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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(III e IV)
1.
Mercoledì 20 maggio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Garofani Francesco Saverio, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME, IN SEDE REFERENTE, DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 1213 CIRIELLI E C. 1820 GAROFANI, RECANTI «DISPOSIZIONI PER LA PARTECIPAZIONE ITALIANA A MISSIONI INTERNAZIONALI»

Audizione di rappresentanti dell'Istituto affari internazionali (IAI):

Garofani Francesco Saverio, Presidente ... 2 8 10 13
Alcaro Riccardo, Membro dello staff scientifico dell'Istituto affari internazionali ... 4
Cicu Salvatore (PdL) ... 9
Di Stanislao Augusto (IdV) ... 9
Greco Ettore, Direttore dell'Istituto affari internazionali e responsabile dell'area di ricerca rapporti transatlantici ... 2 12
Mogherini Rebesani Federica (PD) ... 9
Pianetta Enrico (PdL) ... 10
Silvestri Stefano, Presidente dell'Istituto affari internazionali ... 2 6 10

ALLEGATO: Rapporto dello IAI «La NATO e la difesa europea: sviluppi recenti, scenari e ruolo dell'Italia» ... 15
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: (Misto-RRP).

[Avanti]
COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) E IV (DIFESA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 20 maggio 2009


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE DELLA IV COMMISSIONE FRANCESCO SAVERIO GAROFANI

La seduta comincia alle 14,30.

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'Istituto affari internazionali (IAI).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno delle Commissioni riunite Affari esteri e comunitari e Difesa reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva relativa all'esame, in sede referente, delle proposte di legge C. 1213 Cirielli e C. 1820 Garofani, recanti «Disposizioni per la partecipazione italiana a missioni internazionali», l'audizione di rappresentanti dell'Istituto affari internazionali (IAI).
Nel dare la parola al presidente, professor Stefano Silvestri, e agli altri rappresentanti dell'Istituto, li ringrazio per la partecipazione a questi lavori.

STEFANO SILVESTRI, Presidente dell'Istituto affari internazionali. Ringrazio le Commissioni riunite Affari esteri e comunitari e Difesa per la loro gentile attenzione. Cedo immediatamente la parola al dottor Ettore Greco e al dottor Riccardo Alcaro, che vi illustreranno il senso di uno studio che abbiamo condotto per la Camera dei deputati sui temi della NATO e della PESD, per poi soffermarmi sui temi delle missioni internazionali.

ETTORE GRECO, Direttore dell'Istituto affari internazionali e responsabile dell'area di ricerca rapporti transatlantici. Abbiamo portato e credo che sia già stato messo in distribuzione, uno studio specifico nell'ambito dei profili giuridici della partecipazione italiana alle missioni all'estero, di cui è autore il professor Natalino Ronzitti, responsabile della nostra area di ricerca di diritto internazionale. Si tratta di uno studio che abbiamo condotto per il Senato e che, gentilmente, il servizio studi del Senato ha reso disponibile.
Sono già diversi anni che abbiamo avviato una collaborazione con il Senato e adesso essa si è utilmente estesa anche alla Camera, fino a consolidarsi in un Osservatorio di politica internazionale che coinvolge i servizi studi della Camera e del Senato, nonché altri istituti di politica internazionale analoghi al nostro. Credo che questi incontri costituiscano un importante momento di verifica del lavoro che stiamo svolgendo.
Passo, quindi, ad analizzare lo studio. Intanto, permettetemi di fare una premessa: si tratta di uno studio di scenario nel quale ci siamo fondamentalmente concentrati sulle tendenze generali interne alla NATO e alla Politica europea di sicurezza e difesa (PESD).
Lo studio fornisce alcune informazioni fondamentali di base e, sebbene eviti di entrare troppo in dettagli e in disamine approfondite dei meccanismi istituzionali, esso è tuttavia corredato da una serie di box, grafici e tabelle che forniscono informazioni di maggiore dettaglio.


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Nella scheda «Impostazione metodologica» potete notare che le componenti fondamentali di questo studio sono tre. Innanzitutto, ci siamo sforzati di identificare i principali problemi politici che, sia la NATO, sia la UE nella sua dimensione di sicurezza e difesa, stanno discutendo e affrontando.
Abbiamo inoltre cercato di schematizzare l'analisi di questi problemi in alcuni dilemmi o opzioni politiche fondamentali.
In secondo luogo, abbiamo cercato di disegnare alcuni scenari dell'evoluzione della NATO e della PESD e le opzioni politiche correlate a questi scenari, nel presupposto che i futuri possibili di queste organizzazioni siano, in realtà, più di uno. Infatti, le stesse tendenze in atto che abbiamo individuato possono avere degli sbocchi diversi fra loro.
Il tema su cui ci soffermeremo maggiormente in questo incontro riguarda la terza componente di questo studio, ovvero l'analisi degli interessi dell'Italia e l'individuazione delle opzioni discusse che sulla base degli scenari analizzati, a nostro avviso, corrispondono di più agli interessi del nostro Paese.
Naturalmente, parlo di interessi nazionali al plurale, perché, quando si parla del nostro ruolo e della nostra partecipazione alla NATO e alla PESD, ovviamente non c'è in gioco un solo interesse. Tuttavia, non sempre e non necessariamente questi interessi che possiamo individuare sono fra loro conciliabili e, in ogni caso, molto spesso bisogna stabilire tra di essi una scala di priorità. Dunque, lo scopo fondamentale di questo studio di scenario è stato proprio quello di individuare e discutere le problematiche della compatibilità e delle priorità fra i vari interessi nazionali.
Nella scheda successiva è rappresentato il sommario del rapporto. Esso si presenta sostanzialmente suddiviso in tre parti: una dedicata alla NATO, una alla PESD e l'ultima al ruolo e agli interessi dell'Italia.
Fondamentalmente, ci siamo soffermati sui seguenti punti: i compiti e le funzioni della NATO e della PESD, o meglio quali essi debbano essere e in che misura siano compatibili fra loro; i problemi della riforma e della trasformazione della NATO e della dimensione di difesa europea, sottolineando in particolare quelli che riguardano le capacità e gli assetti istituzionali.
Inoltre, abbiamo dedicato una particolare attenzione ai rapporti fra le due organizzazioni - di ciò vi parlerà dopo il collega Riccardo Alcaro - e infine, all'interno dello studio, è riservato uno spazio notevole anche alle missioni sul terreno, ai problemi che sono sorti in seguito alla loro attuazione, nonché alle potenzialità e agli aspetti istituzionali delle stesse.
Naturalmente, nello studio abbiamo fatto riferimento ad alcuni importanti, per non dire cruciali, sviluppi recenti e alle loro implicazioni, quali ad esempio il reintegro della Francia nella struttura militare dell'Alleanza, che ha comportato una serie di conseguenze, e le nuove iniziative intraprese dall'Amministrazione americana. Nella parte finale abbiamo invece analizzato il ruolo e gli interessi dell'Italia. Di essi vi parlerà il nostro presidente Stefano Silvestri.
La scheda «NATO: Scenari e opzioni» rende l'idea di come abbiamo sviluppato l'analisi degli scenari e delle opzioni. Per facilitare questa analisi e la relativa discussione abbiamo cercato di porre a confronto scenari e opzioni, non perché necessariamente siano alternativi, ma perché non è sempre facile conciliarli e, in ogni caso, l'eventuale obiettivo di perseguirli contemporaneamente pone una serie di problemi. Innanzitutto, c'è un primo problema legato al ruolo generale della NATO, ovvero se si debba trattare di un ruolo prevalentemente politico o operativo. Per quanto riguarda le missioni, vi è l'ipotesi di una NATO che torni a concentrarsi prevalentemente sulle funzioni correlate all'articolo 5 del Trattato istitutivo dell'Alleanza, ossia quelle correlate alla difesa collettiva, o l'ipotesi di una NATO che debba continuare a sviluppare prevalentemente i suoi impegni nelle missioni di pace.
Per quanto riguarda la tematica della membership e quindi dell'allargamento,


