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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione III
4.
Giovedì 19 febbraio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Stefani Stefano, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUI PROBLEMI E LE PROSPETTIVE DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE VERSO LA RIFORMA DELL'OMC

Audizione del sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico, Adolfo Urso:

Stefani Stefano, Presidente ... 3 9 15 19 22
Antonione Roberto (PdL) ... 14
Corsini Paolo (PD) ... 13
Dozzo Gianpaolo (LNP) ... 11 19 21
Narducci Franco (PD) ... 9
Pianetta Enrico (PdL) ... 12
Urso Adolfo, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico ... 3 15 19 21 22
Zacchera Marco (PdL) ... 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE III
AFFARI ESTERI E COMUNITARI

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 19 febbraio 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE STEFANO STEFANI

La seduta comincia alle 9,05.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico, Adolfo Urso.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sui problemi e le prospettive del commercio internazionale verso la riforma dell'OMC, l'audizione del sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico, con delega all'internazionalizzazione, l'onorevole Adolfo Urso.
Ricordo che questa è la quarta audizione sull'argomento e che ieri l'ufficio di presidenza ha deciso di proseguire le audizioni, ascoltando anche le associazioni di categoria.
Do la parola al sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico Adolfo Urso.

ADOLFO URSO, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. Grazie presidente Stefani, grazie alla Commissione esteri della Camera dei deputati che ha voluto realizzare questa indagine conoscitiva, tanto più importante oggi alla luce ovviamente della recessione economica e delle reazioni, o delle tentazioni, protezionistiche che in alcuni Paesi, anche nostri partner cominciano a manifestarsi e che noi dobbiamo assolutamente rigettare. L'audizione riguarda lo svolgimento del negoziato di Doha, il cosiddetto Doha Round, che dovrebbe riscrivere le regole del commercio mondiale.
Il negoziato commerciale multilaterale nell'ambito del WTO, ancora in corso, fu appunto lanciato a Doha alla fine del 2001 - mi trovavo in quella occasione a rappresentare il Governo italiano - dopo il fallimento del vertice di Seattle, avvenuto anche sulla base delle manifestazioni popolari che lì si manifestarono, all'indomani della tragedia delle «torri gemelle», in un clima «volontaristico» di ripresa dell'attività internazionale e alla ricerca di una rinnovata «solidarietà» anche in campo commerciale. Ricordiamo che in quelle settimane gli aerei dell'alleanza cominciarono ad arrivare in Afghanistan.
L'Agenda concordata era molto ambiziosa e poneva particolare attenzione alle esigenze dei Paesi in sviluppo, tanto che il negoziato fu da allora conosciuto come l'Agenda di Doha per lo sviluppo.
Nella riunione ministeriale di Doha che decise la trattativa furono prese anche importanti decisioni in merito alla questione dei cosiddetti «farmaci salvavita», dove l'Italia ha svolto un importante ruolo di avanguardia, che furono poi attuate negli anni successivi.
I temi negoziali all'ordine del giorno riguardavano l'agricoltura (smantellamento delle sovvenzioni all'export, riduzione sostanziale del sostegno interno e apertura dei mercati, incluso quello europeo), i NAMA o prodotti industriali (riduzione


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delle tariffe e delle misure non tariffarie), i servizi, la facilitazione degli scambi, nonché alcuni temi nuovi (i cosiddetti «temi di Singapore», investimenti, concorrenza, appalti pubblici), successivamente usciti dal negoziato - durante, purtroppo, il vertice di Hong Kong del dicembre 2005 - per l'opposizione dei PVS. Di particolare interesse italiano, erano state inserite le indicazioni geografiche, e fu considerato un successo per le aspettative e le prospettive del nostro Paese.
Esauritosi man mano lo «spirito di Doha» - dal 2001 ad oggi tante cose sono cambiate - emerse rapidamente la complessità del negoziato, il cui punto nodale era costituito dall'agricoltura, come nella maggior tradizione dei passati negoziati GATT: le discussioni si concentrarono così su questo tema, al quale fu affiancato quello dell'accesso al mercato di prodotti industriali, nel tentativo di riequilibrare il livello delle concessioni. In pratica i due temi su cui si è approfondito il dibattito riguardano l'agricoltura e i prodotti industriali. Si andò avanti così per lunghi anni alla ricerca delle «modalità» negoziali in agricoltura e prodotti industriali, fino alla battuta di arresto del luglio 2008, quando si pensava che il negoziato si stesse concludendo. Il negoziato - allora rappresentavo il Governo a Ginevra - si sviluppò per dieci giorni, il massimo tempo realizzato per un negoziato internazionale, ma poi alla fine non si riuscì a concludere. Ancora oggi si tenta di trovare un nuovo slancio, per pervenire alla conclusione del Doha Round, dalla quale si attende un contributo alla ripresa dell'economia mondiale, tanto più alla luce della recessione economica globale.
Ogni Paese ritiene di ottenere benefici al termine del Round, ma non vi è chiarezza né consenso su come quantificarli. Uno studio dell'Università del Michigan ha rilevato che se le barriere attuali in agricoltura, NAMA e servizi si riducessero di un terzo, ci sarebbe un aumento della ricchezza mondiale pari a 574 miliardi di dollari. Altri studi presentano risultati più modesti o più ottimistici in un range che va da 84 a 287 miliardi annui a partire dal 2015, altri ancora indicano un aumento di ricchezza fino a 3 mila miliardi di dollari annui. Come si vede le opinioni in tal senso sono diverse ancorché tutti segnalano comunque un aumento di ricchezza, ove si realizzasse il Doha Round
Il Round ha conosciuto un nuovo momento di crisi, come già ricordato, nella riunione ministeriale del luglio dello scorso anno a Ginevra, proprio quando si era avuta l'impressione di essere ad un passo dalla svolta, che avrebbe consentito di procedere speditamente verso la conclusione e anticipare gli effetti della recessione economica internazionale.
Le discussioni si sono interrotte su un punto agricolo, il diciannovesimo dei venti previsti (le misure di salvaguardia speciale), di non prioritario rilievo, per la contrapposizione insanabile tra Stati Uniti e India, «casualmente» i due Paesi con scadenze elettorali ravvicinate (le elezioni indiane si svolgeranno tra aprile e maggio). Su tutti gli altri punti sembrava fossero stati raggiunti validi compromessi per fissare le modalità negoziali, sulla cui base incardinare le rispettive concessioni. Sui diciotto punti precedenti si era raggiunta una intesa di massima. Il ventesimo punto avrebbe riguardato le tematiche inerenti il cotone, su cui gli Stati Uniti non potevano cedere anche perché c'erano le elezioni alle porte; quindi, verosimilmente, il negoziato si è interrotto al diciannovesimo punto perché il ventesimo sarebbe stato impossibile da traguardare e da spiegare, in quanto il cotone vede contrapposti gli interessi di alcune grandi imprese americane a quelli di alcuni Paesi africani poveri.
L'Unione europea era disponibile ad accettare il pacchetto così come si stava formulando, anche se su alcuni temi (in particolare i prodotti industriali) i risultati sarebbero stati inferiori alle ambizioni e su altri (quali le indicazioni geografiche) mancavano ancora concrete ipotesi circa il futuro del negoziato.
Per quanto riguarda i prodotti industriali - potremo poi approfondire la tematica - in realtà il negoziato oltre a


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ridurre, anche se non in maniera sensibile, i dazi consolidati dei cosiddetti Paesi emergenti, di fatto congelava la possibilità per questi Paesi di alzare i dazi, cosa che purtroppo invece sta avvenendo o potrebbe avvenire.
Dunque l'effetto più significativo di quel negoziato, ove fosse andato in porto in quei termini, sarebbe stato di impedire ogni tentazione protezionistica che ora invece si sta realizzando o si potrebbe realizzare, in quanto la gamma tra i dazi consolidati e i cosiddetti dazi virtuali (in termini negoziali si dice «l'acqua che c'è») è in realtà molto ampia; in alcuni prodotti i Paesi in via di sviluppo applicano un dazio consolidato tra il 25 e il 35 per cento ma in teoria potrebbero alzarlo fino al 120-130 per cento. Quella «acqua che c'è» è quella che sarebbe stata tolta se il negoziato fosse stato concluso.
In agricoltura, la riduzione dell'80 per cento del sostegno interno (da 118,7 miliardi di euro a 21,9) consentirebbe comunque la continuazione del finanziamento della PAC. Quindi l'accordo raggiunto a Ginevra in agricoltura per l'Italia era comunque conveniente, perché si sarebbe potuta mantenere la PAC e si sarebbero potuti escludere dal pacchetto finale, e quindi proteggere, i prodotti tipici mediterranei. Di qui la valutazione positiva da parte dell'Italia per i tagli progressivi previsti in materia di accesso al mercato, tenendo conto che nella banda più alta (quella in cui ci sarebbe stato il taglio maggiore, con una riduzione del 70% del livello di protezione) vi sono per la maggior parte prodotti continentali che siamo costretti ad importare per il fabbisogno dell'industria agro-alimentare.
In pratica il pacchetto agricolo, così come lo stavamo negoziando, prevedeva sì tagli sostanziali, ma questi riguardavano esclusivamente i prodotti continentali, che sono oggi più protetti di quelli mediterranei, per errori negoziali del nostro paese negli anni precedenti. Di conseguenza il pacchetto andava paradossalmente a vantaggio dell'industria agro-alimentare italiana che quei prodotti continentali comunque importa; pensiamo al caso delle carni.
Risultano accettabili anche la fissazione al 4 per cento delle linee tariffarie per il numero dei prodotti sensibili, nonché il mantenimento dei prezzi d'entrata.
Restano ancora tuttavia da risolvere due punti per noi importanti e cioè la lista dei prodotti tropicali e l'estensione della protezione ai prodotti diversi da vino e spiriti. Per i prodotti tropicali comunque la commissaria europea all'agricoltura ci ha ripetutamente assicurato che i prodotti tipici mediterranei, che erano stati inizialmente inseriti nella lista, sarebbero stati esclusi e quindi per essi sarebbe rimasta la protezione già in vigore.
Per i prodotti industriali, pur con l'adozione di coefficienti elevati per i Paesi in sviluppo e le flessibilità loro concesse (parzialmente compensate dagli effetti della clausola anticoncentrazione), avremmo conseguito vantaggi dati dalla grande apertura per i nostri prodotti nei mercati dei Paesi OCSE, che sono i mercati più ricchi e più avanzati, e da una riduzione sensibile del livello dei dazi consolidati nei Paesi emergenti e, molto importante per le nostre PMI, la riduzione o eliminazione degli ostacoli non tariffari. Una delle misure protezionistiche che si sta cercando di attuare da parte di alcuni Paesi emergenti - ma non solo, pensiamo al caso del Giappone con le calzature - è quella di porre non ostacoli tariffari, che sono facilmente individuabili, commisurabili e talvolta superabili, ma ostacoli non tariffari, quali quelli doganali o certificazioni di qualità così astruse da rendere impossibile la certificazione del prodotto. Uno degli elementi importanti del negoziato, su cui noi insistiamo, è appunto l'armonizzazione delle norme doganali e delle cosiddette certificazioni di qualità, in modo che esse non siano surrettiziamente protezionistiche. Ciò è particolarmente importante per l'Italia che presenta molte piccole e medie imprese esportatrici, che con più difficoltà delle grande imprese


