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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
8.
Martedì 12 luglio 2011
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Colombo Furio, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SU DIRITTI UMANI E DEMOCRAZIA

Audizione del sacerdote eritreo Moissié Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia:

Colombo Furio, Presidente ... 3 7 8 10 12
Mecacci Matteo (PD) ... 8 10
Nirenstein Fiamma (PdL) ... 9
Zerai Moissié, Presidente dell'agenzia Habeshia ... 3 7 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Italia dei Valori: IdV; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sui diritti umani

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 12 luglio 2011


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE FURIO COLOMBO

La seduta comincia alle 9,30.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso
(Così rimane stabilito).

Audizione del sacerdote eritreo Moissié Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva su diritti umani e la democrazia, l'audizione del sacerdote eritreo Moissié Zerai, presidente dell'agenzia Habeshia.
Ricordo che il Comitato ha già audito, nella seduta del 21 dicembre scorso, padre Moissié Zerai, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui diritti umani nel mondo.
Rivolgo il benvenuto al nostro ospite e invito Moissié Zerai a prendere la parola, ricordando che il tema intorno al quale verte questo desiderio di sapere di più e di sentire l'esperienza e la testimonianza di padre Zerai riguarda i profughi eritrei che o attraverso la Libia o attraverso il Mediterraneo o lungo altri percorsi che sono arrivati fino al Sinai hanno disegnato una delle mappe più drammatiche e impressionanti della migrazione nel mondo contemporaneo, della fuga dalle guerre, della ricerca del dovuto diritto d'asilo da parte di rifugiati che, come molte testimonianze ci dicono in questi ultimi anni, quel diritto di asilo non hanno mai potuto ottenere.
Do la parola a padre Zerai.

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Grazie per questa possibilità che mi avete dato. La situazione dei richiedenti asilo rifugiati provenienti dall'Eritrea, dopo le vicende del nord Africa, in certi casi si è aggravata, in altri ha visto qualche cambiamento in meglio.
Per quanto riguarda, ad esempio, la situazione in Libia, avevamo più di 2.500 registrati come rifugiati presso l'UNHCR, e tanti altri erano lì residenti lavoratori, che però si sono ritrovati nella situazione della guerra che è scoppiata in quel Paese. Prima dell'inizio del bombardamento, io da qui e anche il vescovo di Tripoli Martinelli avevamo più volte rivolto un appello per l'evacuazione di questi profughi che si trovavano in Libia, dato che non potevano tornare verso il loro Paese di origine.
L'unico Paese che ha dato un piccolo segnale positivo è stata l'Italia, che ha evacuato, con due voli militari, circa 110 persone. Altri Paesi europei, purtroppo, non hanno dato questa disponibilità immediata.
Dopo l'inizio del bombardamento c'è stato un fuggi fuggi; molti si sono rifugiati in Tunisia, molti altri, quelli che erano dalla parte della Cirenaica, a Bengasi, a