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una prima ipotesi riguarda la possibilità che la NATO rimanga centrata sul tradizionale cuore transatlantico; una seconda, viceversa, prevede che si vada verso una progressiva espansione. In merito all'area geografica di intervento, una prima ipotesi è che la NATO scelga come sua area principale d'intervento il teatro europeo; l'altra, al contrario, che si sviluppi progressivamente la sua dimensione globale.
L'ultimo tema, centrale in questo studio, è quello dei rapporti con l'Unione europea. Qui abbiamo una prima ipotesi che riguarda la possibilità che la NATO si confermi, a seconda delle interpretazioni che possiamo dare, quale perno principale della sicurezza europea; oppure che sviluppi una complementarietà graduale con la dimensione di difesa europea (PESD).
Nel discutere di queste singole opzioni e scenari - passo ora alla scheda «NATO globale: aspetti problematici» - abbiamo cercato di individuare le potenzialità, ma anche le difficoltà di ciascuno di essi e, quindi, i vantaggi e gli svantaggi, oltre agli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo di una determinata opzione politica.
Nel caso della NATO globale - intendendo per essa una NATO che sia capace di intervenire in modo esteso ed efficace anche al di fuori dei confini dell'Europa - se consideriamo l'operazione di gran lunga più impegnativa che la NATO sta svolgendo, quella in Afghanistan, notiamo una serie di aspetti problematici che sono emersi, tra i quali la difficoltà nella formazione di un consenso sulle strategie di fondo degli interventi.
La seconda questione riguarda la scarsa capacità di proiezione dei membri europei dell'Alleanza, e in modo particolare di alcuni. Per un verso o per l'altro, esiste un notevole gap di capacità rispetto agli americani, il che rimanda anche al terzo punto qui sottolineato, ovvero la difficoltà di stabilire un'equa divisione degli oneri e delle responsabilità. In quest'ottica, il caso dell'Afghanistan è molto indicativo.
Infine, e di ciò non se ne discute a sufficienza, non si deve sottovalutare la circostanza che l'ipotesi di una NATO globale che, oltre a un ruolo politico, affermi anche un proprio ruolo militare in alcune aree extraeuropee, dovrebbe tener conto di un problema di legittimità politica legato al fatto che alcuni attori locali potrebbero preferire di cooperare con altre organizzazioni, come le Nazioni Unite o la stessa Unione europea. Infatti, in alcune aree, per la NATO, è più difficile affermare il proprio ruolo.
Questo esempio si riferisce a una soltanto delle opzioni e ad uno solo degli scenari che abbiamo considerato nel nostro studio. Dunque, su questo punto riteniamo conclusivamente che esista un certo scetticismo rispetto all'ipotesi di una NATO che possa svilupparsi globalmente, secondo una visione che alcuni studiosi e alcuni leader politici tendono a promuovere.
Dopo avervi fornito il quadro generale e metodologico di questo studio e l'esempio relativo alla NATO globale, su cui abbiamo sviluppato la nostra analisi, cedo ora la parola al mio collega, Riccardo Alcaro, che vi parlerà brevemente degli aspetti relativi alla Politica europea di sicurezza e difesa.

