Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

Cerca nel sito

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe e abilitare il javascript

Strumento di esplorazione della sezione Lavori Digitando almeno un carattere nel campo si ottengono uno o più risultati con relativo collegamento, il tempo di risposta dipende dal numero dei risultati trovati e dal processore e navigatore in uso.

salta l'esplora

Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

Torna all'elenco delle indagini Torna all'elenco delle sedute
Commissioni Riunite
(III e IV)
4.
Martedì 15 settembre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Cirielli Edmondo Presidente, ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME, IN SEDE REFERENTE, DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 1213 CIRIELLI, C. 1820 GAROFANI E C. 2605 DI STANISLAO, RECANTI «DISPOSIZIONI PER LA PARTECIPAZIONE ITALIANA A MISSIONI INTERNAZIONALI»

Audizione di Natalino Ronzitti, professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Luiss-Guido Carli di Roma, e di Giuseppe De Vergottini, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Bologna:

Cirielli Edmondo, Presidente ... 3 12 16
De Vergottini Giuseppe, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Bologna ... 8 15
Di Stanislao Augusto (IdV) ... 14
Ronzitti Natalino, Professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Luiss-Guido Carli di Roma ... 3 12 14
Villecco Calipari Rosa Maria (PD) ... 12
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) E IV (DIFESA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 15 settembre 2009


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA IV COMMISSIONE EDMONDO CIRIELLI

La seduta comincia alle 13,05.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di Natalino Ronzitti, professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Luiss-Guido Carli di Roma, e di Giuseppe De Vergottini, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Bologna.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame, in sede referente, delle proposte di legge C. 1213 Cirielli, C. 1820 Garofani e C. 2605 Di Stanislao, recanti «Disposizioni per la partecipazione italiana a missioni internazionali», l'audizione di Natalino Ronzitti, professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Luiss-Guido Carli di Roma, e di Giuseppe De Vergottini, professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Bologna.
Do la parola ai nostri ospiti per lo svolgimento della relazione.

NATALINO RONZITTI, Professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Luiss-Guido Carli di Roma. Grazie presidente. Sono molto onorato di questa audizione che mi consente di riprendere in esame i temi che avevo già trattato nei miei scritti e che sono oggetto di esame e discussione in questo momento, in questa come anche in altre sedi.
Siamo di fronte, per quanto riguarda la normativa italiana, a una legislazione piuttosto frammentata, quindi è bene che siano all'esame progetti di legge volti a conseguire una regolamentazione unitaria, perché finora si è provveduto mediante decreti-legge convertiti in legge (per ogni singola missione, o per più missioni congiuntamente), specialmente quando si è trattato di provvedere al rifinanziamento delle missioni. Esistono vuoti legislativi dovuti a una legislazione vecchia: ad esempio, la legislazione di guerra e di neutralità risale al 1938 e probabilmente essa non è applicabile per quanto riguarda la potestà ordinamentale nei territori esteri controllati dai contingenti italiani.
È difficile oggi parlare di occupazione bellica; non siamo in guerra, quando vengono effettuate le attuali missioni militari. Tuttavia, esistono aree, anche in Kosovo, in Afghanistan o in altri teatri, controllate dalle nostre forze militari e pertanto sorge un problema riguardo alla possibilità di emanare ordini valevoli non solo nei confronti dei militari, ma anche della popolazione civile.