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possono certificare i loro prodotti in ogni Paese o modificarli alla luce delle certificazioni esistenti.
Per i servizi, era stata realizzata una conferenza cosiddetta «di segnalazione» dalla quale era emersa la manifestazione di volontà di migliorare le offerte, che lasciava spazio a prospettive positive, anche se solo da un limitato numero di Paesi (circa trenta).
In merito alle indicazioni geografiche l'Italia - vista la forte opposizione di alcuni importanti partner negoziali come gli USA - aveva ottenuto che la Commissione europea operasse tutti gli sforzi necessari per far rientrare questo dossier tra gli interessi prioritari della Comunità. Per quanto riguarda il registro multilaterale dei vini si erano registrati progressi e, in merito al controverso tema dell'estensione della protezione a prodotti diversi dagli alcolici, garanzie che il tema non fosse estromesso dal negoziato.
Questo anche grazie ad una lettera congiunta inviata alla Commissione da parte di dodici Paesi membri dell'UE, realizzata su iniziativa italiana.
L'attuale crisi economica non rappresenta certo il contesto migliore per una rapida conclusione dell'agenda negoziale: è indubbio che l'odierna situazione può spingere alcuni Paesi a ripiegarsi in atteggiamenti protezionistici, con spiacevoli conseguenze per il commercio internazionale. Ricordo a me stesso che la crisi 1929 si è avvitata su se stessa, aggravandosi e moltiplicando gli effetti negativi, come conseguenza di una misura protezionistica che gli Stati Uniti presero - appunto il buy american - nel 1930 su un'iniziativa di due senatori. Dopo di allora - fece altrettanto la Gran Bretagna - si è sviluppata una spirale protezionistica nel mondo, sono caduti gli scambi commerciali e l'economia mondiale è entrata in una fase di collasso economico-produttivo, da cui è uscita, dopo una ondata totalitaria nel cuore dell'Europa, con la guerra mondiale.
È proprio per evitare il diffondersi di tali pratiche che nel novembre scorso, durante il G20 di Washington, i Paesi ricchi ed emergenti hanno riaffermato la loro convinzione che i principi del libero mercato rappresentino la via più sicura per una prosperità di lungo periodo. Tutti conoscono la storia e non vorrebbero che si riproponesse. In quell'occasione, infatti, gli stessi Paesi si sono impegnati a mantenere il medesimo livello di apertura degli scambi e ad evitare l'introduzione di nuove misure protezionistiche o restrittive che si potrebbero invece realizzare. Ricordo che in quell'occasione fu preso un impegno, che purtroppo non è stato possibile mantenere, per concludere il Doha Round entro il dicembre del 2008.
Un contributo in tale direzione potrebbe venire anche dal prossimo vertice del G8, di cui l'Italia detiene quest'anno la Presidenza. A tale riguardo, da parte del Ministero dello sviluppo economico è stata prospettata la possibilità che, preliminarmente al vertice formale di luglio, si organizzi un seminario dei G8 (allargato ad altri importanti partner, verosimilmente i componenti dell'attuale G20) incentrato sul commercio, proprio per riaffermare l'abbandono del protezionismo e fornire un segnale forte contro la crisi, eventualmente per preparare la strada ad una dichiarazione in senso liberista da parte dei «grandi» a La Maddalena. Questa proposta è stata presentata al direttore generale dell'OMC, Pascal Lamy, in un incontro tenutosi a Roma la scorsa settimana. Lamy, tuttavia, pur considerando importante la realizzazione del seminario, ed anzi auspicandola, ritiene che la discussione sulla Doha Round venga riavviata nell'alveo tradizionale del WTO a Ginevra.
La positiva conclusione del round negoziale di Doha assume, a questo punto, una importanza cruciale per l'economia mondiale.
La svolta nei negoziati dipenderà, tuttavia, dall'atteggiamento di due dei maggiori protagonisti, Stati Uniti e India, gli stessi cui è stato imputato il fallimento della tornata di luglio 2008. L'India, per essere chiari, tende in questa fase della storia del commercio mondiale a strappare al Brasile e impedire alla Cina di diventare leader dei Paesi in via di sviluppo. Negli ultimi anni questa leadership


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è stata, infatti, assunta abbastanza chiaramente dal Brasile, attraverso la presidenza Lula ed il ministro Celso Amorin, ed è sempre stata contesa dell'India con il suo ministro del commercio Kamal Nath. Negli ultimi tempi la Cina, che stato finora un gigante dormiente all'interno del WTO, ha manifestato un interesse ad assumere la leadership dei Paesi in via di sviluppo. In questa contesa si è in qualche misura impantanato il negoziato, che potrà sbloccarsi solo quando essa sarà risolta.
Gli Stati Uniti hanno storicamente una difficoltà a definire le proprie linee di politica commerciale al cambio dell'amministrazione e per questo si attende che esse siano definite anche in conseguenza delle decisioni che si stanno assumendo nel quadro dei piani anti-crisi in corso di elaborazione. Le elezioni indiane previste tra aprile e maggio (che seguiranno di poco quelle in Sudafrica, altro Paese guida tra i Paesi in via di sviluppo) saranno invece determinanti ai fini dell'atteggiamento con cui questi Paesi si presenteranno all'appuntamento di una eventuale nuova ministeriale di Ginevra prima dell'estate. La finestra giusta è quindi quella post-elettorale, verosimilmente nel luglio di quest'anno a Ginevra.
Per quanto riguarda il numero di Paesi con cui rilanciare il negoziato sul Doha Round, sarebbe opportuno abbandonare i formati sperimentati nel 2007 e nel 2008 (rispettivamente G4 e G20) o le «miniministeriali», non più in grado di coagulare il consenso degli altri membri dell'OMC, ed orientarsi su un gruppo di quattordici Paesi che possano rappresentare in modo adeguato, sia geograficamente che economicamente, i vari continenti, quindi, oltre ai maggiori Paesi industrializzati e agli «emergenti», anche alcuni Paesi africani e arabi. Come i colleghi sanno, è in atto un dibattito tra coloro che pensano che il G8 sia ancora uno strumento adeguato, coloro che pensano che il G20 possa essere la nuova formula per definire la governance in campo economico mondiale, e chi pensa, come me, che il G8 non sia più adeguato a rappresentare i nuovi poteri dell'economia mondiale, - anche perché rappresenta non più l'80 per cento ma ormai il 40 per cento dell'economia mondiale - e il G20 (in cui oltretutto vogliono entrare altri Paesi quali la Spagna, la Svizzera e i Paesi Bassi) rappresenti un consesso troppo variopinto e largo per essere una tavola della nuova governance mondiale.
Verosimilmente per quanto riguarda l'economia, ma non solo, la forma più appropriato sarebbe quella di riconoscere ai grandi Paesi emergenti un posto alla tavola dei big. Quindi oltre agli attuali Paesi del G8 (che - per annotazione culturale - rappresentano soltanto i popoli che vivono attorno alla calotta artica) includere i Paesi emergenti che hanno una dimensione economica globale come Cina, India, Brasile e Sudafrica. Se a questi Paesi si aggiungesse un rappresentante del mondo arabo (l'Arabia Saudita o il Paese che guida il Consiglio di cooperazione del Golfo a rotazione) e l'Unione africana o un grande Paese africano come l'Egitto, si avrebbe una composizione che rappresenterebbe oltre l'80 per cento dell'economia mondiale e nel contempo tutte le aree significative in termini culturali, politici e forse anche religiosi.
E la stessa riforma potrebbe un giorno riproporsi per quanto riguarda il Consiglio di sicurezza dell'ONU.
Come evidenziato in precedenza, la crisi economica conseguente a quella finanziaria ha indotto alcuni Paesi ad adottare misure che potrebbero, alla lunga, avviare una involuzione protezionistica su scala più ampia.
Fino a questo momento, sono pochi i casi di aumento delle barriere tariffarie o non tariffarie. Le misure più significative, adottate principalmente da Paesi in via di sviluppo, sono consistite, piuttosto in aiuti di Stato a particolari settori industriali, in primis quello automobilistico, che è tra quelli più duramente colpiti. Nell'ambito dei Paesi industrializzati, per esempio, Stati Uniti, Canada, Svezia, Germania, Francia e Australia hanno già annunciato piani di incentivazione e finanziamenti per la ricerca a sostegno dell'industria automobilistica in genere e, più specificamente,