RICCARDO ALCARO, Membro dello staff scientifico dell'Istituto affari internazionali. Parlerò brevemente della parte del rapporto relativa all'individuazione di possibili scenari della Politica europea di sicurezza e difesa, ovvero la capacità civile e militare autonoma che l'UE sta sviluppando da circa una decina d'anni. Per farlo vorrei partire da uno sviluppo che ha interessato la NATO, ovvero il ritorno della Francia nei Comandi militari integrati, ufficializzato lo scorso aprile al Vertice di Strasburgo-Kehl.
Il ritorno della Francia a pieno titolo nella NATO dopo più di quaranta anni di assenza avrà probabilmente un impatto militare decisamente modesto, non soltanto perché la Francia non ha mai abbandonato il trattato NATO e i suoi organi politici, ma soprattutto perché ha sempre partecipato a tutte le missioni NATO, sovente in posizione di comando. Tra


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l'altro, questo Paese ha anche partecipato in maniera sostanziale alla formazione della Forza di reazione rapida della NATO (NRF, NATO Responce Force).
Più significative e potenzialmente di più lungo periodo sono le conseguenze che il ritorno della Francia nei Comandi militari integrati della NATO potrebbe avere sulle relazioni tra la NATO e l'Unione europea, o meglio tra la NATO e la Politica europea di sicurezza e difesa. Forse alcuni membri delle Commissioni sapranno che tali relazioni non sono affatto semplici, anzi sono costantemente complicate da una serie impressionante di ostacoli di diversa natura: politica, istituzionale, economica e operativa.
Sarkozy ha riportato la Francia a pieno titolo nell'Alleanza atlantica anche sperando di persuadere - con questo segnale di inequivocabile impegno a rispettare e promuovere il vincolo di solidarietà transatlantico - gli Stati Uniti a deporre ogni riserva nei confronti della PESD e ad appoggiarla. In sostanza, riportando la Francia nella NATO a pieno titolo, Sarkozy ha voluto mandare un segnale chiaro sul fatto che la Francia, tradizionalmente il membro più riottoso dell'Alleanza, non considera la PESD una possibile alternativa alla NATO, ma anzi è convinta che le due dimensioni di sicurezza possano essere sviluppate in maniera complementare e che tra di esse vi sia una certa compatibilità.
In parte l'operazione di Sarkozy sembra aver avuto qualche buon risultato, ma in realtà questa mossa si iscrive in un processo più largo nel quale gli Stati Uniti, già a partire dall'ultima fase della precedente amministrazione sembravano aver messo da parte il tradizionale scetticismo, o addirittura la mal celata ostilità, nei confronti della PESD e iniziato a guardarla con maggiore interesse, potendo rappresentare per loro un'opportunità strategica. Ciò soprattutto perché la PESD, puntando all'ottimizzazione e alla razionalizzazione delle risorse - probabilmente agli occhi degli americani rappresenta l'unica valida alternativa, all'incremento dei bilanci della difesa dei Paesi europei al fine di migliorare le loro capacità, una decennale ma vana richiesta degli Stati Uniti. Quindi, in tal senso la PESD ha risvegliato un certo interesse, una volta chiarito che non costituisce una minaccia esistenziale per la NATO.
Passando all'individuazione del possibile futuro sviluppo della PESD, gli scenari che abbiamo individuato sono di scenari di medio periodo tutti verosimili, nel senso che abbiamo lasciato da parte le ipotesi di scuola.
La prima opzione è che sostanzialmente la situazione rimanga quella attuale, e quindi la PESD rimanga caratterizzata da una certa frammentarietà degli obiettivi politici che i Paesi membri dell'UE perseguono partecipando ad essa, con il risultato che la PESD è immancabilmente subordinata alla NATO e ausiliaria alle azioni nazionali.
La situazione attuale è anche caratterizzata da uno stadio di sviluppo del mercato europeo della difesa - che costituisce la base della PESD, o quantomeno una dimensione su cui la PESD si dovrebbe appoggiare - relativamente modesto.
I trattati della Comunità europea hanno escluso la libera circolazione dei prodotti di difesa all'interno dell'Europa fin dal 1957. Negli ultimi anni, sono state introdotte importanti novità, ma non è ancora il caso di parlare di mercato unico, quanto piuttosto di una somma di mercati nazionali.
La seconda opzione ipotizza la possibilità che ad un sostanziale stallo a livello politico e istituzionale si accompagni, invece, un avanzamento verso un mercato unico europeo della difesa più integrato. Questa opzione è verosimile nella misura in cui non intravediamo grandi prospettive di passi avanti significativi in termini di integrazione istituzionale o politica. Al riguardo, la Commissione negli ultimi tempi ha lanciato una serie di iniziative, raccolte dal Consiglio, che sembrerebbero lasciare intendere che, di qui a qualche anno, gli europei cominceranno davvero a costruire un mercato unico per i prodotti della difesa.


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Ovviamente, questo secondo scenario non vedrebbe risolti i problemi di coerenza interna in termini di obiettivi politici e di visione strategica di ciò che la PESD dovrebbe essere. Tuttavia, con la maggiore liberalizzazione, la conseguente ottimizzazione delle risorse e la creazione di economie di scala si potrebbe arrivare quantomeno ad una riduzione tendenziale dei costi.
L'ultima opzione è quella politicamente più interessante e riguarda esclusivamente il livello politico istituzionale, vale a dire il grado di integrazione che gli Stati membri intendono raggiungere in materia di difesa e il grado di coordinamento delle loro politiche di difesa e sicurezza.
È opinione dell'Istituto affari internazionali (IAI) che ciò possa avvenire esclusivamente all'interno di gruppi ristretti. Per questo motivo parliamo di un'Europa della difesa a più velocità. Questa opzione può configurarsi in due diverse varianti a seconda che il gruppo ristretto si costituisca sulla base del dettato dei trattati, oppure al di fuori dei trattati in via puramente intergovernativa.
In quest'ultimo caso l'incognita decisiva è costituita dall'eventuale ratifica o meno del Trattato di Lisbona, perché è soltanto il Trattato di Lisbona a contenere un particolare dispositivo giuridico, detto nel gergo burocratico dell'UE «cooperazione strutturata permanente», che consentirebbe ad un numero ristretto di Stati, che ne abbiano gli interessi e anche le capacità, di portare l'integrazione, nell'ambito della Politica di difesa e sicurezza, ad uno stadio superiore rispetto a quello dell'Unione nel suo insieme realizzando in tal modo qualcosa di simile a ciò che rappresenta l'Eurogruppo rispetto all'Unione nel suo complesso.
Ovviamente, queste tre opzioni hanno implicazioni specifiche e molto diverse per l'Italia. Sulle conseguenze che scaturirebbero per l'Italia da ognuna di queste opzioni interverrà il presidente Silvestri al quale cedo la parola.

