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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(III e IV)
3.
Martedì 7 luglio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Garofani Francesco Saverio, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME, IN SEDE REFERENTE, DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 1213 CIRIELLI E C. 1820 GAROFANI, RECANTI «DISPOSIZIONI PER LA PARTECIPAZIONE ITALIANA A MISSIONI INTERNAZIONALI»

Audizione del professor Alessandro Colombo, direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI):

Garofani Francesco Saverio, Presidente ... 3 9 13 14
Chiappori Giacomo (LNP) ... 12
Colombo Alessandro, Direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'ISPI ... 3 9 11 12 13
Di Stanislao Augusto (IdV) ... 11
Mecacci Matteo (PD) ... 12
Villecco Calipari Rosa Maria (PD) ... 9
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) E IV (DIFESA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 7 luglio 2009


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE DELLA IV COMMISSIONE FRANCESCO SAVERIO GAROFANI

La seduta comincia alle 12.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione del professor Alessandro Colombo, direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva relativa all'esame, in sede referente, delle proposte di legge C. 1213 Cirielli e C. 1820 Garofani, recanti «Disposizioni per la partecipazione italiana a missioni internazionali», l'audizione del professor Alessandro Colombo, direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'Istituto per gli studi di politica internazionale (ISPI).
Nel dare la parola al professor Colombo, lo ringrazio per la sua disponibilità e per la sua cortesia.

ALESSANDRO COLOMBO, Direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'ISPI. Ringrazio a mia volta le Commissioni riunite esteri e difesa per l'invito.
Poiché il tema è molto vasto, come ho potuto constatare dai resoconti delle audizioni precedenti, vorrei innanzitutto trovare un tema che sia a cavallo tra le due tematiche già trattate. Dunque, non parlerò specificamente delle missioni, perché ritengo che in questa sede le competenze siano superiori alle mie e non offrirò nemmeno scenari sull'evoluzione del contesto internazionale, come è stato già fatto dai miei colleghi, sebbene mi occupi soprattutto di questo.
Cercherò, invece, di individuare quali siano gli elementi di connessione tra le missioni attualmente in corso e alcuni grandi nodi tematici dell'evoluzione delle odierne relazioni internazionali. Ovviamente questi nodi tematici non hanno a che fare soltanto con le missioni, ma le missioni non possono evitare di confrontarsi con essi. Una selezione arbitraria mi ha indotto a individuarne quattro che ritengo siano i più importanti: il multilateralismo, la globalità - di cui si è già parlato nelle precedenti audizioni -, il rapporto con gli alleati - che è, forse, il tema più scontato - e la crescente confusione tra pace e guerra, che considero molto rilevante soprattutto nel caso della missione afgana, ma anche in tante missioni precedenti.
Mi limiterò ad accennare brevemente a questi temi, perché ciascuno di questi potrebbe consentire di discutere per ore. Inizierei dal multilateralismo in quanto tutte le missioni sono risultate possibili proprio perché multilaterali. Riconoscere i vantaggi del multilateralismo è persino ovvio, a maggior ragione oggi che ci troviamo, da un lato, sotto l'effetto delle aspettative e delle retoriche che si sono


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addensate attorno alla nuova Presidenza degli Stati Uniti e, dall'altro, sotto quello dei fallimenti della soluzione unilaterale dell'amministrazione americana precedente.
Il vantaggio fondamentale del multilateralismo è la legittimità; essa è anche la ragione per cui queste missioni sono state possibili non soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Europa. Una missione multilaterale è per definizione più legittima, nel senso che incontra meno problemi a farsi riconoscere come tale sia all'interno che all'esterno dei contesti nazionali.
L'altro grande vantaggio, oggi assai evidente in base all'esperienza dell'amministrazione precedente e di tutto quello che ha comportato nei rapporti transatlantici, è che il multilateralismo facilita la coesione della solidarietà transatlantica. Quindi, non semplicemente la legittimità internazionale e il quadro dell'ordine politico giuridico internazionale, ma più specificamente il quadro dei rapporti tra l'Italia, gli alleati europei e gli Stati Uniti. Questo è evidente e viene anche insistentemente ribadito.
Credo, tuttavia, che occorra considerare anche i problemi del multilateralismo. Ritengo che, da qualche mese a questa parte, tendiamo a non vedere tali problemi anche per effetto di questa percezione di stacco assoluto tra l'amministrazione Bush e l'amministrazione Obama.
Il primo è il più importante di tutti. Infatti non si può certo affermare che prima della soluzione unilaterale dell'amministrazione Bush il multilateralismo avesse dato buona prova di sé. Di più: non sarebbe possibile comprendere nulla dell'amministrazione Bush, della sua retorica e, soprattutto, del modo in cui essa si è legittimata all'interno degli Stati Uniti con gli elettori e i contribuenti americani, senza considerare come George Bush abbia legittimato la propria soluzione unilaterale proprio sulla base del precedente fallimento del multilateralismo. Il fallimento cui George Bush alludeva non era immaginario. Infatti, nel corso degli anni Novanta, il multilateralismo diede pessime prove di sé sia in Jugoslavia, sia in Somalia, sia in Ruanda nonché nella gestione di tutte le grandi crisi internazionali dell'epoca.
Noi non siamo eredi soltanto dell'indubbio fallimento dell'unilateralismo di George Bush - che è stato un disastro politico, militare ed economico - bensì di due fallimenti: quello dell'unilateralismo e quello del multilateralismo. Quella che oggi viviamo è una crisi comprensiva del controllo internazionale, cui fino ad oggi il multilateralismo non è affatto sfuggito.
Il secondo problema del multilateralismo, è il carattere quasi surreale del modo in cui si parla di multilateralismo in Europa e negli Stati Uniti. Apparentemente, esiste un consenso transatlantico sulla soluzione multilaterale; in realtà, al contrario, per multilateralismo, europei e americani intendono due cose completamente diverse.
Gli europei «vendono» il multilateralismo, innanzitutto a sé stessi e ai propri cittadini, come un modo per riequilibrare il sistema internazionale. Nella visione europea, pertanto, il multilateralismo è molto più che l'opposto dell'unilateralismo, dal momento che dovrebbe essere un modo per riequilibrare, nel senso del potere e della legittimità, l'ordinamento politico, giuridico e internazionale nel suo complesso. Ebbene, se il multilateralismo fosse questo, gli Stati Uniti ne sarebbero inorriditi. Infatti essi vedono nel multilateralismo qualcosa di completamente diverso, ossia il modo migliore per rendere economicamente sostenibile l'egemonia americana.
Per gli Stati Uniti il multilateralismo non è l'opposto della loro egemonia, ma il modo per renderla perpetuabile nel tempo ed economicamente sostenibile. Tale situazione rappresenta una sorta di gioco di specchi a cui Europa e Stati Uniti continuano a partecipare per poter sostenere una soluzione che immaginano come comune, ma che in realtà non lo è.
Vi è poi un'altra considerazione. Lo straordinario vantaggio di cui il multilateralismo gode sotto il profilo della legittimità rischia di essere anche uno svantaggio.