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Misurata, sono andati verso l'Egitto; altri invece, poiché nel frattempo è stata aperta la porta via mare, hanno scelto di attraversare il Mediterraneo e hanno tentato di fare questo passaggio. In questo tentativo molti hanno perso la vita; si parla, in questi tre mesi, di quasi 2.000 morti e di questi circa 400 sono eritrei.
Nell'articolo del Guardian che ho portato si racconta quello che è accaduto ad un gommone dove si trovavano 72 persone partite da Tripoli il 25 marzo, che hanno chiesto aiuto - ho ricevuto la telefonata della richiesta di aiuto il 26 marzo - per essere soccorsi perché avevano poca benzina, poco cibo, poca acqua e a bordo c'erano anche donne e bambini. Nel momento in cui ho ricevuto la chiamata ho contattato la Guardia costiera italiana, la Capitaneria di porto di Roma, per riferire della presenza di questo gommone con a bordo queste persone.
Il soccorso, però, non è avvenuto e queste persone hanno dovuto vagare per quindici giorni in mare; sebbene siano stati avvistati da un elicottero, questo ha dato loro acqua e biscotti, però non ha mandato nessun soccorso. Nei giorni successivi, tra il 29 e il 30 marzo, queste persone sono state avvistate da una portaerei militare a distanza - in base a quello che ci hanno detto i sopravvissuti - di 300-400 metri, e sebbene abbiano fatto tutti i segnali possibili per essere notati (e hanno potuto vedere che qualcuno scattava delle foto, perciò sono stati avvisati), nessuno ha mandato i soccorsi.
Di fatto, in questi quindici giorni sono morte 61 persone e i sopravvissuti sono stati respinti - erano in balia del vento dal momento in cui hanno finito la benzina - verso le coste libiche; sono approdati nella località chiamata Zelatien, dove i militari libici li hanno portati in una stazione di polizia, in stato di detenzione, senza neanche prestare loro il soccorso di cui avevano bisogno dopo aver vagato per quindici giorni nel mare Mediterraneo. In questo frangente sono morte altre due persone e gli altri sopravvissuti sono stati trasferiti in un altro carcere a Tripoli, dal quale hanno potuto contattarci, chiedendo nuovamente aiuto. Siamo riusciti ad aiutarli tramite la Chiesa cattolica di Tripoli, tramite il vescovo Martinelli.
Queste persone hanno potuto raccontare quello che è successo e io ho voluto riferirlo perché questo non è un caso isolato.
Nella mia recente visita a Malta ho incontrato un'altra donna che mi ha raccontato le stesse situazioni: hanno vagato per dodici giorni in mare; malgrado siano stati avvistati da diverse navi militari e civili nessuno li ha soccorsi.
Non vorrei che diventi la prassi o una specie di deterrente all'immigrazione l'omissione di soccorso, che peraltro non viene nemmeno punita. Eppure si tratta di vite umane che vengono abbandonate. Questa donna a Malta mi ha raccontato che anche nella loro imbarcazione c'era una donna nigeriana incinta che ha perso la vita.
Sono situazioni drammatiche che si verificano non per la prima volta. Ricordo che nell'estate del 2009 sono morti 73 eritrei, dopo aver vagato anch'essi per quindici giorni in mare senza che nessuno li abbia soccorsi.
Abbiamo chiesto, allora, le ragioni di questi avvenimenti e abbiamo finito per assistere al rimpallo delle responsabilità tra Italia e Malta, poiché non si sapeva di chi fosse la competenza: Malta sostiene che l'imbarcazione era lontana dalla sua zona e l'Italia risponde che era nelle acque SAR (search and rescue) di Malta, ma di fatto nessuno è andato a soccorrere i migranti.
Ugualmente Frontex, che dovrebbe prevenire eventuali rischi di morte di queste persone, non era presente.
È evidente che queste persone, scappando da situazioni di persecuzione e di guerra, non possono venire con un visto regolare; poiché scappano, lo fanno come possono, ma di fatto si trovano in queste situazioni di abbandono.
Con la conclusione dell'accordo tra Italia e Libia, in quanto sono venute meno le possibilità di attraversare il Mediterraneo, tanti si sono spostati verso l'Egitto, per tentare di attraversare dal Sinai il confine


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con Israele. Come ho segnalato già nella mia precedente audizione, nel Sinai abbiamo avuto e abbiamo tuttora diverse persone sequestrate nelle mani dei trafficanti. Questa situazione va avanti almeno da quando me ne sto occupando, cioè 7-8 mesi, ma i primi segnali si sono avuti già nel 2007.
È necessaria una pressione internazionale per bloccare ed estirpare questo traffico di esseri umani; occorre la collaborazione del Sudan, dell'Egitto e anche di Israele affinché vengano bloccati questi trafficanti, soprattutto i beduini al confine tra Egitto e Israele, che stanno portando avanti questo commercio. Il commercio parte dal Sudan. In base a quello che ci hanno raccontato i testimoni, appena varcato il confine tra l'Eritrea e il Sudan queste persone vengono ingannate con una vera e propria campagna pubblicitaria che prospetta un viaggio facile fino in Israele, dove possono trovare lavoro.
Io sono stato di recente anche in Israele e ho constatato che attualmente vi sono circa 18.000 eritrei. Israele dà loro un visto provvisorio di tre mesi, da rinnovare ogni volta, ma non possono lavorare legalmente né hanno alcun tipo di assistenza o di aiuto, tranne quello che riescono a fare alcune organizzazioni come PHR (Physicians for Human Rights), Hotline, UNHCR.
A parte questo, sul piano istituzionale non sono riconosciuti. Nessuno di loro è stato fino adesso riconosciuto come rifugiato; con il permesso provvisorio possono stare nel territorio però non hanno nessun diritto. La campagna pubblicitaria di questi trafficanti o di questi passeur in Sudan, in Egitto o in Libia, è basata su notizie false.
Poiché queste persone non hanno trovato nessun passaggio o ingresso legale verso un Paese che può garantire loro la protezione internazionale, si affidano a questi passeur, che propongono loro sempre nuove strade.
Quello che ormai da anni stiamo chiedendo è di prevedere ingressi legali protetti, strumenti come il reinsediamento oppure programmi di sponsor per accogliere il più possibile i richiedenti asilo o rifugiati che sono già stati riconosciuti almeno dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite nel passaggio al primo Paese, il Sudan.
Abbiamo in Sudan circa 200.000 rifugiati eritrei; in Etiopia ne abbiamo circa 40.000. Questo è il bacino da cui partono tutti coloro che arrivano in Egitto o in Libia per attraversare il mare verso l'Europa. Se venisse offerta a queste persone la possibilità di andare legalmente in questi Paesi, l'Europa, gli Stati Uniti, il Canada o l'Australia, che possono garantire loro la protezione internazionale, sarebbe un passo avanti in attesa della soluzione vera, cioè il cambiamento della situazione politica, economica e sociale nel Paese di origine.
Questo, però, ancora non avviene e da tempo noi chiediamo una forte pressione internazionale sul Governo eritreo. Non solo questo non accade, ma proprio in questi giorni ho letto che una delegazione italiana con alcuni imprenditori è andata in Eritrea per rafforzare i rapporti commerciali, di cooperazione e via dicendo con l'attuale Governo eritreo.
Eppure, la situazione dell'Eritrea è tale che un esodo come quello attuale non si è mai visto nemmeno nei trent'anni di guerra che abbiamo vissuto per l'indipendenza. I diritti umani in quel Paese sono azzerati: non c'è libertà di stampa, non c'è libertà di movimento, non c'è libertà di espressione né di organizzarsi in qualche forma associativa. Non c'è nemmeno libertà religiosa. Diverse comunità religiose vengono perseguitate, dai Testimoni di Geova ai pentecostali; anche la Chiesa ortodossa, che ha la maggioranza dei fedeli nel Paese, è stata più volte attaccata. Il patriarca legittimamente eletto a livello canonico dalla Chiesa ortodossa si trova attualmente agli arresti domiciliari e il Governo lo ha sostituito con un patriarca più vicino a sé. La Chiesa cattolica sta subendo, proprio in questi giorni, diverse pressioni da parte del Governo, che cerca ad esempio di trasformare i seminaristi in militari.


