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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
2.
Martedì 9 dicembre 2008
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Narducci Franco, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUI PROBLEMI E LE PROSPETTIVE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE VERSO LA RIFORMA DELL'OMC

Audizione del presidente dell'ICE, ambasciatore Umberto Vattani:

Narducci Franco, Presidente ... 3 7 10 14
Fedi Marco (PD) ... 8
Pianetta Enrico (PdL) ... 9
Porta Fabio (PD) ... 8
Stefani Stefano (LNP) ... 9
Vattani Umberto, Presidente dell'ICE ... 3 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 9 dicembre 2008


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE FRANCO NARDUCCI

La seduta comincia alle 12,45.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del presidente dell'ICE, ambasciatore Umberto Vattani.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui problemi e le prospettive del commercio internazionale verso la riforma dell'OMC, l'audizione del presidente dell'ICE, ambasciatore Umberto Vattani.
Saluto con grande piacere l'ambasciatore Vattani, grande conoscitore delle questioni in esame, nonché di tante altre, cui do la parola.

UMBERTO VATTANI, Presidente dell'ICE. Grazie, presidente, vorrei innanzitutto esprimere il mio ringraziamento a questa autorevole Commissione e a lei personalmente per avermi invitato a svolgere alcune considerazioni su un tema di grande interesse, soprattutto per un Paese che partecipa ampiamente agli scambi internazionali come l'Italia. Considero un vero privilegio poterlo fare in questa sede.
Riflettendo su quanto è accaduto dall'estate ad oggi, dobbiamo notare che, quando nuvole scure già si addensavano sulla situazione economica internazionale, il fallimento dell'ultimo negoziato Doha sul commercio internazionale ad alcuni è sembrato appartenere a un settore meno significativo, laddove la preoccupazione sembrava incentrarsi soprattutto sulla recessione.
Questa impressione riuscì confermata da un sondaggio condotto dall'Economist, che mise in evidenza come oltre il 60 per cento delle imprese, degli operatori e degli osservatori economici intervistati considerasse secondarie le conseguenze del fallimento del negoziato Doha. Soltanto uno su dieci riteneva importante l'accaduto, individuando nella possibilità di un risorgere di correnti protezionistiche un pericolo altrettanto grave di quello della recessione.
Guardando ai benefici che questo Round avrebbe potuto portare - dei venti punti in discussione, solo il diciottesimo e il diciannovesimo sono rimasti sospesi, laddove il diciottesimo riguarda esclusivamente l'agricoltura, in particolare la riduzione dei dazi -, tenuto conto del fatto che molte barriere doganali sono già state smantellate e che la maggior parte dei problemi è stata risolta, molti hanno ritenuto che i modesti vantaggi che potevano derivare dal successo di tale negoziato non consentissero di darne una valutazione di gravità.
Circa 70 miliardi di dollari l'anno potrebbero infatti derivare da una vantaggiosa soluzione di un negoziato su questo tema, pari allo 0,1 per cento del reddito mondiale. Forse anche per questo, si è avuta l'impressione che il fallimento di questi negoziati non fosse poi così grave,


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come ha ulteriormente confermato la circostanza che attualmente si stia negoziando non delle tariffe, ma del loro tetto massimo. C'è molto spazio tra le tariffe attualmente in vigore e il tetto massimo, che è oggetto di discussione.
Molti partecipanti al negoziato hanno dunque ritenuto limitatamente grave una battuta di arresto su questo punto, mentre altri hanno sottovalutato la possibilità che un fallimento portasse a una recrudescenza di politiche protezionistiche, laddove anche Paesi come gli Stati Uniti, che spesso nel Congresso hanno agitato la scure per frenare le importazioni da Paesi a loro avviso colpevoli di dumping o di adottare politiche monetarie finalizzate a una sottovalutazione della loro moneta come la Cina, non hanno mai tradotto queste loro intenzioni in atti legislativi.
Il fallimento di questo Round non è quindi sembrato così grave. In realtà, appare preoccupante non il modesto vantaggio derivante da un ulteriore abbassamento di queste tariffe, ma soprattutto la partecipazione a pieno titolo a questi negoziati di Paesi come l'India, il Brasile e la Cina, che proprio in questo ultimo Round hanno svolto un ruolo fondamentale. Il fallimento nel raggiungimento di un accordo potrebbe quindi essere anche un segnale della maggiore difficoltà di giungere a una conclusione in futuro, essendo cambiata la composizione dei principali negoziatori e dei protagonisti di questo Round, rappresentati dai tre Paesi che non hanno esitato a far cadere il negoziato.
Circa quattrocento accordi bilaterali e regionali stipulati sono attualmente in vigore e il giorno dopo il fallimento del Doha Round l'India ha firmato un accordo commerciale con i Paesi del gruppo ASEAN, dimostrando di non esitare a procedere secondo uno schema di negoziato bilaterale o regionale. Se questo esempio continuasse ad essere seguito, come è attualmente seguito dagli Stati Uniti e dall'Unione europea, il quadro stesso di negoziato multilaterale condotto dall'Organizzazione mondiale per il commercio rischierebbe di essere trasformato.
Da tempo sapevamo come per l'India il tema della trattativa sul tema agricolo e sulle tariffe agricole rappresentasse un serio problema, avendo oltre 200 milioni di agricoltori, ma la scelta della Cina di seguire l'India all'ultimo momento si è rivelata sorprendente. È probabile che questo avvenimento indichi un significativo cambiamento di quadro.
Nel 2001, quando nacque il negoziato Doha, le preoccupazioni erano rivolte soprattutto alla constatazione di come la maggior parte delle politiche attuate dai Paesi che negoziavano l'accordo tendessero a deprimere i prezzi agricoli, laddove i sussidi alle esportazioni e altri vantaggi a favore degli agricoltori portavano a politiche che trascinavano al ribasso i prodotti delle materie agricole.
Oggi, la vera preoccupazione deriva dal fatto che le politiche sembrano invece realizzate per far salire i prezzi dei prodotti agricoli. Questo si verifica a causa delle misure tese a ridurre le esportazioni di prodotti agricoli e delle preoccupazioni concernenti la sicurezza dell'approvvigionamento, laddove le politiche di molti Paesi si sono concentrate sulla sicurezza alimentare. Considerato anche l'attuale uso di prodotti agricoli per biocombustibili, questa istintiva reazione di tutela degli approvvigionamenti di queste materie ha portato a questo atteggiamento. Non possiamo trascurare come il problema della sicurezza alimentare, che si oppone al principio stesso del libero commercio, sia nato soprattutto dall'enorme volatilità del prezzo del riso, prodotto meno coinvolto nelle trattative internazionali, che però ha indotto a introdurre restrizioni alle esportazioni, facendo così salire enormemente il prezzo.
Tutto questo sembra relegare in secondo piano la trattativa multilaterale per il commercio, al punto che un esperto della Banca mondiale ha sostenuto la tesi secondo cui oggi al centro della discussione si collocherebbero in particolare le preoccupazioni per la sicurezza di voci quali l'energia, l'alimentazione, l'ambiente o il livello di reddito. È singolare che questa discussione si sia sviluppata soprat