STEFANO SILVESTRI, Presidente dell'Istituto affari internazionali. Signor presidente, onorevoli commissari, vorrei illustrarvi molto rapidamente le sette ipotesi che forniscono un esempio di quelli che possono essere gli interessi italiani.
Il primo scenario è costituito dallo sviluppo della NATO globale. Ebbene, l'Italia potrebbe situarsi in tale contesto in vari modi. Sostanzialmente, una NATO globale è più sollecitata a intervenire nel mondo in una serie di crisi. Questo sicuramente metterebbe sotto stress la situazione italiana, sia da un punto di vista politico - di politica interna, quindi di consenso - sia da un punto di vista di bilancio, quindi di capacità e di risorse.
Inoltre, la globalizzazione della NATO comporterebbe l'ingresso nell'Alleanza di paesi come Australia, Nuova Zelanda, e forse anche Corea del Sud e Giappone, anche se quest'ultimo dovrebbe prima modificare la Costituzione. Alcuni, poi, addirittura parlano anche del Sudafrica. Dunque, sono state avanzate diverse ipotesi, ma comunque il ruolo e il rango italiano nell'ambito di una simile Alleanza verrebbe chiaramente ridimensionato, se non altro perché la situazione ne risulterebbe «diluita».
Infatti, la centralità europea dell'Alleanza scomparirebbe, e ciò per l'Italia probabilmente rappresenterebbe una diminuzione di ruolo all'interno dell'Alleanza stessa. Quindi, ritengo che una NATO globale nel complesso presenti più problemi che altro, dal punto di vista strettamente nazionale dell'Italia.
Uno sbilanciamento della NATO ancora più verso est, che includa l'Ucraina, la Georgia e si rivolga verso l'Asia centrale - dunque non una NATO globale, ma che, anche se fortemente allargata verso est, escluda la Russia - pone per l'Italia alcuni svantaggi e vantaggi.
Gli svantaggi sono di vario genere. Innanzitutto il nostro principale partner economico non è rappresentato da questi Paesi, ma dalla Russia. È evidente che se in questo allargamento si crea una forte frizione con la Russia, questo per noi costituisce un problema, che dovremmo in


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qualche maniera gestire. Comunque, anche se fosse gestibile, si tratta di un problema da considerare.
Allo stesso tempo, con l'ingresso di questi Paesi nell'Alleanza non ci sono vantaggi specifici di sicurezza per l'Italia. Al contrario, potrebbero esserci degli svantaggi perché è possibile che un simile allargamento, anche per gestire l'opposizione russa, avvenga in un quadro di diminuzione di importanza o di diluizione dell'articolo 5 della Trattato della NATO e di accentuazione degli aspetti di cooperazione e di sicurezza. Naturalmente, questo dal punto di vista della sicurezza nazionale italiana costituirebbe una diminuzione, anche se probabilmente accettabile.
In questo quadro, si deve aggiungere che un allargamento della NATO maggiormente spinto verso est comporterebbe molto probabilmente una crescente differenziazione tra la membership della NATO e la membership dell'Unione europea. Anche questo potrebbe determinare per l'Italia alcune difficili problematiche.
La terza ipotesi invece considera la possibilità di una PESD che svolga un ruolo minore rispetto a quello che avrebbe nell'ipotesi di una prosecuzione della situazione attuale. Al riguardo, la situazione italiana la conosciamo. Il problema è che, se vogliamo mantenere un ruolo nella NATO, questo tipo di scenario ci mantiene sotto pressione sul piano delle risorse economiche, perché sostanzialmente dovremmo spendere di più. L'attuale livello di spesa non ci consente, invece, di andare oltre un certo limite.
Tale scenario è caratterizzato da una certa frammentazione, da un sottoimpiego delle risorse disponibili in Europa e, quindi, anche dal disimpegno degli Stati Uniti e dalla loro richiesta di crescente contribuzione. Quindi, per noi si tratta sostanzialmente di uno scenario accettabile dal punto di vista politico e di sicurezza, ma costoso. Infatti, se non rispondessimo a questi costi, potremmo trovarci in una situazione di progressivo svantaggio rispetto ad altri Paesi.
Una variante dello scenario ora descritto prevede lo sviluppo del mercato europeo della difesa, ma non degli altri aspetti istituzionali della PESD. Insomma, secondo tale modello, ci sarebbe una prosecuzione dell'attuale situazione dal punto di vista operativo militare, ma nel frattempo si svilupperebbe un mercato europeo della difesa, che si è integrato.
Ebbene, questo produrrebbe dei vantaggi, potendo portare alla realizzazione di economie di scala e ad una unificazione della domanda oltre che dell'offerta. Considerato che l'offerta è già abbastanza unificata, i vantaggi sarebbero dovuti maggiormente all'unificazione della domanda. Dunque, in qualche misura questo scenario potrebbe comportare un risparmio, o perlomeno una razionalizzazione delle spese. Ciò senza arrivare all'integrazione delle forze, ma piuttosto con una loro maggiore cooperazione, resa anche più facile da una molto più piena interoperabilità, dal momento che se si comprano gli stessi mezzi è più o meno possibile operare insieme.
In questo caso, il problema italiano più che politico diventa un problema di politica industriale. Con l'integrazione del mercato la questione diventa se le imprese italiane esistenti - essenzialmente la Finmeccanica e poche altre - sarebbero in grado di reggere la pressione competitiva, dovuta proprio all'integrazione del mercato europeo. Oggi, esse sono forti in Italia, cercano di essere forti negli Stati Uniti e hanno una presenza in Regno Unito. Tuttavia, a livello di mercato europeo, potrebbero trovarsi, a confronto con le imprese tedesche e francesi, ma anche con quelle di altri Paesi europei, in una situazione difficile. In quel caso si creerebbe un problema di politica industriale. Certamente si creerebbe un problema anche di difesa, ma essenzialmente di politica industriale del Governo.
Passo ora al tema dell'Europa della difesa à la carte o a più velocità. Anche questa ipotesi si può verificare con due diverse situazioni: la prima appunto con l'Europa della difesa à la carte e la seconda con il Trattato di Lisbona in vigore.