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Infatti è vero che il multilateralismo aumenta enormemente la legittimità delle missioni internazionali, ma è anche vero che, proprio per questa ragione, esso diminuisce altrettanto enormemente la legittimità di qualunque dubbio sulle missioni internazionali. In altre parole, il vantaggio del multilateralismo rischia di trasformarsi paradossalmente in una trappola multilaterale, introducendo una rigidità nelle strategie degli attori totalmente inadeguata alla natura dell'attuale contesto internazionale. Ritengo che al riguardo George Bush avesse ragione quando sosteneva che, nel contesto internazionale attuale, gli impegni rigidi, dettati dalle coalizioni, sono disfunzionali.
Il secondo tema inevitabilmente chiamato in causa dalle missioni è quello della globalità che è già stato insistentemente toccato nelle audizioni precedenti. Le missioni non hanno soltanto a che fare con il multilateralismo, ma si legittimano attraverso un continuo richiamo alla globalità. Si tratta di missioni che parlano di globalità in senso strategico, politico, economico e, soprattutto, nel senso della legittimità. In altre parole, esse si legittimano attraverso valori considerati universali e quindi di per sé globali. La globalità intesa in questo senso è un passaggio essenziale nella legittimazione delle missioni, così come delle politiche di tutti i principali attori.
Vi è poi un altro rapporto con la globalità che considero più critico e sul quale, le poche parole che spenderò, lo confesso, sembreranno ampiamente insufficienti e spero non caricaturali. Tutte queste missioni presuppongono la globalità, cioè danno per scontato, come anche noi diamo per scontato quasi sempre quando trattiamo di relazioni internazionali, che la globalità sia un dato di fatto nonché il risultato di un grande processo storico del quale siamo eredi e, in ragione di ciò, sia di per sé irreversibile. Dal punto di vista politico, strategico e ideologico credo che questo costituisca un colossale errore, teorico prima che politico, laddove però anche gli errori teorici diventano quasi fatalmente errori politici.
Non è infatti affatto vero, sia dal punto di vista storico che da quello teorico, che le sfere e le dimensioni dell'agire sociale debbano avere sempre la stessa dimensione. In altre parole, non è affatto detto, perché non è stato così nella storia e non lo è forse neanche oggi, che un contesto di globalizzazione economica debba necessariamente coincidere con un contesto di globalizzazione politica e strategica. Questo è un salto logico.
Se consideriamo l'evoluzione degli ultimi vent'anni, al contrario, il primo dato che incontriamo nella rappresentazione del contesto internazionale è quello di un progressivo e devastante disallineamento tra la traiettoria che lo spazio politico internazionale ha imboccato nella sfera economica e la traiettoria che ha imboccato nella sfera politica, non tanto perché manca una governance della globalizzazione, ma perché, al contrario, la globalizzazione dal punto di vista politico e strategico non solo non è aumentata, ma è persino regredita nel corso degli ultimi quindici anni.
Dal punto di vista strategico, il mondo globale è stato il Novecento e il mondo compiutamente globale è stato quello della guerra fredda; essa ha rappresentato un contesto nel quale tutte le aree regionali erano inevitabilmente collegate l'una all'altra non dalle chiacchiere, ma dalla paura.
Nell'attuale contesto internazionale, al contrario, le diverse aree regionali stanno imboccando traiettorie totalmente diverse, come alcune hanno già fatto in modo molto marcato. I grandi temi di conflitto e i principali giocatori dei diversi conflitti sono totalmente diversi nel passaggio da un'area regionale ad un'altra. I linguaggi stessi dei conflitti non si somigliano più.
Aggiungo - so che al riguardo, per usare un eufemismo, può non esserci consenso - che non credo si possa opporre a questo processo di scomposizione, come si doveva legittimamente fare all'epoca della guerra fredda, il freno dell'esistenza di qualche vicenda globale, come quella proposta dagli Stati Uniti negli ultimi otto anni, ovvero la cosiddetta guerra globale