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tutto nella Banca mondiale, perché alcuni fatti potrebbero evidenziare barriere diverse da quelle che ci hanno occupato per tanti anni e che hanno condotto a una riduzione dei tassi, anche se non generalizzata, una nuova categoria di tariffe che alimentano dubbi sulla possibilità di affrontarli con serenità. La prima categoria riguarda le cosiddette «barriere verdi», green tariff, imposte a Paesi che non intraprendono azioni convincenti per la protezione dell'ambiente. Questo tipo di barriere sembra plausibile e ragionevole.
Il Congresso degli Stati Uniti ha voluto citare eventuali restrizioni nel commercio e dazi doganali nei confronti di Paesi che non tengano conto delle emissioni di carbonio. Anche l'Europa non ha mancato di minacciare di intraprendere azioni limitative del commercio nei confronti dei Paesi che non si dimostrino abbastanza attivi nella lotta per la protezione dell'ambiente. Se dal punto di vista teorico questo strumento può essere considerato atto a facilitare il raggiungimento dei nostri obiettivi in campo ambientale, c'è da chiedersi se, tradotto in tariffe, potrebbe realmente agevolare il negoziato sui mezzi per difendere meglio l'ambiente.
Si stanno tuttavia palesando anche nuove barriere di carattere protezionistico, che riguardano quegli investimenti di fondi sovrani che mirano ad assicurare al Paese che li attua il controllo di prodotti di base considerati importanti per il proprio sviluppo. La Cina ha investito molto dei suoi fondi sovrani in vari Paesi dell'America Latina, dell'Africa, di Paesi vicini dell'Asia, per assicurarsi l'approvvigionamento di prodotti necessari alla propria crescita.
La reazione da parte di alcuni è stata quasi immediata. L'Australia ha infatti comunicato che sta esaminando con molta attenzione investimenti diretti, che hanno per oggetto prodotti minerari o di base della propria economia.
Gli elementi quantitativi di questi nuovi flussi sono davvero straordinari, perché undici grandi Paesi, che rappresentano circa il 40 per cento dei destinatari dei fondi di investimento diretti, hanno approvato o stanno esaminando progetti di legislazione per ridurre la possibilità di effettuare investimenti diretti in un certo numero di settori. Si tratta di una forma di tendenza al protezionismo, capace di ridurre i flussi di capitale e di scambio.
Alcuni considerano infondate queste preoccupazioni, dato che anche questi fondi sovrani sono gestiti da professionisti, che si preoccupano soprattutto del tasso di profitto che questi investimenti possono produrre. A livello macroeconomico, però, molti si sono chiesti se un piccolo gruppo di Paesi con regimi autoritari, come la Cina, l'Arabia Saudita, la Russia, non dovrebbe far nascere qualche preoccupazione circa la dimensione del fenomeno. Se la Cina, anziché investire in obbligazioni del Tesoro americano, avesse riversato gli stessi fondi sul mercato azionario, avrebbe comprato più titoli azionari di tutti gli altri fondi stranieri messi insieme. Questo indica le dimensioni di tali fenomeni.
Non sorprende dunque che da un sondaggio condotto in America sia emerso l'enorme numero di società americane che ormai si rivolgono a Paesi esteri a basso costo per operazioni di outsourcing per far realizzare prodotti a un costo minore.
Di fronte all'importanza del problema dell'ambiente, dei fondi sovrani e dell'eventuale effetto sulle economie dei Paesi, non sorprende che, secondo un sondaggio compiuto quest'anno negli Stati Uniti, solo il 53 per cento degli intervistati consideri il commercio internazionale favorevole per il proprio Paese, contro la percentuale del 72 per cento nel 2002. I problemi precedentemente ricordati quali le green tariff, i fondi sovrani e la vastità delle modifiche dei sistemi economici in un mondo globale - come l'outsourcing - riguardano soprattutto gli Stati Uniti e i loro rapporti con i Paesi emergenti.
È quindi opportuno chiedersi se la delusione che il mondo americano avverte di fronte a un fenomeno vasto come la globalizzazione sia passeggera o destinata a durare. Si sono moltiplicati gli studi degli economisti americani miranti a indagare se questa globalizzazione garantisca