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Insomma, con o senza il Trattato di Lisbona. Senza il Trattato di Lisbona la situazione non sarebbe molto diversa da quella attuale, dove già ci sono una serie di sviluppi à la carte, ma a ciò si aggiungerebbe una pressione sull'Italia in termini di bilancio. Infatti, è evidente che in un'Europa à la carte i Paesi che spendono di più e hanno più risorse tendono ad aggregarsi, rispetto ai Paesi che spendono di meno.
Già oggi si registra una tendenza al raggruppamento a tre - Francia, Germania e Gran Bretagna - per vari tipi di iniziative anche politiche, ed è evidente che stare agganciati a questo gruppo implica per l'Italia un certo sforzo.
In termini estremamente sintetici, Lisbona, da questo punto di vista, è una semplificazione perché mantiene sempre sotto pressione i bilanci Tuttavia in un certo senso offre uno strumento istituzionale all'Italia per rafforzare la sua presenza nel gruppo di testa.
A parte la questione della PESD, l'ultimo punto riguarda la cooperazione di sicurezza. Non bisogna dimenticare che, come nel caso delle missioni all'estero, abbiamo parlato di difesa e quindi di strumenti militari, delle Forze armate e dei Ministeri della difesa. Tuttavia, in realtà c'è una dimensione della sicurezza, che include la difesa, ma è molto più ampia e comprende tutte le forze di polizia e i ministeri, quale ad esempio il Ministero dell'interno.
Leggendo la tabella «Forze armate e di sicurezza» ci si può fare un'idea delle forze di sicurezza che sono attive. L'Italia è, tra i Paesi in Europa, quello che dispone del maggior numero in assoluto di forze di sicurezza, includendovi sia quelle private, sia quelle pubbliche. Ma in pratica l'Italia ha pochissime forze di sicurezza private, mentre negli altri Paesi è esattamente il contrario. Ebbene, ciò è indicativo del fatto che dovrebbe esserci un interesse preciso da parte italiana a sviluppare maggiormente la dimensione della sicurezza, per la quale dispone evidentemente di risorse e di uomini, anche se non sono necessariamente tutti i migliori.
Per le missioni all'estero noi stiamo impegnando soltanto una percentuale minima delle forze complessive che esistono in Europa. Qualora volessimo impegnarne di più ci scontreremmo con problemi strutturali tali per cui, se adesso impegniamo meno del 10 per cento, potremmo arrivare fino al 15 per cento, ma non fino al 20-25 per cento. Dunque, esiste un limite strutturale dovuto al fatto che per ampliare la capacità di proiezione delle forze dovremmo fare immensi investimenti in logistica, trasporto, eccetera. Pertanto, la dimensione delle forze di sicurezza potrebbe permettere di gettare un ponte e ampliare la partecipazione, senza necessariamente dover effettuare in tempi rapidi questo tipo di investimenti.
L'ultima la tabella, quella relativa alla tipologia delle missioni, serve semplicemente per ricordare che esiste una varietà estremamente ampia nella tipologia di partecipazione alle missioni. Infatti, le missioni possono essere di tanti tipi, ma se osservate i compiti - ovvero, la colonna centrale - si va dall'autodifesa, all'umanitario, al monitoraggio, all'addestramento, all'antiterrorismo, all'antiguerriglia, alla stabilizzazione, al peacekeeping e così via. In altri termini, si tratta di tipi di missioni che hanno tutte una intensità di uso della forza, ovvero un livello di violenza, completamente diverso, e che dunque hanno diverse regole di ingaggio e possono fare ricorso a forze estremamente differenti tra loro in termini sia di armamento, sia di qualifica.

PRESIDENTE. Grazie, professor Silvestri. Ricordo ai colleghi che, dovendo chiudere i nostri lavori alle ore 15.30 in punto, dal momento che i colleghi della Commissione affari esteri sono convocati con altri punti all'ordine del giorno, ci restano meno di trenta minuti, di cui gli ultimi dieci per le eventuali risposte dei nostri interlocutori.
Do la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.


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SALVATORE CICU. Ho letto con estremo interesse il rapporto sulla NATO e sulla politica di difesa europea redatto dall'Istituto affari internazionali.
In particolare, volevo soffermarmi su due aspetti. Il primo si riferisce alle relazioni tra NATO e Unione europea. Infatti a pagina 16 dello stesso rapporto, si legge che «sono state proposte alcune misure tecniche che potrebbero rafforzare la complementarietà e le sinergie tra NATO e Unione europea, quali il miglioramento dell'interoperabilità delle forze, l'armonizzazione degli standard e dei meccanismi di rotazione. Tutte queste misure, che potrebbero rendere meno acuto il problema della scarsità di risorse per le forze di reazione rapida dell'Unione europea e della NATO, sono però rimaste in gran parte sulla carta».
Vorrei che questo aspetto fosse approfondito più nel dettaglio per capire quale contenuto queste iniziative possono assumere e quali sono i motivi che ne ostacolano la realizzazione.
In secondo luogo, credo che sia importante capire quali possibili sviluppi si possono ipotizzare per l'industria della difesa italiana, anche alla luce di quegli aspetti che abbiamo già affrontato, quali l'evoluzione della normativa comunitaria, in particolare con riferimento alle procedure sugli appalti pubblici.

