troppe volte la Corte costituzionale italiana ha assunto decisioni che comportano spesa, senza dover rispondere di ciò che succede. Il nostro modo di comporre il giudizio costituzionale ha comportato anche queste conseguenze.
Da questo punto di vista, l'introduzione del pareggio di bilancio tende a limitare le conseguenze delle decisioni costituzionali. Figuriamoci se se ne possono aprire ancora altre. Per tale ragione la mia contrarietà rimane totale.
L'onorevole Occhiuto chiedeva se in questo contesto sia possibile stabilire un divieto di emendamento che comporti spesa. Il discorso è del tutto diverso, perché apre il tema sollevato dall'onorevole Calderisi su quale sia il rapporto tra Parlamento e Governo.
È di tutta evidenza che, se riteniamo che i parlamentari in quanto tali abbiano una co-decisione con il Governo alle spese, non si può limitare alcun emendamento che comporti spesa per principio. Se, invece, si ritiene che il Governo abbia la competenza esclusiva alla spesa, è ovvio che si può stabilire come limite di emendamento, ma fa parte dei diritti del Governo ed è una questione molto diversa da quella del controllo di costituzionalità. La mia opinione rimane favorevole a ritenere governativa la politica economica.
In merito al contesto europeo, capisco che è molto complicato, ma lo è dal 1957 in poi ed è tanto complicato che la Corte costituzionale italiana ha avuto grande difficoltà dapprima ad ammettere il primato del cosiddetto diritto europeo rispetto al diritto interno. Oggi lo diamo per acquisito, ma per alcuni anni non è stato così.
Occorre capire che siamo in presenza di un ordinamento in itinere molto complicato, nel quale le Costituzioni nazionali in parte sono diventate flessibili rispetto al processo di integrazione europea, ma noi costituzionalisti non riusciamo a stabilire in che modo ciò avviene. Non si tratta né di un ordinamento statuale nuovo, quello degli Stati Uniti d'Europa, né di una somma di ordinamenti statuali separati, quello degli Stati nazionali, ma di una fase intermedia.
In questa fase intermedia il Governo della Repubblica ha il potere di stabilire qual è il punto di equilibrio tra la Costituzione nazionale e il processo di integrazione europea. Avendo stabilito esso la responsabilità nazionale al cosiddetto patto euro plus, evidentemente ritiene che vi sia un dovere costituzionale di modifica del nostro ordinamento interno.
Do per scontato che io e i miei colleghi costituzionalisti non abbiamo questo dovere. Il Governo sente di avere questo dovere. Si tratta di una posizione che, dal mio punto di vista, stabilisce il punto di equilibrio di volta in volta tra coordinamento costituzionale interno e processo di integrazione europea.
Come principio generale, ovviamente semplice - io sono contrario ai princìpi costituzionali «leggeri»; preferisco chiamarli «semplici», è una parola diversa - introdurlo nella prima parte della Costituzione, quella dei princìpi fondamentali, significa condizionare all'equilibrio di bilancio anche il principio del primato della persona, il principio di eguaglianza, il diritto al lavoro e anche il tipo di ordinamento decentrato, che nella Costituzione figura e che riguarda l'ordinamento regionale.
Riteniamo che si possa su tale principio costruire un ordinamento chiamato federale? È ovvio che la competenza deve rimanere di Stato e regioni. Se, invece, riteniamo che non si possa passare dal regionalismo al federalismo, è ovvio che lo Stato manterrà un ruolo centrale.
Nella Costituzione originaria lo Stato si occupava di tutto, anche i princìpi delle leggi di competenza regionale. Non è più così e, quindi, col Titolo V abbiamo una Costituzione diversa da quella del 1947, ma non so fino a che punto ci si rende conto che è così a Costituzione vigente.
Se parliamo di Costituzione vigente ai sensi del Titolo V, che è in vigore, mi sembra normale che rimanga la competenza


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concorrente. Se riteniamo, invece, che il Titolo V sia stato, tutto sommato, un piccolo errore commesso da qualcuno e che rimane la Costituzione del 1947, la competenza è dello Stato. In tale versione, però, tutte le competenze erano dello Stato, anche quelle che riguardavano i princìpi della competenza regionale. Non avevamo un ordinamento basato sulla pluralità delle fonti legislative, ma sulla centralizzazione del potere legislativo. Occorre capire se è così o non è così.
Per questo motivo la questione si pone oggi, ma coinvolge l'idea di Stato e di Italia che si ha. Poiché il Governo ha presentato un disegno di legge di ordinamento federalistico, vorrei capire che senso hanno le norme che prevedono la maggioranza delle due Camere, quando una delle due non dovrebbe avere più poteri determinanti per la fiducia al Governo. Mi chiedo, da questo punto di vista, quale coerenza vi sia nel proporre costituzionalmente una modifica del bilancio di questo tipo, mantenendo in piedi due Camere, mentre dall'altra parte esse non ci sono più. Vorrei capirlo, ma è una questione di ordine politico-costituzionale e in questa sede non voglio ovviamente andare oltre.