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benessere agli Stati Uniti o piuttosto provochi una stagnazione delle remunerazioni salariali, un allargamento della disuguaglianza tra i redditi e una maggiore insicurezza.
Ho voluto ricordare questi aspetti, perché milioni di società americane fanno elaborare i loro calcoli in India, facendo sparire milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti. Nello stesso tempo, il fatto che gli USA commercino soprattutto con Paesi poveri ed emergenti, dai quali acquistano prodotti primari o lavorazioni ai primi stadi dell'industrializzazione, induce le autorità americane a interrogarsi sulla finalità dei negoziati e sul futuro del Paese. Sono soprattutto le classi medie americane a pagarne le conseguenze. Il libro intitolato Blue-collar blues approfondisce la tematica della scomparsa di posti di lavoro di colletti bianchi, ormai trasferitisi in altri Paesi.
Non bisogna ignorare questo quadro, in cui la stessa Organizzazione mondiale del commercio potrebbe trovarsi ad affrontare problemi molto diversi da quelli fronteggiati sinora, studiando come raggiungere maggiori risultati sotto il profilo della liberalizzazione dei commerci, laddove i contingenti sono ormai spariti e i dazi sono destinati a diminuire. È quindi inevitabile giungere a un mondo in cui si commerci in tutti i settori e la catena produttiva sia divisa in tanti Paesi.
Si riteneva che proprio la possibilità di acquistare beni a diversi livelli di specializzazione in tutto il mondo per produrre il prodotto finale garantisse un mondo liberalizzato, in cui il commercio espandendosi diffondesse i suoi benefici. Negli ultimi tempi, l'utilizzo del commercio per assicurare il raggiungimento di obiettivi in campo climatico, le restrizioni agli investimenti di fondi sovrani nei nostri Paesi e la preoccupazione per la sicurezza che riguarda l'alimentazione e il petrolio hanno portato a uno scenario diverso da quello cui eravamo abituati. La materia prima più importante nel mondo, il petrolio, ha pochissime regole sotto il profilo del commercio, perché sfugge a qualsiasi regola dell'OMC. È vero che non esistono le possibilità di contingentare o modificare il commercio del petrolio come tale, ma il cartello dell'OPEC è in grado di stabilire i limiti alla produzione, che contano molto di più dell'assenza di restrizioni al commercio, perché è a monte che i Paesi produttori riescono a stabilire il prezzo finale.
L'Italia si trova in una situazione diversa. Non avendo materie prime, il nostro Paese ha sempre trasformato le materie importate, indipendentemente dal livello di specializzazione raggiunto. Lavoriamo tanto con le materie prime base, ma anche con prodotti semilavorati, che poi portiamo a livelli superiori.
Il problema dell'OMC, sotto il profilo del Round negoziale di Doha, riguardava l'agricoltura, profilo sotto il quale il nostro Paese nel quadro europeo si annovera tra coloro che considerano ad alto valore aggiunto le proprie esportazioni di agricoltura, con conseguente interesse verso l'apertura dei mercati per raggiungere i consumatori. Siamo quindi favorevoli non alla chiusura, ma all'apertura, ad accordi non solo regionali o bilaterali, ma più ampi possibili per quanto riguarda il Doha Round.
Per quanto riguarda i prodotti industriali, l'Italia ha visto crescere il proprio reddito raggiungendo posizioni elevate, soprattutto grazie alle sue esportazioni. Dobbiamo quindi fare in modo che questo sistema liberale degli scambi prosegua, rilevando con preoccupazione queste tendenze al protezionismo.
Abbiamo svolto un'opera equilibrata tra i nostri partner europei, tendente a mantenere aperti gli scambi, evidenziando come l'Europa non possa rimanere indietro in questa corsa agli accordi regionali o bilaterali, rischiando di essere tagliata fuori da intere regioni per quanto riguarda il commercio. Il commercio tra i Paesi asiatici è cresciuto sino ad occupare ormai l'80 per cento degli scambi in Asia. Se non riusciremo a partecipare come produttori di beni a quell'80 per cento, dovremo limitarci alla fetta restante del 20 per cento. I Paesi asiatici sono riusciti a fare