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delle proprie case produttrici. Tra i Paesi emergenti, si sono già impegnate in tal senso l'Argentina, la Repubblica di Corea e la Cina. Altri settori che hanno potuto beneficiare di aiuti di Stato sono stati il trasporto aereo, il settore edilizio, quello siderurgico e dei semiconduttori.
Un richiamo a parte può essere fatto, per il suo grande valore evocativo, al piano anti-crisi recentemente adottato dal Congresso americano, che stanzia quasi 800 miliardi di dollari di incentivi, all'interno del quale vi sono alcune misure che possono essere considerate protezionistiche. Come voi sapete le misure chiamate buy american sono state poi mitigate da un riferimento alle norme internazionali, per cui è stato inserito dal Senato, su segnalazione dello stesso Presidente Obama, un inciso che dice che i prodotti del ferro e dell'acciaio utilizzati nei piani finanziati con risorse pubbliche devono essere americani nel rispetto degli accordi internazionali. Questa forma dovrebbe salvaguardare i prodotti dell'Unione europea, che ha sottoscritto l'accordo plurilaterale - non multilaterale - sugli appalti pubblici a cui hanno aderito Gli Stati Uniti, il Canada, il Giappone, ma non alcuni Paesi emergenti come la Russia, il Brasile, la Cina e l'India. Sottolineo ciò perché questa formula potrebbe significare che i prodotti dell'acciaio di questi Paesi, che sono i più competitivi, verrebbero esclusi dai grandi appalti americani, in quanto Paesi non sottoscrittori dell'accordo plurilaterale sugli appalti pubblici. Se così accadesse è verosimile che questi prodotti, che non potrebbero entrare nel mercato americano, invaderebbero gli altri mercati, a cominciare da quello europeo. Quindi le conseguenze per la nostra industria, certamente minori di quelle evocate con la prima versione del buy american che escludeva i prodotti dell'acciaio di qualunque Paese estero, sarebbero comunque negative perché si renderebbe più difficile la competizione nel mercato interno europeo. C'è da aggiungere che questi Paesi potrebbero adottare delle misure di ritorsione nei confronti degli altri Paesi, soprattutto degli Stati Uniti, con effetto di accentuare le misure protezionistiche e di innescare quindi una spirale in tal senso.
Terzo aspetto del buy american: non è detto che i prodotti europei possano entrare nel mercato americano degli appalti pubblici perché in realtà gli Stati Uniti hanno sottoscritto un accordo plurilaterale (che non è un accordo multilaterale, sottoscritto da tutti i Paesi del WTO e come tale vincolante) che presuppone, per uno Stato federale come gli Stati Uniti, che ciascun Stato debba depositare l'accordo. In realtà solo tredici Stati, se ben ricordo, su cinquanta lo hanno fatto. Il che vuol dire che in teoria ci potrebbe essere un'interpretazione capziosa dell'accordo, per cui solo per gli appalti pubblici negli Stati che hanno depositato l'accordo non si potrebbe evitare di utilizzare i prodotti del ferro e dell'acciaio di Paesi sottoscrittori dell'accordo stesso, quindi anche dell'Unione europea. Ovviamente si tratta di un'interpretazione capziosa che non penso venga adottata, ma tutto potrebbe accadere se si innesca una spirale protezionistica, che per il momento fortunatamente viene rigettata dalle dichiarazioni di ciascun Paese.
Altri Paesi hanno attuato restrizioni all'importazione di alcuni prodotti, introdotto l'obbligo di licenza per alcuni beni sensibili e annunciato la concessione di sovvenzioni all'esportazione in determinati settori (come nel caso dell'UE per i prodotti lattiero-caseari).
Al fine di avere un quadro aggiornato delle misure introdotte dai diversi Paesi e poter intervenire prima che queste possano ripercuotersi negativamente sugli scambi, l'Organizzazione mondiale del commercio ha istituito, all'indomani del G20 di Washington, una task force di monitoraggio delle misure protezioniste, il cui primo rapporto preliminare è stato presentato la settimana scorsa al Trade Policy Review Body, l'organo dell'OMC incaricato di eseguire periodicamente una valutazione delle politiche commerciali dei Paesi membri. Quasi tutti i Paesi hanno giudicato positivamente l'esercizio, chiedendo che venga istituzionalizzato. È stato pertanto deciso che tale monitoraggio continuerà


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a svolgersi su base periodica, e produrrà il prossimo rapporto per metà marzo, alla vigilia del G20 di Londra.
In questo momento difficile occorre quindi mantenere gli occhi aperti e non permettere che le nostre imprese, specialmente le nostre PMI, debbano vedersi ostacolate nel loro accesso ai mercati esteri.
L'Italia, essendo Paese importatore di materie prime ed esportatore di prodotti finiti, quindi Paese trasformatore, ed essendo uno dei più grandi Paesi esportatori al mondo (settima ma in realtà sesta poiché molti esportazioni avvengono attraverso la triangolazione dei Paesi Bassi), ha necessità, come e più degli altri, di un mondo aperto senza dazi o ostacoli. Importando materie prime ha bisogno che esse costino il meno possibile ed esportando prodotti finiti, ha bisogno che essi trovino liberamente i mercati mondiali e al miglior prezzo. Abbiamo quindi, più di altri, la necessità che il mondo non alzi barriere e protezioni e non ostacoli i commerci.
Per questo motivo anche l'Italia intende creare una sorta di «osservatorio» nazionale contro il protezionismo. Lo abbiamo fatto nel nostro Dicastero raccogliendo tutte le segnalazioni provenienti dal mondo imprenditoriale e dalle reti diplomatiche e dell'ICE, in modo da poterle poi notificare ai vari organismi competenti, in primis la stessa Commissione europea, e rafforzarne così l'azione.
Il Ministero dello sviluppo economico vuole quindi realizzare questo osservatorio per comporre una mappatura completa e monitorare continuamente tutti i fenomeni che impediscono il normale accesso delle nostre imprese nei mercati esteri.
In conclusione se il Doha Round era necessario ed utile in un momento in cui l'economia mondiale cresceva e si espandeva, perché avrebbe liberato l'accesso ai mercati e quindi moltiplicato gli scambi commerciali e accentuato lo sviluppo, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo, questa necessità è diventa impellente nel momento in cui ci sono delle tentazioni protezionistiche che, seppure rigettate, sopravvivono. Perché la conclusione del Doha Round comunque imbriglierebbe ogni tentazione protezionistica, soprattutto dei Paesi in via di sviluppo e tanto più dei Paesi emergenti, perché li obbligherebbe a consolidare i propri dazi al livello più basso e non poterli più alzare a loro piacimento, e nel contempo, perché rimuoverebbe, armonizzandoli, tutti quegli ostacoli non tariffari, spesso surrettiziamente protezionistici, che invece questi Paesi stanno proprio in questo contesto moltiplicando. Per questo il nostro auspicio e il nostro impegno è affinché il Doha Round riprenda e si possa concludere ed i Paesi reagiscano insieme evitando ogni tentazione protezionistica per non imboccare la strada drammatica presa nel 1930.

PRESIDENTE. Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

FRANCO NARDUCCI. Anzitutto, vorrei esprimere un apprezzamento sincero per la relazione del sottosegretario Urso, al quale tutti noi riconosciamo una competenza enorme sul versante del commercio mondiale. Ricordo che, quando ero segretario generale del Consiglio generale degli italiani all'estero (CGIE), alla prima conferenza Stato-regioni-CGIE - nel 2001, se ricordo bene - si discusse la prima proposta di legge sull'internazionalizzazione, da lei presentata.
Credo che questa audizione giunga in un momento molto importante, perché è evidente che spinte molto protezionistiche, ultimamente, sono state al centro dell'agenda politica di molti incontri internazionali.
Ci si aspettava che dal forum di Davos venisse qualche indicazione, ma tale forum, per quanto emerso, è stato piuttosto al ribasso; da parte dei leader e degli economisti, comunque, è venuta la raccomandazione - la chiamerei così - ad evitare spinte protezionistiche.
Certo, la crisi che lei ha giustamente evidenziato spinge molti Paesi a stringere accordi bilaterali piuttosto che multilaterali, con il rischio, quindi, di un neo-mercantilismo,


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che evidentemente porterebbe danni incredibili allo sviluppo, al progresso e al commercio mondiale.
Anche negli Stati Uniti, puntando sul rilancio dell'economia interna, sono aumentate le spinte protezionistiche e si deve ritenere che esse aumenteranno ancora di più. Sullo sfondo c'è il problema drammatico dell'acqua. Se n'è occupato anche James Bond, ultimamente, quindi è un tema che evidentemente colpisce moltissimo!
Credo che l'Italia - proprio perché condivido pienamente quello che lei ha appena detto - da Paese tra i più grandi esportatori di prodotti trasformati al mondo, debba capire qual è il suo importante ruolo nel quadro del commercio mondiale e debba, quindi, continuare a muoversi contro una linea di protezionismo che, in qualche modo, sta emergendo anche nel nostro Paese.
Ora, a parte la battuta secondo cui il fatto che il burro è stato rimosso da Montecitorio - come dicono i giornali questa mattina - probabilmente porterà Sarkozy a proibire il parmigiano all'Eliseo, credo che giustamente l'Italia debba svolgere un ruolo forte per proteggere i propri prodotti, soprattutto agricoli, ma debba avere anche un ruolo importante - oserei dire: trainante - all'interno dell'Unione europea.
Da questo punto di vista, quindi, credo che l'osservatorio da lei annunciato sia veramente uno strumento adatto e utile perché, mentre una volta esistevano i grandi blocchi rappresentati da Stati Uniti, Unione europea e MERCOSUR, ora altri attori sono entrati con forza sul mercato. Ci sono altri grandi blocchi, la cui politica verso i Paesi in via di sviluppo - pensiamo alla Cina - è veramente molto forte: condivido quanto lei ha detto. Oggi i cinesi utilizzano, soprattutto in Africa, ogni mezzo e ogni strumento, pur di accaparrarsi una leadership dal punto di vista dell'aiuto ai Paesi in via di sviluppo; e questo deve far riflettere.
Noi, per esempio, abbiamo tantissime organizzazioni italiane attive nell'America centrale. Vorrei ricordare la conferenza in Guatemala di un anno fa e anche il ruolo forte assunto da parte dell'Italia e, in particolare, della Farnesina.
Credo, quindi, condividendo moltissime delle cose che lei ha detto, che l'Italia si debba adoperare per rigettare con forza queste spinte protezionistiche, anche all'interno dell'Unione europea. Noi non possiamo, anche per i vincoli esistenti, scindere il nostro ruolo da quello dell'Unione europea, ma dobbiamo esercitare al suo interno un ruolo adeguato.
Soprattutto, c'è una spinta sugli ostacoli tariffari, che è in crescita, che sta aumentando. Vedo questa tentazione fortissima, per esempio, in alcuni Paesi che difendono piccole nicchie. Sono convinto - e con me il nostro gruppo parlamentare - che questa non sia la strada da seguire, ma che, invece, si debba assolutamente rilanciare il multilateralismo e, poi, procedere ad una riforma del WTO; quest'ultimo è un punto assolutamente importante.
Come si sa, io vivo in Svizzera e seguo molto da vicino le spinte protezionistiche di questo piccolo Paese che, in qualche modo, si deve difendere. Lo fa attraverso negoziati bilaterali, soprattutto con l'Unione europea, verso cui indirizza il 60 per cento delle proprie esportazioni e da cui deriva il 57 per cento delle sue importazioni.
Mi sembra chiaro che gli strumenti di cui dispone oggi il WTO, dal punto di vista del funzionamento e della rapidità delle decisioni, sono parecchio arcaici e antiquati; pertanto, credo che questi siano gli obiettivi da perseguire assolutamente, se si vuole veramente dare un nuovo assetto e una nuova impronta al commercio mondiale.