AUGUSTO DI STANISLAO. Vorrei avere alcuni chiarimenti.
Voi avete parlato di uno studio di scenario che, in qualche modo, inquadra una problematica in continua evoluzione. Per prima cosa vorrei capire se è possibile declinare alcuni aspetti che rivestono particolare importanza sotto il profilo della presenza dell'Italia in veste da protagonista o in veste subordinata. Ciò soprattutto con riferimento a quanto si avvierebbe nell'ipotesi di una NATO globale, poiché è stato detto che l'Italia ha qualche problema sia di carattere strutturale, sia di bilancio, e quindi risulterebbe in tal caso molto stressata.
Personalmente, considero il termine «stressato» come un eufemismo rispetto invece ad una problematica che è più ampia.
Dunque, mi chiedo, e vi chiedo, se in questo quadro l'Italia potrebbe essere considerata dagli alleati una risorsa piuttosto che un problema.
Il secondo aspetto, mi interessa molto di più e si collega a quanto diceva il professor Silvestri a proposito del fatto che abbiamo una vocazione orientata alla sicurezza. Evidentemente, quindi, dovremmo spingere per iniziative per le quali siamo più preparati, più organizzati e più strutturalmente capaci di dare risposte in termini di concretezza, piuttosto che di aspirazioni.
L'ultimo aspetto - sottolineato anche dal collega Cicu - è quello del problema politico che diventa un problema di politica industriale. Al riguardo vorrei chiedere in che modo e in quale misura possiamo, non tanto fare passi avanti in termini di dignità, bensì conquistare posizioni che concretamente abbiano una loro immediato riscontro sul piano economico finanziario e su quello occupazionale.

FEDERICA MOGHERINI REBESANI. Ringrazio i rappresentanti dello IAI per lo studio, per il rapporto e per l'esposizione molto chiara e puntuale. Vorrei porre due domande per un ulteriore approfondimento.
Anche se esula dal vostro studio, approfitto della vostra presenza per porvi una domanda che riguarda il posizionamento dell'Italia in questi scenari. A tratti nello studio viene fatto riferimento a posizioni sia di singoli Paesi europei, sia di Paesi membri della NATO per quanto riguarda l'evoluzione di alcuni scenari. Chiaramente alcuni Paesi piuttosto che altri si fanno sponsor per l'affermazione di taluni scenari, tuttavia mi sembra che l'Italia non figuri mai tra questi.
Dunque, domando il perché di questa assenza. Mi rivolgo a voi come ad un istituto di studio, e pertanto non vi chiedo una valutazione politica, ma una valutazione da osservatori.


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Passo ora alla seconda domanda. A pagina 35 del vostro rapporto si fa riferimento alle forze nucleari della NATO, in particolare a quelle che gli Stati Uniti mantengono in Europa. Viene specificato che i dati, risalenti al 2005, non sono ufficiali - so bene che di dati ufficiali non ce ne possono essere - tuttavia vorrei capire meglio il riferimento che si fa all'ipotesi che Washington stia discutendo di rimuovere del tutto le armi nucleari americane rimaste nei Paesi europei.
Infatti, soprattutto nel settore degli armamenti nucleari assistiamo a un grande dibattito a livello internazionale da parte dell'Amministrazione statunitense, anche rispetto al trattato di non proliferazione che sarà in definizione l'anno prossimo.

ENRICO PIANETTA. Ringrazio i rappresentanti dello IAI per la loro presenza. Vorrei porre una domanda relativa alla cooperazione strutturata permanente. Il Trattato di Lisbona - a prescindere dal fatto che vada a buon fine oppure no - definisce in fin dei conti un percorso preferenziale, in quanto la cooperazione strutturata e permanente nell'ambito del Trattato ha una procedura meno complessa, trattandosi di una cooperazione rafforzata. Quindi si tratta di un punto nevralgico, a cui si è dato particolare rilievo e credo che questa modalità sia un elemento di affidamento e di prospettiva per l'Europa.
Infatti, finalmente dopo tanti anni, da De Gasperi in poi, si arriverebbe a una procedura che darebbe all'Europa questa grande capacità, in un contesto di autonomia da una parte e di complementarietà dall'altra sullo scenario internazionale. Dunque, vi chiedo un approfondimento relativamente a questa problematica che io ritengo interessante.

PRESIDENTE. Se non ci sono altri interventi, darei la parola ai rappresentanti dello IAI per la replica.

STEFANO SILVESTRI, Presidente dell'Istituto affari internazionali. Risponderò brevemente ad alcune domande e poi lascerò al dottor Ettore Greco il compito di rispondere alle rimanenti.
Certamente, il discorso del posizionamento dell'Italia in questi scenari è importante. Dal punto di vista generale la posizione politica italiana è abbastanza netta e a favore della ratifica e dell'applicazione del Trattato di Lisbona, dunque a favore di una partecipazione nazionale all'interno della cooperazione strutturata e permanente nel campo della difesa e della sicurezza.
Questa è più o meno la linea guida. Tuttavia, all'atto pratico risulta francamente meno chiaro come si riuscirà a coniugare questa linea e soprattutto cosa occorrerà fare nel caso in cui il Trattato di Lisbona non dovesse essere approvato. In linea di massima, l'Italia sembra intenzionata a non perdere di peso in questo processo, cercando di mantenere una posizione importante all'interno del consesso europeo e della NATO, per quel che riguarda la difesa e la sicurezza.
La questione di come riuscire a fare ciò è un aspetto molto più aperto alle evoluzioni della situazione. In passato, abbiamo molto sottolineato la nostra partecipazione alle missioni, i nostri impegni nei Balcani e così via, anche per guadagnare punti e per affermare che, avendo realizzato una serie di azioni, siamo un alleato affidabile e importante, al quale quindi deve essere attribuito il ruolo che gli compete.
Oggi, questo implica un impegno continuativo, che nel corso degli anni è diventato sempre più pesante per il sistema italiano. Dunque, bisogna vedere se il sistema politico italiano è disposto a continuare ad assolverlo o meno. Se non è disposto, allora le opzioni per l'Italia diventano più difficili. Si può tentare un'opzione di collegamento preferenziale con questo o quel Paese. A mio avviso le opzioni degli Stati Uniti, della Germania, della Francia e della Gran Bretagna sono tutte importanti e interessanti, tuttavia sono di breve periodo. Nessuna di esse, infatti, garantisce, secondo me, quel ruolo di lungo periodo assicurato invece dal processo di integrazione europea.