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questo senza un'organizzazione analoga all'Unione europea, semplicemente moltiplicando gli scambi tra di loro.
Di fronte a questa recessione, l'Italia intende quindi spingere per evitare il rafforzarsi di tendenze o appelli protezionistici. Del resto, come ribadito in numerose occasioni pubbliche, la legislazione adottata dagli Stati Uniti negli anni Trenta, lo Smooth-Hawley Act, che innalzò le barriere tariffarie per difendersi dalla recessione e far ricrescere la domanda interna, portò a una brusca riduzione dei flussi commerciali da e per gli Stati Uniti, che peggiorò la grande depressione. L'amministrazione stessa giunse alla conclusione che fosse necessario ridurre i dazi poco dopo averli introdotti.
Auspichiamo dunque il perdurare di questo sistema liberale di scambi, ritenendo di avere anche due motivi forti per reagire a questa crisi economica, rappresentati dalla solidità del nostro sistema bancario, che è sempre stato saldamente ancorato all'economia reale, ovvero a imprese, consorzi e distretti che hanno lavorato bene, e dalla moltitudine di queste aziende, distretti e consorzi che li rende particolarmente flessibili, capaci di adattarsi e di affrontare i mercati, laddove la domanda continua ancora a crescere, trascurando quelli dove la recessione è più profonda. Ci stiamo impegnando su questo punto.
Il nostro sistema sembra essere dunque equipaggiato per far fronte alla crisi, anche se non si nasconde l'enorme pericolo che questa recessione comporta sotto il profilo dei posti di lavoro, delle aziende ormai ai margini. Riteniamo però di poter affrontare la situazione in maniera più determinata di altri grazie alla solidità del sistema bancario, che è rimasto sempre attento e vicino alle attività produttive, alle imprese, all'economia reale, senza lasciarsi andare alle ardite costruzioni di finanza che hanno condotto alla crisi o alla scomparsa molti istituti bancari, e alla forte competitività del nostro sistema. Nel campo della meccanica, nel settore dell'agroindustria, principali settori delle nostre esportazioni, che contribuiscono fortemente al nostro surplus di bilancia dei pagamenti, cui aggiungerei quello che riguarda il mobilio e il tessile, continuiamo a mantenere margini di competitività che ci consentono di guardare a questa crisi con la forza e il desiderio di affrontarla in modo deciso.
Le ultime missioni di sistema in Vietnam e in Israele, guidate dal Ministro Scajola, che l'ICE ha organizzato insieme a Confindustria e ABI, quando ormai le dimensioni della crisi erano già evidenti, hanno visto un'elevata partecipazione di aziende italiane, 150 in Vietnam e 130 in Israele, mentre molte altre avrebbero voluto partecipare. Ciò induce a ritenere che l'attività delle nostre imprese debba tendere a raggiungere e a intercettare la domanda nei Paesi in cui continua a manifestarsi; anche se la Cina ha riconsiderato verso il basso i suoi livelli di sviluppo, pensa di mantenere i parametri di crescita al 7-8 per cento anche nel prossimo anno. Trattandosi di Paesi con un forte surplus, possono accrescere fortemente la domanda interna. Quindi, continuando a rafforzare la nostra azione di promozione nei Paesi in cui la domanda continuerà a crescere (Brasile, India e Cina), dovremmo mantenere una forte presenza in questi mercati, evitando una recessione troppo grave.
Ritengo opportuno fermarmi, per lasciare spazio alle eventuali le domande degli onorevoli deputati, che potranno mettere in evidenza anche altri aspetti.
Mi è sembrato doveroso delineare il cambiamento di scenario nell'ambito dell'OMC, le preoccupazioni legate a nuovi tipi di barriere imposte al commercio internazionale, le difficoltà derivanti dalla crisi e dalla recessione attuale e gli elementi che inducono a ritenere che l'Italia sia in grado di affrontarle, nonostante l'estrema difficoltà dei tempi, con la debita determinazione.

PRESIDENTE. Ringrazio l'ambasciatore Umberto Vattani per l'ampia e articolata esposizione.
Do la parola ai colleghi che intendano formulare osservazioni o porre quesiti.


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FABIO PORTA. Vorrei ringraziare l'ambasciatore per l'esaustiva esposizione, frutto della sua lunga esperienza.
L'ambasciatore ha opportunamente fatto riferimento al cambiamento di scenario, laddove, ricordando che il primo Round di Doha risale al 2001, si può constatare come in questi ultimi anni la presenza dei Paesi emergenti abbia modificato il quadro dei rapporti, senza considerare le recenti vicende, tra cui la grave crisi internazionale e l'elezione del nuovo Presidente degli Stati Uniti, fattori che stanno profondamente modificando il quadro degli accordi internazionali e modificheranno anche il ruolo di queste grandi organizzazioni.
Vorrei porre all'ambasciatore una domanda riguardante il ruolo sempre più importante dei Paesi del BRIC (Basile, Russia, India e Cina), che devono essere considerati per il loro crescente peso economico e commerciale, per cui nessuno pensa più di escluderli, a partire dal prossimo G8 che si terrà in Italia, e per il ruolo che rivestono nelle questioni ambientali e di rispetto dei diritti umani e in particolare dei lavoratori. Alcune settimane fa, ho partecipato ad alcuni incontri del Presidente della Repubblica del Brasile e lo stesso Presidente Lula ha posto la variabile sociale come determinante negli accordi di tipo commerciale.
Sotto questo profilo, sono lieto di sentir affermare dall'ambasciatore Vattani che in materia di agricoltura, punto centrale della discussione di Doha, il ruolo e l'orientamento dell'Italia debbano essere di massima apertura, proprio perché i nostri prodotti sono di altissimo valore aggregato e abbiamo interesse a lavorare non in senso protezionistico, ma aiutando Paesi come il Brasile e l'Argentina, produttori di materie prime a basso valore aggiunto.
Considerando anche la questione dell'etanolo e del biodiesel, abbiamo interesse a sviluppare un rapporto positivo con questi Paesi, in particolare con il Brasile, perché gran parte della tecnologia usata sia nelle raffinerie di biodiesel sia nel settore automotivo, ad esempio nel motore quadriflex, è prevalentemente italiana.
Vorrei infine chiedere all'ambasciatore Vattani quale ruolo intendiamo giocare anche all'interno dell'Unione Europea. Poiché proprio oggi il Presidente della repubblica francese Sarkozy si trova in Brasile per l'incontro tra Unione Europea e Paesi dell'America latina come presidenza di turno, mi sembra importante sottolineare anche questa dimensione e rilevare l'esigenza che l'Italia svolga un ruolo forte anche all'interno del quadro europeo.