Pag. 4


Affronterò questo argomento sotto due profili: sotto quello che noi internazionalisti chiamiamo ius ad bellum, relativo alla decisione di iniziare la missione, nonché sotto il profilo dello ius in bello, concernente le regole che debbono essere applicate, secondo il diritto internazionale, nel teatro delle operazioni.
Un primo aspetto concerne la definizione da dare al tipo di missioni che attualmente vengono effettuate. Bisogna dire che non ci sono solo missioni militari, bensì anche missioni civili e queste ultime sono diventate molto importanti. Basta fare riferimento alle missioni che sono intraprese dall'Unione europea, inclusa una che ci interessa direttamente: la EULEX in Kosovo, che è una missione civile, non militare.
Le missioni militari, inoltre, presentano una grande varietà, in quanto abbiamo missioni a supporto della pace (oggi si usa questa terminologia), che comprendono sia le missioni di peace-keeping, sia quelle di peace enforcement. Abbiamo poi interventi più incisivi, ma anche più limitati nel tempo: ad esempio interventi di protezione dei nostri cittadini all'estero, qualora essi siano in pericolo di vita (come spesso accade ed è accaduto, ad esempio, per alcuni casi di pirateria).
Si tratta di sapere se giuridicamente - poi se di fatto ciò avvenga, o meno, è frutto di una scelta politica - sia possibile intervenire in un territorio altrui, magari con interventi umanitari, come quello che è stato effettuato in Kosovo.
Vi sono poi gli interventi di legittima difesa collettiva: indipendentemente dal far parte di un'alleanza militare di cui il nostro Paese sia membro, uno Stato viene attaccato e l'Italia interviene a difesa di quest'ultimo.
Un esempio è l'intervento a difesa del Kuwait, nel 1991, per respingere l'aggressione irachena.
Il problema che si pone, anche per il nostro ordinamento costituzionale, è la legittimità della missione internazionale regolata secondo il diritto internazionale. Questo è il primo gradino e il primo schermo.
Esistono alcune disposizioni: la prima, fondamentale, è l'articolo 2, paragrafo 4, della Carta delle Nazioni Unite, che ormai è diventato consuetudine internazionale e che vieta la minaccia e l'uso della forza in contrasto con i principi delle Nazioni Unite e in violazione dell'integrità e indipendenza politica degli altri Stati.
Vi sono casi in cui la forza è legittimata secondo l'ordinamento delle Nazioni Unite. Faccio riferimento in particolare alla legittima difesa - articolo 51 della Carta - che può essere individuale o collettiva: l'Italia viene attaccata e, ovviamente, può difendersi, oppure va in soccorso di un altro Stato attaccato.
Ho fatto l'esempio del Kuwait, tralasciando i casi di interpretazione fra legittima difesa preventiva e legittima difesa che abbia luogo solo in caso di attacco armato già sferrato.
L'aspetto interessante è che l'articolo 51 della Carta autorizza la legittima difesa, individuale o collettiva.
Poi vi è un ulteriore caso, che ormai in via di prassi si è affermato: l'autorizzazione all'uso della forza da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Infine, la terza ipotesi prevede il consenso dell'avente diritto: lo Stato territoriale può affermare che ha necessità di un intervento da parte di forze armate estere, al fine di ristabilire l'ordine nel proprio territorio. Il consenso dell'avente diritto è una causa di liceità dell'uso della forza.
Facendo riferimento al caso dell'Afghanistan, abbiamo un intervento che è stato sollecitato da quello che viene considerato il Governo legittimo. Semmai, il problema che si pone per questo tipo di interventi è l'accertare se il Governo che chiama in soccorso lo Stato straniero sia proprio il Governo che effettivamente detiene il potere su quel determinato territorio.
Esistono altre missioni internazionali che sono molto più «consolidate» nella comunità internazionale, perché rispondono a vecchie norme di diritto internazionale. Mi riferisco, ad esempio, alla lotta alla pirateria. In questi casi non sussiste alcun problema, tranne quello riguardante la possibilità di intervenire nelle acque


