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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
6.
Martedì 24 marzo 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Pianetta Enrico, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUGLI OBIETTIVI DI SVILUPPO DEL MILLENNIO DELLE NAZIONI UNITE

Audizione del direttore generale per la cooperazione allo sviluppo della Commissione europea, Stefano Manservisi:

Pianetta Enrico, Presidente ... 3 10 11 15 19
Barbi Mario (PD) ... 12
Boniver Margherita (PdL) ... 11
Corsini Paolo (PD) ... 13
D'Amico Claudio (LNP) ... 13
Manservisi Stefano, Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo della Commissione europea ... 3 15
Mecacci Matteo (PD) ... 14
Narducci Franco (PD) ... 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI
Comitato permanente sugli obiettivi di sviluppo del millennio

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 24 marzo 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DEL COMITATO ENRICO PIANETTA

La seduta comincia alle 13,50.

(Il Comitato approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del direttore generale per la cooperazione allo sviluppo della Commissione europea, Stefano Manservisi.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sugli obiettivi di sviluppo del Millennio delle Nazioni Unite, l'audizione del direttore generale per la cooperazione allo sviluppo della Commissione europea, Stefano Manservisi.
Mi scuso con il nostro ospite per il ritardo, dovuto al protrarsi dei lavori dell'Aula.
Mentre svolgevamo alcune considerazioni, ho avuto modo di illustrare al dottor Manservisi gli obiettivi e le attività del nostro Comitato nell'ambito della Commissione affari esteri. Questa audizione continua il lavoro svolto nelle audizioni tenute da questo Comitato nei mesi passati. Con il suo apporto, intendiamo puntualizzare l'attività della Direzione generale per lo sviluppo nell'ambito della Commissione europea che, come sappiamo, è incaricata di definire e sviluppare le politiche dell'Unione europea che sono alla base della cooperazione con i Paesi in via di sviluppo.
Ringraziando il dottor Manservisi per aver accettato l'invito e ricordandogli - ci siamo già incontrati in Senato - che alla sua illustrazione seguiranno le domande dei colleghi, gli cedo la parola.

STEFANO MANSERVISI, Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo della Commissione europea. Grazie per l'invito a partecipare a questa audizione. Spero che il mio intervento possa essere utile a fornire qualche elemento sul lavoro svolto dalla Commissione europea e, più in generale, su quello che l'Unione europea compie nell'ambito della politica di sviluppo.
Se permettete, intenderei procedere per flash, in quanto occorre essere brevi. In primo luogo, fornirò una rapida informazione circa l'attuale politica di sviluppo e i suoi pilastri. Illustrerò, poi, i momenti forti in cui questa politica si è articolata nel corso del 2008; verificheremo a che punto siamo nella marcia verso gli obiettivi del Millennio e, infine, vedremo in che modo la crisi economica sta influenzando questa marcia e questa politica.
Riguardo alla politica di sviluppo dell'Unione europea, ricordo innanzitutto un fatto ben noto, ovvero che questa politica è iscritta nel Trattato. Il Trattato di Lisbona non cambierà sostanzialmente quanto è già esistente nel Trattato di Nizza. L'obiettivo è quello di lottare contro la povertà (e alla fine eliminarla) e inserire i Paesi in via di sviluppo nell'economia mondiale.
È una politica a competenza condivisa, che viene svolta sia dalla Commissione -


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per quello che le è conferito dai trattati - sia dai ventisette Stati membri in maniera autonoma. In questo contesto, l'Unione europea è attualmente ancora il più grande donatore mondiale: in quanto Unione, essa rappresenta, infatti, il 55-60 per cento dell'aiuto pubblico allo sviluppo.
Su tale base, dal 2005, la Direzione generale per la cooperazione allo sviluppo, sotto la guida del commissario Louis Michel e del Presidente Barroso, ha cercato di costruire una forma di consolidamento della dimensione europea della politica di sviluppo. È stato così approvato il «Consenso europeo sullo sviluppo», un documento che, per la prima volta da cinquant'anni, definisce obiettivi, valori e strumenti della politica europea di sviluppo come se fosse una politica comune, federando insieme l'attività di tutti gli Stati membri dell'Unione europea. Per la prima volta, dunque, tale strumento ha creato un quadro politico e di azione comune.
Inoltre, il documento accompagna questo quadro con impegni di ordine finanziario, costruiti sugli impegni presi a Monterrey, aggiungendo però ancora una volta una dimensione che sintetizza l'Unione europea. Gli obiettivi, come Unione, sono quello di raggiungere lo 0,56 per cento del prodotto interno lordo nel 2010 e lo 0,7 per cento nel 2015, tenendo presente che ci sono velocità diverse. In particolare, ai dodici nuovi Stati membri non si può certo chiedere lo stesso impegno; i primi della classe sono già arrivati all'1 per cento, mentre gli ultimi della classe arrancano. Ciò che importa, però, è che, così come si è costruito il Consenso come documento quadro unico, si sia costruito anche un percorso dell'Unione in quanto tale.
In aggiunta a ciò, si sono presi degli impegni per ridurre la frammentazione delle politiche di sviluppo, evitando così che troppi donatori intervengano in realtà diverse e con strumenti diversi e tutti a massa critica estremamente limitata.
La Commissione ha proposto che anche nell'azione l'Unione europea sia il modello da seguire per combattere questa frammentazione, attraverso, ad esempio, il codice di condotta sulla divisione del lavoro e forme di programmazione congiunta che consentano di coordinarsi a livello europeo. Alla base di ciò è la convinzione che, se il donatore più grande - vale a dire quello che fornisce il 60 per cento dell'aiuto - riesce ad agire e a parlare come fosse uno solo, ciò sarebbe un grosso contributo alla semplificazione dell'architettura globale dell'aiuto allo sviluppo. In questo modo si è impostata l'agenda di Parigi «sull'efficacia dell'aiuto», così come viene comunemente definita.
La Commissione si è profilata, quindi, non solo come un attore di sviluppo in quanto tale, ma anche come federatore degli Stati membri. Questo ruolo è stato particolarmente apprezzato nella peer review che l'OCSE ha elaborato nel 2006 e questa è stata anche una sorpresa, dal momento che l'OCSE è, in un certo senso, il tempio dell'intergovernamentalismo. Nel riconoscerne il ruolo federatore, l'OCSE ha colto l'importanza della Commissione per l'architettura dell'aiuto pubblico allo sviluppo.
Vorrei adesso ricordare qualche cifra. Quando si dice che l'aiuto fornito dall'Unione è tra il 55 e il 60 per cento, ciò vuol dire che l'Unione europea spende in media tra i 45 e i 50 miliardi di euro all'anno in aiuto allo sviluppo; di questa somma, circa il 20 per cento è gestito dalla Commissione. Attualmente le risorse che la Commissione gestisce nella sua azione esterna - costituita per il 95 per cento dalla cooperazione allo sviluppo - consistono in 22,7 miliardi di euro, relativi al periodo 2008-2013 per il FES (Fondo europeo per lo sviluppo), che si occupa dei cosiddetti Paesi ACP (Africa, Caraibi e Pacifico), e in 56 miliardi di euro, relativi al periodo 2007-2013, sul bilancio, per interventi in tutti gli altri Paesi e per intraprendere azioni tematiche in materia di educazione, di ambiente, di salute e altro.
Gli strumenti attraverso i quali si prendono le decisioni sono stati semplificati. Ora abbiamo un numero ristretto di basi giuridiche: in particolare, abbiamo il regolamento del FED, il dispositivo per la