MARCO FEDI. Vorrei fare alcune velocissime considerazioni e porre due domande all'ambasciatore Vattani, che ringrazio per la sua esposizione. Condivido la riflessione sul mancato superamento di alcune barriere tradizionali, più legate a forme di protezionismo. Accanto alle green barrier, quindi gli aspetti legati alla tutela e alla protezione dell'ambiente, si trovano le barriere legate all'etica e alla protezione del lavoro, le work ethic, questioni all'attenzione del dibattito politico internazionale. Rispetto a queste nuove barriere, la lettura politica opportuna è quella di una positiva evoluzione del dibattito rispetto alla liberalizzazione, una sfida alla politica internazionale che deve trovare il giusto equilibrio nell'esigenza di mercati sempre più liberi ma sempre più rispettosi dei valori etici, come la crisi del mercato finanziario ci ha insegnato. Oggi, tutti i Paesi richiamano a un ritorno all'etica, anche per quanto riguarda gli investimenti e il mercato degli scambi.
Se questa sfida al mondo politico riguarda soprattutto l'Italia, desidero chiederle come il nostro Paese si stia preparando ad affrontare queste nuove sfide.
Il disegno di legge sullo sviluppo e l'internazionalizzazione delle imprese ha preparato un terreno sul quale ora occorre lavorare. C'è questo impegno a elaborare un testo unico sul commercio internazionale.
Rispetto al ruolo di enti importanti, quali ICE, SIMEST e a ipotesi di riorganizzazione di questo importante bagaglio


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culturale nel settore, vorrei sapere come stiamo progredendo e quali siano i futuri passaggi che riguardano soprattutto la nostra realtà.

ENRICO PIANETTA. Anche io desidero ringraziare l'ambasciatore Vattani per la chiarezza con cui ha contribuito alla nostra indagine conoscitiva.
Da poche ore, sono tornato da una visita in Israele. Nei colloqui avuti come parlamentari, ho potuto constatare il successo e l'apprezzamento della nostra missione in quel Paese, che confortano le sue parole, signor ambasciatore.
Il mondo è cambiato, ma le regole e le istituzioni non sono cambiate. Come rilevato in occasione della discussione di una mozione per quanto attiene la presidenza del G8 italiana, emerge l'esigenza di cambiare le stesse istituzioni e le regole, laddove la politica internazionale non è riuscita a far fronte a queste esigenze.
Il G20, che è stato preparato rapidissimamente, nel suo comunicato finale ha espresso con chiarezza il suo «no» al protezionismo, argomento attorno al quale costruire tutto il passaggio successivo, sebbene alcuni Paesi non siano propensi.
Ritengo inoltre che senza coinvolgere altri Paesi, a partire dal BRIC, non sarà possibile portare avanti questo discorso fondamentale per la dinamica e le caratteristiche delle imprese e della nostra agricoltura. Le vorrei dunque chiedere come portare un messaggio anche all'interno dell'Unione europea e determinare questo passaggio fondamentale verso una politica non protezionistica.
In questo contesto, l'Europa deve stipulare accordi vantaggiosi anche in ambito regionale. Vorrei sapere come si armonizzi questa esigenza in una visione più ampia e globale, per quanto riguarda la trattativa generale della modifica e dell'evoluzione dell'OMC.

STEFANO STEFANI. Ambasciatore, la ringrazio e mi scuso per il ritardo non voluto, di cui mi rammarico anche perché tenevo ad ascoltare il suo intervento fin dall'inizio. Spero comunque di poterlo leggere successivamente nel resoconto stenografico della seduta.
Nell'ultima parte del suo intervento, lei ha citato la solidità del nostro sistema bancario, confrontandola con i sistemi degli altri Paesi, che stanno subendo la crisi.
Sin dall'inizio della mia carriera di parlamentare, sono sempre stato sempre molto critico nei confronti dell'ICE. Mi dicono che lei stia provando a cambiarlo e le auguro il successo che merita.
Lei ha citato il settore meccanico e dell'agroindustria. Pur non essendo al corrente dei dati in suo possesso, nutro un minore ottimismo per il settore tessile, soprattutto alla luce dell'esperienza constatata nella recente missione a Damasco, dove nel giro di un anno una fiorente industria tessile con il 60 per cento del prodotto esportato è completamente crollata.
Vorrei ricollegarmi alle considerazioni di altri colleghi, per chiederle se non consideri necessario rivedere completamente la geografia del negoziato di Doha, non potendo più considerare India, Cina e Brasile come Paesi emergenti, cui garantire dazi favorevoli, laddove eventualmente dovremmo usufruire di dazi favorevoli per esportare in quei Paesi!
Ritengo che l'imposizione di barriere doganali su prodotti di eccellenza, che in tempi passati occupavano i primi posti nella scala dell'export del Paese, mentre oggi sono vittime di una crisi irreversibile, sia un blando palliativo. Di questo non me ne vogliano il mio segretario politico né il Ministro Tremonti, che stanno predicando dogane e contingentamenti.
Il Paese potrebbe invece trarre enorme vantaggio dall'abolizione delle dogane e quindi dei dazi, verso cui molti Paesi europei si stanno orientando. Ritengo che in alcuni settori il Paese ne trarrebbe un vantaggio tale da azzerare l'eventuale svantaggio presente in altri ambiti. Siamo ancora eccellenti in alcuni settori, come anche lei ha sottolineato.
Ritengo altresì auspicabile una ristrutturazione dell'istituto che lei presiede, che ne ridisegni non solo le strutture, ma


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anche l'organico delle sedi. È inoltre necessaria una maggiore attenzione all'evolversi dei mercati, operazione non semplice, perché ricordo che, quando ero sottosegretario al commercio estero, l'ICE era l'istituto con la maggiore presenza sindacale, per cui spostare un solo uomo era un'ardua impresa. So che lei si sta impegnando molto in questo senso.
ICE, SACE e SECIT sono indispensabili. Una volta il piccolo e medio esportatore-imprenditore italiano, essendo un solista, credeva di poterne fare a meno, mentre ne ha particolare bisogno; soprattutto per quanto riguarda il gruppo SACE, lotto da anni affinché ci sia maggior attenzione alla media impresa.
Vorrei porle alcune domande, ritenendo che possa offrirci una risposta. In particolare, vorrei una sua valutazione sulla ristrutturazione del suo istituto, a mio avviso importante, sulla possibilità di non avere dazi doganali e sul modo in cui la parte politica potrebbe dare un suo contributo.
A livello di organizzazione mondiale del commercio, ho trovato a Ginevra funzionari eccezionali, che lasciamo soli, come ho già sottolineato in questa sede. In base alla sua esperienza, che va al di là dell'ICE, può quindi indicarci come muoverci.