ENRICO NUZZO, Già professore ordinario di diritto tributario presso l'Università Federico II di Napoli. La domanda posta in realtà non affronta un solo problema, ma ne richiama diversi. Pur telegraficamente, tento di rispondere, per quanto possibile, in modo completo.
I princìpi costituzionali vengono dettati per durare nel tempo. Nei momenti di sconvolgimenti del vivere sociale le Costituzioni si cambiano radicalmente e possono essere anche cancellate o annullate. Spero di sbagliarmi nelle valutazioni di ordine empirico sull'attuale momento, ma è mia netta impressione che in questo frangente noi, come Paese, stiamo correndo un gravissimo rischio sul piano economico-finanziario, ragion per cui occorre assicurare la stabilità dei nostri conti coinvolgendo i diversi livelli di governo.
Appena accenno alla questione dei rapporti tra i diversi livelli di governo, perché molto complicata; mi limito telegraficamente a denunciare, sul punto, aprendo e chiudendo una parentesi, che, per bene inquadrare siffatta questione, due sono i profili essenziali da considerare perché su di essi si gioca l'intera partita: il principio di responsabilità dei soggetti che possono realmente contribuire alla stabilità dei nostri conti e le risorse da destinare allo scopo. In mancanza di tali elementi non è possibile parlare di livelli di governo e di coinvolgimento degli Enti territoriali.
L'Italia, purtroppo, ha l'ingrato compito di guadagnarsi la fiducia dei mercati e quella dei principali Paesi partecipanti all'Unione europea. È inaccettabile che un Paese come l'Italia - scusate se nella mia considerazione c'è un pizzico di orgoglio nazionale - venga considerato come Cenerentola, almeno in alcuni consessi internazionali.
Occorre recuperare credibilità. Ed in questo momento di allarme è giusto intervenire a livello costituzionale, introducendo il principio, o meglio, come ho sostenuto anche nella mia nota scritta, riaffermando il principio del pareggio di bilancio. Il momento è particolarmente delicato e grave. I mercati ci aspettano al varco. Chi valuta con attenzione l'entità dello spread tra titoli del debito italiano e i Bund tedeschi non può non nutrire motivi di seria preoccupazione.
Ciò premesso, riconfermo quello che ho asserito nel precedente intervento, e non per affezione alle mie idee. Ho molto riflettuto anche sulle diverse osservazioni fin qui formulate circa la opportunità o meno di «inserire» in Costituzione il principio di pareggio del bilancio. Dal mio punto di vista - ripercorrendo la storia dell'articolo 81 della Costituzione, e sono disposto a discutere all'infinito sul punto - il principio di pareggio di bilancio è già presente nell'attuale testo. Sullo sfondo della norma evocata vi è la cultura di Einaudi, sposata da Ezio Vanoni: la formulazione vigente dell'articolo 81 citato riflette l'intendimento secondo cui i Padri


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Costituenti davano per scontata la vigenza, nella nostra Carta Fondante, del principio di pareggio di bilancio.
Esplicito, in maniera ancor più chiara, ciò che volevo esprimere in maniera più soft, riguardo al termine accountability e di responsabilità della nostra classe di governo. Se dipendesse da me, integrerei l'articolo 95, primo comma, della Costituzione, sul ruolo del Presidente del Consiglio - figura che «mantiene l'unità di indirizzo politico e amministrativo, promuovendo e coordinando l'attività dei ministri» - con la formula «assicura il rispetto del principio di pareggio di bilancio». Il tutto col doppio risultato di dare atto che ora si discute della semplicità di riaffermazione del principio già vigente del pareggio di bilancio e con l'aggiunta del principio - questo, sì nuovo - di responsabilità dell'intera classe di governo: chi spende deve risponderne davanti al Parlamento e al Paese.
Altro punto rilevante è quello che sottolinea che l'intera problematica qui discussa (pareggio di bilancio) venne mutuata dal sistema britannico. In quel sistema, il Governo ha poteri di spesa ed il Parlamento poteri di controllo. È necessario che, anche da noi, il Parlamento, piuttosto che concorrere alla spesa, che fungere da assemblea di comitati di spesa, riscopra il suo ruolo, e, con esso, l'importanza e la nobiltà di effettuare un controllo sull'impiego delle risorse che sono di tutti e che sono procurate incidendo pesantemente sul tenore e sulla qualità di vita dei cittadini.

SERENA SILEONI, Ricercatrice dell'Istituto Bruno Leoni. Rispondo al rilievo dell'onorevole Volpi. Forse per celerità non sono stata chiara. Il mio orientamento, senza troppo approfondirlo, è quello di escludere gli enti locali, ma per un motivo molto semplice.
È vero che il pro di prevedere il pareggio di bilancio anche degli enti locali è la responsabilizzazione. Non c'è dubbio. I contra che io individuo, però, sono molto temporanei, o almeno spero che lo siano, e sono dovuti a un non ancora definito sistema di federalismo fiscale.
Non riesco bene a capire come si possa rendere responsabili gli enti locali, peraltro molto diversi tra di loro, del pareggio in bilancio, quando non si sa bene a quali risorse potranno attingere, quanti trasferimenti statali ci potranno essere e quale sarà il ruolo dello Stato.
Semplicemente, in un momento in cui non si sa bene ancora quale sarà la vera responsabilità di entrata e di spesa degli enti locali, forse è meglio stare attenti a gravarli di un pareggio su un bilancio di cui non sono gli unici artefici. Soltanto per questo motivo penserei più a un sistema che non tanto introduca, perché ci sono già, ma che rafforzi i meccanismi di responsabilità nei confronti dello Stato, quale il Patto interno di stabilità, piuttosto che, finché non sarà compiuto il federalismo fiscale, estendere il principio del pareggio anche agli enti locali.