MARCO ZACCHERA. Innanzitutto, mi scuso per il ritardo, ma siccome so che la settimana ventura il sottosegretario sarà in Etiopia, ho preparato per lui un dossier, che poi gli consegnerò, sulla comunità italiana in Etiopia, che ha un po' di problemi di commercio.
Partirò proprio da questo. Apprezzo le attività del sottosegretario Urso - con


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l'augurio che presto non sia più sottosegretario: ad maiora! - e la sua iniziativa di fare questi viaggi con le aziende, perché, a giudicare dalle segnalazioni che arrivano dalle aziende che protestano per non essere state invitate, comprendiamo che tali viaggi servono e sono importanti. Non lo dico come una presa in giro! Quando arrivano gli echi di quelli che si lamentano di non essere stati invitati, ciò vuol dire che, evidentemente, i concorrenti di quelle imprese sono anch'essi interessati.
Formulerò di seguito tre domande estremamente concrete e precise.
Anzitutto, se è vero tutto quanto è stato detto - non lo ripetiamo - sugli accordi internazionali, vorrei sapere cosa può fare di meglio e di più il Governo italiano per favorire la presenza dell'Italia in quei Paesi dove la situazione è magari difficile nella contingenza, ma valida in prospettiva. Parlo dei Paesi del sud del mondo - Brasile e Sudafrica, per esempio - dove, al di là di una crisi congiunturale, anche a causa del crollo del prezzo di alcune materie prime, i tratti fondamentali evidenziano uno sviluppo. Domando questo perché sovente mi giungono segnalazioni del fatto che l'Italia non è abbastanza presente.
Da qui, la mia seconda domanda. Le nostre comunità all'estero si lamentano molto, soprattutto, della mancanza di banche italiane con le quali poter fare da trait d'union per esportare verso l'Italia e per importare dall'Italia nel Paese dove operano. Nell'ambito di questo settore che cosa possiamo fare, anche per coinvolgerle meglio? Secondo me l'Italia può tentare di aumentare la presenza di imprese italiane nel mondo bancario estero, perché altrimenti mancano i contatti. Non è possibile imporlo, ma è possibile favorirlo, mettendo in contatto, sulle piazze estere, le nostre comunità locali e un certo mondo imprenditoriale. Secondo me questo sarebbe positivo.
Venendo alla terza domanda, ricordo che qualche anno fa - devo dire anche per iniziativa della Lega nord, in un periodo in cui quella responsabilità era rivestita dall'onorevole Cota - furono organizzati una serie di uffici all'estero contro le contraffazioni. Mi sembra che questi uffici abbiano combinato o stiano combinando poco. Quali idee ha e come opera il Ministero, per cercare di farle funzionare meglio? Lo chiedo perché nei mercati stranieri si vedono ancora molte copie di prodotti italiani, con i danni conseguenti.

GIANPAOLO DOZZO. Ringrazio il sottosegretario Urso per la sua ampia relazione.
Devo dire che il fallimento dei negoziati di Doha è, in pratica, il fallimento della globalizzazione intesa come libero mercato a tutti costi. In tutti questi anni, anche se il tema dell'agricoltura, molto importante, è stato giustamente centrale nell'ambito dei negoziati, abbiamo visto che si sono comunque verificati tutta una serie di problemi che, naturalmente, hanno fortemente penalizzato l'Unione europea.
Il fallimento della politica dell'Unione europea sta nell'aver concesso troppo. Prima lei ha fatto tutta una serie di menzioni e ha parlato di riduzione dei fondi per l'agricoltura europea. Poi ha detto anche che questi fondi andrebbero comunque a coprire il costo della PAC, della politica agricola comunitaria. Alla diminuzione, operata in questi anni, da 118 a circa 21 miliardi di euro, non ha corrisposto una riduzione, per esempio, degli aiuti - i green box e i blue box - per quanto riguarda la politica statunitense.
Inoltre, abbiamo dato troppo anche per quanto riguarda il registro dei vini, di cui lei ha parlato. Vorrei ricordare a tutti i colleghi cosa abbiamo combinato un paio di anni fa, per quanto riguarda le menzioni tipiche dei vini: abbiamo concesso ad altri Paesi nostre menzioni tradizionali, in maniera particolare quelle dei vini italiani; abbiamo, cioè, concesso loro di mettere sulle etichette i nomi dei vini che noi commercializziamo in tutto il mondo, frutto dell'ingegnosità dei nostri vitivinicoltori.
Lei ha parlato anche di prodotti continentali e mediterranei. Sottosegretario, se lei si riferisce a prodotti come il latte,


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il burro, i formaggi e le carni, le faccio notare che questi prodotti continentali sono ampiamente prodotti nelle nostre zone, in Italia. Si dice che siamo contenti perché abbiamo diminuito gli aiuti ai prodotti continentali, ma questa è una questione che ho posto già quindici anni fa, appena entrato nelle aule di questo Parlamento, quando ho fatto notare che la diversità di produzione in Italia è talmente ampia che non si può parlare né di prodotti continentali, né di prodotti mediterranei. Se andiamo a vedere la produzione del pomodoro e delle conserve di pomodoro, ad esempio, lei sa benissimo cosa viene prodotto nel triangolo d'oro tra Parma, Modena e Reggio.
Al di là di tutto questo, però, io vorrei farle notare - e mi sorprende questa posizione del Governo italiano sul libero mercato a tutti costi - che comunque, come dicevo prima, se da un lato l'Unione europea e, in particolare, l'Italia, ha concesso molto, dall'altro lato, al di là dei dazi e delle tariffe doganali esistenti, messe nero su bianco, ci sono dei dazi e delle tariffe burocratiche che hanno impedito, di fatto, l'esportazione dei nostri prodotti. Questo è oggi il dato di fatto. Se non riusciamo a capire questa questione, non andiamo da nessuna parte. Abbiamo sempre parlato di dumping.
Qui si parla di abolire il protezionismo, ma io non sono tanto d'accordo su questa linea. Anche perché altrove stanno mettendo in essere un protezionismo sottile, molto sottile. Parlo della burocrazia che impedisce ai nostri prodotti di circolare, specialmente attraverso le dogane. Lei ha parlato anche di armonizzazione delle questioni doganali, sì, ma poi c'è la questione del dumping sociale.
Come possiamo permetterci di fare concorrenza a produzioni e prodotti di Paesi che operano in una situazione di dumping sociale - l'abbiamo detto migliaia di volte - utilizzando manodopera minorile, non tutelando i lavoratori, utilizzando dei prodotti gravemente nocivi per la nostra salute, che da noi sono stati banditi da tantissimi anni? Come facciamo, poi, a parlare di libero mercato?
La Lega Nord - tanto per citare l'onorevole Zacchera - ha fatto e sta facendo giustamente non solo una battaglia contro le contraffazioni, ma anche per l'introduzione di dazi doganali verso quei Paesi che pongono una barriera nei confronti dei nostri prodotti; io penso che si debba andare in quella direzione.
La questione non è tanto quella di comprare italiano, americano o europeo, e neppure di mangiare italiano o americano. La questione, in questo caso, è di prendere una decisione, perché altrimenti, signor sottosegretario, restiamo indietro.
La Cina e l'India, nell'ambito dell'Associazione delle nazioni dell'Asia sud-orientale (ASEAN), fanno tutta una serie di progetti politico-industriali e commerciali, e si mettono a confronto con quel che viene proposto nell'ambito della negoziazione del WTO, mentre noi siamo rimasti indietro. Questo è il dato di fatto che, purtroppo, non mi trova assolutamente concorde con la prospettiva di liberalizzare ancor più questo mercato.
Se andiamo avanti su questa strada, ci troveremo sempre e comunque a mostrare la nostra bella faccia per poi prendere un altro schiaffo, perché sappiamo benissimo cosa intendano e come la pensino questi Paesi nuovi produttori che si affacciano sulla scena mondiale.
Posso riferirmi anche al Brasile, per quanto riguarda il campo dell'agricoltura e dei sistemi che adottano per produrre i loro prodotti; per non parlare della questione degli OGM, che lasciamo da parte.
In conclusione, quando il Commissario europeo all'agricoltura si dimentica di inserire alcuni prodotti tipici nelle liste dei prodotti tropicali, o non riesce a farlo - anche se ha poi fatto marcia indietro - ho la netta sensazione che qualcuno o ci è o ci fa.