Pag. 5

territoriali altrui. Vi sono - ad esempio per quanto riguarda la Somalia - risoluzioni del Consiglio di sicurezza che autorizzano a far ciò.
Abbiamo poi ipotesi più controverse, dove la dottrina internazionalistica si è espressa in modi disparati. Faccio riferimento, in particolare, all'intervento di umanità. Non per quanto riguarda l'intervento di protezione dei cittadini all'estero (che per me è assolutamente lecito), bensì per quanto riguarda l'intervento di umanità, su cui la comunità internazionale è divisa. Vi sono alcuni autori e Stati i quali affermano che questo intervento è contrario alla Carta delle Nazioni Unite, tranne che sia autorizzato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. È opinione praticamente consolidata che il Consiglio di sicurezza possa autorizzare un intervento umanitario.
Ci si domanda se le operazioni militari multinazionali aggiungano un parametro di liceità. La risposta è negativa, perché queste operazioni debbono essere effettuate nel solco dei principi che ho poco fa esplicitato. Quindi, si tratti di una missione NATO, dell'Unione europea, o di una qualsiasi coalizione ad hoc, tutte queste missioni debbono avvenire nel quadro che ho brevemente illustrato. Questo è il panorama internazionale.
Vengo ora a considerare l'ordinamento italiano, anche se, al riguardo, più competente di me è il collega De Vergottini, che ha scritto recentemente un libro in materia. Comunque, sussistono due baluardi.
Il primo è l'articolo 11 della Costituzione, il quale a mio avviso vieta unicamente la guerra di aggressione, che è un fatto molto grave; non vieta, di per sé, forme minori di uso della forza nelle relazioni internazionali.
Il secondo baluardo, che spesso si dimentica, è l'articolo 10 della Costituzione, primo comma. Questa disposizione immette nel nostro ordinamento tutte le norme di diritto internazionale consuetudinario, che siamo tenuti a rispettare. Quindi, anche forme di uso della forza che sono vietate dall'ordinamento internazionale, ma che non costituiscono aggressione, sono vietate nel nostro ordinamento, tranne che non si possa invocare una causa di giustificazione, ad esempio la legittima difesa o l'autorizzazione all'uso della forza da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Il problema è vedere come si riflette questa normativa internazionale nell'ordinamento costituzionale italiano per quanto riguarda la presa di decisione relativa al dislocamento di una missione all'estero.
Ormai credo sia opinione consolidata che, in proposito, non si possa fare riferimento all'articolo 78 della Costituzione, che riguarda forme macroscopiche di uso della forza, vale a dire la guerra.
Tutte queste ipotesi di intervento in territorio altrui non possono essere qualificate come guerra, ragion per cui occorre trovare un meccanismo agile nell'ambito del rapporto Governo-Parlamento, per l'invio delle missioni all'estero.
Molto tempo fa mi ero espresso a favore dell'ipotesi di esclusiva responsabilità governativa. Ovviamente, il Governo dovrebbe informare il Parlamento nel quadro del rapporto fiduciario tra Governo e Parlamento. Se il Parlamento non è d'accordo, sfiducia il Governo.
Però, la prassi è un poco diversa, nel senso che si è affermata la tendenza a far precedere l'invio delle missioni all'estero da una risoluzione parlamentare. Qui mi fermo, perché sussistono problemi riguardanti la natura di una siffatta risoluzione parlamentare: se sia una vera e propria autorizzazione, o no. Comunque, questo è il meccanismo che si è affermato.
Vorrei, comunque, precisare un punto che mi sembra molto importante e che riguarda la durata delle missioni. Soprattutto precedentemente agli ultimi decreti-legge, le missioni venivano autorizzate di sei mesi in sei mesi. Ebbene, a me sembra che la durata delle missioni debba essere concordata con gli organismi internazionali di cui facciamo parte. Normalmente questi tempi sono diversi da quelli che