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contro il terrore. Ritengo che l'espressione «guerra globale contro il terrore» sia stata fraintesa, essendosi comunemente messo l'accento sulla parola «terrore», mentre, a mio avviso, cadeva sull'espressione «globale».
Attraverso la guerra globale al terrore, gli Stati Uniti hanno proposto una fantasia di coerenza geopolitica destinata a fallire per il semplice fatto che cercava nel contesto internazionale qualcosa che oramai non esiste più e che, come la guerra fredda, potesse riassumere tutte le cose: una sorta di sostituto politico, strategico e ideologico della guerra fredda. Dobbiamo abituarci all'idea che non esistano sostituti politici e strategici della guerra fredda, e che non solo oggi, ma anche in futuro, i diversi contesti regionali continueranno a percorrere strade sempre più marcatamente diverse.
Vorrei fare altre due brevissime riflessioni sul tema della globalità, in merito alle quali ritengo di non avere la stessa opinione di chi mi ha preceduto. Non credo affatto che nel nostro contesto internazionale, per il solo fatto di vivere in un contesto di globalizzazione economica, tutti gli attori siano destinati o condannati alla globalità. Se guardiamo sul piano concreto il contesto internazionale degli ultimi venti anni, ci accorgiamo che esiste un solo attore concretamente capace di globalità: gli Stati Uniti. Tutti gli altri sono concretamente capaci di parlare di globalità. Dunque gli Stati Uniti sono l'unico attore in grado di svolgere un ruolo significativo, quasi sempre determinante in tutti i contesti regionali e di avere il rango che anche l'Unione Sovietica, sebbene in misura minore, aveva all'epoca della guerra fredda o delle potenze coloniali europee prima della seconda guerra mondiale. Oggi, esiste un solo attore concretamente presente e determinante in tutte le regioni.
Ritengo che tutti gli altri, comprese l'Italia e l'Unione europea, dovrebbero essere più cauti nel presupporre la globalità nel momento in cui fanno politica estera e, quindi, nel momento in cui scelgono a quali missioni partecipare. Credo inoltre che finora molti attori, compresa l'Unione europea, abbiano tralasciato di svolgere una riflessione sul ragionevole raggio d'azione della propria politica estera, ossia sul raggio di azione all'interno del quale ha senso spendere le proprie energie economiche, diplomatiche e militari. In ogni passaggio storico della portata di quello che stiamo vivendo oggi, tale riflessione è fondamentale.
Non è pensabile che attori con potenzialità diverse possono avere un raggio d'azione uguale. La politica estera degli Stati Uniti ha un raggio d'azione che non può che essere globale, ma non è affatto detto che tutti gli altri attori debbano avere lo stesso raggio d'azione. Anzi, ritengo che attori privi di risorse della stessa portata e che sognino di avere un raggio di azione della propria politica estera paragonabile a quello dell'attore più forte, siano destinati a fare una pessima politica estera.
La terza grande questione, sulla quale sarò molto schematico, riguarda il rapporto con gli alleati. Ovviamente, queste missioni - soprattutto la missione afgana, ma non esclusivamente essa, chiamano in causa non soltanto l'esistenza e la natura, ma anche il futuro del rapporto con gli alleati. La missione afgana ci consente di vedere meglio delle altre come siano chiamati in causa i rapporti con gli alleati, non per l'ovvia ragione che siamo in Afghanistan insieme agli alleati, ma perché siamo insieme per salvare la forma istituzionale dei rapporti con gli alleati, cioè per salvare la NATO. Questa è la ragione fondamentale per la quale oggi i Paesi europei partecipano alla missione afgana; è una ragione importante, purché sia esplicitata e si discuta su questo realistico obiettivo della missione.
La stessa NATO continua a ribadire come in questa missione, ci piaccia oppure no, si giochi in buona parte il suo stesso futuro.
Sarebbe superfluo sottolineare le ragioni per le quali la NATO resta importante. Credo che sia dal punto di vista italiano, sia da quello di tutti gli altri attori, liquidarla sarebbe non soltanto insensato,