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Quando si afferma che i giovani scappano dal servizio militare, va detto che in quel Paese non è inteso come in Occidente: il servizio militare dura 15-20 anni e non è possibile che a un giovane si possano sottrarre venti anni di vita, proprio nel periodo in cui dovrebbe investire per costruire il domani. Ma questo non è consentito in Eritrea, dunque molti giovani fuggono perché è negata loro la possibilità di studiare, di lavorare liberamente, è negata qualsiasi libertà di esprimere la propria opinione.
I giovani fuggono da questa realtà e arrivano nei Paesi di transito, dove trovano altre difficoltà, come quelle che stavo raccontando. In Sudan vengono sequestrati e venduti da un gruppo di trafficanti a un altro e arrivano nel Sinai per cercare di attraversare il confine. Nelle settimane scorse sono state uccise dai militari egiziani dieci persone che tentavano di attraversare il confine con Israele.
Non riesco a capire perché l'Egitto continui a sparare, sebbene più volte le diverse organizzazioni - UNHCR, Amnesty International e via dicendo - abbiano sollevato il problema. Non c'è orecchio che ascolti a questo riguardo.
La situazione dei diritti umani di queste persone in questi mesi, soprattutto in Sudan ed Egitto, è peggiorata. Per coloro che sono fuggiti dalla Libia e si sono rifugiati in Tunisia vi sono dei piccoli segnali di miglioramento, poiché è stato offerto loro un programmati di reinsediamento in alcuni Paesi europei. Si tratta di un gruppo molto ristretto rispetto al numero complessivo dei profughi che attualmente si trovano in Tunisia, ma almeno questo è un segnale che fa pensare che sia possibile trovare una soluzione.
Vi sono altre situazioni simili. Nello Yemen vi sono circa 2.000 eritrei e 2.000 profughi etiopi che si sono ritrovati nella guerra civile attualmente in atto in quel Paese e rischiano di ritrovarsi nella stessa situazione della Libia, laddove gli africani subsahariani sono stati accusati di essere mercenari del regime e per questo sono stati aggrediti, cacciati via dalle case dove vivevano in affitto, uccisi. Nella sola città di Misurata, sono stati uccisi dalla gente che manifestava contro il regime di Gheddafi 800 africani. Per il semplice fatto che Gheddafi ha usato mercenari africani, si è generalizzato e così qualsiasi africano incontrato per strada o trovato nella casa dove magari viveva da anni è stato aggredito e ucciso.
Questa situazione si sta verificando adesso con le stesse modalità nello Yemen, perché sembra che il regime yemenita abbia usato alcuni gruppi di somali contro i manifestanti. Questo ha fatto sì che la gente che sta manifestando contro il regime ha cominciato ad attaccare i profughi somali, eritrei, etiopi - non riescono a distinguerli poiché a livello fisionomico ci assomigliamo - quindi stiamo cercando di chiedere aiuto per evacuarli o trasferirli in qualche altro Paese che può proteggerli fino a quando si troverà un'altra soluzione. Non potendo tornare nel loro Paese, queste persone non possono neanche essere evacuati verso i loro Paesi di origine.
Questa è la situazione in generale dei diritti umani. In questi ultimi anni, nell'ambito dei diritti umani, abbiamo assistito sempre al ribasso, anche a livello europeo. L'Europa in questi anni ha tentato di chiudersi in se stessa, adottando politiche restrittive verso l'immigrazione, senza fare distinzione tra richiedenti asilo e rifugiati e l'immigrato che cerca soltanto lavoro. Il fatto che si torni, in questi giorni, anche in Italia a parlare di respingimenti ci preoccupa, perché i respingimenti hanno portato tante situazioni di disperazione, anche per quelle persone che sono finite nelle mani dei trafficanti nel Sinai e che ancora oggi stiamo cercando di aiutare.
Pensando ai respingimenti verso la Libia, dato che il Ministero degli esteri italiano aveva annunciato di aver fatto un accordo con il Governo provvisorio di Bengasi, quali garanzie abbiamo da questo nuovo Governo sul piano dei diritti umani per queste persone? Non abbiamo alcuna garanzia, perché non mi risulta che abbiano firmato nessuna convenzione, nessun trattato internazionale sui diritti