Pag. 6

vengono presi in considerazione dalla nostra legislazione, vale a dire i sei mesi che si sono affermati in via di prassi.
Ora, però, credo che si sia passati ad una forma di rinnovo annuale. Questo è molto importante, e credo che il momento temporale, in qualche modo, debba essere inserito fra le disposizioni di una legge organica, allo scopo di avere un raccordo diretto con i meccanismi internazionali.
Passo velocemente allo ius in bello, che riguarda le regole che debbono essere applicate, specialmente a tutela delle popolazioni civili, nel territorio che è oggetto dell'intervento.
Ebbene, qui finora si è ragionato in termini di dicotomia: Codice penale militare di pace e Codice penale militare di guerra. Alcuni autori, oggi, sostengono che la guerra ormai è un fenomeno completamente sorpassato e che bisogna piuttosto parlare di «conflitti armati».
Quindi, il problema da accertare è se sia possibile (e anche necessario) adottare una normativa ad hoc in materia penale - per quanto riguarda la disciplina dei conflitti e la repressione dei crimini internazionali - da parte della normativa italiana.
Credo che ciò non sia soltanto possibile, ma anche doveroso; del resto, abbiamo ratificato lo Statuto della Corte penale internazionale, ma non abbiamo ancora adottato una legge di adeguamento a tale Statuto, tranne l'ordine di esecuzione. Quindi, è necessario che nel nostro ordinamento penale siano inserite tutte le fattispecie criminali che sono previste dallo Statuto della Corte penale internazionale.
A tal riguardo si pone il seguente problema: la dicotomia tra Codice penale militare di guerra e Codice penale militare di pace è dovuta al fatto che i crimini internazionali sono previsti dal Codice penale militare di guerra e non da quello di pace. Tuttavia, credo che tale dicotomia possa essere superata adottando una legge ad hoc.
Penso sia noto ai presenti che, attualmente, presso il Ministero della difesa è stato istituito un gruppo di lavoro allo scopo di studiare la possibilità di adottare una legislazione penale volta a reprimere i crimini internazionali che possono essere commessi durante queste missioni; repressione che, ovviamente, deve essere effettuata a tutela delle popolazioni civili nel territorio controllato dai contingenti italiani e dagli altri contingenti alleati.
È ovvio che qualcuno potrebbe dire che bisogna fare una distinzione tra conflitti interni e conflitti internazionali. La distinzione c'è ed è quello che si insegna all'università, ma ricordiamoci che ormai ci sono conflitti largamente internazionalizzati.
Ad esempio, l'Afghanistan è un conflitto internazionalizzato: in dottrina, può essere considerato un conflitto interno, ma l'afflusso massiccio di contingenti militari di Stati stranieri fa sì che le ostilità possano essere qualificate come ricomprese in un conflitto internazionalizzato.
Quindi, lo ripeto: la priorità è stabilire, per quanto riguarda specialmente i crimini di guerra, l'attuazione dello Statuto della Corte penale internazionale. Ripeto anche che presso il Ministero della difesa c'è un gruppo di lavoro che si occupa di tale questione, relativamente però solo alla materia penale.
Bisogna poi ricordare che la condotta che deve essere tenuta dai contingenti militari all'estero deve essere considerata alla luce non solo di quello che noi chiamiamo diritto umanitario, cioè il diritto di Ginevra, ma anche dei diritti dell'uomo.
La Corte internazionale di giustizia lo ha affermato varie volte: i contingenti militari debbono rispettare i diritti dell'uomo nel territorio da essi controllato, ad esempio per quanto riguarda la custodia dei prigionieri. Vi sono disposizioni ad hoc nella Convenzione europea dei diritti dell'uomo: ad esempio, i prigionieri non possono essere sottoposti a trattamento inumano e degradante, perché questo è vietato sia dalle norme relative al diritto umanitario, sia dalle norme relative ai diritti dell'uomo.