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ma totalmente irresponsabile. Innanzitutto perché continuiamo a vivere in un contesto di estrema insicurezza, dovuta a ragioni diverse ed eterogenee. In secondo luogo, perché non abbiamo risorse sufficienti per procurarci da soli la sicurezza di cui avremmo bisogno: sarebbe totalmente insensato ipotizzare una soluzione autarchica della sicurezza nel caso di tutti i Paesi europei. In terzo luogo, è triste, ma realistico riconoscere come al momento non esistano soluzioni alternative, giacché quelle sperimentate nel corso degli anni Novanta non hanno funzionato. Non dobbiamo dimenticare, infatti, che negli anni Novanta la NATO ha vinto la decisiva gara sulla gestione del conflitto jugoslavo.
Ma riconoscere questo non significa che i rapporti con gli alleati non abbiano enormi problemi. Tanto per cominciare, non basta affermare che oggi la NATO è cambiata dal punto di vista istituzionale e che l'alleanza atlantica, non soltanto per la propria estensione, ma anche per i propri obiettivi, non somiglia minimamente a quella dell'epoca della guerra fredda. Infatti, se non fosse stato così, essa si sarebbe condannata da sola a diventare un residuato bellico.
Ciò che è cambiato ancora più profondamente è il tipo di interessi che gli alleati mettono nell'alleanza. All'epoca della guerra fredda, del bipolarismo, potremmo dire all'epoca d'oro dell'alleanza atlantica, il principio dell'indivisibilità della sicurezza, continuamente ribadito in tutti i recenti vertici della NATO, rifletteva qualcosa di concretamente esistente. Tutti gli alleati mettevano nell'alleanza atlantica lo stesso interesse, quello di contenere l'Unione Sovietica, volevano dall'alleanza atlantica la stessa cosa ed erano disposti, anche se con molte tensioni interne, a pagare un prezzo per perseguire insieme lo stesso interesse.
Da venti anni a questa parte, pur continuando come un Mantra a ripetere di essere fondata sul principio dell'indivisibilità della sicurezza, l'alleanza atlantica si regge su uno scambio continuo di interessi tra gli alleati, di cui anche le missioni sono una parte. Ciascun alleato ha preoccupazioni diverse, percezioni diverse della propria sicurezza, priorità politiche e strategiche diverse e scambia le proprie preoccupazioni con quelle degli altri.
All'interno dell'Alleanza atlantica, quindi, si partecipa a un gioco totalmente diverso da quello del passato. Questo gioco, come richiamato anche dai miei colleghi, ha una dimensione geopolitica. In altre parole, questo scambio è anche uno scambio di interessi diversi nello spazio; non ha senso continuare a fingere che l'Italia, la Germania, la Francia e la Gran Bretagna possiedano ancora, così come gli Stati Uniti, un vero orizzonte globale per la propria politica estera.
Oggi, la missione afgana, che è una missione della NATO presunta globale o che si avvia verso la globalità, è qualcosa di simile a uno scambio nel tempo con la missione in Kosovo. Infatti, gli Stati Uniti ci ricordano che sono stati loro ad averci tolto le castagne dal fuoco in Kosovo, ossia in una regione in cui la NATO è sorta e dove, secondo noi europei, dovrebbe morire, per cui in cambio dobbiamo partecipare, dando quanto ci sentiamo di dare. Nella nostra dimensione globale della politica estera, sono emersi chiaramente due problemi. Si tratta di problemi emersi non soltanto sulla questione afgana, ma anche in missioni precedenti, che ci hanno indotto a interrogarci su come avvenga questo scambio.
È nella natura dello scambio che ciascuna delle due parti cerchi di strappare il prezzo migliore, ossia di dare il meno possibile ottenendo il più possibile. Ciò che gli alleati minori intendono per dare il prezzo minore è molto evidente con riferimento a quanto sta avvenendo in Afghanistan: utilizzare la missione in Afghanistan come prova di fedeltà, dimostrando attraverso la partecipazione di essere ancora interessati all'Alleanza atlantica e a ciò che l'egemone dell'Alleanza atlantica vuole da essa, pur offrendo il contributo minimo possibile. È quindi destinata a crescere la polemica di questi mesi sul burden sharing all'interno stesso delle missioni, che non è più il burden sharing


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dell'epoca della guerra fredda, ma la disponibilità a partecipare a operazioni di combattimento.
L'altro aspetto, su cui credo di non rilevare sufficiente sensibilità, è abbastanza paradossale. Credo che si debba riconoscere che, se da un lato gli attori minori, come l'Italia, tendono a dare il meno possibile in termini di costi, dall'altro, l'attore più forte, cioè gli Stati Uniti, tendono a dare il meno possibile in termini di comando e definizione comune degli obiettivi, elemento fondamentale in tutte queste missioni.
È necessario chiedersi se esistano obiettivi condivisi, da chi essi siano dettati, se quelli degli Stati Uniti coincidano con quelli di tutti gli altri contingenti o siano diversi e in quale misura, e che rapporto intercorra tra il perseguimento di certi obiettivi e quello di certi altri.
È inoltre doveroso interrogarsi sulla politica regionale degli Stati Uniti, perché quanto avviene in Libano e in Afghanistan non è separato da quanto avviene in Medio Oriente. Quando il vice presidente degli Stati Uniti manifesta a Israele l'intenzione di non opporsi nel caso in cui tale Paese prendesse un'iniziativa contro l'Iran, il Vicepresidente degli Stati Uniti concretamente non solo minaccia l'Iran, ma mette a rischio anche i nostri contingenti, perché, in quella eventualità, il quadro geostrategico nella regione cambierebbe automaticamente.
Credo che partecipare a una missione comune debba significare anche partecipare insieme alla definizione della politica almeno in quella regione, perché in caso contrario significa dare all'egemone, da cui ancora dobbiamo dipendere, una cambiale in bianco che in un contesto come questo equivale a dare un potere eccessivo.
L'ultimo nodo problematico connesso allo svolgimento delle missioni, - un aspetto che, in realtà, considero il più rilevante e che potremmo eventualmente approfondire in sede di discussione, - è la crescente confusione tra pace e guerra. Le missioni devono definirsi e il primo scoglio che qualunque missione militare incontra consiste nel definirsi in rapporto alla pace o alla guerra.
La confusione tra pace e guerra non è una novità degli ultimi anni, ma interessa tutto il Novecento, in particolare la seconda metà, e diventa drammatica nel momento in cui dopo la seconda guerra mondiale scompaiono le ultime tracce di soglie cerimoniali tra la pace e la guerra. Tale confusione cresce paradossalmente man mano che il divieto di ricorrere all'uso della forza, introdotto dalla Carta delle Nazioni Unite, crea un incentivo a nascondere l'uso della forza dietro a degli eufemismi.
La mancanza di soglie cerimoniali e della disponibilità dei singoli attori a parlare di guerra allorquando ricorrono all'uso della forza condanna chiunque di noi a cercare la distinzione tra pace e guerra su un terreno, quello materiale, sul quale una chiara distinzione non può essere tracciata poiché è impossibile concordare su quanta violenza sia necessaria perché ci sia guerra, e se, per esempio, un blocco totale sia, oppure no, un atto di guerra. Questo nodo polemico attraversa tutto il secolo scorso e oggi ne siamo eredi.
È infine necessario rilevare come questa confusione investa il tema delle missioni internazionali. Non mi interessa qui stabilire se queste missioni debbano essere definite di pace oppure di guerra, argomento oggetto di polemica politica spicciola. Ma non può essere taciuto che questo è devastante dal punto di vista della legittimità, a maggior ragione in un caso come quello della missione afgana in cui ci troviamo di fronte a un vero labirinto di legittimazioni e denominazioni della missione dal momento che i diversi contingenti e Governi partecipanti definiscono la missione in modo diverso. Alcuni Governi, come il nostro, la definiscono una missione di pace; altri la definiscono esplicitamente come una missione di guerra e, se così non fosse, non potrebbero addirittura ottenere il consenso della propria opinione pubblica. Il contribuente americano infatti, non paga per una missione di