ENRICO PIANETTA. Signor presidente, sarò brevissimo.
Anch'io voglio ringraziare il sottosegretario per la sua esposizione. Ha cominciato dicendo «no» al protezionismo, giustamente, e ha terminato ribadendo tale «no», spiegando correttamente le esigenze


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dell'Italia e di un mercato aperto, sia per l'acquisto delle materie prime, sia per la possibilità di esportare, in modo particolare, i nostri manufatti, con tutto il valore aggiunto che ne consegue.
Come abbiamo detto anche in occasione di una mozione sul G8, il mondo ha bisogno di regole, che sono state disattese per tanto tempo. Voglio qui evidenziare una realtà quanto mai problematica.
Prendiamo il comparto dei beni strumentali - le macchine, per esempio - che ha una grande capacità di export ed esporta più del 60 per cento del prodotto. Da qui deriva l'esigenza di avere la possibilità e la facilità di esportare, ma in questo momento tale comparto (40 miliardi di fatturato, quando andava bene) registra un abbassamento della domanda di oltre il 50 per cento.
Credo che questo elemento debba suscitare grandissima preoccupazione, perché sta a significare che si è innescato un abbassamento del livello tecnologico e, quindi, l'inizio di una difficoltà ad essere competitivi in campo internazionale.
Anch'io, allora, mi pongo una domanda circa questo atteggiamento degli Stati Uniti - il buy american - che, seppure è stato poi ridotto e ridimensionato, indubbiamente, come lei, sottosegretario, ha evidenziato, segnala tutta una serie di problemi, di complicazioni, di possibili facilitazioni o, comunque, di possibilità di by-passare anche queste regole.
Allora io credo - anche in relazione al fatto che il prossimo round sarà a luglio, a Ginevra - che siamo di fronte ad un grande problema, con tutta la difficoltà di arrivare ad una definizione di regole in tempi ragionevolmente brevi.
Abbiamo il timore che, quando ci saranno le regole - noi auspichiamo, appunto, che siano regole precise contro il protezionismo e per equilibrare la dimensione globale del mondo - tutta una serie di nostri comparti si possano trovare in una condizione di grande difficoltà dovute a un transito difficile, problematico, qual è quello attuale.
È chiaro, quindi, che si tratterà di finanziamenti - ma queste sono questioni interne - e di trovare delle modalità per fare in modo che i nostri comparti delle piccole e medie industrie, che sono veramente strategici, possano sopravvivere o, comunque, avere delle potenzialità per poter poi riprendere l'attività e la capacità quando, come noi ci auguriamo, ci saranno queste regole.
Riassumendo, quindi, direi che è un bene, ovviamente, che l'Italia lavori molto in ambito europeo e anche, con grande responsabilità, in sede di G8 - in quella dimensione di G14 - però, credo anche che, con grande impegno e anche con la capacità di essere molto rapidi, si debba affrontare questa fase transitoria, che veramente diventa problematica e mette a repentaglio tutta la potenzialità futura di questi nostri comparti strategici, rappresentati dalla piccola e media industria.

PAOLO CORSINI. Il mio non vuole assolutamente essere un intervento, ma soltanto un modo per dire ad alta voce un pensiero, una constatazione, che mi veniva alla mente mentre ascoltavo l'onorevole Urso, che leggo e seguo con interesse. Anche da sindaco ho avuto occasione di ascoltare l'onorevole Urso, a Brescia, e devo riconoscere la serietà della sua impostazione. So, per altro, che è esponente di un'area politica del suo partito alla quale io guardo con una certa attenzione ed interesse.
Detto questo, e proprio per questo, la constatazione che volevo fare è la seguente. Recentemente Federico Rampini - che, come l'onorevole Urso sa perfettamente, è uno degli osservatori più attenti dei meccanismi del commercio internazionale, degli orientamenti e degli sviluppi che i Paesi come la Cina e l'India stanno perseguendo - metteva in luce una grande ipocrisia e cioè il fatto che tutti parlano di liberalizzazioni, ma in realtà tutti perseguono pratiche di tipo protezionistico.
Ascoltando l'onorevole Urso, mi venivano in mente una serie di passaggi del volume di Tremonti, La paura e la speranza, che mi pare contraddicano esattamente questa impostazione. Io ho scritto una lunga e assai critica recensione al


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volume di Tremonti, appunto perché ritengo che non ci siano alternative alla liberalizzazione, allo sviluppo della concorrenza e così via.
Del resto, i dati che Rampini riporta sia ne Il secolo cinese, sia ne L'impero di Cindia, ci dicono che gran parte delle esportazioni cinesi sono dovute a produttori occidentali che operano in Cina ed esportano da quel Paese. L'Italia, in questo quadro, ha una posizione molto minoritaria e molto subalterna rispetto alla presenza di imprese tedesche, francesi, eccetera.
La constatazione è, quindi, la seguente: va bene la linea del sottosegretario Urso, ma va molto meno bene, perché molto euroscettica, la linea del Ministro Tremonti. Abbiamo, poi, appena ascoltato anche l'onorevole Dozzo. La mia è una contestazione di tipo politico: mi pare che ci sia una certa schizofrenia tra Governo e parte della sua maggioranza.
Io rispetto profondamente l'onorevole Dozzo, perché si fa espressione e portatore di ansie, tensioni, paure e preoccupazioni che, nei territori del nord, in modo particolare del nord produttivo, sviluppato e dinamico, sono molto diffuse e presenti.
Credo, però, che se il Governo intraprenderà un orientamento, anche di tipo culturale, che si ispiri alle valutazioni che l'onorevole Urso ci ha proposto, questo sarebbe un servizio alla civiltà del Paese; e penso che, seguendo questa impostazione, sia possibile confrontarci e dialogare.
Non mi pare, infatti, che oggi, al tempo della globalizzazione, vi sia alternativa a questa impostazione e a questa linea, a meno che non si voglia ripiegare verso la nostalgia del buon tempo che fu, alla coltivazione delle colture neotribali, del luogo natio, alla chiusura angusta e localistica. È questa l'impressione che traggo.
La mia è semplicemente una constatazione, che mi sono permesso di svolgere anche perché, ormai, la nostra presenza in questa Commissione si riduce alla conversazione tra un gruppo di amici: siamo sempre qui in sei o sette, il che crea anche un clima molto cordiale.

ROBERTO ANTONIONE. Innanzitutto vorrei ringraziare lei, signor presidente, perché da lei è partita l'iniziativa, molto pregevole, di audire il sottosegretario Urso e, più in generale, di fare una riflessione complessiva sulla situazione del commercio mondiale.
Questa mattina abbiamo sentito che, obiettivamente, anche al nostro interno, addirittura all'interno della maggioranza, ci sono posizioni diverse rispetto alla crisi molto impegnativa che abbiamo di fronte.
Proprio nei momenti di crisi, quando ha paura, l'uomo mette le mani davanti agli occhi per riflesso condizionato: anziché guardare meglio quello che succede, chiude gli occhi per cercare di allontanare il pericolo. Francamente, non è l'atteggiamento migliore, ma è un atteggiamento tipico di chi ha paura, è un riflesso ben conosciuto che, però, molto spesso, non aiuta a risolvere il problema.
Voglio ringraziare, quindi, anche il sottosegretario Urso che, come hanno detto tutti - io mi aggiungo, da ultimo, al ringraziamento - è persona molto preparata, competente, seria e molto impegnata in una materia francamente non facile.
Noi, infatti, da un lato, dobbiamo cercare di corrispondere anche agli interessi che vengono dalla «pancia» del Paese. Da questo punto di vista, quindi, quel che alcuni colleghi hanno detto, in particolare il collega Dozzo, è vero e reale: chi lavora e vive al nord soffre e sente su di sé una situazione di crisi che, in qualche modo, imputa al fatto che altri Paesi stanno emergendo e, con meccanismi che non vengono considerati corretti, stanno portando via quello che era ritenuto un benessere acquisito.
D'altro lato, però, le considerazioni generali del sottosegretario Urso, che io condivido, sono del tutto evidenti. Noi siamo, cioè, un Paese trasformatore - considerato nella sua complessità, ovviamente, in maniera anche semplicistica, ma obiettivamente è così - che vive prevalentemente, in maniera importante, delle sue esportazioni e, quindi, se di fatto si costruiscono barriere ai meccanismi di


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esportazione, è chiaro che per noi questo non può essere un elemento positivo.
Occorre, quindi, mettere d'accordo, da una parte, gli interessi del breve periodo e, dall'altra, quelli del lungo periodo, che spesso sono tra loro contrapposti: non è un'operazione facile.
La mia, quindi, è una considerazione ad alta voce, che viene anche dalle osservazioni svolte dagli altri colleghi, alle quali lascio rispondere il sottosegretario Urso.
Io credo, sottosegretario, che quella che lei e gli altri membri del Governo state già facendo sia un'opera importante, ma che, da parte del Governo, dovrebbe esserci anche un'azione di informazione. Infatti, cercare di spiegare le ragioni che spingono il nostro Governo a fare una scelta coraggiosa, una scelta che in qualche caso viene giudicata negativamente - l'abbiamo visto anche all'interno della nostra Commissione - è un elemento importante, secondo me.
È necessario spiegare che, per cercare di superare una serie di problemi, non si può scegliere la strada di chiudersi in se stessi ma, viceversa, bisogna fare in modo che anche gli altri si aprano il più possibile. Occorre, dunque, spiegare le ragioni, cercare di entrare nel merito dei singoli casi e, poi, certo, fare la battaglia che fanno anche tutti gli altri.
Lo si ricordava molto bene prima, quando veniva citato Federico Rampini: tutti parlano di allargare, di liberalizzare e, poi, sottobanco, tutti quanti cercano di farsi i propri interessi, con dazi, con meccanismi burocratici e con tutto quello che si può. Questo è del tutto evidente e palese, ma se noi, che abbiamo un interesse primario a cercare di togliere tutte queste sovrastrutture e a liberalizzare il commercio, fossimo in grado di spiegare bene la nostra azione e anche di avere il consenso di chi, in qualche modo, in questo momento sta magari soffrendo, forse questa operazione potrebbe avere più successo e, probabilmente, anche il Governo potrebbe avere più capacità di incidere a livello internazionale.