Pag. 7


Dirò di più: bisogna approntare meccanismi affinché le persone le quali abbiano subìto un torto possano ottenere giustizia.
L'altro punto che avevo poco fa citato concerne la potestà ordinamentale nel territorio sotto controllo. Ci troviamo di fronte a un vuoto legislativo, in proposito, che deve essere in qualche modo colmato. Secondo la legge di guerra - lo ribadisco - esisteva la possibilità per il comandante del contingente di emanare bandi militari. Tutte queste disposizioni sono state esplicitamente o implicitamente abrogate da una recente normativa.
I rapporti tra contingenti e Stato territoriale sono regolati dai SOFA (Status of forces agreement). Tutto è disciplinato, a questo riguardo. Normalmente, quando si entra in territorio altrui, vige un SOFA che disciplina lo status, accordando l'immunità dalla giurisdizione locale (non dalla giurisdizione della bandiera) ai contingenti militari che si trovano in territorio altrui.
Però, su questo punto si rileva un grande vuoto. Ho detto, facendo riferimento purtroppo anche ad aventi luttuosi che sono accaduti e che ci riguardano da vicino, che non esiste alcuna disciplina per quanto riguarda i rapporti tra contingenti in un'operazione multinazionale. Succede infatti, in questo caso, che il SOFA disciplini i rapporti tra Stato della bandiera e Stato territoriale, ma nel caso di una violazione di norme da parte di un contingente alleato, nei confronti di persone appartenenti all'altro contingente, non è prevista alcuna disposizione. Quindi occorre trovare, a mio parere, prima che i nostri contingenti siano inviati all'estero, un meccanismo che disciplini tutta questa problematica, sia sotto il profilo della giurisdizione penale, sia sotto quello della giurisdizione civile.
Esempi ne esistono e - mutatis mutandis - vanno applicati in questi territori. Ad esempio, la convenzione di Londra del 1951 sullo status delle forze NATO (che regola, però, solo lo status delle forze nei territori degli stati membri dell'Alleanza), prevede una disciplina sia per quanto riguarda la giurisdizione penale, sia per quanto riguarda la giurisdizione civile. In questo solco, dobbiamo trovare un meccanismo efficace, poiché - come è già stato fatto, di volta in volta, nei decreti-legge convertiti in legge di finanziamento della missione - non si tratta solo di disciplinare i reati commessi dalla popolazione locale nei confronti dei soldati italiani (cioè l'insorto, o il terrorista che uccide un militare italiano), ma anche i rapporti tra contingenti militari che operano nello stesso territorio.
Vorrei toccare brevemente solo un ulteriore punto, prima di cedere la parola al collega professor De Vergottini, concernente le missioni civili.
Finora ho parlato di missioni militari, mentre le missioni civili sono diventate molto importanti: si tratta di missioni di ricostruzione della pace, di State building, in cui è presente il volontariato; sono missioni in cui si dislocano all'estero unità della Protezione civile o, ad esempio, magistrati per la ricostruzione dell'ordine giudiziario.
Il problema che si pone, a questo riguardo, è se disciplinare la materia dell'invio delle missioni all'estero mediante due provvedimenti di legge separati, oppure mediante uno stesso provvedimento di legge.
Personalmente ritengo che uno stesso provvedimento di legge - qualche cenno ho rilevato nei progetti presentati e che sono all'esame del Parlamento - possa disciplinare anche le missioni civili, ovviamente tenendo distinte e specificando le peculiarità di queste ultime in un capo, o una sezione, o un titolo ad hoc.
Il problema che si pone (non solo per l'Italia, bensì anche per altri Stati) è quello del riferimento a un unico centro di imputazione, quando queste missioni vengano dislocate all'estero. Per quanto riguarda i militari, il centro di riferimento è il Ministero della difesa, mentre, per quanto riguarda le missioni civili, ovviamente vi sono più ministeri che concorrono al loro espletamento e il coordinamento, spesso, non è facile.
Alcuni Paesi (se non vado errato, la Svezia) si sono dotati di un apparato


Pag. 8

burocratico unico, proprio per il dislocamento del personale civile all'estero, che comprende persone appartenenti ai vari ministeri. Concludo, signor Presidente, auspicando che in questo progetto di legge sia presente anche una sezione dedicata alle missioni civili.