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umani, eppure si stringono accordi per rimandarli indietro. A quale prezzo?
Quello a cui noi abbiamo assistito in Libia lo abbiamo denunciato in tanti modi: persone detenute in carcere, torturate, maltrattate, donne che hanno subìto violenze di ogni tipo.
In Egitto vi sono centinaia e centinaia di profughi ancora in carcere; tra l'altro, l'Egitto spesso non permette neanche alle organizzazioni, UNHCR, Amnesty International, OIM, di visitare queste persone, che sono tenute in carcere soltanto per il fatto di essere entrate illegalmente nel territorio egiziano, ma non viene data loro la possibilità di ricevere visite o eventuali soccorsi, né è possibile verificare se tra di essi vi sono richiedenti asilo.
Paesi come Algeria e Tunisia sono stati investiti quasi del ruolo di gendarme dall'Europa per bloccare i profughi, ma nessuno verifica a che prezzo e in che condizioni queste persone vengono bloccate. Quello che abbiamo raccolto nelle testimonianze è una totale violazione dei diritti umani di queste persone.

PRESIDENTE. Approfitto della condizione di presidente per anticipare due domande a padre Zerai, al quale va il mio ringraziamento e credo il vostro per il modo in cui ci ha illuminato su una situazione particolarmente drammatica.
In primo luogo, qual è la data, almeno approssimativamente, della missione che il Governo italiano avrebbe condotto di recente in Eritrea sotto l'auspicio del Ministero degli esteri per il rafforzamento dei rapporti commerciali?
In secondo luogo, che cosa sta succedendo con coloro che sono tuttora nelle mani dei trafficanti in Sinai?

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Per quanto riguarda la data, stando alle informazioni che abbiamo appreso dalla stampa, la settimana scorsa si sarebbe svolta la visita della delegazione di alcuni funzionari del Ministero degli esteri insieme a imprenditori italiani che si sono recati in Eritrea con l'auspicio di rafforzare i rapporti commerciali e di cooperazione con quel Paese. Se si trattasse di un Paese libero e democratico, noi saremmo stati felici, perché si tratta di un investimento per il nostro Paese e di una possibilità di creare occupazione per la nostra popolazione, ma nella situazione attuale questa visita rischia di rafforzare il potere del regime, senza alcun giovamento per la popolazione.
In questi venti anni abbiamo visto che gli investimenti esteri sono stati impiegati utilizzando giovani che svolgono il servizio militare e non sono pagati per il lavoro svolto; quindi, i soldi ricevuti da investitori stranieri sono stati usati più per la parte militare che per uso civile. Noi più volte abbiamo chiesto, anche nell'ambito della cooperazione internazionale, all'Italia - ricordo un incontro avuto all'epoca con il sottosegretario Sentinelli - che anche i fondi o gli aiuti che venivano dati all'Eritrea fossero vincolati a richieste di cambiamento (e relativi controlli) nella direzione del rispetto dei diritti umani e civili della popolazione in Eritrea.
Questo, però, spesso non è stato possibile perché il regime è chiuso su se stesso e chiedeva soltanto aiuti da gestire in maniera autonoma, senza possibilità di verificare a chi vanno a finire gli investimenti o chi se ne giova. Spesso tutto ruotava intorno ai militari, non alla popolazione civile.
Per quanto riguarda quello che sta succedendo nel Sinai, ultimamente c'è un interesse - bisogna dirlo - da parte del Dipartimento di Stato americano, che tramite le sue ambasciate in Sudan, in Egitto e in Israele sta cercando di capire realmente quello che sta succedendo e sta facendo pressioni sul Governo egiziano perché questa situazione nel Sinai venga risolta.
Per fortuna, Israele ha arrestato alcuni complici di questi trafficanti che ricevevano soldi per conto di queste persone. Il Paese dal quale non riusciamo ancora ad avere piena collaborazione è il Sudan. Se il Governo sudanese ha dato qualche segnale, non è quello che si desidera, poiché