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cooperazione allo sviluppo - che costituisce la base per il bilancio - lo strumento di preadesione, quello per la politica di vicinato e alcuni altri minori, come l'aiuto umanitario. Questo è il quadro all'interno del quale ci si trova oggi.
Nel 2008, cioè a metà del percorso di realizzazione degli obiettivi del Millennio stabiliti nel 2000 e da raggiungersi entro il 2015, l'Unione europea si è presentata come uno degli attori principali. In occasione di tale momento di valutazione, vorrei attirare l'attenzione soprattutto su tre avvenimenti importanti, verificatisi nella seconda metà del 2008. Essi sono stati, infatti, tre momenti di forte dibattito ma anche di forte azione da parte dell'Unione europea.
Il primo è stato quello della Conferenza di Accra, tenutasi all'inizio di settembre. In quell'occasione si doveva fare il punto della situazione e preparare la seconda fase dell'agenda dell'efficacia dell'aiuto, vale a dire ridurre la frammentazione, aumentare il coordinamento, adattarsi meglio alle politiche stabilite dai Paesi.
Il secondo avvenimento importante è stato, in margine ai lavori dell'Assemblea generale dell'ONU, un incontro ad alto livello, teso a verificare lo stato di applicazione degli obiettivi del Millennio e, soprattutto, a cercare di accelerare il percorso di implementazione della global partnership per i medesimi.
Il terzo avvenimento è la Conferenza di Doha sul finanziamento per lo sviluppo, tenutasi a dicembre scorso. Essa doveva, in qualche modo, concludere questo trittico per identificare i mezzi finanziari con i quali accelerare il percorso e spendere meglio i fondi.
Quella di Accra è stata una conferenza particolarmente importante, perché ha fornito un'agenda definita dall'azione unita dell'Unione europea. Erano presenti dodici ministri che hanno lavorato, come Unione europea, per fare in modo che la riduzione della frammentazione e dei costi di transazione che ne derivano fosse il più possibile generalizzata nell'ambito della comunità dei donatori, ivi compresi i «donatori emergenti»; mi riferisco a Paesi come la Cina, l'India e gli altri nuovi soggetti che sono già emersi dal punto di vista economico e che, anche se a loro modo, emergono ora anche come attori di una politica di sviluppo.
Quanto agli obiettivi perseguiti, oltre a ridurre i costi di transazione e generalizzare al massimo il codice di condotta sulla divisione del lavoro, si stabiliva di aumentare la prevedibilità dell'aiuto. Questo è un fattore fondamentale per permettere ad un Paese partner di stabilire le scelte delle politiche settoriali nel corso degli anni, e per noi, come Commissione, si traduce in un aumento sostanziale dell'aiuto al bilancio. Questo è lo strumento che utilizziamo di più; nell'ambito del Fondo europeo di sviluppo, per i Paesi ACP, siamo arrivati al 48 per cento dell'aiuto programmabile che viene speso attraverso lo strumento dell'aiuto al bilancio.
Il terzo obiettivo era quello di allineare sempre più le pratiche dei donatori alle procedure e al sistema del Paese nel quale si lavora, in modo che l'aiuto faccia crescere le istituzioni e la loro capacità di gestione, senza dover esportare assistenza tecnica, procedure e burocrazia. L'ultimo obiettivo era quello di sviluppare un concetto di condizionalità per risultati e non ex ante: fare in modo, cioè, di accompagnare un processo e di fissare degli obiettivi, piuttosto che fissare delle condizioni di entrata e di eleggibilità.
Fornisco qualche esempio per mostrare l'ordine di grandezza dei problemi. Per sessantatré Paesi al mondo - quelli, cioè, maggiormente oggetto dell'attenzione dei donatori - ci sono più di venti donatori per Paese, con altrettante strategie Paese separate, che producono altrettante missioni e altrettanti rapporti. Un esempio tipico è quello della Tanzania che, a metà degli anni Duemila, ha visto un picco di produzione di 2.400 rapporti - per soddisfare, evidentemente, le esigenze di controllo di ogni donatore - e 540 missioni. Si capisce, quindi, che a questo ritmo, l'amministrazione della Tanzania non lavora per amministrare il Paese, ma per amministrare i donatori. Ci sono, inoltre, tredici agenzie di acquisto di medicinali,


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ognuna con le sue regole. Ho citato questo esempio solo per farvi comprendere cosa significhi la frammentazione e quali costi generi.
Vi fornisco alcune anticipazioni di uno studio che stiamo portando avanti sui costi della «non Europa» nello sviluppo, cioè della frammentazione a livello dell'Unione europea. I primi risultati mostrano che ci sono costi di transazione pari a circa 8 miliardi all'anno. Si tratta di soldi che, anziché essere spesi per l'obiettivo, rimangono nel mezzo e sono cifre abbastanza impressionanti.
Ad Accra, quindi, l'Unione europea ha voluto spingere per semplificare l'architettura e fare in modo che questa «industria» guardi meno a sé stessa e di più ai risultati.
Il secondo evento, all'Assemblea generale di New York, ha visto, come al solito, il confronto tra la dinamica dell'Assemblea generale, quindi del gruppo dei 192 Paesi, che tende a spingere per avere più fondi, e il gruppo dei Paesi donatori, che tende ad aumentare il livello di responsabilità dei partner. Il risultato, però, grazie anche alla grande abilità del Segretario generale Ban Ki-moon, è stato un accordo corale per accelerare i ritmi e per aumentare le risorse. Ci sono stati pledge importanti, di diverse decine di miliardi di dollari; staremo a vedere se si tradurranno in realtà.
L'incontro ad alto livello di New York è stato, però, soprattutto un momento in cui la dinamica degli MDG (obiettivi del Millennio) è stata vista come una sfida che interessa tutti, tanto il nord quanto il sud del mondo, quindi qualcosa che non riguarda soltanto i poveri, ma rappresenta effettivamente un obiettivo importante nell'agenda internazionale.
Il terzo appuntamento è stato quello di Doha, in Qatar, dove si doveva parlare di fondi, cioè di quanto denaro è disponibile per poter accelerare questa marcia.
La discussione è stata molto difficile, anche perché nel frattempo la crisi economica era esplosa, perlomeno nel suo aspetto finanziario. Le tensioni tra il sud e il nord del mondo sono state particolarmente forti. Si è riusciti, tuttavia, ad affermare un concetto chiave, che è quello della necessità di rispettare gli impegni assunti di aiuto pubblico allo sviluppo; in particolare, gli europei sono stati ancora una volta all'avanguardia da questo punto di vista.
Si è, dunque, sottolineata la necessità di mantenere gli impegni, ma vi è anche stato un forte appello, da parte dei Paesi partner, alla responsabilità affinché si aumenti il livello di good governance, cioè di condizioni in cui questo aiuto è speso, in termini sia di efficacia economica che di utilizzo politico. Si è trattato, quindi, di una sorta di patto tra aiuto e good governance. In questo discorso rientra anche la questione della fiscalità e, quindi, della lotta ai paradisi fiscali.
Inoltre, si è svolto, in quell'occasione, il primo dibattito globale sulla nuova architettura di governo della globalizzazione. Si è affermata la necessità di uscire da un club ristretto, come è il G8, e cercare di aprire uno scenario più ampio. La tipologia di questo nuovo scenario è attualmente oggetto di discussione, ma nel frattempo, sulla base di questi tre impegni, si sono potuti anche valutare gli impatti che la crisi oggi sta avendo sul percorso per lo sviluppo.
Sui Paesi più vulnerabili l'impatto della crisi si avverte non a livello finanziario, ma sull'economia reale e su quei pochi miglioramenti che si erano ottenuti.
A che punto siamo, oggi, nella marcia verso gli obiettivi del Millennio? La prima osservazione da fare, in proposito, è che l'obiettivo di ridurre del 50 per cento la povertà entro il 2015 è, tutto sommato, abbastanza on track: la marcia continua. Più di 150 milioni di persone sono uscite dalla povertà, dove con povertà si intende - per dirlo con le ultime stime della Banca mondiale - vivere con 1,25 dollari al giorno. Oltre ai 150 milioni di persone uscite dalla povertà, il trend è positivo. Sono aumentati di due milioni i bambini che sopravvivono al momento della nascita (c'è, quindi, una riduzione della mortalità), di 30 milioni i bambini e le bambine (è estremamente importante sottolinearlo)