GIUSEPPE DE VERGOTTINI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Bologna. Signor presidente, vorrei anch'io ringraziare la presidenza della Commissione difesa e della Commissione esteri e tutti gli onorevoli parlamentari presenti, per avermi dato l'opportunità di intervenire su un argomento di grande interesse e, allo stesso tempo, di grande delicatezza.
Sottolineo che ho ascoltato con interesse, come sempre, il collega Ronzitti e sottoscrivo pienamente sia il taglio, sia i contenuti della sua relazione. Mi sembra che siano state fatte considerazioni assolutamente condivisibili, fondate ed esposte in modo estremamente razionale e conseguente.
Ovviamente, i profili costituzionalistici si integrano veramente in modo molto profondo con i profili internazionalistici. Non ripercorrerò certo quello che ha già illustrato Ronzitti, però, anche senza volere, qualche aggancio logico sarà inevitabile.
Vorrei partire dal problema della legge quadro sulle missioni. Ho letto nei resoconti parlamentari le perplessità dell'onorevole Cossiga sull'opportunità di una legge che sostituisca la flessibilità delle prassi che sono state seguite fino ad oggi.
In merito a ciò mi permetto di dissentire: se una legge fosse tale da ingabbiare con procedure e regole troppo stringenti la discrezionalità della politica nella scelta di deliberare sulle missioni, allora sarei d'accordo; se però la legge fosse limitata - per quanto riguarda i profili di cui mi occupo personalmente - a una razionalizzazione delle prassi a loro volta razionalizzate dalla risoluzione Ruffino del 2001, francamente non vedrei questo pericolo.
In realtà, ci sarebbe veramente tanto da dire sui contenuti, su tutta la parte che si riferisce alla disciplina del personale e ai profili strettamente amministrativi, contabili e quant'altro: materie su cui, chiaramente, non ho intenzione di entrare.
Francamente, invece, ho l'impressione che sia avvenuto un riordino di una serie di disposizioni normative, che erano state già adottate, tramite i vari decreti-legge convertiti. Direi, cioè, che esiste ormai un filone normativo che subisce limitati aggiustamenti missione per missione e che, grosso modo, si sia consolidato un certo orientamento legislativo.
Una legge tendenzialmente stabile sull'argomento, da questo punto di vista, servirebbe a fare chiarezza sullo stato giuridico e sui profili di responsabilità dei militari impiegati nelle missioni. Pertanto, sinceramente, non vedrei rischi di costrizione della macchina decisionale.
Il problema delicato a cui faccio un cenno, invece, è quello che si riferisce ai «piani alti» della decisione politica, che coinvolge gli organi costituzionali. Alludo, quindi, a una sistemazione di quanto la risoluzione Ruffino già aveva stabilito, ormai otto anni fa.
Non voglio annoiarvi con troppi richiami, ma il problema di fondo è che nel nostro ordinamento - implicitamente lo ha riconosciuto, un attimo fa, il collega Ronzitti - non esiste una normativa a livello costituzionale che si occupi di quello che è oggi l'argomento chiave delle decisioni politico-strategiche che riguardano l'impiego dello strumento militare all'estero.
Tutti sappiamo che l'articolo 78 e la parte dell'articolo 87 riferita al 78 sono ferrivecchi che già erano quasi inutilizzabili negli anni Quaranta. Oggi, sono assolutamente fuori da ogni possibile utilizzazione pratica, sia perché si tratta di strumenti superati e la procedura stessa è discutibile, sia perché - come diceva Ronzitti - ormai parliamo da anni di conflitti armati e abbiamo superato - così pare - il vecchio concetto di guerra internazionale, non tanto perché, in astratto, non sia possibile configurarlo, quanto perché la