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il vero bacino di partenza di questi profughi e della propaganda di questi trafficanti è proprio il Sudan.
Quello che stiamo chiedendo anche alla comunità europea è di fare pressioni - tramite le ambasciate presenti in Sudan e in Egitto - su questi Governi affinché si adoperino per arrestare e bloccare il più possibile questi trafficanti che stanno agendo liberamente nel loro territorio.
Abbiamo ancora circa 400 persone nelle mani dei trafficanti nel Sinai, dislocati in diversi luoghi; prima erano più al nord, mentre ultimamente si sono spostati nel sud del Sinai. Evidentemente c'è stato un maggiore controllo nella parte nord del Sinai, al confine con la striscia di Gaza.
Non abbiamo possibilità di avere contatto con tutti questi ostaggi, poiché i trafficanti sono divisi in diversi gruppi e continuamente vendono gli ostaggi da un gruppo all'altro, in base a quello che riescono a ottenere come guadagno. I trafficanti chiedono il riscatto ai familiari e se questi entro il tempo stabilito non riescono a pagarlo l'ostaggio viene venduto a un altro gruppo e il prezzo aumenta. Partendo da circa 2.700-3.000 dollari, sappiamo di richieste fino a 20.000 dollari.
In questa situazione vi sono anche donne e minori. Di recente mi è stato segnalato che anche dei bambini sono stati rapiti nel Sudan e venduti nel Sinai, e attualmente sono nelle mani di questi trafficanti che pretendono il riscatto e, se non lo ottengono, a loro volta li rivendono anche verso i Paesi arabi, per impiegarli come schiavi nel lavoro o per inserirli in giri di prostituzione.
In passato ci sono stati segnalati anche dei casi di traffico di organi, ma ultimamente questo tipo di segnalazione, per fortuna, è sempre meno frequente. Ci sono state diverse uccisioni perché le persone non hanno pagato il riscatto dovuto e proprio in questi giorni una mia connazionale residente a Milano che è stata in Egitto ha raccolto una serie di testimonianze di persone costrette a mangiare erba, come se fossero delle capre, perché i trafficanti sostengono di non aver soldi per dare loro da mangiare, poiché nessuno ha versato per loro un centesimo.
Questa è la situazione attuale dei migranti ostaggi nelle mani dei trafficanti nel Sinai.

PRESIDENTE. Ringrazio padre Zerai. Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MATTEO MECACCI. Mi associo ai ringraziamenti espressi dal presidente verso padre Zerai per questa testimonianza e anche per il lavoro che da tempo porta avanti per cercare di far conoscere una tragedia che riguarda non solo queste centinaia di migliaia di migranti ma tutto il popolo eritreo, che purtroppo da tanti anni è soggiogato da una dittatura feroce, che però - per come vanno le cose nel mondo - non ha su di sé l'attenzione della comunità internazionale, dell'Unione europea, delle Nazioni Unite, nonostante la situazione sia molto grave.
Mi limiterò a porre un paio di domande. La prima credo possa servirci anche per il nostro dibattito parlamentare sul decreto rimpatri che arriverà in Aula. Lei ha citato una stima dei morti che vi sarebbero stati nel Mediterraneo in questo periodo. Immagino che sia molto difficile avere delle cifre attendibili perché la situazione è molto critica, tuttavia esistono valutazioni accurate (si parla di 2.000 morti), esiste un database, c'è qualche organizzazione che sta seguendo questa vicenda? Potrebbe esserci utile sapere a quali fonti si fa riferimento.
Per quanto riguarda la questione dei rimpatri, dei respingimenti, in particolare verso la Libia, credo che quanto annunciato dal Governo italiano non sia al momento troppo preoccupante. L'annuncio dell'accordo con il Governo provvisorio libico si inseriva in un contesto, purtroppo, di politica nostrana che vedeva l'offensiva della Lega Nord a Pontida, con rivendicazioni addirittura della necessità di blocchi navali della NATO nei confronti dei migranti. Insomma, abbiamo sentito di tutto,