PRESIDENTE. Grazie, onorevole Antonione. Porterò via anch'io due minuti: anche se avevo preparato un intervento forse più articolato, l'economia dei lavori mi obbliga a essere più conciso e a lanciare solo due o tre provocazioni, date anche dal rapporto - che dura ormai da anni - di colleganza, di conoscenza e di stima con il sottosegretario Urso.
Mi è piaciuto l'aggettivo «cosiddetti» che lei ha usato quando ha parlato di Paesi in via di sviluppo. Le rifaccio la domanda che ho fatto agli altri ospiti che abbiamo audito in questa sede: io credo che Paesi come Cina, India e Brasile non si possano più considerare in via di sviluppo, né che si possa cercare di favorirne lo sviluppo attraverso dei dazi preferenziali.
La provocazione che voglio farle, però, riguarda quello che, a mio avviso, è il fallimento completo della politica europea, in ambito di Organizzazione mondiale del commercio, per quel che riguarda l'Italia.
L'Italia, a mio avviso, è stata mal rappresentata nell'ambito dell'Unione e, in campo di dazi e di accordi, ha ottenuto sempre meno di molti altri Paesi dell'Unione stessa.
Le chiedo, allora, perché non seguiamo la strada, ove perseguibile, degli accordi bilaterali. E perché, nell'ottica di questi accordi, anche alla luce del preventivato calo internazionale del commercio - almeno stando agli indicatori, infatti, si prospetta un prossimo, futuro, se non attuale, calo dello sviluppo internazionale e del budget internazionale del commercio - non cerchiamo, ove possibile, il dazio «zero per zero»? Perché non aiutiamo chi si sta già movendo in questo senso?
Io ho finito, avrei altre cose da dire, ma queste mi sembrano sufficienti.
Do la parola al sottosegretario Urso per la replica, invitandolo a prendersi tutto il tempo che ritiene necessario.

ADOLFO URSO, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. Grazie, signor presidente, anche per questa sua ultima osservazione, a cui cercherò di rispondere.


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Ho preso degli appunti durante gli interventi dei colleghi e tenterò di dare a ciascuno una risposta, almeno per quelle che sono le mia capacità e la mia opinione, dato che, ovviamente, si tratta di opinioni a confronto.
L'onorevole Narducci ricordava l'impegno della Cina in Africa. È un problema serio, perché in Africa c'è una competizione stressante, soprattutto tra la Cina - ma anche l'India e, in qualche misura, il Giappone - e gli Stati Uniti, con un'assenza europea, purtroppo significativa.
La Cina penetra in Africa con condizioni di mercato note a tutti, che hanno poco a che vedere col mercato. Proprio per questo, e non a caso, tra pochi giorni mi recherò in Etiopia, come anticipava prima l'onorevole Zacchera, per presentare all'Unione africana e alla Commissione africana, oltre che al Governo etiope e, il giorno dopo, al Governo della Tanzania, il nostro piano di sviluppo dell'impresa italiana nell'Africa sub-sahariana.
Questo piano, che abbiamo realizzato all'inizio della legislatura, prevede la penetrazione dell'impresa e dell'economia italiana in alcuni Paesi africani, di particolare interesse per via di talune condizioni di sviluppo più significative che lì si sono realizzate.
Ricordo che l'Africa, anche in questa condizione di difficoltà e di recessione economica mondiale, quest'anno crescerà, verosimilmente, del 5 per cento, e che alcuni Paesi africani cresceranno anche dell'8, del 9 o dell'11 per cento. In Africa vi sono, quindi, delle potenzialità troppo spesso dimenticate, di cui la Cina sta invece approfittando.
Lei ha poi citato, non a caso, la riforma del WTO, su cui mi trovo pienamente d'accordo. Nel mandato originario di Pascal Lamy c'era il compito di chiudere il Doha Round già due anni fa, per poi realizzare, nella seconda fase, una riforma del WTO che prevedesse, tra l'altro, la nascita di un organismo intermedio - sul modello del Consiglio di sicurezza - che potesse essere più agile rispetto all'attuale assemblea, il cui funzionamento richiede oggi il consenso di ciascun Paese su ogni modifica del WTO. Anche se formalmente non è esattamente così, di fatto ogni Paese ha oggi potere di veto.
Mi trovo d'accordo su questo ed è perciò che prima parlavo di un G14 o, comunque, di una formula un po' più allargata rispetto al G8, ma sicuramente più ristretta dell'attuale G20, che possa comprendere nuove realtà rappresentative del mondo, in una forma che può essere parimenti utilizzata negli organismi internazionali, dal WTO alle Nazioni Unite, e che, quindi, potrebbe portare a quella riforma complessiva della governance mondiale, di cui oggi si avverte molto il bisogno e la necessità.
L'onorevole Zacchera parlava dell'Etiopia e di aziende invitate o escluse. Nessuna azienda viene esclusa: chiunque può partecipare alle missioni, siano esse missioni di sistema (come quella che l'Italia, con la guida del Presidente Berlusconi, farà ai primi di aprile a Mosca, alla quale sono già iscritti 800 imprenditori italiani) o missioni con le imprese (come quella che faremo tra poco in Etiopia e Tanzania) che noi abitualmente facciamo ogni mese, anzi, più volte al mese.
In questo caso, nel sito del Ministero è scritto come partecipare e l'Istituto nazionale per il commercio estero (ICE) diffonde tali informazioni alle singole associazioni di categoria, imprese, camere di commercio. Esiste la possibilità, per chiunque, di partecipare (ovviamente, a spese proprie): per aderire basta compilare il modulo. Noi forniamo dei servizi, ma poi ciascuna impresa partecipa, come sa bene l'onorevole Stefani, a spese proprie, anche se utilizzando dei servizi. Noi ci auguriamo che partecipino; anzi, noi stiamo cercando il modo di diffondere queste notizie nel mondo imprenditoriale italiano, nel modo più vasto possibile.
Quanto alle banche italiane, negli ultimi anni esse hanno modificato la propria presenza; hanno abbandonato alcuni territori, come l'America latina; hanno congelato la propria presenza nell'Europa centro-orientale, balcanica e in Russia, laddove in alcuni casi erano una presenza


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molto significativa e dove, peraltro, sono maggiormente presenti le nostre piccole e medie imprese.
Prima Stefani faceva una battuta, che battuta non è, sull'internazionalizzazione delle banche, perché la crisi è finanziaria, non produttiva. L'internazionalizzazione di alcune banche, ovviamente, ha poi provocato dei collegamenti e delle connessioni che hanno indebolito il sistema finanziario, com'è a tutti noto, per la presenza di una massa ingente, poco dimensionabile, dei cosiddetti «titoli tossici».
Noi crediamo, comunque, come dicevo, che sia necessario un supporto del sistema bancario italiano alle imprese che si sono internazionalizzate. Nell'area del teatro principale, quella dei Balcani, dell'Europa centrale e orientale, questo supporto è più significativo, mentre in altre aree (come nell'area del Mediterraneo, nel lontano oriente o nell'America latina) questo supporto, purtroppo, non è significativo.
Per quanto riguarda i desk anti-contraffazione, essi sono previsti dalla legge del 2004 sull'internazionalizzazione, prima citata, che il sottoscritto presentò e che il Parlamento approvò senza opposizione, ossia con un larghissimo consenso. Questa legge è stata poi attuata, via via, in varia misura, anche per quanto riguarda la creazione di dodici desk anti-contraffazione nel mondo. Si tratta di desk che possono dare supporto alle imprese italiane nelle cause legali per la tutela dei marchi, dei brevetti e quant'altro.
Confesso che anch'io sono convinto che l'attività dei desk anti-contraffazione vada meglio affinata, con delle indicazioni più significative, per esempio per quanto riguarda l'utilizzo delle risorse legali, destinate anche a cause-pilota. Ci apprestiamo a farlo nelle prossime settimane.
L'onorevole Dozzo sollevava dei problemi che mi fa piacere siano posti in questa sede, così come in altre, perché ci permettono di confrontare delle idee e delle opinioni e anche di trovare soluzioni migliori relativamente al fallimento della globalizzazione.
Per quanto riguarda i dati specifici inerenti la riforma della PAC, essa è stata fatta dall'Unione europea per anticipare, in qualche misura, l'eventuale accordo nel Doha Round. Quella riforma della PAC ha ridotto gli stanziamenti dell'agricoltura, ma questa è una decisione progressiva, anche perché noi non possiamo pensare che il bilancio dell'Unione europea sia esclusivamente destinato all'agricoltura. Ci sono anche altri settori produttivi e altre necessità.
Io intendevo dire che l'accordo che si profilava nel Doha Round manteneva inalterati gli impegni con le imprese agricole europee che l'Europa ha preso in sede di riforma della PAC.
Non ci sarebbe bisogno di alcuna altra riforma, perché così com'è stata realizzata e così come si andava e si andrà realizzando l'impegno nell'ambito del dossier agricoltura del Doha Round, il capitolo della riforma della PAC rimarrebbe inalterato. Questo tranquillizza i nostri imprenditori che, quindi, possono programmare la propria attività rispetto alla legislazione europea e agli interventi finanziari destinati alle imprese agricole europee.
Gli Stati Uniti non lo hanno fatto: la loro riforma, o pseudo-riforma agricola - condivido - va in tutt'altro senso. Non a caso, gli Stati Uniti hanno fatto cadere l'ipotesi del Doha Round su due tematiche agricole, che erano quelle emerse alla fine: la salvaguardia dell'accesso ai mercati agricoli, che l'India chiedeva, e l'ultimo capitolo riguardante il cotone, anch'esso un prodotto agricolo. Dico «non a caso», perché la controriforma - di questo si tratta - fatta in campo agricolo dagli Stati Uniti non consentirebbe loro di accedere, in queste dimensioni, all'eventuale accordo del Doha Round, perché dovremmo rivedere le normative interne, cosa che l'Europa non ha bisogno di fare.
Sui prodotti tipici, ricordo che abbiamo il maggior numero - superiore a quello della Francia, per intenderci - di prodotti registrati e tutelati dall'Unione europea. Il che vuol dire che l'azione di rappresentanza dell'Italia sui prodotti tipici, in sede europea, ha avuto successo rispetto a quella fatta da altri Paesi, se è vero, com'è