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che hanno accesso alla scuola primaria e di 30-40 milioni le persone che nel mondo hanno accesso all'acqua potabile.
Alcuni dati sono, dunque, positivi e dimostrano che non è impossibile sconfiggere la povertà. Se si guarda più da vicino, però, si vede che queste cifre sono sostanzialmente dovute a miglioramenti avvenuti in pochi Paesi, principalmente nei Paesi dell'Asia estrema o del sud-est asiatico (Cina, India, Vietnam, Indonesia).
Se c'è un miglioramento sul piano quantitativo in termini di persone, in termini di Paesi la situazione, soprattutto nell'Africa sub-sahariana, rimane invece drammaticamente fuori linea, completamente off track. Non è un caso, infatti, che si insista sulla necessità di concentrarsi sull'Africa: è lì che lo zoccolo duro della povertà e dell'impossibilità di accesso ai servizi di base si incancrenisce sempre di più.
In questo contesto, evidentemente, la crisi economica si va ad aggiungere alle crisi che i Paesi più vulnerabili avevano già sperimentato: la crisi dell'aumento dei prezzi petroliferi (in un primo momento), la crisi dell'aumento dei prezzi dei prodotti alimentari (in un secondo momento) e la crisi derivata dagli effetti del cambiamento climatico, che già oggi colpisce e che colpirà ancora più, dalla produzione agricola, alle condizioni di vita e all'accesso all'acqua. Attualmente, quindi, la crisi economica si configura come il colpo finale che rischia di spazzare via una buona parte dei processi in atto e dei progressi che sono stati fatti in questi anni.
Non tutti i Paesi in via di sviluppo sono nella stessa situazione: ci sono, infatti, quelli che, pur essendo colpiti, hanno accesso alle nuove forme di liquidità create sul piano internazionale (mi riferisco, in particolare, alla riforma del Fondo monetario internazionale e della Banca mondiale), ma ci sono anche quelli che si trovano ai margini anche del sistema creditizio mondiale riformato.
Gli indicatori per analizzare il tasso di vulnerabilità di questi Paesi sono estremamente semplici: uno, ad esempio, consiste nell'analisi della caduta degli investimenti diretti. La Banca mondiale ha stimato che da un volume di investimenti diretti che, nel 2007, era pari a più di mille miliardi di dollari, si scenderà a seicento miliardi nel 2009. Un altro indicatore è costituito dall'osservazione della crescita, che è rallentata. Tenendo presente, infatti, anche la crescita dei Paesi emergenti, si va dal tasso dell'8,3 per cento del 2007 ad una stima ottimistica - per quel che valgono le stime in questi periodi - di una crescita media del 3,3 per cento nel 2009. Se si considera che, nei Paesi più poveri, ogni punto di crescita in meno equivale ad azzerare tutto l'aiuto pubblico allo sviluppo da parte dei Paesi sviluppati, potete immaginare qual è l'impatto devastante della crisi.
Oltre a questi due fattori, bisogna considerare l'effetto della diminuzione delle rimesse degli emigranti, che in tanti Paesi costituiscono una fonte estremamente importante di reddito nazionale. In un Paese come Haiti, ad esempio, le rimesse degli emigrati rappresentano più del 50 per cento del PIL.
Ricordo, inoltre, che la situazione incerta sul piano internazionale ha reso i prezzi delle materie prime estremamente instabili e volatili, per cui anche la possibilità di contare sugli introiti da esportazione di prodotti, che prima avevano un certo valore, oggi è ridimensionata, poiché tali introiti sono soggetti ad oscillazioni.
Infine, si deve menzionare la attesa, o temuta, diminuzione dell'aiuto pubblico allo sviluppo. I bilanci dei Paesi sviluppati sono, infatti, a loro volta sottoposti a uno stress considerevole, vista la crisi e quello che succede in tutti i Paesi - basta pensare all'Europa - per cui molti si attendono una diminuzione dell'aiuto pubblico allo sviluppo, soprattutto nel 2009 e nel 2010.
Questa, a grandi linee, è la situazione in cui la crisi sta lasciando i Paesi in via di sviluppo. Di fronte a tutto ciò, è importante la risposta che ha dato il vertice G20 di Washington. Sono emersi, infatti, due elementi importanti. In primo luogo, è stato sottolineato che è necessario continuare


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a investire nello sviluppo e nei Paesi in via di sviluppo: questo è parte della soluzione della crisi. Il secondo messaggio è stato quello relativo alla necessità di riformare l'architettura internazionale di governance dell'economia globale e - perché no? - anche della politica globale.
A Londra, il 2 aprile, ci sarà il seguito di questo G20 e vedremo quali potranno essere i passi in avanti. Ovviamente, sulla global governance economica qualche decisione è già stata assunta: in materia di Fondo monetario, ad esempio, e in riferimento all'aggiunta di una rappresentanza dell'Africa nel board della Banca mondiale. Altre riforme sono ancora in corso. Sul piano politico, naturalmente, la questione è molto più complessa, in quanto rientra nella riforma del sistema delle Nazioni Unite e del Consiglio di sicurezza. Il segnale lanciato, però, è stato forte.
Come Commissione europea, stiamo lavorando ad una proposta che sarà adottata dal Collegio dei commissari l'8 aprile e, successivamente, dal Consiglio affari esteri il 18 maggio. La proposta consiste, grosso modo, nel suggerire che, così come abbiamo fatto fino ad oggi per noi, ricorrendo a quello che si chiama l'European Recovery Plan, adottato dal Consiglio lo scorso anno, occorre che l'Unione europea fornisca una risposta anche nei confronti dei Paesi in via di sviluppo. Insomma, bisogna mostrare che la solidarietà non è rivolta soltanto al nostro interno; siamo una potenza mondiale, anche se un soft power, e bisogna fare in modo che la risposta sia globale.
Al fine di agire insieme, dunque, l'agenda dell'efficacia dell'aiuto è particolarmente importante; riduciamo, così, ulteriormente la frammentazione e utilizziamo al meglio i fondi, anche se saranno inferiori in quantità. Occorre, insomma, lavorare insieme.
Infine, è necessario che ogni Stato membro mantenga gli impegni di aiuto pubblico allo sviluppo e possa, anzi, accelerare il percorso verso lo 0,56 per cento nel 2010 e lo 0,7 per cento nel 2015.
Nel nostro progetto, però, affermiamo anche la necessità di trovare, accanto al classico aiuto pubblico allo sviluppo, altre forme di sostegno; non ci si può limitare, infatti, soltanto all'aiuto pubblico, tanto più se esiste il rischio che esso diminuisca. Bisogna essere in grado di mobilitare, con un approccio integrato od olistico, che dir si voglia, altre forme di sostegno, come l'investimento privato, i trasferimenti di tecnologia e altre forme ancora che possano esportare la nostra conoscenza al servizio dei Paesi in via di sviluppo, per fare sì che questi non si distacchino dall'economia globale.
Questa azione deve essere vista come parte del pacchetto di stimolo che facciamo per noi stessi. Non possiamo pretendere, infatti, di avere un'economia aperta e poi considerare che gli investimenti di miliardi che facciamo finiscano entro le frontiere del mercato interno. Essi devono essere visti in un'ottica di un'economia aperta.
Ancora, visti i profili di vulnerabilità, occorre accelerare, nel 2009 e nel 2010, gli investimenti sui social safety net, vale a dire gli investimenti in educazione e in salute, in altre parole nel povero welfare presente nei Paesi in via di sviluppo. Ciò è necessario per evitare quello che fatalmente succederebbe in caso contrario, ovvero che tutti coloro che non sono aiutati ricadano nella povertà più assoluta e si vanifichino, di conseguenza, i pochi progressi compiuti.
Il secondo pilastro su cui occorre accelerare immediatamente è investire in attività cosiddette «anticicliche», che creano attività economiche ed occupazione; occorre, quindi, investire nelle infrastrutture. Penso, ad esempio, alle grandi reti transafricane. In accordo con gli africani, infatti, sappiamo esattamente dove sono i missing link, cioè quelle parti che non permettono un'attività economica a livello continentale.
Occorre aiutare il private business, soprattutto attraverso forme di garanzia o di trade financing, di cui si sente particolarmente la mancanza. Occorre investire in agricoltura; ricordo, a questo proposito, che siamo riusciti a mobilizzare un miliardo di euro supplementari nella food facility,