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il Ministro dell'interno ha affermato queste cose e i colleghi comprenderanno che non è con spirito polemico che le riferisco.
L'accordo con il Consiglio provvisorio libico, da quel che si può comprendere, sarebbe analogo a quello con il Governo tunisino, quindi potrebbe riguardare, in teoria, soltanto cittadini libici. E noi sappiamo benissimo che i cittadini libici che intraprendono la strada del mare per fuggire al conflitto in realtà sono qualche decina al massimo. L'accordo, quindi, non riguarderebbe la questione dei rifugiati politici, rispetto alla quale, anche per le pressioni internazionali, la politica dei respingimenti non credo sia tollerabile o accettabile in nessuna ipotesi. Con un conflitto in corso, che si proceda adesso ai respingimenti in mare, come è stato fatto dal 2009 in poi, credo non sia possibile. Comunque, su questo sicuramente vigileremo e staremo attenti.
Circa la situazione in Eritrea può dirci qualcosa in più rispetto al contesto internazionale in cui si colloca il Governo del Paese? Questo dittatore è al governo dall'inizio degli anni Novanta e non ha mai indetto elezioni da allora. L'Unione europea ha previsto sanzioni nei confronti di questo Governo? Il Consiglio di sicurezza, il comitato che si occupa delle sanzioni, ne ha previste? I rapporti commerciali dell'Eritrea con i Paesi europei come sono regolamentati? Soprattutto, anche a livello di rapporti politici bilaterali con l'Italia, può darci qualche informazione in più su come procedono i contatti?
Credo che sarebbe utile conoscere questi elementi. Lo dico anche per chi è giustamente preoccupato delle questioni relative all'immigrazione: se si vuole cercare di frenare l'esodo da Paesi come l'Eritrea bisognerebbe lavorare per garantire che si trovi una soluzione politica e un cambio di governo in loco che consenta a queste persone di restare nel loro Paese.
Non conosco la posizione dell'Italia, ma essere sostenitori di governi di questo tipo, che poi producono questi risultati dei quali ci lamentiamo perché ci arrivano gli immigrati, è tutto fuorché una politica nazionale valida. Le chiedo, dunque, qualche informazione in più sul contesto politico in cui l'Eritrea si muove, anche per capire se si può prendere qualche iniziativa parlamentare rispetto a questo Paese, tenendo conto che buona parte dei rifugiati che arrivano in Italia vengono da quella regione.

FIAMMA NIRENSTEIN. Non voglio far mancare tutti i sensi della mia solidarietà e della mia ammirazione a padre Zerai, anche per la chiarezza dell'esposizione, la cui drammaticità ci colpisce e ci induce a riflettere su una situazione sulla quale non si riflette mai abbastanza, come lei ha molto ben sottolineato.
Anch'io pongo alcune domande. La prima riguarda la questione posta ora dall'onorevole Mecacci: esiste un'opposizione eritrea? E dove si trova, come agisce, quali sono i suoi scopi? Pensa all'istituzione di una democrazia? È accettata e diffusa nell'ambito del suo Paese oppure si tratta soltanto di frange? Questo spiegherebbe anche la mancanza di sensibilità da parte nostra, in quanto non abbiamo qualcuno che ci venga a svegliare, come avviene invece per altri Paesi sottoposti a una dittatura non più feroce di quella che sappiamo bene essere dominante ormai da tanti anni in Eritrea.
Lei ha illuminato molto bene un fatto completamente nuovo. In alcuni Paesi si compie quella che viene chiamata la primavera araba. Dalle sue parole, però, risulta molto chiaramente che nei confronti della questione dei diritti umani e degli antagonismi etnico-religiosi queste rivoluzioni non hanno fatto un bel niente. Se lei mi dice che a Misurata - io non lo sapevo - si dà la caccia agli africani, quali che essi siano e dovunque vivano e da quanto vivano in quel luogo, perché si attribuisce loro la caratteristica di essere (e non lo sono, magari) emissari di Gheddafi, credo che veramente dovreste chiedere all'Italia, che ha rapporti così buoni con questi ribelli, di intervenire.
Anche riguardo all'Egitto, io studio sempre molto accuratamente la questione del confine con Israele. Israele è sempre molto in imbarazzo fra il desiderio di