PRESIDENTE. Do la parola all'ambasciatore Vattani per la replica.

UMBERTO VATTANI, Presidente dell'ICE. Innanzitutto vorrei ringraziarvi per le domande poste, perché consentono di mettere a fuoco alcuni temi che nell'esposizione generale non ero riuscito a chiarire bene.
Ritengo che le significative considerazioni svolte dall'onorevole Porta si riallaccino all'idea delle regole che l'onorevole Pianetta aveva sollevato.
Il Presidente Lula è stato qui e abbiamo parlato molto. Quando si procede allo scambio, si considera anche ciò che sta dietro al prodotto: come sia stato realizzato e da chi, se sia stato utilizzato lavoro minorile, se siano state rispettate regole di protezione ambientale. Guardare esclusivamente al prodotto significa erigere una cortina tra il prodotto e chi lo ha immesso sul mercato, accantonando la trasparenza in favore di un quadro di opacità.
Abbiamo tutto l'interesse a garantire il rispetto delle regole, a far sì che nessun Paese faccia lavorare i minori in condizioni intollerabili per quanto riguarda l'igiene e la possibilità di raggiungere uno stato di educazione minimo.
Appena si comincia a parlare di social dumping, si evoca il protezionismo. È però necessario essere molto chiari su questo e affermare che continueremo a discutere della proprietà intellettuale, dei problemi dell'ambiente e dei problemi sociali, convinti che soltanto attraverso un lungo processo di persuasione e di trasparenza si riescano a stabilire delle regole. Attuare immediatamente misure tariffarie di dazio provocherebbe subito dopo una reazione scontata da parte di coloro che verrebbero bloccati, ostacolando un ulteriore dialogo.
Credo che come istituzioni della famiglia delle Nazioni Unite dovremmo essere parte attiva insieme ai nostri partner europei, perché sulla proprietà intellettuale, sul sociale, sul rispetto dell'ambiente prevalgano regole di quel tipo. Abbiamo appena firmato un accordo con la Cina proprio su questo punto nel campo del tessile. Abbiamo deciso di riunire risorse finanziarie, per far sì che da parte cinese ci sia maggiore trasparenza e maggiori possibilità di accordi con le nostre imprese. Finché lì vige una situazione di opacità totale, infatti, ignoriamo cosa accada ai nostri prodotti e cosa si possa fare con loro, mentre una maggiore disponibilità reciproca può generare effetti positivi.
Lo stesso abbiamo fatto sulla proprietà intellettuale. Noi dell'ICE abbiamo infatti organizzato fino a un anno fa seminari sulla proprietà intellettuale con l'istituzione sorella cinese, la CCPIT. Certo, non possiamo illuderci che la proprietà intellettuale venga rispettata in un mercato così ampio, in cui gli stessi cinesi non sono in grado di verificare che questo avvenga. Dobbiamo tuttavia pretendere un'azione di contrasto a livello di grandi centri commerciali