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che fu approvata all'inizio dell'anno, per progetti eseguiti dalle organizzazioni internazionali e, in parte, dalle ONG e finalizzati essenzialmente a fornire input agricoli, come sementi, capacità e fertilizzanti. Bisogna fare in modo che la quantità di output agricolo al mondo possa crescere per rimanere in una situazione accettabile.
Il terzo ambito in cui bisogna investire è quello degli effetti del cambiamento climatico. Ovviamente, gli investimenti forti e la definizione dei mezzi si stabiliranno successivamente. Tuttavia, è importante che i cosiddetti «piani di adattamento», ossia la definizione delle priorità e delle riforme necessarie ad affrontare gli effetti del cambiamento climatico, possano essere finanziati fin d'ora.
Abbiamo già una ventina di Paesi vulnerabili - in maggioranza si tratta di isole, che stanno cominciando a scomparire, nel Pacifico, nei Caraibi e in Africa - in cui stiamo realizzando gli adaptation plan che devono servire a definire qual è la vera scala dei bisogni. Sulla stampa, infatti, si leggono cifre di ogni tipo. È, dunque, necessario cominciare a preparare il terreno, per fare in modo che quando e se (ma spero solo quando) i fondi aggiuntivi per i climate change saranno effettivamente disponibili, non si vada a creare un'ulteriore catastrofe con un'iniezione di liquidità generica, ma questa azione possa appoggiarsi su politiche nazionali già definite.
Un'altra idea che si promuove attraverso questo piano è quella di aumentare ulteriormente la prevedibilità dell'aiuto e, quindi, se è possibile, aumentare la dose di sostegno al bilancio. Di ciò ci occuperemo noi, come vi dicevo, cercando di arrivare ad un 55 per cento, attraverso un più forte dialogo politico sugli obiettivi. Non intendiamo, infatti, fare regali, ma permettere un lavoro migliore.
Infine, si tratta di contribuire a continuare il processo che porterà un giorno alla riforma dell'architettura globale sia delle istituzioni finanziarie ed economiche, che della governance politica, rendendo quest'ultima più ampia, con l'inclusione dei Paesi poveri. Da questo punto di vista, il Regno Unito ha risposto in maniera positiva, invitando, ad esempio, l'Unione africana al G20 di Londra. Gli africani avranno, quindi, due rappresentanti, così come li avranno altri gruppi regionali, che altrimenti sarebbero esclusi.
L'ultimo punto sul quale vorrei attirare la vostra attenzione in questa mia breve e schematica presentazione riguarda la posizione occupata dall'Italia in questo contesto. L'8 aprile, infatti, dovremmo approvare il cosiddetto «pacchetto di Monterrey», cioè questa comunicazione, e la Commissione deve predisporre il rapporto sullo stato di implementazione e di rispetto degli impegni assunti, in modo trasparente.
Le cifre saranno rese note dall'OCSE il 1o aprile, mentre quelle della Commissione l'8 aprile. Non voglio anticipare nulla, ma il bilancio per l'Italia, naturalmente, ci preoccupa. Le cifre, infatti, non sono ancora definitive ma non sembrano lontane dall'esserlo: la spesa italiana, nel 2008, è stata pari allo 0,19 per cento, quindi ben lontana dallo 0,56 o 0,51 per cento che dovrebbe essere l'obiettivo del 2010. Non solo, ma l'Italia si situa anche ai livelli più bassi fra tutti i quindici Stati membri ed è quasi raggiunta da Paesi nuovi come la Slovenia, che è già allo 0,14 per cento. Lo stato attuale è, dunque, preoccupante ma, a dire il vero, esso è ancor più preoccupante in vista di quella che sembra essere la cifra del 2009, destinata a diminuire ulteriormente e a situarsi, se il trend è mantenuto e le cifre comunicate dalle autorità italiane rimangono le stesse, a livelli di poco superiori allo 0,10 per cento.
Questo dato pubblico in calo preoccupa molto e non soltanto per lo standing di un Paese come l'Italia, ma perché, naturalmente, ciò comincia a creare delle tensioni all'interno dell'Unione europea. Ci sono Paesi, infatti, che tirano la carretta, quelli del club dell'1 per cento, che si assumono l'onere di far sì che l'Unione europea sia il donatore più grande, mentre ci sono Paesi, come l'Italia, che portano la media verso il basso e non danno certo un


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grande esempio a quanti, come i nuovi Paesi, pur essendo in difficoltà, devono tentare di fare il loro dovere.
A fronte di questa caduta del bilancio, però, noi notiamo anche un fenomeno inverso per ciò che riguarda lo slancio del volontariato e la crescita di iniziative di base e delle autorità locali.
L'anno scorso avevamo fatto l'analisi di quanto pesano le autorità locali nella cooperazione allo sviluppo e avevamo visto che, a livello europeo, circa il 5 per cento dell'aiuto pubblico è canalizzato o creato attraverso le autorità locali: ciò vuol dire numerosi miliardi di euro. Per l'Italia non ci sono cifre scientificamente definite, tuttavia, sappiamo che anche in Italia gli enti locali giocano un ruolo importante. Esiste, quindi, una contraddizione tra una società che dal basso spinge e un bilancio pubblico che, invece, non risponde. È un anno particolare, per l'Italia che, con la Presidenza del G8, è più esposta e spero che ciò possa servire a darle quella spinta che finora sembra esserle mancata.
Prima di concludere, intendo sottolineare un ultimo dato. Se noto una differenza tra l'Italia e alcuni altri grandi Paesi in materia di politiche di sviluppo - e non intendo con ciò soltanto la cooperazione o il singolo progetto - essa consiste nell'assenza di un dibattito politico forte. Questo argomento non è oggetto di dibattito tra le forze politiche o, se lo è, lo è solo per gli esperti. Io ricevo regolarmente delle missioni parlamentari, bipartisan e non, che tendono a farsi un'idea, dal punto di vista dei partiti politici e dei grandi soggetti politici, dei possibili orientamenti da seguire e di come ci si possa muovere. Ho l'impressione, però, che a parte queste lodevoli iniziative, come è avvenuto anche al Senato, si tratti di un fenomeno abbastanza ristretto.
Credo che se questo tema divenisse oggetto di dibattito per le elezioni europee ciò potrebbe essere utile. In fondo, occorre la partecipazione di tutti per venire fuori da questa situazione di stallo che, ripeto, è preoccupante, ma spero che, anche grazie al vostro lavoro, possa cambiare.
Vi ringrazio molto per questa opportunità.

PRESIDENTE. È stata indubbiamente una relazione molto ampia, che ha toccato i temi alla base degli obiettivi del Millennio e della politica della cooperazione e dello sviluppo.
La ringrazio, dunque, per questa sua illustrazione e anche per le ultime considerazioni che lei ha voluto evidenziare. Proprio partendo dalle considerazioni sulla mancanza di un dibattito politico, ritengo di poter dire che uno degli obiettivi che questo nostro Comitato si pone sia proprio quello di uscire dal Palazzo per realizzare una capacità di discussione, oltre che di informazione, nell'ambito della pubblica opinione.
Naturalmente, è importante anche il tema delle preoccupazioni che la posizione dell'Italia indubbiamente ingenera in ambito di Unione europea: ne abbiamo dibattuto anche in occasione della discussione della legge finanziaria e questa Commissione, unanimemente, ha evidenziato l'importanza di riportare i fondi a un livello più adeguato.
Do la parola ai colleghi che intendono intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

FRANCO NARDUCCI. Ringrazio il dottor Manservisi per la sua ampia esposizione, molto puntuale, dettagliata e precisa. Lo ringrazio anche per le ultime informazioni forniteci: come Commissione abbiamo spesso messo sotto la lente di ingrandimento temi inerenti agli obiettivi del Millennio. In questo momento l'Italia è, purtroppo, uno dei contributori di livello più basso. In termini percentuali, siamo stati superati addirittura dalla Finlandia, che è un Paese di appena tre-quattro milioni di abitanti; la stessa Spagna contribuisce in misura nettamente superiore all'Italia.
Non per spirito di polemica, dunque, ma con un appello rivolto a tutti, ribadisco che è necessario fare il possibile affinché l'Italia torni ad un livello di impegno finanziario quantomeno accettabile, considerando