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stabilizzazione, ma per una missione che è parte della guerra globale contro il terrore.
Il tema della pace e della guerra torna quindi a incrociarsi con il tema del multilateralismo e dell'unilateralismo, perché la missione afgana è uno stranissimo incrocio, un ibrido quasi mostruoso tra multilateralismo e unilateralismo. Si tratta infatti di una missione multilaterale che tuttavia lascia ai partecipanti al massimo grado la libertà di definire la missione ciascuno a proprio modo, con enormi complicazioni dal punto di vista delle legittimazioni, ma soprattutto del modo in cui la missione è concretamente svolta sul campo. Vi ringrazio dell'attenzione.

PRESIDENTE. Grazie a lei, professor Colombo, per la completezza e la lucidità della sua analisi.
Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

ROSA MARIA VILLECCO CALIPARI. Ringrazio il professor Colombo per essere intervenuto. Mi scuso per essere arrivata con qualche minuto di ritardo, per cui potrei avere frainteso quanto è stato detto a proposito del multilateralismo e quindi a quella che lei, così mi sembra di aver intuito, considera una situazione critica, ma in evoluzione.
La mia domanda, comunque, si rifà anche all'ultimo punto da lei illustrato a proposito del quale lei ha detto che la missione afgana è emblematica ed è necessario interrogarsi sulla valenza del multilateralismo, laddove il gioco dell'attore globale viene affidato esclusivamente agli Stati Uniti. In alcune missioni recenti, contrassegnate da un unilateralismo dichiarato, come nella missione irachena, nelle quali mancava un riferimento di legittimità sul piano internazionale (mi riferisco alle risoluzioni ONU, tanto per chiarire), sono emerse notevoli differenze tra i Paesi europei. A tale livello, infatti, si verificò una spaccatura, posto che alcuni Paesi, in particolare Francia e Germania, si opposero a quella missione, a differenza di altri Paesi come il nostro. La vicenda afgana può invece essere letta in maniera diversa.
Fatta questa premessa, vorrei chiedere se oggi l'Unione europea, avendo superato i limiti evidenziati con la missione irachena, non si possa porre in una situazione differente e, quindi, rappresentare un attore strategicamente e politicamente importante nell'attuale contesto storico. Condivido le sue considerazioni sull'esigenza di percezioni e strategie differenti rispetto al dato della sicurezza, a proposito del quale si rileva un problema, sul quale invece dissento un po' da lei, di governance politica di un attore, quale l'Unione europea, che potrebbe essere strategicamente e politicamente globale. Lei ha criticato l'egemonia nelle decisioni e sul piano militare operativo. Ebbene, io non mi soffermerei soltanto sull'egemonia nelle decisioni strategiche e politiche in Libano, ma mi rifarei anche all'Afghanistan, dove si ha una doppia missione: una unilaterale, Enduring Freedom, l'altra multilaterale, ISAF, e un comando operativo che sembra non distinguere tra le due missioni e, quindi, tra i due obiettivi e tra le funzioni da svolgere sul campo.
Vorrei sapere se ritiene che questa visione possa positivamente superare quella novecentesca, realizzando un equilibrio mondiale, anche in quelle regioni nelle quali abbiamo missioni internazionali, ad esempio in Libano e in Medio Oriente, estremamente rilevanti per attori strategici come i Paesi europei.
Nella precedente audizione, il dottor Alessandro Politi ci ha riferito di un «incuneamento» sempre più rilevante della Francia in Africa: essa, infatti, si sta riposizionando in alcune ex colonie francesi. Questo esempio dimostra che ogni Paese continua a muoversi come un attore unico, mentre la visione che propongo potrebbe essere risolutiva sia sul piano globale, sia su quello regionale.

ALESSANDRO COLOMBO, Direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'ISPI. Farò un breve rilievo sull'Iraq, uno sull'Unione europea e uno sull'Afghanistan.