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Pertanto, in una situazione di crisi del processo di integrazione europea, la preferenza italiana, ossia restare all'interno del consesso europeo e della NATO con un ruolo significativo, a mio parere potrebbe essere soddisfatta solo con un forte sforzo nazionale.
In questo quadro, le questioni della sicurezza possono diventare un elemento di aiuto. Mi riferisco alle forze di sicurezza, alla cooperazione di sicurezza eccetera. In queste situazioni infatti abbiamo già un ruolo importante, grazie soprattutto all'utilizzo dei Carabinieri. Ciò nonostante, bisogna andare oltre.
Oggi, ci sono due visioni nel mondo delle forze di polizia militare: quella franco-italiana e spagnola, ovvero di quei Paesi che hanno delle forze di polizia che sono anche militari (Carabinieri, Guardia Civil, Gendarmerie, etc.) e quella della tradizione anglosassone in cui le forze di polizia militare vengono chiamate constabulary, e sono sostanzialmente un incrocio tra forze di occupazione, - li possiamo anche chiamare eserciti coloniali - e milizie locali inquadrate militarmente sotto il comando di ufficiali del Paese dominante. Questa era la constabulary in Irlanda, nelle Filippine e in California (dove poi si è evoluta come polizia nello Stato della California). Allo stesso modo, forza di occupazione era la constabulary americana in Germania, immediatamente dopo la fine della guerra; una situazione che durò pochi anni.
I due modelli non sono esattamente identici, dal momento che mentre le nostre sono effettivamente forze di polizia, quelle sono forze di supporto alle forze armate per una serie di ruoli di controllo territoriale. Certamente, non è detto che i nostri Carabinieri o la nostra Guardia di finanza - così come sono strutturate oggi - rappresentino le forze più adatte per il controllo territoriale. Infatti, esse sono più adatte per la lotta alla criminalità o per un'azione di intelligence. Insomma, si tratta di funzioni un po' diverse.
Quindi, a mio avviso, occorre prima di tutto imporre un modello di forze di polizia o di forze militari e di sicurezza che sia più consono al tipo di funzioni che bisogna svolgere. Secondariamente occorre anche addestrare le nostre forze di sicurezza in maniera tale che possano svolgere determinate mansioni, per esempio di controllo del territorio, cosa che oggi non possono fare per carenza di mezzi (ad esempio, non hanno i drones, gli aerei senza pilota, eccetera). Detto questo, noi abbiamo una grande tradizione in quel senso e abbiamo dei grandi numeri, che dovrebbero essere usati.
Per quanto riguarda la politica industriale, dico soltanto che ci troviamo in una situazione in cui diminuiranno i numeri e aumenterà la richiesta di variazioni sui modelli. In altri termini, cambiando gli scenari di impiego delle forze si chiederanno carri armati, cannoni ed elicotteri sempre più specificamente adatti a quel tipo di terreno e funzione e, per di più, in numeri piccoli. Dunque, il rischio è che l'industria abbia forti spese per ricerca e sviluppo e l'industrializzazione, che non riuscirebbe a recuperare sulla vendita, come invece facciamo di solito.
Allora, da un lato l'integrazione del mercato europeo ovviamente allarga il mercato, ma dall'altro aumenta la competizione e quindi rischiano di vincere sempre coloro che hanno maggiore appiglio politico e una maggiore capacità di investire a breve sulla ricerca e sviluppo. Quindi, non necessariamente vinceranno coloro che propongono i prodotti migliori, ma coloro che dispongono a breve delle risorse per adattare subito il prodotto alla domanda. Ciò implica, a mio avviso, se vogliamo ampliare la nostra capacità industriale in questo settore - e credo ne valga la pena - una maggiore attenzione alle spese per la ricerca e lo sviluppo.
Su questo tema c'è un grande dibattito. Attualmente, se io proponessi ciò a Finmeccanica mi verrebbe detto che sono matto, perché loro vogliono vendere prodotti e non fare ricerca e sviluppo. Io risponderei che questo va benissimo finché ci si riesce, ma quando la domanda dei prodotti calerà, allora sarà adottato un altro modello. In ogni caso, c'è una problematica


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di politica industriale sulla quale bisogna riflettere e che deve essere analizzata.
Passo, a questo punto, alla risposta sulla questione del nucleare. Le testate nucleari presenti in Europa sono testate nucleari gravitazionali lanciate dagli aerei, ovvero normali bombe da aereo.
Queste dovremo ritirarle in ogni caso entro un certo numero di anni, perché quando verranno ritirati i Tornado - che sono attualmente in funzione e hanno anche un ruolo nucleare - non avremo più un aereo per trasportare queste bombe. Questo per quanto riguarda l'Italia, perché magari gli americani potranno averli, anche se non gliene importerà nulla, dal momento che questo tipo di bombe a loro non interessa.
Pertanto, si tratta di un tipo di armamento destinato comunque a scomparire tecnicamente entro dieci o quindici anni; politicamente forse anche prima. Infatti, c'è da chiedersi quale nemico vogliamo dissuadere con queste bombe. Forse, ancora la Russia? Certamente no, perché con queste bombe a malapena arriviamo in Russia. Allo stesso modo, se è l'Iran che vogliamo dissuadere, non arriviamo neppure qui perché per compiere un'operazione del genere bisognerebbe portare gli aerei in Turchia.
Dunque, sul ruolo e sull'utilità di queste bombe c'è da discutere. Perché non vengono ritirate? La risposta va ricercata nel fatto che esiste un patto di condivisione del rischio nucleare con gli Stati Uniti - che funziona a nostro svantaggio, ma anche a nostro vantaggio - incentrato sulla presenza di forze nucleari in Europa diverse da quelle francesi e britanniche (forze americane). Toglierle significa ridiscutere il problema della dissuasione e nessuno se ne vuole assumere l'onere. A mio avviso, sarebbe bene incominciare a farlo rapidamente, perché a un certo punto ci troveremo di fronte al fatto che abbiamo le bombe, ma non abbiamo nulla con cui spararle. Dunque, effettivamente la loro utilità diventa un po' ridicola.