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che la cooperazione è una delle armi a disposizione del nostro sistema Paese.
Dopo questa premessa, le vorrei rivolgere una domanda molto precisa. Come Commissione affari esteri, siamo stati di recente in missione nell'America centrale dove, in questo momento, sono impegnate alcune aziende italiane: l'ENI, ad esempio, sta operando un po' ovunque (in Guatemala e in Nicaragua) e Impregilo è impegnata nella corsa per aggiudicarsi l'allargamento del canale di Panama.
In alcuni di questi Paesi, in particolare nel Nicaragua, sono emersi degli aspetti che vorrei sottoporre alla sua attenzione. Innanzitutto, il Ministero degli affari esteri ha dichiarato il Nicaragua non più prioritario come Paese destinatario di aiuti, ma credo che questo sia un errore. In quel Paese, abbiamo investito e costruito molto, abbiamo una presenza forte e rapporti commerciali veramente intensi.
Oltre a questa decisione contenuta nel documento di programmazione 2009-2013 del Ministero degli affari esteri, vorrei sollevare un'altra questione, che credo dipenda proprio dalla sua Direzione. Mi riferisco al contributo dell'Unione europea di 250 milioni di euro - se non sbaglio - per la cooperazione allo sviluppo, sospeso quando ci sono state le elezioni, poiché la commissione inviata dall'Unione europea in Nicaragua non era stata messa nelle condizioni di poter controllare o valutare l'andamento.
Sta di fatto, però, che il Nicaragua è uno dei Paesi più poveri al mondo, certamente uno dei più poveri dell'area, ma ha tuttavia delle grandi potenzialità da un punto di vista energetico - di qui il piano di cooperazione in cui è impegnata l'ENI - e potrebbe diventare anche un'area strategica estremamente importante per il flusso delle merci verso l'Europa.
Colgo l'opportunità della sua presenza, oggi, per cercare di capire cosa sta facendo l'Europa e se ha intenzione di sbloccare questo fondo, anche al fine di garantire quella parte di popolazione che non si era riconosciuta nella rielezione di Ortega. Sappiamo tutti che nel Paese c'è un Governo abbastanza bipartisan; il vicepresidente, infatti, aveva fatto la guerra contro Ortega, nei contras.
Credo che la posizione del Nicaragua sia strategica. Inoltre, si tenga conto anche dell'impegno enorme che l'Italia, da un punto di vista della cooperazione allo sviluppo, sta realizzando in Guatemala. Nel Nicaragua, quantomeno, non c'è criminalità, o almeno non è così dura come in Guatemala. Il Paese, pertanto, potrebbe diventare un punto di riferimento per tutti i nostri cooperanti che sono impegnati duramente.
Spero che possa darmi qualche risposta chiara al riguardo.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola all'onorevole Boniver, ricordo che l'Aula riprende i lavori alle ore 15. Invito tutti a essere sintetici, così da consentire al dottor Manservisi di replicare.

MARGHERITA BONIVER. Ho ascoltato con molta attenzione la relazione del direttore Manservisi, che è risultata non solo affascinante, ma composta per il 50 per cento da ombre e per il 50 per cento da luci. Il programma della Commissione per la cooperazione allo sviluppo mi sembra, infatti, un programma ampiamente consolidato e condiviso, come lei stesso ha detto. Credo che ciò sia un bene inestimabile in un'Europa che, molto spesso, non riesce a parlare con una voce abbastanza autorevole. Considerata la materia in esame, credo che questo 50 per cento di lati positivi rappresenti un dato incoraggiante.
Dopodiché, abbiamo la parte negativa, che lei stesso non è riuscito giustamente a quantificare, dato che siamo a metà strada - o così ci auguriamo - di questa incredibile crisi economica iniziata, peraltro, nella culla della democrazia, negli Stati Uniti d'America, per via della sregolatezza delle istituzioni bancarie nordamericane, che ha successivamente infettato l'intero sistema, con ricadute pesantissime e senza precedenti sull'economia e sulla produttività. Credo che queste ricadute siano difficilmente quantificabili.


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Vorrei sapere - credo che la materia sia contigua - che fine abbia fatto la proposta del presidente della Banca mondiale di istituire un vulnerability fund e se ciò appartenga anche alla sfera decisionale della sua Direzione generale.
Inoltre, vorrei chiederle quanta influenza ha sulle vostre scelte e sulla vostra lista delle priorità quella che, a mio avviso, è stata l'unica vera invenzione fatta a cavallo del secolo, cioè la banca dei poveri voluta dal premio Nobel Yunus. Credo, infatti, che questa sia una delle strade maggiormente percorribili, forse in tutti i Paesi del mondo. Là dove abbondano i poveri e scarseggiano i crediti - l'ho potuto vedere con i miei occhi in tanti Paesi - l'idea di fare dei prestiti veramente microscopici è assolutamente geniale e, per lo più, funziona. Vorrei, quindi, sapere se vi avvalete anche di questa importante innovazione.
Infine, accenno all'ultimo tema, certamente dolente, della posizione italiana che lei ha voluto evidenziare e che mi auguro possa trovare uno sbocco meno pessimistico di quanto si prospetti. Credo che, proprio nell'imminenza del G8, sia possibile augurarsi un nuovo slancio, non solo una nuova quantificazione dei nostri contributi automatici, ma anche ragionevoli speranze di avere una politica di cooperazione allo sviluppo fatta in un'ottica di interesse nazionale.
Tanto per intenderci, ad esempio, la decisione di interrompere gli aiuti al Nicaragua potrebbe essere bilanciata dalla decisione di incrementare gli aiuti nei confronti di altri Paesi. Onestamente, non so quale sarà la decisione finale, ma mi auguro che l'Italia possa fare, come ha sempre fatto, il suo dovere, e quanto meno non diminuisca la sua quota parte.

MARIO BARBI. Nel ringraziare il dottor Manservisi per l'esposizione di grande interesse che ci ha presentato, vorrei approfittare dell'occasione per chiedergli di approfondire alcuni aspetti.
Il primo aspetto è relativo al ruolo dell'Unione europea come federatore dei contributi di cooperazione allo sviluppo dei vari Stati membri. Non so se ho capito bene il rapporto, ma mi pare che lei abbia quantificato in 60 miliardi di euro circa l'insieme del contributo dei Paesi membri, inclusivo di quello specifico dell'Unione, e nel 20 per cento di questa cifra la quota direttamente gestita dall'Unione.
Ebbene, in questo quadro di auspicata «comunitarizzazione» - uso, forse, un termine improprio - delle politiche di sviluppo, le chiedo se vi siano dei progetti o delle idee che prevedano uno spostamento progressivo del baricentro delle risorse dalla gestione nazionale a quella comunitaria e in quale modo, eventualmente, ciò possa avvenire. Vorrei chiederle, per intenderci, come possa prospettarsi, in un futuro prossimo, un rafforzamento di questa regia, prevedendo anche degli strumenti finanziari di tipo istituzionale. Glielo chiedo anche perché il problema della frammentazione, della dispersione e dello spreco, al quale lei ha fatto riferimento, è un elemento che stride ancor di più di quanto non accada normalmente, in ragione del tipo di obiettivi e dei risultati che si perseguono con questi fondi.
Il secondo argomento riguardo al quale vorrei chiederle una sua valutazione si riferisce al bilancio provvisorio, di metà cammino nel raggiungimento degli obiettivi del Millennio, rispetto al quale lei ha indicato risultati quantitativi apprezzabili e risultati Paese, invece, molto sbilanciati. Ciò che le chiedo è se abbia senso continuare a includere tra i destinatari di questi contributi Paesi che, come la Cina, sono ormai dei protagonisti mondiali. Riguardo all'Africa, ad esempio, leggevo proprio questa mattina che la Cina è considerato l'unico Paese ad avere una strategia globale di presenza in quel continente. Queste osservazioni erano contenute in un articolo del presidente Prodi di domenica scorsa sull'Africa, nel quale si sosteneva, appunto, che dove non c'è pace non c'è sviluppo, ma non voglio entrare nei particolari. Quello che chiedo è se non sia necessario e opportuno fare un bilancio


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intermedio rispetto agli obiettivi del Millennio e ricalibrare le priorità e i centri di destinazione.
La situazione dell'Africa parla da sola: mi pare che essa dovrebbe essere oggetto di un'attenzione assolutamente specifica e speciale.