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vero, che l'Italia ha il maggior numero di prodotti tipici registrati e tutelati dell'Unione europea, in senso assoluto.
L'impegno dell'Italia sulle indicazioni geografiche è indissolubile, al punto tale che il Presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, è intervenuto personalmente durante il Doha Round - ovviamente su nostra sollecitazione - affinché fosse chiaro a tutti che il registro multilaterale sui vini e l'estensione dei prodotti tipici e della protezione anche a prodotti che non siano vino e alcolici, è un impegno irrinunciabile dell'Italia ed è diventato un impegno irrinunciabile della Commissione europea, a dimostrazione dell'impegno del nostro Paese.
Per quanto riguarda le forme di tutela, ricordo che recentemente siamo riusciti, con un margine esiguo, ad ottenere un dazio anti-dumping - credo ammonti all'80 per cento - nei confronti di imprese cinesi, che ha protetto alcune imprese (bresciane, se non sbaglio) produttrici di viti e bulloni. Siamo riusciti a ottenere questo perché abbiamo strappato, all'ultimo momento, la posizione favorevole di un Governo europeo, che è passato dalla nostra parte.
Noi applichiamo in maniera chiara, quindi, con un forte sostegno, le regole a tutela delle imprese italiane ed europee e, quindi, degli italiani e degli europei, ove ci siano fenomeni di concorrenza sleale. In questo caso si trattava di un dumping accertato, da parte di imprese cinesi, nei confronti di imprese europee; che erano poi soltanto italiane, perché le produzioni di questo tipo sono soltanto italiane, mentre altri Paesi europei commercializzano i prodotti e, quindi, non hanno il nostro stesso interesse, ovviamente, a mettere un dazio dell'80 per cento sui prodotti importati.
L'Italia, comunque, nel corso degli ultimi anni, da Paese poco rappresentato nelle proprie esigenze in Europa è diventato, oggi, il Paese più rappresentato. La maggior parte delle misure di protezione anti-dumping, anti-sovvenzione o di altra natura, realizzate dalla Commissione e, quindi, dall'Unione europea, nell'arco degli ultimi anni - parlo degli anni della mia responsabilità, 2001-2006, ma anche della fase successiva - hanno portato l'Italia e le imprese italiane ad essere le più tutelate in Europa.
L'ammontare delle misure antisovvenzione e anti-dumping realizzate negli ultimi anni in Europa sono tali che si rivolgono in misura maggiore alle imprese italiane che a qualunque altra impresa europea.
L'azione di tutela è quindi molto efficace e siamo impegnati in queste ore in un'altra azione di tutela. Non a caso, mi recherò a questo fine in due Paesi europei nelle prossime ore, affinché, a metà marzo, sia assunta un'altra misura a tutela di un altro settore produttivo italiano - il siderurgico - nei confronti di un'azione sleale, messa in essere da imprese di altri Paesi extra-europei.
In questo campo, quindi, auspichiamo un'azione indefessa, ma una cosa è la tutela, altro è il protezionismo. Lo dico a me stesso: se si scatenasse una spirale protezionistica nel mondo, in Italia ciò danneggerebbe principalmente, o quasi esclusivamente, le imprese del nord e del nord-est e sarebbe, semmai, poco avvertita dalle imprese meridionali.
Faccio un esempio su tutti, per capire quanto importante sia, per il nord, che il mondo non si chiuda in se stesso, perché sarebbe spezzata la filiera produttiva e commerciale del nord del nostro Paese.
In queste settimane, di fronte ad una caduta del commercio mondiale derivata dalla caduta dei consumi, sono soprattutto le imprese del nord ad averne risentito, e non quelle meridionali. Il dato è molto evidente: la Lombardia produce circa il 30 per cento delle esportazioni italiane e la Calabria ne produce lo 0,1 per cento. Le imprese calabresi o meridionali, quindi, vivono del mercato interno italiano, mentre le imprese del nord e del nord-est vivono dei mercati internazionali.
Una caduta dei consumi mondiali come quella di oggi o, peggio, un aumentare delle barriere e delle protezioni, andrebbero a detrimento delle imprese del nord, che vivono dei mercati mondiali.


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Tra l'altro, in queste ore, noi siamo impegnati affinché la Commissione europea tolga ogni residuo dazio all'importazione sui prodotti di alluminio. Recentemente, negli anni scorsi, si è riusciti a dimezzare i dazi europei all'importazione di tali prodotti che, se ben ricordo, sono passati dal 6 al 3 per cento, su richiesta delle imprese italiane, le quali vogliono che i dazi alle importazioni di materie prime siano ridotti o azzerati.
Noi siamo impegnati affinché i dazi residui sulle importazioni, da parte dell'Unione europea, per esempio nel settore dell'alluminio, siano ridotti a zero; anzi, la nostra battaglia è affinché l'Unione europea lanci un accordo plurilaterale, in sede WTO, per l'annullamento di ogni dazio sull'importazione di materie prime: questo ci chiedono le imprese italiane che, ovviamente, importano materie prime e non il contrario.
Peraltro, la nostra filiera produttiva è ormai internazionalizzata. La FIAT produce utili in Brasile e quella produzione permette alla nostra impresa di avere un bilancio aziendale che gli consente di mantenere anche aziende produttive in Italia.
Ricordo con precisione quello che accadde negli anni Novanta nella Repubblica federale di Jugoslavia, dove c'erano imprese dimensionate su un mercato interno di 20-25 milioni di abitanti. L'impresa jugoslava nel settore auto era in Serbia, l'impresa jugoslava nel settore della siderurgia era in Montenegro e così via. Quando cadde la Repubblica federale di Jugoslavia e, quindi, sorsero le frontiere e le dogane che spezzarono il mercato interno, tutte queste imprese chiusero, perché erano dimensionate su mercati interni molto più vasti e, nella nuova situazione, dovevano commisurarsi con un mercato interno molto più piccolo.
Ovviamente, l'impresa siderurgica montenegrina, che era commisurata ad un mercato interno dei 600 mila abitanti del Montenegro, non poteva più reggere l'economia di scala di un'impresa precedentemente dimensionata sul mercato interno jugoslavo di 20 milioni di abitanti.
Quello che è accaduto in Jugoslavia potrebbe accadere, su scala globale, se tornasse il protezionismo.
L'impresa, oggi, è internazionalizzata e dimensionata su mercati diversi: se si spezza la filiera produttiva, si spezza il sistema produttivo di ciascuna impresa; cosa che, evidentemente, noi dobbiamo impedire, altrimenti entrerebbe in collasso il sistema economico produttivo.
Sono convinto che noi impediremo tutto questo, perché questa consapevolezza esiste in ciascun Paese, non soltanto in Italia: c'è negli Stati Uniti, in Brasile, in Cina e tutti, infatti, temono questo.

GIANPAOLO DOZZO. Lei sa che la Fiat ha fatto un accordo per la produzione di auto con l'industria serba?

ADOLFO URSO, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. Certo, lo conosco e so perché l'ha fatto. L'industria serba è stata costretta a fare l'accordo con la FIAT, che prevede la costruzione in loco di alcuni modelli - taluni con marchio della sua industria e altri con il marchio FIAT - per il mercato serbo e per i mercati con cui la Serbia ha un accordo di libero scambio. Ciò permette di esportare macchine FIAT, a dazio zero, dalla Serbia in Russia.
Tra breve, inoltre, dopo gli accordi di libero scambio tra la Serbia e l'Ucraina, e tra la Serbia e la Turchia, ciò avverrà anche con quei mercati, mentre non può avvenire dall'Italia. Si produce, cioè, in Serbia perché da quel Paese si può esportare, essendoci un accordo storico di libero scambio tra la Serbia e la Russia. Gli accordi con l'Ucraina e con la Turchia dovrebbero essere varati a breve. Così si può esportare in mercati che, altrimenti, dall'Italia non potrebbero essere coperti.

PRESIDENTE. Quella fabbrica c'era già, comunque.

ADOLFO URSO, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. C'era già, sì. Tra l'altro quello della FIAT è un ritorno, in quell'area.