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e grande distribuzione. Lavoriamo molto su questo. Il commercio per essere fair, giusto, deve rivelare le capacità di ciascuno e non situazioni abnormi e inaccettabili, che spesso portano un vantaggio a chi non rispetta i fondamentali dettami etici dei diritti dell'uomo.
Dobbiamo mettere questo punto sempre all'ordine del giorno e contare su un'analoga azione da parte della Commissione europea nei confronti di questi Paesi, laddove gli accordi commerciali sono ormai stipulati solo dalla Commissione europea.
Per quanto riguarda l'agricoltura e il biodiesel, fino a qualche anno fa non ci eravamo accorti di come il modo di immagazzinare l'energia solare esistesse su questo pianeta da sempre, giacché se ne occupano le piante. Solo attraverso le piante abbiamo il legno, il tronco, le foglie, materiali che hanno immagazzinato l'energia solare, che poi riutilizziamo. Se ne perde una parte nel processo, ma le biomasse, i biocarburanti sono un modo di recuperare quella energia solare, che giorno dopo giorno si è estesa sul nostro pianeta facendo crescere le piante, alcune delle quali più facilmente utilizzabili, mentre altre richiedono una trasformazione più complessa.
Dobbiamo intensificare i rapporti con i grandi Paesi, in cui le foreste e le piantagioni crescono con facilità, come quelle dell'America Latina. Durante la presidenza italiana nel 2003, quando ero rappresentante permanente a Bruxelles, abbiamo accelerato enormemente le trattative e le abbiamo concluse con i Paesi della comunità andina e del centro America. Fu proprio Berlusconi a firmare questi atti alla fine della nostra presidenza nel dicembre 2003. Si tratta di Paesi che hanno i nostri stessi valori, sono europei dall'altra parte del mare. Dobbiamo dunque intensificare i rapporti con questi Paesi, per reagire all'idea di blocchi.
L'Europa verso l'Africa ha da sempre un debito morale e non può certo trascurarne i problemi. Parimenti, non possiamo ignorare i rapporti con Paesi simili a noi come quelli dell'America Latina, dove nella sola Argentina un abitante su due ha origini italiane e in Brasile esiste una ricchissima comunità.
L'onorevole Narducci qui presente ha sempre seguito i temi delle comunità italiane all'estero. Ci siamo incontrati spesso quando faceva parte del Consiglio generale degli italiani all'estero. Queste comunità sono per noi di straordinaria importanza, per cui dobbiamo continuare a premere sull'Unione europea, perché non sia solo la Spagna a lanciare questi messaggi.
Per quanto riguarda il problema della rete e degli uffici all'estero, presidente Stefani, certamente dobbiamo verificare accuratamente dove aprire o rafforzare un ufficio, perché le reti quando nascono sono già vecchie. Il mondo continua a muoversi e noi dobbiamo essere sempre vigili e presenti, dove è opportuna la nostra presenza.
Passando alle domande dell'onorevole Fedi, senza dubbio c'è un'evoluzione del dibattito. Siamo cambiati, passando da una OMC che aveva come compito precipuo quello di ridurre i tassi doganali a un'altra situazione. Il nostro è stato un Paese mercantile sin dall'epoca dei Fenici, dell'antica Roma, dei traffici nel Mediterraneo e nell'interno, laddove le spezie arrivavano all'impero romano dall'India attraverso l'Arabia Felix. Il nostro Paese ha dato il meglio nel confronto, perché siamo bravi a misurarci con gli altri. I prodotti italiani si impongono per qualità e creatività, laddove inventiamo prodotti e brand di successo. Quando invece abbiamo paura e ci limitiamo a reagire alle influenze provenienti dall'estero, perdiamo colpi.
Come mi raccontavano i miei predecessori, quando si firmò il trattato del 1957 sul mercato comune, al Ministero degli esteri si erano avute molte reazioni negative da parte della Confindustria e del mondo imprenditoriale, che temevano che in un mercato più ampio, nel concorrere e competere con Paesi come la Francia e la Germania, che avevano industrie molto più importanti e di dimensioni più ragguardevoli, ci saremmo trovati come il vaso di coccio tra i vasi di ferro.


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Proprio quell'apertura dei mercati ha invece consentito al nostro Paese di compiere un progresso e di arrivare al «miracolo economico italiano». L'evoluzione del dibattito fa sì che non si debba perdere di vista la diminuzione delle barriere, ma mantenerla viva con Pascal Lamy e con il suo successore. I funzionari che lavorano a Ginevra devono sentire non soltanto l'appoggio, ma anche il pungolo a schierarsi sempre in prima linea, così come i nostri funzionari a Bruxelles. Il Commissario responsabile del commercio internazionale, infatti, deve sempre avvertire la pressione italiana su questo aspetto.
Ormai, vendiamo soprattutto prodotti di alta qualità. Forse, quando si formò il mercato comune eravamo i cinesi di allora, quelli che producevano a basso costo prodotti di qualità inferiore, ma in grandi quantità. La situazione è completamente cambiata. Oggi, siamo un Paese il cui volume del commercio è diminuito, ma il valore è aumentato. Dobbiamo continuare su quella strada. Non abbiamo alternativa, perché i Paesi emergenti sono meglio attrezzati di noi per produrre prodotti di minore qualità e in grande numero. Siamo quindi chiamati a realizzare prodotti di grandissimo valore per la parte elevata della domanda.
Per quanto riguarda l'etica del lavoro, nel parlare di una sfida al mondo politico, riceviamo da voi queste sollecitazioni. Per quanto riguarda l'ICE, la SIMEST e la SACE, siamo in un continuo processo di riesame di quanto stiamo facendo.
Insieme alla Confindustria e all'ABI abbiamo realizzato ventitré missioni di sistema, portando aziende all'estero e l'ICE ha fornito i dati per organizzare i famosi B2B. Ne abbiamo fatti più di 36 mila, in cui imprese italiane hanno incontrato imprenditori stranieri.
In queste ultime missioni, abbiamo chiesto a un istituto di rilevazione di svolgere nel corso della missione un esame a campione mai inferiore all'85 per cento delle imprese partecipanti ponendo domande relative all'organizzazione dell'incontro, al confronto con persone interessanti, alla valutazione del tempo a disposizione, all'utilità dei seminari tematici.
Nelle ultime missioni in Vietnam e in Israele, il grado di soddisfazione ha complessivamente superato il 90 per cento, fatto che ci rende molto felici. Siamo però lieti anche delle osservazioni critiche, che ci consentono di migliorare. Abbiamo però ormai un sistema collaudato come ICE, più che Confindustria o ABI, perché 365 giorni l'anno abbiamo contatti con le aziende e con le associazioni di categoria industriali di quei Paesi. I B2B sono quindi l'effetto diretto delle azioni promosse dall'ufficio locale ICE nel territorio.
Ringrazio l'onorevole Pianetta per aver ricordato il successo della missione in Israele. Ha inoltre sottolineato l'importanza delle regole e delle istituzioni, per cui abbiamo un'occasione straordinaria, giacché nel 2009 il Presidente Berlusconi, il nostro Governo, avrà la presidenza del G8.
Sulle regole, sui messaggi forti da inviare, sul ruolo fondamentale del G8, di cui l'Italia è membro sin dalla sua origine nel 1975, il Presidente potrà svolgere un'azione straordinaria.
Il G20 è un organismo che vive solo perché è presieduto dalla Gran Bretagna. Prima di Gordon Brown, nessuno ne aveva mai sentito molto parlare, perché è un gruppo di Paesi disomogeneo, privo di struttura, che si riunisce ogni volta in un Paese diverso. Nel momento più grave della crisi, però, l'abilità dimostrata da Gordon Brown nel radunarli a Washington, con un presidente uscente e uno che stava per entrare in carica, è stata una mossa politica straordinaria, che ha accresciuto anche la sua bassa popolarità nei sondaggi in Inghilterra.
Noi abbiamo il G8, che invece ha una sua struttura, i suoi sherpa e soprattutto il Presidente possiede la capacità di inaugurare con il Presidente Obama un discorso a tutto raggio, laddove ha già un magnifico rapporto con Medvedev e Putin, con Sarkozy, con Gordon Brown e con gli altri. Sono quindi convinto che, a partire dal 1o gennaio, avremo un presidente del G8 estremamente attivo, capace di riunire le