PAOLO CORSINI. Anch'io voglio associarmi al compiacimento e al ringraziamento per gli assunti esposti dal dottor Manservisi, che mi sembrano molto chiari e limpidi nel loro contenuto.
Non formulerò osservazioni, ma mi limiterò a pochissime e sintetiche domande. In primo luogo, sono otto, se non erro, gli obiettivi del Millennio. Ebbene, nell'ambito di questi obiettivi c'è una sorta di gerarchizzazione, in relazione al flusso di finanziamenti, che tenga conto dell'impegno che i Paesi destinatari della donazione assumono nei riguardi dell'affermazione della democrazia, del soddisfacimento degli standard minimi dei diritti umani, della realizzazione di riforme di carattere istituzionale?
La seconda domanda è, in effetti, una richiesta di chiarimento rispetto ad una realtà sulla quale non dispongo di sufficienti informazioni. Vorrei sapere se ci sono fondi distinti che vanno sotto la voce obiettivi del Millennio e fondi destinati alla cooperazione allo sviluppo oppure essi confluiscono nell'ambito di un unico disegno progettuale. Nel caso vi fosse una distinzione, infatti, è evidente che, soprattutto per quanto riguarda il nostro Paese, saremmo in presenza di un deficit e di un ritardo estremamente significativi che non possono che lasciarci insoddisfatti.
Lei ha molto insistito - opportunamente, a mio avviso, e con molta chiarezza - in ordine ai dati quantitativi. Il collega Barbi, poco fa, ha espresso una considerazione che è propria di quanti si occupano di questi temi, sul fenomeno della dispersione che spesso vanifica l'efficacia del finanziamento. I fondi che effettivamente giungono a destinazione, infatti, dopo i passaggi attraverso le strutture che fungono da soggetti intermediari, sono drasticamente ridotti. Quali possono essere, quindi, i correttivi per porre riparo ad una metodologia distributiva che penalizza, in realtà, il destinatario?
Vengo all'ultima domanda. L'Europa definisce la sua progettualità e individua i partner, i soggetti pubblici e privati, le organizzazioni non governative, quindi il progetto è di natura - mi rendo conto che potrei utilizzare una terminologia impropria - eminentemente discendente, o invece c'è un incontro tra la domanda che viene dal basso, cioè da parte dei Paesi destinatari, e l'offerta che si impegna a dare una risposta efficace al problema sollevato?

CLAUDIO D'AMICO. Ringrazio anche io il dottor Manservisi per l'illustrazione.
Vorrei, innanzitutto, porle alcune domande e svolgere una semplice considerazione. Vorrei chiederle, dottor Manservisi, quali siano dal suo punto di vista - che è piuttosto globale a livello dell'Unione europea - i criteri in base ai quali i singoli Stati scelgono i Paesi nei quali investire la maggior parte delle risorse. Vorrei inoltre sapere se, tra questi criteri, si tiene anche conto della provenienza degli immigrati. Non è accettabile, infatti, che si pensi di risolvere il problema della povertà nei Paesi in via di sviluppo facendo venire 2 miliardi di persone in Europa. L'unica speranza, quindi, è di aiutare i Paesi di provenienza dell'immigrazione, per far sì che ci sia uno sviluppo e un percorso virtuoso che porti alla creazione di posti di lavoro, all'incremento dell'agricoltura perché ci sia più cibo eccetera.
Vorrei sapere, quindi, se le politiche di aiuto tengono conto anche di questo fattore e, in caso affermativo, vorrei che ci dicesse quali sono i Paesi che lo fanno e quali quelli che, invece, utilizzano altri criteri di scelta, magari legati a questioni geopolitiche o a interessi diretti in alcuni Paesi.
Chiedo, inoltre, se vengono considerate anche le quantità delle risorse naturali dei Paesi in via di sviluppo. Rimango colpito, infatti, quando vedo che vengono aiutati Paesi che hanno enormi riserve naturali; Paesi che dovrebbero essere straricchi, ma


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probabilmente i Governi, invece di aiutare il proprio popolo, aiutano solo le proprie tasche e le risorse non vengono ridistribuite nel Paese. Bisognerebbe considerare anche questo aspetto, piuttosto che dare aiuti a Paesi che potrebbero aiutarsi da soli, e spingere quei Governi a ridistribuire le risorse. In sintesi, da lei che ha un quadro globale dell'Unione europea, vorrei sapere quali Paesi considerano anche questi fattori nelle loro scelte e se lo fa anche l'Unione.
Un'altra domanda riguarda quest'ultima apertura verso l'est, verso i Paesi inseriti nella lista di partnership con l'est. Vorrei sapere se può offrirci qualche dettaglio più preciso riguardo a questo argomento.
Infine, vorrei svolgere una considerazione su quello che l'Italia fa per la cooperazione e sulle somme che noi destiniamo agli aiuti. Personalmente ritengo che dobbiamo tener conto anche del momento storico che viviamo. Sappiamo che è un momento di crisi, stiamo tagliando dappertutto ed è naturale che vengano effettuati dei tagli anche nel settore della cooperazione. È una scelta legata ai numeri, non c'è niente da fare; quando c'è un surplus lo si può utilizzare, ma quando si vive una situazione critica bisogna assolutamente tagliare le spese. Questo non vuol dire che si dà meno. Il ragionamento della percentuale è fuorviante, secondo me; se infatti, ragioniamo in percentuale rispetto alla Slovenia, ad esempio, partiamo con il piede sbagliato: il nostro 0,5 per cento, in termini quantitativi, corrisponde magari al 15 per cento di quello che dovrebbe dare la Slovenia per arrivare ad una quota come la nostra.
Pertanto, con la nostra percentuale bassa, non possiamo paragonarci alla Finlandia. Magari la Finlandia ha una percentuale più alta, ma in termini quantitativi la quota destinata è molto più bassa. Dobbiamo considerare l'effettivo ammontare dell'aiuto, e non tanto la percentuale, altrimenti sembra che i piccoli Paesi siano tutti virtuosi, mentre in termini assoluti danno ben poco.
Inoltre, ritengo importante riuscire a risolvere il problema - come ha sottolineato l'onorevole Corsini - dell'effettivo arrivo a destinazione degli aiuti. In base a quanto ci ha detto il Governo in una seduta precedente, sappiamo che solo il 20 per cento degli aiuti arriva a destinazione in una percentuale superiore al 50 per cento. L'80 per cento degli aiuti che diamo arriva al destinatario in percentuale inferiore al 50 per cento. Se tutti gli aiuti arrivassero realmente al destinatario, potremmo risolvere il problema della diminuzione delle somme destinate alla cooperazione. Vorrei sapere se su questo tema si stanno muovendo altri Stati dell'Unione europea.

MATTEO MECACCI. Signor presidente, sarò brevissimo, anche perché i colleghi hanno già scandagliato molti aspetti di questo tema.
La mia domanda deriva dall'osservazione del dottor Manservisi in merito all'assenza di dibattito politico. Credo, infatti, che il dibattito sarebbe favorito molto dalla presenza di studi o di analisi sugli effetti che la riduzione degli aiuti allo sviluppo comporta rispetto al conseguimento degli obiettivi del Millennio, quantificati obiettivo per obiettivo. Sarebbe utile, cioè, riuscire a valutare come una riduzione di 10 o 100 milioni di euro, da parte di ciascun Paese, possa avere un effetto diretto rispetto a programmi di cooperazione che, sulla base delle previsioni che si sono fatte, mirano a ridurre di una certa percentuale la povertà o la mortalità infantile e via dicendo.
Credo che riuscire a quantificare questi aspetti aiuterebbe molto a rendere più chiaro ciò di cui stiamo parlando: si parla, infatti, di aiuti alla cooperazione allo sviluppo senza mai fare riferimento alle persone. In un momento in cui vi è sicuramente grande attenzione, nel nostro Paese, sui temi della sicurezza e dell'immigrazione, penso che uno studio siffatto farebbe comprendere come questo tema


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rappresenti una risposta più adeguata proprio alle preoccupazioni che occupano le pagine dei nostri giornali.

PRESIDENTE. Do la parola al dottor Manservisi per la replica.