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Quella in Iraq fu una missione unilaterale concepita in modo sciagurato - anche dal punto di vista politico e strategico - e condotta in modo enfaticamente unilaterale. Essa, cioè, fu condotta in un linguaggio ancora più unilaterale di quanto la missione non fosse dal punto di vista del diritto.
Poiché credo che un atto di coerenza possa consentirci maggiore prudenza in futuro, desidero ricordare come la rottura del tessuto giuridico operata dalla missione irachena avesse avuto un importante precedente quattro anni prima con la guerra contro la Jugoslavia in Kosovo. Quella guerra rappresentò una colossale rottura nella comunità internazionale, che non fu evidente nella prospettiva europea solo perché in quell'occasione ci trovavamo dalla parte dei violatori.
Contro la guerra in Jugoslavia non si schierarono solo la Russia o la Cina, il che ci consentirebbe di affermare che si trattasse di un fronte autoritario contro una sorta di lega delle democrazie, ma anche l'India. Dunque, contro di essa si schierò una parte consistente della comunità internazionale che denunciò quella missione. Non esprimo giudizi sul terreno politico, tuttavia per onestà intellettuale dobbiamo riconoscere che l'invenzione di Bush non era un'invenzione.
Sono d'accordo con l'onorevole Villecco Calipari nel ritenere che l'Unione europea sarebbe un attore capace di politica globale. Attualmente, però, l'Unione europea non è un attore di politica estera. Infatti gli interessi che entrano in gioco non sono tanto quelli considerati prioritari dai Governi dei Paesi che hanno interesse a vedere nell'Unione europea l'attore fondamentale, quanto quelli degli attori più forti all'interno dell'Europa, quali la Francia o la Gran Bretagna. Tali paesi operano in ambito comunitario quando ciò giova ai loro interessi per poi sganciarsene quando preferiscono perseguire i propri interessi in modo diverso.
Temo che il problema fondamentale sia rappresentato dalla coesione interna dell'Unione europea. Un'Unione europea coesa al proprio interno potrebbe essere capace di un certo tipo di globalità, anche se non di tutta quella di cui sono capaci gli Stati Uniti. È viceversa evidente che, in veste di attore unitario di politica estera, pensiamo ad esempio al caso della riforma del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite o a quei casi nei quali abbiamo ceduto così tanto al punto di non aspettarci più nulla, come per quanto riguarda il ruolo sulla questione israelo-palestinese, i Paesi dell'Unione europea non hanno la stessa politica. Il rapporto con gli Stati Uniti, quello tra Unione europea e Alleanza atlantica sono tutti aspetti sui quali i Paesi europei non hanno posizioni comuni. Da questo punto di vista, ritengo che, nel caso dell'Unione europea, il tema della globalità presupponga quello della propria unitarietà, problema non ancora risolto almeno su questo terreno.
Per quanto riguarda l'Afghanistan, credo che sarebbe utile sia in sede atlantica, sia nel dibattito politico e, quindi, nel luogo della trasparenza democratica tra eletti ed elettori, porsi una domanda elementare ogni volta che si decide di impiegare uno strumento di politica estera come questo, chiedendosi quali siano gli obiettivi di questa missione.
Dal punto di vista del rendimento della missione, è utile non essere troppo chiari sull'individuazione degli obiettivi, poiché, questo è ovvio, significa anche essere altrettanto chiari nel momento in cui si farà il bilancio della missione. Ma se è opportuno mantenere un certo grado di ambiguità nella definizione degli obiettivi, c'è una misura oltre la quale, l'ambiguità rischia di diventare catastrofica per il perseguimento stesso della missione. Nessuno di noi può essere così ingenuo da ritenere che l'obiettivo della missione possa realisticamente essere la democratizzazione dell'Afghanistan. Infatti, in questo caso, dovremmo parlare di una missione infinita.
L'obiettivo della missione può essere la stabilizzazione dell'Afghanistan (che, a propria volta, andrebbe definita). Infine l'obiettivo potrebbe essere un altro ancora, oppure tutte queste cose insieme. Ritengo


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che a questo punto della missione sarebbe opportuno fare un po' più di chiarezza anche su questo.

AUGUSTO DI STANISLAO. Desidero porle una domanda apparentemente innocente e un po' lontana dal contesto. Vorrei sapere, a suo avviso, quanto ci sia ancora di nobile nelle missioni o nelle intenzioni dei singoli Stati nel definire, attraverso queste, una politica comune almeno a livello europeo.
Poiché lei ha parlato di un raggio d'azione ragionevole, vorrei chiederle chi è che lo definisce e in base a quali rapporti di forza fra i singoli Stati. Questa domanda è importante al fine di capire se esistano ancora aspetti nobili negli interventi che si autorizzano, perché altrimenti, se fosse vero quello che lei diceva, tutti i rapporti sarebbero a geometria variabile, dipendendo dal cambio dei Governi e da chi governa i processi e mette in campo le risorse. Se pensiamo che esiste il principio dell'indivisibilità della sicurezza, e questo è in relazione ai singoli rapporti, credo che sia complicato far coincidere in maniera equilibrata interessi comuni, generali, come quelli dei singoli Stati e anche delle singole forze messe in campo.
Lei ha fatto delle affermazioni con grande chiarezza e competenza, ma sentire alcune di queste cose per me è stato inquietante, non essendo riuscito a capire, ad esempio, in che modo l'Italia possa inserirsi in questo contesto e quali siano i limiti degli elementi che riguardano la Difesa e quelli che riguardano gli Esteri. Se potesse fornirmi alcuni chiarimenti, mi aiuterebbe a capire meglio anche il concetto di globalità, essendo centrale il nodo a cui lei accennava, ossia che c'è chi fa e impone la globalità e chi, invece, ne parla senza avere il peso per cambiare le carte in tavola.