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possibili aree di consenso su temi come quelli relativi a istituzioni nate più di cinquant'anni fa in un mondo totalmente diverso, e a come affermare regole con chiarezza. Il processo della formazione delle regole richiede tempo, perché è simile al percorso di un bambino che diventa adulto. Dobbiamo quindi spingere maggiormente il processo di elaborazione delle regole.
È necessario ricordare che in questa crisi, se alcuni Paesi hanno accumulato surplus, altri hanno accumulato debiti, se alcuni hanno i soldi, altri desiderano prenderli in prestito. Non si possono prestare soldi, se non c'è chi si indebita. A livello macroeconomico, occorre ricordare alcune regole fondamentali, che il nostro Presidente del Consiglio riuscirà sicuramente a far valere, quali l'importanza del commercio, della trasparenza, del rispetto delle regole, di garantire che chi ammassa surplus non possa stare a guardare, senza consentire prestiti.
Desidero ringraziare il presidente Stefani per quello che ha detto, prima di tutto per le critiche mosse all'ICE, giacché non siamo contenti. Nell'ICE non abbiamo un sistema geografico: abbiamo la merceologia, che è importantissima, ma, se chiedo a un mio collaboratore cosa stiamo facendo in Vietnam, in Perù o in Marocco, non sa rispondere, perché deve riunire una serie di elementi per ottenere infine un mosaico. Dobbiamo introdurre un criterio geografico per valutare meglio dove abbiamo possibilità.
In secondo luogo, per quanto riguarda la geografia delle reti, concordo con quanto è stato rilevato, ma negli ultimi tre anni abbiamo realizzato un cambiamento, aumentato da due a sette i nostri uffici in Cina, moltiplicato i nostri uffici in India e in Brasile, rafforzato la rete in Russia e diminuita in Paesi che rappresentano ormai mercati domestici quali il Portogallo e l'Olanda, in cui non c'è questo grande problema. Continueremo a partecipare alle grandi fiere tedesche e francesi. Siamo altrettanto forti - se non di più - dei francesi e dei tedeschi nel sistema fieristico, ma non c'è bisogno di un ufficio sul posto. Abbiamo la possibilità di inviare missioni, di ospitare gli organizzatori in Italia.
Quanto all'ipotesi di abolire le dogane e portare a zero i dazi, concordo con il presidente Stefani. Ritengo che su un level playing field, l'italiano sia, come diceva Vittorio Alfieri, una pianta forte e robusta, che non deve temere la concorrenza. Dobbiamo quindi avere spazio e sbocchi, mandare le nostre imprese ovunque.
Sono d'accordo, caro presidente, che ICE, SIMEST e SACE debbano fare molto. Lo stiamo facendo, non siamo ancora soddisfatti, continueremo a farlo e le critiche sono benvenute, giacché solo chi non accetta critiche non può migliorare, perché rimane impermeabile ai consigli e ai suggerimenti.
Desidero tuttavia evidenziare il nostro punto forte. Da quarantadue anni, l'ICE forma ragazzi e ragazze rendendoli manager per il commercio internazionale. Ne abbiamo formati più di duemila. Questi ragazzi sono straordinari: arrivano da noi dopo quattro anni di università con poca esperienza del mondo, noi li collochiamo nei nostri uffici o in aziende italiane all'estero. Dopo un anno, sono persone totalmente diverse, capaci di districarsi, di viaggiare, di muoversi, di prendere contatti, di scrivere un appunto, di presentare diapositive proponendo obiettivi e mezzi per raggiungerli.
Dobbiamo immettere rapidamente i nostri giovani nel mercato del lavoro. Non abbiamo bisogno di tanti che traducano dal latino al greco o di tanti avvocati, perché ne abbiamo più di tutto il mondo. Dobbiamo avere invece ragazze e ragazzi favorevoli a viaggiare. Godiamo infatti di una rilevante popolarità, sulle cui radici spesso mi interrogo. Un italiano che si presenti a un imprenditore o a un'azienda per un incontro di lavoro desta subito una certa simpatia. Forse, lo dobbiamo al nostro carattere, all'essere più disponibili, più flessibili di altri. È un atout formidabile.


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Mi chiedo dunque se l'ICE non debba rafforzare, con il tramite delle università e dei centri di ricerca, questi corsi destinati ai laureati, per immetterli rapidamente nei mercati esteri e fargli fare un'esperienza molto importante. Ogni tre mesi, consegno loro i diplomi e li trovo entusiasti delle avventure vissute e desiderosi di rappresentare il nostro Paese all'estero in tutto quello che produce.

PRESIDENTE. Nel ringraziare l'ambasciatore Vattani per la consueta iniezione di fiducia e per le grandi conoscenze offerte a questa Commissione, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14.

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