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accoglienza e la minuscola capienza di un Paese di sei milioni e mezzo di abitanti, che ha una ridotta possibilità di accogliere immigrati. Tuttavia, per quello che ne so, in Israele cercano di fermare questa strage mentre gli egiziani fanno il tiro al piattello quando vedono fuggire queste persone e le ammazzano sulla linea del confine come se niente fosse. Purtroppo, una volta mi è capitato di assistere a una scena di questo genere e non la dimenticherò mai.
Credo che questi Paesi in via di cambiamento siano molto sensibili, più del solito, perché hanno bisogno di aiuto, alle nostre osservazioni, ma potremmo dire al nostro danaro. La scelta di devolvere, in una sorta di Piano Marshall, come ormai è chiamato comunemente, denaro a questi Paesi in via di trasformazione penso che dovrebbe essere condizionata al rispetto dei diritti umani. Continuo a ripetere questa idea, ma penso che debba essere posta anche in relazione alla questione che lei poneva. Vorrei conoscere il suo parere al riguardo.

PRESIDENTE. Do la parola a padre Zerai per la replica.

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Per quanto riguarda le statistiche delle morti, sono in possesso dell'UNHCR. Anche il blog Fortress Europe raccoglie dettagliatamente le morti e le varie situazioni di violazione dei diritti dei profughi, dei migranti, che avvengono soprattutto nel Nord Africa. Nel blog troverete le statistiche relative a quanti sono morti in questi anni nel Mediterraneo e quanti, invece, nel deserto del Sahara.
Per quanto riguarda la situazione in Eritrea, sanzioni sono state erogate a livello delle Nazioni Unite. Il Consiglio di sicurezza ha sanzionato l'Eritrea sia per i suoi rapporti con alcuni movimenti considerati terroristici, in Somalia, sia per la creazione di instabilità nella regione del Corno d'Africa. Tra le sanzioni, si è impedito anche il viaggio degli alti funzionari del Paese, eppure non tutti gli Stati europei hanno recepito queste sanzioni. Di fatto, alcuni funzionari di primo livello vengono indisturbati anche in Italia.

MATTEO MECACCI. Le sanzioni sono ancora in vigore?

MOISSIÉ ZERAI, Presidente dell'agenzia Habeshia. Lo sono e anzi in questi giorni anche l'IGAD, l'organizzazione dei Paesi del Corno d'Africa e dell'Africa orientale, ha chiesto di applicare meglio le sanzioni decise dalle Nazioni Unite sia in merito alle armi sia in merito alla libertà di movimento di ministri e alti funzionari dello Stato eritreo. Sono state chieste anche altre limitazioni, ma di fatto queste sanzioni non vengono applicate da tutti i Paesi. Ad esempio, in questi giorni l'IGAD chiedeva il blocco del commercio dell'oro, perché attualmente l'Eritrea sta facendo ricerche di oro e ha già cominciato a venderlo. Poiché questo non va a beneficio della popolazione, una delle richieste è stata quella di ostacolare o comunque boicottare la vendita dell'oro dall'Eritrea.
Nello stesso momento, l'IGAD ha chiesto come sanzione aggiuntiva anche il blocco delle risorse che l'Eritrea raccoglie da tutti i cittadini eritrei che vivono all'estero. Infatti, ogni eritreo che vive all'estero è obbligato a versare il 2 per cento del suo stipendio all'ambasciata eritrea nel Paese in cui vive. Questo denaro finanzia lo Stato eritreo.
Come dicevo, però, non tutti i Paesi hanno applicato o applicano la sanzione, dunque fa riflettere che in questi giorni una delegazione italiana si rechi in Eritrea per rafforzare i rapporti commerciali e la cooperazione tra i due Paesi. I giornali hanno parlato dell'intenzione dell'Italia di investire sul turismo e sulla pesca. La questione della pesca si trascina ormai quasi da vent'anni; vi sono stati vari accordi, finora mai entrati in vigore sul piano effettivo.
Già nel 2005 anche il fratello dell'attuale Primo Ministro italiano, Paolo Berlusconi, era coinvolto nella costruzione di dimore per villeggianti nelle nostre isole. Anche in quel caso, non so che cosa è andato storto.
Il rapporto con l'Italia è sempre stato ambivalente, si sono alternati periodi di buona amicizia e di cooperazione a momenti