NICOLA LUPO, Professore ordinario di diritto delle assemblee elettive presso l'Università Luiss Guido Carli. Interverrei solo per una risposta, parziale, all'onorevole Calderisi, che poneva il problema del controllo parlamentare: problema davvero cruciale ove si intendano evitare i rischi, che venivano prefigurati in altri interventi, di un ulteriore incremento della giuridicizzazione dei conflitti, a seguito della costituzionalizzazione del pareggio di bilancio.
Soprattutto per chi, come me, ha auspicato un arricchimento delle forme di accesso alla Corte costituzionale, l'esigenza di evitare questi rischi è molto sentita, e ad essa si risponde, a mio avviso, adeguando e potenziando i procedimenti parlamentari di finanza pubblica. In altri termini, l'attuazione di un principio quale il pareggio di bilancio si deve inverare anzitutto in Parlamento. La garanzia dei principi costituzionali, del resto, non va affidata integralmente ai giudici, ma è innanzitutto un compito degli organi di indirizzo politico, in primis delle Camere.


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In questa chiave sono convinto che una soluzione - anche se le soluzioni sono sempre difficili da prefigurare - possa essere quella delineata, sia pur fugacemente, dall'onorevole Calderisi, di una Commissione bicamerale e a composizione paritaria, se ho ben compreso, tra maggioranza e opposizione. Essa avrebbe, tra gli altri, il pregio di offrire un cappello politico adeguato anche a quell'ipotetica struttura che delineavo per cenni nel mio intervento. A quel punto, l'Agenzia di controllo o il potenziamento dei servizi parlamentari in materia di bilancio potrebbero trovare un loro referente politico, il che credo che sia sempre un dato positivo.

RITA PEREZ, Professore ordinario di diritto pubblico presso l'Università La Sapienza di Roma. A proposito del ruolo del Parlamento, vorrei ricordare che la finanza negli anni passati - sto pensando a cinquant'anni fa - era subalterna, nel senso che le decisioni venivano prese dal Governo e poi il Governo dirigeva la spesa pubblica, riuscendo, per esempio, a finanziare alcune spese e non altre.
Per esempio, il rifinanziamento degli enti pubblici passava avanti alle opere pubbliche. Il finanziamento per i sassi di Matera avvenne dopo due anni dalla decisione del Parlamento di finanziarli, quindi in un secondo tempo. La finanza era subalterna al Governo e nel Parlamento non se ne parlava neppure.
Successivamente, con il primo shock petrolifero - sto parlando del 1974, gli anni che precedettero l'emanazione della legge n. 468 del 1978 - la finanza entra nel programma di governo e diventa, per dieci anni o anche più, il fiore all'occhiello del programma di governo. Ci si rende conto che, per raggiungere determinati risultati - anche il primo shock petrolifero fu una grandissima crisi - bisognava controllare la finanza.
In seguito, ed è la situazione attuale, la finanza è divenuta dell'amministrazione. In via XX Settembre vengono decisi numerosi interventi che spesso il Governo è costretto ad approvare, ma non necessariamente a condividere.
A questo punto, vediamo qual è il ruolo del Parlamento. Contemporaneamente a questo passaggio della finanza dal Governo all'amministrazione, il Parlamento vede un décalage sempre più penetrante dei suoi poteri, perché praticamente con la pratica dei maxiemendamenti, il disegno di legge che viene discusso in Parlamento non è quello nei confronti del quale le Camere hanno dato il loro parere e hanno svolto l'istruttoria. Per di più, il disegno di legge viene accorpato anche in un articolo con 600-800-1.000 commi. La Costituzione e tutti i poteri che essa consente al Parlamento, nel momento in cui deve approvare una legge, vengono praticamente bloccati. Il Parlamento non detiene più questi poteri.
Come ricordava Massimo Luciani, il Parlamento, che nasce per controllare le spese del Governo, in realtà è fortemente limitato e praticamente non fa più nulla. Secondo me, ma a questo forse la risposta deve venire dai deputati, mancano alcuni organismi nella struttura - si è parlato di organismi americani, di Commissioni in parte del Senato e in parte bicamerali - con cui si possa controllare e ridare al Parlamento il ruolo che le Costituzioni e la nostra Costituzione in particolare gli hanno dato.

PRESIDENTE. A nome mio e del presidente della V Commissione, onorevole Giancarlo Giorgetti, ringrazio tutti coloro che abbiamo ascoltato.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14,20.

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