ALESSANDRO COLOMBO, Direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'ISPI. Cercherò di essere più breve di prima. Lei mi chiede se e quanto resti di nobile nella partecipazione dei singoli Paesi membri a queste missioni. Bisognerebbe definire prima il significato del termine «nobile». Non credo che, nel perseguimento delle politiche estere, il significato di altruista, inteso nel senso del perseguimento di interessi non nazionali, ma di un'ipotetica comunità internazionale, sia l'unico modo di definire l'aggettivo «nobile».
Per esempio esiste anche un modo più tradizionale e sicuramente meno esaltante, giacché nella conduzione di una politica estera di difesa può essere nobile anche perseguire in modo egoistico, ma intelligente, il proprio interesse nazionale. Sicuramente non è nobile pensare di perseguire i propri interessi nazionali e non farlo. Quindi, mi accontenterei anche del secondo significato dell'aggettivo «nobile», poiché sono estremamente preoccupato dal terzo.
La seconda domanda si riferiva alla ragionevolezza, che ritengo sia un giudizio opinabile e che coinvolge due criteri definiti e a propria volta oggetto di discussione e anche di divisioni. Perché si possa stabilire il raggio ragionevole della propria politica estera, bisogna rispondere sostanzialmente a due domande e, quindi, riflettere su due grandi questioni. La prima domanda è la seguente: quali sono le linee tendenza ragionevolmente immaginabili dell'evoluzione politica internazionale nei prossimi anni? Tale domanda si collega quindi alle caratteristiche dei sistemi internazionali e impone una riflessione profonda sulla loro natura e sull'individuazione delle loro linee di tendenza fondamentali.
Posto che il sistema internazionale sia proprio quello che è stato immaginato, la seconda domanda è quali siano le mie risorse, il mio potenziale. Infatti, nel momento in cui devo definire un raggio d'azione ragionevole della mia politica estera, devo considerare come il vincolo fondamentale sia costituito dal potere di cui dispongo, magari anche insieme ai miei alleati qualora i nostri interessi collimino.
Per quanto riguarda il tema dello scambio, forse ho affermato una cosa inesatta o che si presta a fraintendimenti.


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Il fatto che le alleanze siano un luogo di scambio di interessi ci riporta a ciò che esse sono sempre state in passato. Tanto che era l'alleanza dell'epoca del bipolarismo, nella quale tutti gli alleati condividevano l'interesse più importante, a essere totalmente anomala.
Nel 1700, nel 1800 e per tutta la prima metà del 1900, le alleanze non sono mai state un luogo dove mettere in comune tutto, ma un luogo in cui si mettevano in comune solo alcune cose e non sempre con lo stesso peso. Si tratta quindi di un continuo gioco di contrattazioni, che vale per tutte le alleanze del passato e credo valga anche per la nostra alleanza del presente, qualora questa non viva l'allucinazione di essere ancora l'alleanza dell'epoca bipolare.

GIACOMO CHIAPPORI. Lei ha parlato di Afghanistan per «salvare la faccia» alla NATO.

ALESSANDRO COLOMBO, Direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'ISPI. Non ho detto la faccia.

GIACOMO CHIAPPORI. No, ma il ragionamento poteva più o meno funzionare in questo modo. In seguito, ha affermato che la NATO è necessaria perché da soli non riusciremmo a difenderci. Infine, ha detto anche che non è possibile dare una cambiale in bianco all'egemone.
Poiché è impossibile compiere operazioni opposte nello stesso tempo, o stiamo nell'Alleanza e riteniamo che l'egemone, che ha più forza, possa dettare alcune condizioni, oppure diventiamo importanti. Non credo che per diventare importanti si debba trattare con i singoli Stati, ma credo che dovremmo rafforzare quell'Europa che abbiamo erroneamente impostato, come anche lei ha detto. Gli Stati Uniti sono forti perché rappresentano un coacervo di persone traghettate dall'Europa in America ma tutte americane, mentre noi in Europa non riusciamo a essere europei.
Secondo lei, riusciremo a diventare egemoni se ci sforzeremo di concepire l'Europa come gli «Stati Uniti d'Europa» e non come l'Europa unita?

ALESSANDRO COLOMBO, Direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'ISPI. Comincio dalla sua prima considerazione. Lei ha avuto l'impressione che volessi tenere i piedi in due scarpe affermando che non si possa fare a meno dell'Alleanza atlantica, pur rappresentando essa il nostro principale guaio. Credo che non sia proprio così. In un contesto internazionale come quello attuale credo che anche i singoli attori debbano rendersi conto di poter pesare di più, non sotto il profilo politico-militare, ma sotto quello politico e della legittimità.
L'esperienza irachena è un ricordo bruciante per gli Stati Uniti non già perché è mancato agli Stati Uniti il contributo militare degli alleati, ma perché la mancanza di tale contributo è stata una catastrofe sotto il profilo della legittimità della missione. Ritengo, quindi, che nel contesto internazionale si possa pretendere di dire agli Stati Uniti che noi ci stiamo, ma che vogliamo sapere in anticipo se e quando il nostro contingente possa essere messo a rischio da loro iniziative unilaterali o da quelle di altri Paesi cui abbiano dato il benestare. Per la verità, credo che questo si potesse pretendere anche prima.
Per quanto riguarda l'Europa, sono d'accordo. Il problema è che dobbiamo convincere quei Paesi che sono molto più gelosi dell'Italia o, come da qualche decennio, della Germania, del proprio interesse nazionale. Nell'Unione europea ci sono stati rilevanti investimenti dei due più importanti attori dal punto vista politico e militare, la Francia e la Gran Bretagna, Paesi che però non investono sulle stesse cose e non pensano all'Unione europea nello stesso modo. Essi sono i due attori fondamentali che devono essere convinti di questa necessità non per diventare egemoni, perché non considero neppure auspicabile una gara per l'egemonia con gli Stati Uniti o con chiunque altro, ma semplicemente per contare di più.