ETTORE GRECO, Direttore dell'Istituto affari internazionali e responsabile dell'area di ricerca rapporti transatlantici. È chiaro che il discorso sulla dissuasione attraverso lo strumento nucleare di ipotetici nemici o minacce esterne e la visione dello strumento nucleare come base di condivisione di un comune orizzonte strategico costituiscono un po' un'eredità della guerra fredda.
Oggi, ci troviamo in uno scenario radicalmente cambiato e, come sosteneva il presidente Silvestri, dovrebbe essere ripensato il legame fra la presenza in Europa di armi nucleari e una concezione strategica ormai superata. Tuttavia, non deve sfuggire il punto politico, che consiste nel fatto che in Europa, in particolare in Germania, si discute, probabilmente più di quanto si faccia in Italia, sull'utilità di queste armi nucleari. Infatti, questo è un tema che il partito socialdemocratico fa riaffiorare periodicamente, soprattutto in questi mesi in cui si avvicinano non solo le elezioni europee, ma anche quelle nazionali, Dunque, questa posizione non rappresenta la linea della coalizione, ma viene usata come arma propagandistica.
Tuttavia, ciò è collegato anche alla politica dell'Amministrazione americana, che sta cambiando proprio sulle questioni che riguardano il controllo degli armamenti e il disarmo. Si va verso la Conferenza di riesame del trattato di non proliferazione, ed è chiaro che, almeno indicare la possibilità di rivedere la presenza delle armi nucleari in Europa, potrebbe agevolare questo processo, perché questa Conferenza si presenta come molto problematica. Dunque, bisognerà dare qualche segnale che si sta andando avanti sulla strada del disarmo, per poter convincere gli altri Paesi ad accettare di essere all'interno del trattato.
Pertanto, come diceva il presidente Silvestri, ci potremmo trovare in una situazione favorevole, nel senso che se queste armi hanno diminuito il loro valore strategico e contemporaneamente


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sono rispetto al passato tecnologicamente meno importanti e obsolete è politicamente conveniente riconsiderarne l'uso e la presenza. Queste, infatti, sono le tipiche condizioni che permettono di apportare delle modifiche alla propria posizione militare. Mi riferisco a questo specifico componente del nostro strumento di difesa.
È stata posta una domanda anche sulla complementarietà fra l'Unione europea e la NATO, in particolare per quanto riguarda la questione dello sviluppo delle capacità.
La situazione va in qualche modo risolta o bisognerebbe cercare di cambiarla. Siamo di fronte a programmi di sviluppo e di capacità che corrono in parallelo: da un lato, il programma di sviluppo della capacità della NATO, dall'altro quello dell'Unione europea con la PESD, che sono simili, ma tra i quali non si è sviluppata una complementarietà funzionale.
Infatti, tali programmi riguardano alcuni ambiti che sono praticamente gli stessi, in particolare lo sviluppo delle forze di reazione rapida (esiste una forza di reazione rapida della NATO e una forza di reazione rapida dell'Unione europea).
Noi facciamo riferimento alle ipotesi che sono state discusse, e continuano ad esserlo, all'interno delle due organizzazioni per stabilire almeno alcuni parametri comuni sul tema dell'armonizzazione, di come queste forze devono essere fatte ruotare e ovviamente sul tema dell'interoperabilità. Tuttavia, la difficoltà che si incontra è di natura politica e attiene alla mancata soluzione della disputa tra Cipro e la Turchia, che rende questo dialogo istituzionale fra le due organizzazioni estremamente difficile. Difatti, fino a quando non si riuscirà a fare dei passi in avanti in senso politico nella soluzione del problema di Cipro, e fino a quando non si riuscirà a superare l'impasse attuale, che si riverbera in altri campi, sarà difficile riuscire a fare dei significativi progressi su tale questione.
Addirittura, oggi le due organizzazioni hanno difficoltà a dialogare e a scambiarsi le informazioni, anche quelle che non hanno un grande valore di riservatezza. Insomma, c'è un vero e proprio blocco istituzionale. In questo caso, ci troviamo di fronte a una situazione paradossale, perché c'è una collaborazione sul terreno che funziona abbastanza bene - ha certamente funzionato bene nei Balcani - ma al tempo stesso c'è la mancanza di collegamenti istituzionali funzionanti.
Passando all'ultima domanda, come ha detto giustamente il professor Silvestri - questa potrebbe essere indicata come la nostra linea - noi riteniamo che date le difficoltà che avremo a mobilitare le risorse necessarie per formare un nostro ruolo significativo all'interno della PESD, e in generale dei piani di difesa europea, è importante per noi che vadano avanti i processi di integrazione istituzionale, che si possa rapidamente ratificare il Trattato di Lisbona e che quindi questa forma di cooperazione strutturata permanente, che ha delle caratteristiche ancora più avanzate delle cooperazioni rafforzate tradizionali, possa rapidamente affermarsi.
Tuttavia, voglio sottolineare che il Trattato include una serie di altre clausole, novità e misure di riforma che rafforzano il generale assetto istituzionale della PESC e della PESD, anche al di là di questo meccanismo specifico, e che quindi potrebbero consentire di far andare avanti più facilmente i processi di riforma e di cooperazione ai vari livelli. Ovviamente, non solo la difesa è strettamente collegata a tutti gli altri aspetti della sicurezza, ma in definitiva è una componente della politica estera. Dunque, la politica estera può essere più forte proprio grazie ai meccanismi del Trattato. Mi riferisco naturalmente al rafforzamento dell'Alto rappresentante, ma anche ad altri meccanismi che il Trattato contempla, e che possono appunto rafforzare questa dimensione di difesa, che finora è rimasta per certi aspetti embrionale.

PRESIDENTE. Abbiamo rispettato i tempi con una puntualità straordinaria.


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Ringrazio i rappresentanti dello IAI per le loro analisi e per la documentazione prodotta, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato). Gli elementi di scenario, offerti a queste Commissioni, saranno molto utili per il prosieguo dei nostri lavori e per definire più puntualmente l'intervento legislativo sulla materia che stiamo affrontando.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,25.

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