STEFANO MANSERVISI, Direttore generale per la cooperazione allo sviluppo della Commissione europea. Innanzitutto vi ringrazio per le domande e per le riflessioni, che saranno certamente spunti utili in seguito.
Parto dalla prima domanda dell'onorevole Narducci, relativamente al Nicaragua. La questione del ruolo strategico e della situazione di povertà del Nicaragua credo sia condivisa in modo totale. D'altra parte, il Nicaragua è uno dei Paesi che riceve più aiuti e, soprattutto, che ha più donatori al mondo, al punto che si crea anche una certa congestione. Il Nicaragua rimane, comunque, uno dei Paesi maggiormente studiati per capire come si può lavorare meglio insieme.
Sulla questione dei 250 milioni, specifico che una buona parte di questi fondi erano versati con la tecnica del budget support, cioè dell'aiuto al bilancio. È vero che l'aiuto al bilancio è uno strumento per accelerare la messa a disposizione di fondi, però, in presenza di un problema politico grave, è anche uno strumento che causa il blocco di importi considerevoli.
È successo un fatto analogo dopo le elezioni politiche in Etiopia, dove avevamo un programma di 350 milioni di sostegno al bilancio. Ovviamente, di fronte a un Paese che stava aumentando la spesa in termini militari e polizieschi, al di là del giudizio che ciascuno può avere del sistema etiope, era ovvio prevedere che, in quel momento, la gestione del bilancio pubblico dell'Etiopia non permetteva di canalizzare del cash sul bilancio senza che questo desse uno spazio superiore all'acquisto di armi o dell'apparato repressivo.
In Nicaragua il ragionamento è stato simile. Ora, così come siamo riusciti a recuperare in parte il sostegno al bilancio in Etiopia, stiamo lavorando anche per sbloccare i 250 milioni per il Nicaragua. Il sostegno al bilancio è uno strumento che noi supportiamo molto, ma al Parlamento europeo e in molti Parlamenti nazionali - ne cito uno, il Bundestag, che è particolarmente attento, come è giusto peraltro - esso viene guardato con un certo sospetto. È difficile, infatti, andare avanti normalmente quando ci sono delle preoccupazioni di ordine politico e sulla gestione del sistema delle finanze pubbliche.
Un caso di questi giorni è quello del Madagascar, dove abbiamo un grosso programma di aiuto al bilancio, che però abbiamo sospeso. È ovvio, dunque, che bisogna trovare immediatamente una formula per non perdere questi soldi. L'azione per sbloccare il programma il più rapidamente possibile è, in parte, cominciata; bisognerà, però, reindirizzarlo sotto altre forme. Questa è la difficoltà di fondo.
Venendo alla questione posta dall'onorevole Boniver, faccio osservare, innanzitutto, che il vulnerability fund della Banca mondiale è, in realtà, una sorta di gioco di scatole cinesi, un sistema di strumenti, sportelli e fondi che viene chiamato vulnerability fund per motivi di comunicazione. Nella sua componente più propria, esso tende a canalizzare fondi per safety net, cioè per intervenire sul piano sociale. Stando così le cose, noi, per una serie di motivi, non potremmo contribuire; tuttavia, stiamo lavorando con il presidente Zoellick per arrivare a una complementarietà. Indubbiamente, esso è un valido strumento, sebbene la Banca mondiale si faccia pagare molto per gestirlo: apro questa piccola parentesi per dire che le fees applicate dalla Banca mondiale sono notevoli.
Come Commissione, non facciamo più sostegno al microcredito perché, in termini di costi di transazione e di personale risulta troppo caro. Ciò che forniamo, invece, è un sostegno agli organismi finanziari di secondo grado, che permettono poi di avere dei fondi in circolazione. Lo facciamo attraverso la formazione di soggetti che fanno microcredito, attraverso


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sinergie con la Banca europea per gli investimenti e, sul piano locale, collaborando con piccole realtà sul posto.
Il microcredito è uno strumento importante per aiutare i più poveri e non c'è più soltanto la banca di Yunus, ma ce ne sono molte altre. In verità, esso presenta anche degli aspetti politici. La settimana scorsa, ad esempio, ero a Cuba per rilanciare la cooperazione con quel Paese e siamo riusciti a mettere in piedi un programma di microcredito che, per Cuba, vuol dire anche accesso dei privati al business. Il microcredito, quindi, sottende anche un interessante aspetto politico.
Per quanto riguarda la questione posta dall'onorevole Barbi, il punto di partenza è che la politica di sviluppo non è una politica comune, ma una politica a competenza condivisa. Quindi, se uno Stato membro esprime il suo totale disinteresse nei confronti della volontà della Commissione di federare degli Stati e ritiene di volersi muovere per conto proprio, lo può fare. C'è, poi, un sistema di club all'interno dei quali queste cose si dicono in maniera più soft, ma si possono comunque dire.
Ad ogni modo, il fatto che tutti gli Stati membri - compresi Francia e Regno Unito, che hanno un forte background storico - si siano resi conto che c'è un interesse nel lavorare uniti, dimostra che c'è un valore aggiunto. Il valore aggiunto consiste, in primo luogo, nel fatto che, come sempre, l'azione dell'Unione viene orientata da chi, al suo interno, è più forte. Questa è, infatti, la strategia del Regno Unito, in tutte le politiche dell'Unione: più si è dentro, più si è forti, più si orienta l'azione dell'Unione in una direzione piuttosto che in un'altra. Si tratta, quindi, di capacità di orientare le scelte.
In secondo luogo, l'effetto massa conta per tutti. Tecnicamente, però, se un Paese non volesse entrare nel gioco, potrebbe farlo.
Da questo punto di vista, la nostra strategia non è quella di spostare la gestione di risorse verso il centro; è quella di creare un sistema in cui le risorse siano spese in maniera più coordinata ed efficiente. In questo modo, si può fare a meno di moltiplicare le missioni, i rapporti, gli studi, le unità tecniche. Ad esempio, quando compiamo una missione in un Paese e svolgiamo l'analisi della sua situazione, non è detto che la settimana dopo tre Stati membri non mandino la stessa missione. Possiamo definire i term of reference fin dall'inizio e, in seguito, quella missione può diventare una missione dell'Unione. Sembrano cose banali, ma significa risparmiare un sacco di soldi: una parte di quelle cifre, cui si faceva prima riferimento, che non arrivano al destinatario, non vi arrivano perché sono spese lungo il tragitto per la burocrazia e tanti altri fattori. Chiaramente, da un certo punto di vista, si può anche dire che ciò crea occupazione, e questo è proprio quello che alcune ONG ci dicono.
Insomma, dobbiamo continuare a lavorare. Sta di fatto, però, che si possono prendere delle misure molto semplici. Al numero dei donatori in un Paese corrisponde un pari numero di strategie-Paese. Dove siamo riusciti a farne una sola, come in Sudafrica, in Sierra Leone e in Somalia, si è risparmiato tempo, riunioni, soldi e via elencando. Noi, però, non sosteniamo in nessun modo la centralizzazione della gestione dei fondi a Bruxelles. Al contrario, in tanti casi, nella divisione del lavoro, abbiamo delegato la gestione di fondi a Stati membri che erano più capaci dell'Unione europea, perché più impiantati in certe realtà. Quindi, non è un discorso di centralizzazione, ma di coordinamento e di ottimizzazione delle risorse.
Per quanto riguarda l'ipotesi di ricalibrare gli obiettivi del Millennio, bisogna considerare che questi obiettivi hanno giocato un ruolo importante in termini di comunicazione. Rendere certe informazioni comprensibili e, in parte, quantificabili è stato un passo importante. Non si tratta, quindi, di rivedere tali obiettivi ma, come si sta facendo ora nelle mid term review, di uscire dalla cooperazione di tipo più semplice con la Cina, con l'India e con Paesi di questo tipo e di prevedere magari