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difficili, come quando è stato espulso l'ambasciatore Bandini, subito dopo l'arresto di quasi metà del Governo eritreo che chiedeva riforme e più democrazia; il suo intervento è stato recepito come ingerenza. Successivamente, mi pare nel 2008, è stato espulso anche il primo consigliere italiano, per aver tentato di difendere una villa patrimonio dell'UNESCO - Villa Melotti di proprietà italiana - che il Governo aveva deciso di demolire. L'intervento del primo consigliere dell'ambasciata italiana è stato percepito come ingerenza negli affari interni, dunque è stato espulso.
Le sanzioni internazionali finora non hanno avuto un grande effetto sull'Eritrea, che rifiuta ogni intervento dall'esterno, soprattutto se viene dalla comunità internazionale, sostenendo che questa è stata inadempiente nei suoi confronti nella questione del confine con l'Etiopia.
Dopo la guerra tra il 1998 e il 2000, la Commissione delle Nazioni unite ha ridisegnato il confine. Nell'accordo firmato ad Algeri, Etiopia ed Eritrea, nel momento del cessate il fuoco, si erano impegnati ad accettare la decisione della Commissione, ma l'Etiopia non l'ha accettata e l'Eritrea si fa forza su questo, sostenendo che la comunità internazionale non è stata capace di risolvere quel problema, quindi adesso non può dire nulla.
Noi chiediamo, infatti, alla comunità internazionale di risolvere quel problema perché sta diventando uno scudo per il regime, che giustifica qualsiasi violazione e qualsiasi inadempienza affermando di essere in guerra - una guerra fredda - con l'Etiopia. Pertanto, qualsiasi ricerca di cambiamento e di democratizzazione è congelata. La Costituzione stessa, che è stata votata con un referendum nel 1997, è ancora nel cassetto del Presidente; non è mai stata firmata e non è mai entrata in vigore.
Mi è stato chiesto se esiste un'opposizione. Rispondo che l'opposizione interna in Eritrea non esiste; all'interno del Paese non c'è possibilità di avere un'opposizione organizzata, quindi tutte le opposizioni di cui si parla vivono all'estero, nei Paesi limitrofi (Sudan ed Etiopia), in Europa, soprattutto in Germania, e negli Stati Uniti.
Anche l'opposizione è frammentata e non è stata in grado di far sentire la sua voce al punto di poter catturare l'attenzione della comunità internazionale come un interlocutore credibile per poter spingere verso un cambiamento.
Purtroppo, questa è la situazione. All'interno dell'Eritrea il controllo è capillare. Neanche un mese fa è capitato che quando il Governo eritreo ha deciso di portar via i sacerdoti eritrei cattolici sotto i trent'anni, in una località la gente è scesa in piazza. Questo non era mai capitato, quindi è stato percepito come un pericolo, al punto che sono stati arrestati tutti quelli che sono scesi in piazza; successivamente la maggioranza è stata liberata, ma sono stati trattenuti quelli che potevano essere considerati i capi di questa «rivolta», che era solo una manifestazione pacifica per chiedere di lasciare in pace i sacerdoti. Tuttora queste persone sono sotto torchio e si stanno facendo pressioni per portare all'accusa che dietro questa manifestazione ci sia la Chiesa. In particolare, vogliono colpire il vescovo di Asmara, che da sempre ha fatto resistenza alla politica dell'attuale regime.
Si sta lavorando, dunque, per colpire la figura del vescovo e in generale la Chiesa cattolica. Attualmente sono state impedite quasi tutte le funzioni sociali che la Chiesa svolgeva, nelle scuole, nelle cliniche. La funzione caritativa della Chiesa sta venendo sempre meno perché il Governo impedisce ai sacerdoti anche di uscire dal Paese; adesso, ad esempio, possono uscire soltanto quelli che hanno più di cinquant'anni, mentre quelli al di sotto dei cinquant'anni non possono lasciare il Paese. Avevamo giovani preti che venivano a Roma a studiare per la specializzazione o il dottorato, ma da anni non possono uscire. Proprio in questi giorni hanno innalzato il limite di età a cinquant'anni. Questa decisione serve per indebolire la Chiesa cattolica, anche sul piano intellettuale. Contemporaneamente, non possono venire in Eritrea a lavorare preti o suore


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straniere, poiché il visto concesso, anche per le visite, è limitato alla città di Asmara.
Queste limitazioni servono per impedire di conoscere qual è la realtà del Paese.

PRESIDENTE. Grazie, padre Zerai. Quello che è stato detto stamattina completa quello che avevamo già ascoltato da lei e le notizie incerte e anche erratiche che spesso ci giungono, ma sono troppo poche per poter davvero sapere qual è la realtà.
È di questi giorni la notizia che il nostro collega onorevole Mecacci è diventato presidente della Commissione diritti umani dell'Assemblea parlamentare dell'OSCE, quindi spero che questo possa determinare un allargamento di orizzonti anche per il nostro lavoro. Grazie a tutti.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 10,30.

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