MATTEO MECACCI. Vorrei fare solo una domanda. In particolare nel corso dell'ultimo anno, a livello internazionale è


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emerso un consenso sulla necessità che la missione afgana si estenda anche a quanto sta avvenendo in Pakistan, con operazioni militari che sempre di più coinvolgano quella regione, che è anche fonte di finanziamento e di attività svolte all'interno dell'Afghanistan.
Credo che in nessuna sede internazionale sia stato svolto un dibattito politico sul mutamento dell'orientamento della missione. Sicuramente, di ciò, in Parlamento non se n'è finora discusso. Se questo consenso esiste, vorrei conoscere le procedure attraverso le quali esso potrebbe essere reso concreto, o se venga affidata una delega in bianco a chi conduce le operazioni militari, al punto di decidere di volta in volta l'intervento da effettuare, o ancora se, essendo passati molti anni dall'avvio di questa missione in Afghanistan, tale circostanza non comporti la necessità di ripensare complessivamente la stessa missione, anche alla luce del fatto che ormai si parla di missione Afghanistan-Pakistan a livello politico, mentre a livello formale siamo rimasti alla definizione originaria.

ALESSANDRO COLOMBO, Direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'ISPI. Ritengo che il coinvolgimento del Pakistan nella guerra afgana sia stato l'effetto non di una decisione degli Stati Uniti o dell'Alleanza atlantica, ma di un processo di simbiosi tra le due aree di instabilità, e in particolare di qualcosa che quasi inevitabilmente avrebbe significato anche per l'Alleanza atlantica la necessità del «cambiamento» della propria missione, anche se non credo che possa essere definito come tale.
In tutte le missioni di controguerriglia, in tutte le esperienze di questo tipo nel corso del '900, il santuario è essenziale perché la guerriglia possa essere alimentata. Poiché è evidentissimo che in questo caso il santuario è in Pakistan, se si vuole continuare a condurre questa missione, il coinvolgimento del Pakistan diventa un elemento fondamentale di grammatica della missione, essendo impossibile disconnettere le due cose.
Quanto al fatto che tale coinvolgimento sia stato oggetto oppure no di dibattito, in verità, in sede di Alleanza atlantica e in sede NATO tale dibattito c'è stato. Non si è trattato di un dibattito difficile, perché la grammatica della missione e la natura del conflitto rendevano pressoché inevitabile questo coinvolgimento. Almeno in quella sede, comunque, si è svolto un dibattito di carattere sia strategico, sia politico, perché i due aspetti, naturalmente, non possono essere disgiunti.

PRESIDENTE. Vorrei porre anch'io una domanda. La mia osservazione è forse marginale rispetto alla sua analisi, ma mi interessa per capire il percorso che abbiamo di fronte. Quando parliamo di missioni, intendiamo soprattutto l'intervento militare. Vorrei sapere quale parte dovrebbe avere il tema della cooperazione civile, quale rapporto esso dovrebbe avere con la dimensione militare, e se questo tema della distinzione tra militare e civile sia un altro problema nella diversa articolazione del multilateralismo tra le due sponde dell'Oceano.

ALESSANDRO COLOMBO, Direttore del programma sicurezza e studi strategici dell'ISPI. Questa domanda mi interessa da tempo, perché da anni coordino un master a Roma con il Centro alti studi per la difesa, insieme alla mia università, il cui obiettivo originario consiste nel promuovere e migliorare il rapporto di cooperazione militare e civile in queste missioni, elemento rivelatosi critico per tante ragioni.
Il rapporto tra la componente militare e la componente di cooperazione in queste missioni è un rapporto inevitabile, ma allo stesso tempo molto complesso. Ovviamente, non si può fare cooperazione in queste aree senza averle prima riportate a un ordine minimo, sul quale si possono avere aspettative nel tempo. Questo si traduce in un aumento della domanda di risorse militari, e questo tende a diminuire la legittimità della cooperazione, in una sorta di circolo vizioso che riguarda non solo l'Italia, ma tutti gli altri Paesi. Nel


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caso dell'Italia e anche in quello di altri Paesi, si rileva un problema più specifico di cooperazione militare e civile.
Credo che sul tema della cooperazione militare e civile si possa e si debba fare di più a livello istituzionale, a maggior ragione se continua un impegno di queste dimensioni nelle missioni internazionali, promuovendo forme di cooperazione tra questi due settori, che devono capirsi e soprattutto smettere di diffidare gli uni degli altri.
Spesso, nella mia esperienza personale ho sorprendentemente trovato maggiore disponibilità al confronto con le istituzioni civili da parte del mondo militare che viceversa. Ritengo che questo per le istituzioni civili - sia quelle governative, sia quelle non governative - debba rappresentare un problema e anche una sfida culturale, dal momento che la ritengo una forma di ottusità e un patetico anacronismo culturale.

PRESIDENTE. Nel ringraziare il professor Colombo per la sua disponibilità, dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,05.

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