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altri generi di investimenti, ad esempio nell'educazione superiore. Questo è ciò che si sta pensando di fare.
Ovviamente, bisogna considerare che c'è sempre un risvolto politico in tutto questo, quindi bisogna essere in grado anche di mandare un buon messaggio. In questi giorni, però, effettivamente si sta riconsiderando la situazione.
Sulla questione posta dall'onorevole Corsini, in merito alla relazione tra aiuti e riforme interne ai Paesi destinatari, ebbene, noi vediamo tale relazione come un incentivo alla riforma, e non come una penalizzazione nel caso che le riforme non avvengano. In fondo, sarebbe facile adottare una condizionalità-ghigliottina per cui, ad esempio in assenza di elezioni, neghiamo gli aiuti. Quei Paesi, però, continueranno a non fare le elezioni e i loro poveri continueranno a porsi ancora meno il problema della democrazia. Quello che noi cerchiamo di fare è, invece, incentivare dei processi anche lunghi, che siano però verificabili. Forse non ci saranno elezioni nell'immediato, ma intanto ci sono elezioni a livello locale che cominciano a delineare la costruzione dello Stato; le autorità locali, peraltro, giocano un ruolo fondamentale nei Paesi in via di sviluppo. Il nostro è, quindi, un approccio di incentivo, non un approccio di punizione.
A chi mi chiedeva se vi fossero dei bilanci distinti tra MDG e il resto della cooperazione rispondo che non ci sono. Per raggiungere un obiettivo come quello dell'accesso all'acqua, ad esempio, si opera tanto nel settore delle infrastrutture, quanto in quello del capacity building e della governance. Gli MDG sono, quindi, dei rivelatori di indirizzo, ma non possono esserci bilanci separati. In termini di comunicazione, può essere fatto un richiamo agli MDG, ma essi non hanno bilanci separati.
Per ovviare, invece, al problema della dispersione nella metodologia distributiva, noi cerchiamo di spingere gli Stati membri a fare, a monte, quella che chiamiamo «programmazione congiunta». Nel caso in cui è possibile concordare le priorità con il Paese, i ruoli vanno divisi a monte, programmando i fondi disponibili come Unione.
Rispondo a chi me lo ha chiesto che il nostro approccio è totalmente bottom-up, cioè dal basso verso l'alto. Ovviamente nessuno è perfetto e commettiamo ancora molti errori, ma la filosofia di base che seguiamo è che la grande massa dei fondi siano spesi a partire dal Paese, cioè sulla base di country program definiti col Paese stesso, che, almeno per quanto è possibile, coordina i donatori. Cerchiamo di evitare i cosiddetti «fondi verticali». Abbiamo smesso da un pezzo di fornire noi la definizione di quel che occorre fare; noi non definiamo più alcun progetto, è tutto definito dal basso.
Quanto alla domanda inerente ai criteri con cui gli Stati membri decidono dove investire, rispondo, ancora una volta, che essi sono sovrani. Semplicemente, il nostro tentativo è quello di investire insieme, in maniera più armonizzata: si tratta, però, di una armonizzazione da coordinamento, non legislativa.
Per quanto riguarda l'esistenza di un eventuale criterio di selezione in base alla provenienza degli immigrati, devo dire che non ci sono dei criteri espliciti. Nessuno lo dichiara nei propri programmi di cooperazione anche perché, in questo caso, ci si esporrebbe ad attacchi da più parti, ad esempio dalle ONG.
Posso, però, fornire la mappa dei Paesi che, nell'aumentare il proprio aiuto allo sviluppo, sono stati mossi essenzialmente da questo criterio. Un esempio per tutti è la Spagna. La Spagna è uno dei Paesi che stanno aumentando gli aiuti in maniera esponenziale e, se continuerà con questo ritmo, raggiungerà l'obiettivo dello 0,56 per cento nel 2010. Si tratta di investimenti in sviluppo e investimenti tout court, essenzialmente nei Paesi dell'Africa occidentale, zona da cui effettivamente provengono le grandi masse che premono sulle frontiere spagnole.
Questo dato è perfettamente visibile. Noi dialoghiamo con la Spagna ogni giorno e devo dire che è una politica che ha successo, perché combina il rigore nella


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sicurezza con la necessità di agire in partenariato, proprio come si diceva poc'anzi. Aggiungo che la Spagna, che non aveva rappresentanze diplomatiche in Africa occidentale, all'inizio di questo percorso ha inserito dei funzionari spagnoli nelle nostre delegazioni, che invece sono presenti ovunque, proprio per avviare questo processo. Quello della Spagna, dunque, è un caso tipico di aumento di investimenti ispirato da questo criterio.
La Commissione non solo appoggia questo atteggiamento, ma ha anche aperto un volet di cooperazione legata all'emigrazione, soprattutto in Africa occidentale, ma anche in Africa orientale, che tende a prendere in considerazione proprio questo aspetto.
Quello dell'aiuto ai Paesi ricchi di risorse naturali è un dilemma. È ben vero, infatti, quello che dice l'onorevole D'Amico, cioè che i Paesi ricchi non dovrebbero avere bisogno di aiuti. Tuttavia, dipendere da una risorsa non ha mai reso ricco un solo Paese. In realtà, ci sono delle accumulazioni ancora teoriche - sebbene spesso esse siano reali per i cinque o sei individui che si mettono i soldi in tasca - e il beneficio per la popolazione è molto limitato. Vogliamo cercare di rimanere impegnati ed impegnare questi Paesi in un dialogo, ma è certo che, alla fine, un Paese come la Nigeria, ad esempio, potrebbe anche fare a meno degli aiuti (e, d'altra parte, ne fa a meno). Tuttavia, per chi fa politica, è importante avere qualcosa da dire alla Nigeria, dal momento che in quel Paese ci sono anche imprese europee.
Certo, è un aiuto allo sviluppo in un certo senso politicizzato, ma serve anche alle riforme sul piano sociale; serve, ad esempio, ad alleviare le tensioni fra i musulmani e i cristiani. In Nigeria si lavora molto a livello delle comunità di base; il Governo centrale, infatti, non ha bisogno di aiuto, salvo che nella lotta contro la corruzione.
Per quanto riguarda la Eastern partnership, bisogna dire che si tratta di un partenariato di allargamento del vicinato, più che di sviluppo, ed è legato alle tensioni in Caucaso tra la Russia e la Georgia. È una nuova forma di politica, simile a quella del vicinato. Certo, si fornisce anche in questo caso un aiuto allo sviluppo, ma fa parte di un policy mix un po' più ampio.
Si è detto che i tagli alla cooperazione sono normali quando non c'è surplus. Capisco bene che, quando le risorse diminuiscono, possano calare anche gli aiuti. Questo è il motivo per il quale, anticipando un po', nella proposta di aprile, chiediamo di rispettare ma di completare magari anche con altre cose, perché sappiamo bene che in questo momento ci sono dei limiti. Ritengo, tuttavia, che sia sbagliato, in termini intellettuali e sicuramente anche in termini politici, pensare che i problemi di quei Paesi non siano i nostri. Credo sinceramente che investire nello sviluppo significhi investire nella nostra sicurezza, nel nostro modo di vivere, nei nostri valori. È vero che ci sono delle priorità, ma dobbiamo fare attenzione a non considerarli un «dopo», perché poi ci ritroviamo con altri fenomeni (magari il terrorismo) e, soprattutto, non avremo più un'economia globale, ma un'economia chiusa su se stessa.
Continuo a sottolineare che ci sono dei Paesi, come l'Irlanda, la Spagna ed altri, che stanno facendo esattamente il contrario: aumentano gli aiuti perché pensano che il loro credito e la loro apertura al mondo meritino di essere sostenuti, da questo strumento come da altri.
Alla domanda relativa agli aiuti che non arrivano a destinazione, in fondo, ho già risposto. Certo, una parte non arriva ai poveri perché i sistemi sono corrotti, un'altra parte, però, non arriva perché rimane impigliata nelle pieghe delle varie amministrazioni (prima ho anticipato che, secondo i risultati di uno studio, la cifra si aggirerebbe intorno agli 8 miliardi).
Infine, per quanto riguarda la questione degli studi per valutare l'impatto degli aiuti e, quindi, sollevare il dibattito politico, voglio precisare che studi di questo tipo esistono già (ne abbiamo realizzato uno noi e altri studi vengono realizzati


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da altri soggetti). Esiste, quindi, una valutazione dell'impatto dei minori aiuti ai Paesi in via di sviluppo.
Attenzione, però, a non pensare di creare dei meccanismi automatici. Gli MDG sono dei rivelatori e dei comunicatori, ma non c'è mai una corrispondenza diretta tra i due aspetti. Quando diciamo che il miglior modo per aiutare i Paesi a crescere nella salute e nell'educazione è il sostegno al bilancio, più che il singolo progetto, è perché siamo consapevoli che si tratta di una dinamica.

PRESIDENTE. La ringraziamo, dottor Manservisi, perché in un tempo ristretto è riuscito a dare una risposta molto ampia a tutti i quesiti.
Ci auguriamo di poterla ascoltare anche successivamente, in ragione dell'attività di questo Comitato, che cercheremo di sviluppare insieme a tutti i nostri interlocutori.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,10.

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