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Voglio dire che la realtà economica produttiva del nostro Paese nel mondo è molto più complessa. Io sono d'accordissimo con chi dice che dobbiamo agire in maniera ferrea per togliere alla nostra impresa la concorrenza sleale e la contraffazione. Tuttavia, sarei molto attento ad alzare barriere e a spezzare un sistema di accesso al mercato e cercherei, invece, di ampliare l'accesso al mercato con regole rispettate, condivise ed equilibrate.
Questa, per altro, è la posizione del Governo italiano che, anche quanto alle misure anti-crisi - mi rivolgo all'onorevole Corsini - non è stato accusato dagli altri Paesi partner di aver introdotto misure protezionistiche, mentre qualcuno ha accusato la Francia e qualcun altro ha accusato gli Stati Uniti.
Il Governo italiano e il Ministro Tremonti hanno attuato ed attueranno provvedimenti che non saranno in alcun mondo ascrivibili alla categoria delle misure protezionistiche, perché vogliamo dare il buon esempio, consapevoli che questa è la strada da percorrere.
C'è una consapevolezza del Governo italiano nel suo complesso, quindi, di quanto sia importante evitare una spirale protezionistica e, anzi, in qualche misura, della necessità di convincere gli altri partner a proseguire insieme sulla strada della nuova governance mondiale, che va posta in essere. Peraltro, la globalizzazione non è fallita nel sistema produttivo, ma nel sistema finanziario. È un problema di regole, importantissimo.
Vorrei rispondere ora anche agli altri quesiti. L'onorevole Antonione ha parlato del commercio mondiale. Voglio dire, per portare tranquillità o, almeno, serenità, che sebbene ci sia una caduta del commercio mondiale e delle esportazioni dei grandi Paesi esportatori, come conseguenza del calo dei consumi mondiali, anche in questo campo l'Italia, pur soffrendo molto, resiste meglio - i dati ce lo dicono - degli altri Paesi esportatori.
Se osserviamo la caduta delle esportazioni di grandi Paesi esportatori come il Giappone, la Cina o persino la Germania, ci rendiamo conto che, allo stato attuale, il sistema italiano, per diversi motivi, anche per la sua presenza equilibrata in vari settori e per il dinamismo delle sue piccole e medie imprese, sta resistendo meglio di quanto resistano Paesi come il Giappone, la Cina e persino la Germania che, come noi, subiscono una contrazione delle esportazioni, ma in misura maggiore alla nostra. Questo deve renderci determinati, quindi, nel praticare una politica che consenta al nostro sistema produttivo di restare in campo in questa crisi generale globale.
L'onorevole Stefani mi sottoponeva delle cose su cui sono pienamente d'accordo e che sostengo in sede internazionale. Una cosa sono i Paesi in via di sviluppo, ma altra cosa sono, ormai, i Paesi emergenti. Per questo noi, con forza, abbiamo chiesto che negli impegni internazionali, anche all'interno del Doha Round, i Paesi emergenti siano considerati diversamente rispetto ai Paesi in via di sviluppo.
Ce lo chiedono soprattutto questi ultimi, perché la concorrenza che la Cina fa al Vietnam e, tanto più, alla Cambogia o al Laos, per questi Paesi è stressante e non possono più difendersene. La Cina, quindi, non può essere considerata come la Cambogia, né il Brasile può essere considerato come il Gabon: sono realtà completamente diverse.
La nostra tendenza, a livello internazionale, è volta pertanto a separare le responsabilità dei Paesi emergenti da quelle dei Paesi in via di sviluppo.
Per questo, tra l'altro, e non a caso, siamo convinti che l'Europa debba sostenere la richiesta americana - l'Italia l'ha fatto per prima: l'ho fatto io in Europa - che all'interno del Doha Round si discuta, da subito, degli accordi settoriali cosiddetti «zero per zero». Gli americani hanno chiesto almeno due accordi settoriali, all'interno del Doha Round, e noi italiani siamo stati i primi a dire che l'Unione europea deve proseguire su questa strada. Gli Stati Uniti, nell'ultimo tentativo di riaprire il negoziato, a dicembre, hanno posto questo tema sul campo. Ci hanno detto di essere disponibili ad andare avanti


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sulla strada già consolidata a Ginevra, purché si discutesse da subito di alcuni accordi settoriali.
Si tratta di accordi che verrebbero presi all'interno del Doha Round, in base ai quali, per i Paesi sottoscrittori - ma devono sottoscriverli i Paesi emergenti, produttori e competitori come noi, e non gli altri Paesi in via di sviluppo - in quei settori varrebbe la regola «zero per zero». Ciò non varrebbe in tutti i Paesi del WTO, ma soltanto in quelli che sottoscrivono tale accordo. Ci vuole, però, una massa critica importante, come fu fatto per l'information technology.
Si potrebbe sottoscrivere un accordo «zero per zero» e poi estendere questa formula anche agli altri settori, come chiedono gli Stati Uniti, che chiedono almeno due accordi, e da subito.
Loro dicono, per esempio, di partire dalla chimica oppure dalle macchine utensili; noi siamo d'accordo, perché avremmo tutto da guadagnarci. La maggior parte dei Paesi in via di sviluppo, invece, propongono di farlo a partire dal settore dell'oreficeria: bene! Tanto più, facciamolo nel settore dell'oreficeria, perché anche noi ci guadagneremmo. La Cina, infine, pensa al settore del tessile e anche su questo noi siamo d'accordo.
Voglio dire che, se passa la tesi degli accordi settoriali «zero per zero», qualunque accordo venga sottoscritto - chimica, meccanica, oreficeria, tessile - per l'Italia sarebbe comunque un guadagno perché l'Italia è l'unico sistema produttivo occidentale equilibrato, in ogni ambito: nell'industria, nel turismo, nell'agricoltura o nell'agro-industria.
Lo dimostra il fatto che noi produciamo prodotti chimici, prodotti meccanici, prodotti dell'oreficeria e prodotti tessili. La strada dell'accordo «zero per zero» che deve essere sottoscritto dai Paesi emergenti, quindi, per noi è sempre vantaggioso e comunque importante.
Questo permetterebbe di distinguere i Paesi emergenti, che sottoscrivono l'accordo «zero per zero», dagli altri Paesi, in via di sviluppo, a cui ovviamente non si può chiedere tanto.

GIANPAOLO DOZZO. Signor sottosegretario, mi può spiegare qual è, su questo accordo «zero per zero», l'incidenza del costo della manodopera e del costo della lavorazione? E come esso va poi a influire sul costo del prodotto? Tale accordo è interessante, ma si lega poi ad altri fattori di concorrenza, o sbaglio?

ADOLFO URSO, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. Sì, certo. Noi siamo interessati a farlo perché, essendo grandi esportatori di questi prodotti, non soltanto in Cina, ma anche negli Stati Uniti - pensate se facessimo un accordo «zero per zero» con gli Stati Uniti sui prodotti dell'oreficeria! - noi ci guadagneremmo comunque. Ci potremmo perdere in alcuni mercati, ma complessivamente ci guadagneremmo di certo: per noi è conveniente farlo comunque, rispetto a qualunque altro Paese.
Resta vero quello che diceva lei circa il dumping sociale e il dumping ambientale. Queste tematiche esistono, ma non sono di pertinenza stretta del WTO, anche se la nostra posizione, come Italia, è favorevole a che nel WTO vengano incluse anche le questioni ambientali e le questioni del dumping sociale.
A Doha, dove ero negoziatore, riuscimmo a innestare la discussione, in qualche misura, sul dumping ambientale, anche se non su quello sociale, al quale i Paesi in via di sviluppo si sono opposti recisamente. Mi riferisco al considerare anche le norme sindacali, il costo del lavoro o il lavoro minorile, per intenderci, che, invece, sono di pertinenza dell'Organizzazione mondiale del lavoro (ILO), la quale, ovviamente, non riesce ad agire in merito.
Sul dumping ambientale, invece, esiste un dossier, che prevede - purtroppo è stato accantonato, ma noi vogliamo che sia ripreso - dazi pari a zero su beni, servizi e tecnologia ambientale. Questo sarebbe molto interessante, perché renderebbe conveniente realizzare dei prodotti e introdurre delle misure ambientali, che a quel punto costerebbero zero, in termini di dazi.


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È vero, comunque, che la tematica è aperta e che l'Italia è impegnata - così come l'Unione europea - affinché essa sia sempre più anche di pertinenza, benché non esclusivamente, delle regole del commercio mondiale. Su questo siamo assolutamente d'accordo, ma non è facile imporlo, perché gli altri vi si oppongono.
Infine, venendo agli accordi bilaterali di cui mi chiedeva il presidente Stefani: si possono fare e noi lottiamo in Europa affinché si facciano. Finalmente la tesi italiana è passata, negli scorsi mesi, per cui l'Europa sta cercando di sottoscrivere alcuni accordi bilaterali come quello con il Consiglio di cooperazione del Golfo e quello con la Corea.
In merito a quest'ultimo, però, noi abbiamo posto una clausola e, per il momento, ne abbiamo rallentato il corso, perché la tipologia di accordo bilaterale che l'Unione europea stava per sottoscrivere avrebbe danneggiato l'industria automobilistica europea e, soprattutto, quella italiana, perché produciamo macchine simili a quelle coreane.
Siamo d'accordo sugli accordi bilaterali, dunque, ma bisogna stare attenti a come vengono scritti. Gli accordi bilaterali, però, non possono essere sottoscritti solo dall'Italia: deve farlo l'Unione europea, attraverso la Commissione, perché la materia della politica commerciale è di sua esclusiva pertinenza.

PRESIDENTE. Non ci sono assolutamente deroghe?

ADOLFO URSO, Sottosegretario di Stato per lo sviluppo economico. No, non ci sono deroghe. Noi non possiamo fare in nessun modo norme di natura commerciale per l'estero o accordi bilaterali e commerciali, se non attraverso la Commissione europea.
La Commissione europea, però - è questa la novità - sotto il pressing italiano, ha cambiato strategia e, oltre all'accordo multilaterale sul Doha Round, che è la strategia globale, da sempre, dell'Unione europea, ha acceduto a realizzare anche accordi bilaterali.
Quelli in corso di discussione o più vicini alla sottoscrizione, sono quello con il Consiglio di cooperazione del Golfo, quello con la Corea (ma esiste il citato problema che ci riguarda, per cui stiamo molto attenti, per la nostra industria automobilistica), quello con l'America centrale, quello con l'America latina e quello con l'India. Forse ci sarà anche un accordo di libero scambio con il Canada, che è molto importante perché potrebbe essere il preludio ad un accordo di libero scambio col NAFTA - che per noi è vitale - con la creazione di un bacino commerciale occidentale a regole pari che, per noi e le nostre imprese, sarebbe di grandissimo rilievo. È invece ancora all'inizio il lavoro per un accordo con il MERCOSUR, per tanti diversi motivi.
Questi sono gli accordi bilaterali che l'Unione europea ha davanti a sé nell'arco dei prossimi mesi o dei prossimi anni, su cui stiamo concentrando la nostra attenzione, ma si tratta sempre di accordi bilaterali tra l'Unione europea, come tale, ed altri soggetti partner internazionali. L'Italia non può sottoscrivere da sola accordi bilaterali.

PRESIDENTE. Ringrazio il sottosegretario Urso. Credo che l'attenzione con la quale sono stati seguiti il dibattito e la sua relazione parli da sola circa l'importanza di questa audizione, per cui la ringrazio sentitamente di essere intervenuto.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 10,45.

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