Pag. 9

situazione in cui l'Italia è inserita dopo la fine del secondo conflitto mondiale, recepita chiaramente dall'articolo 11, comporterebbe l'attuazione di trattati di sicurezza collettiva, escludendo potenzialmente il ricorso all'articolo 78.
Dunque, l'ideale sarebbe avere in Costituzione una norma molto semplice che, tenendo conto dei valori costituzionali, dei principi fissati nelle convenzioni internazionali e quant'altro, prevedesse esplicitamente la possibilità di usare lo strumento militare per le missioni all'estero, cioè l'invio di corpi armati all'estero. Tale possibilità - come ben sapete - oggi non è presente nella Costituzione, per cui dobbiamo ripiegare su fonti di grado subordinato, in particolare sulla legge (se vogliamo utilizzarla, beninteso), tenendo presente, però, che esistono diverse fonti normative che poterei richiamare, a parte la legge n. 25 del 1997, e che la legge n. 331 del 2000 ha già in passato previsto espressamente, fra i compiti delle Forze armate, quello di operare «al fine della realizzazione della pace e della sicurezza in conformità alle regole del diritto internazionale e alle determinazioni delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia fa parte».
Pertanto, in realtà, a livello di fonte subordinata alla Costituzione, in una sede precedente a quella odierna, si è già preso atto di quella che è oggi praticamente una delle funzioni essenziali delle Forze armate.
La tipologia delle missioni è estremamente articolata (ce l'ha ricordato, un attimo fa, il professor Ronzitti), ma quello che mi pare estremamente importante è il cenno che il professor Ronzitti ha fatto in coda alla sua relazione: uno dei problemi che avete di fronte è capire ed eventualmente normare il rapporto, nel quadro delle missioni, tra interventi affidati all'apparato militare e interventi affidati ad apparati civili, in primo luogo al Ministero degli affari esteri ed eventualmente alla Protezione civile, alla Presidenza del Consiglio e quant'altro.
Qui si pone un problema di coordinamento forse non drammatico, ma certamente molto serio. Quindi, nella legge vedrei molto bene (se il testo unificato andrà avanti e sarà sottoposto ad aggiustamenti, come è quasi inevitabile) una norma che prevedesse uno snodo organizzativo fra le varie amministrazioni.
Credo che questa sia una delle esigenze insopprimibili, perché in realtà parliamo di missioni sempre presumendo che si tratti di missioni affidate a corpi armati, mentre sappiamo, in primo luogo, che alcune missioni, come diceva il professor Ronzitti, sono esclusivamente civili e in secondo luogo abbiamo avuto il caso anche di missioni affidate ai militari, però senza impiego delle armi, come nel caso dell'Albania.
Esiste poi tutta una gamma estremamente articolata di cosiddette missioni, che vanno fino all'affidamento di veri e propri compiti bellici a corpi armati. Intendo dire che i corpi armati partono per missioni che sono etichettate come peace- keeping o peace enforcing, ma in realtà partecipano ad azioni che, agli effetti pratici, equivalgono ad azioni belliche.
Non si può negare la caratterizzazione militare delle missioni, quindi, il ruolo del Ministero della difesa rimane centrale.
Però, nessuno esclude che il Ministero degli affari esteri rivesta un ruolo determinante, poiché le missioni rientrano nelle scelte di politica internazionale del Paese. Di conseguenza, anche il Ministero degli affari esteri è collocato in una posizione centrale.
Nella nostra prassi e anche nelle prospettive future, a tutto ciò si aggiunge la quasi sempre ineliminabile presenza di apparati di intervento civile, di aiuto umanitario e quant'altro.
In definitiva, credo che rimanga centrale il problema del coordinamento, che - come ben sapete - può essere realizzato attraverso forme procedimentali, oppure prevedendo organi ad hoc.
Ciò detto, lascerei da parte il problema del lessico e dei tipi di missione possibili, che è già stato trattato.
C'è un punto, invece, che mi sembra interessante: mi riaggancio al problema dell'uso dello strumento militare in un


Pag. 10

contesto di tipo bellico che continuiamo a ostinarci e ad illuderci (parlo nei casi estremi) che non sia di guerra, mentre in certi casi lo è. Nelle stesse disposizioni inserite nelle proposte esaminate si ritrova - mi pare in tutte e tre le proposte - una norma sullo stato di prigionia del personale italiano. Ebbene, se gli stessi proponenti hanno fatto scivolare - forse quasi inconsapevolmente - questo concetto di «personale in stato di prigionia», piaccia o non piaccia, ciò vuol dire che si ipotizza uno stato di guerra internazionale.
È interessante questo fatto: da un punto di vista concettuale ci ostiniamo a pensare allo strumento militare per fini di pace, nel quadro delle Nazioni Unite, della NATO e dell'Unione Europea, ma poi, pur cercando di esorcizzare il concetto di conflitto internazionale o addirittura di guerra, prendiamo atto che ci possano essere situazioni in cui il personale - devo pensare che qui ci si riferisca a quello militare - venga a trovarsi in stato di prigionia.
Secondo questa visione, la situazione reale dei conflitti armati (o comunque, se volete, dei rapporti politici internazionali che comportano l'uso della forza armata) è tale per cui ci possono essere casi in cui il soggetto militare (cioè che ha lo stato giuridico di militare, all'interno dell'apparato nazionale) si trovi nello stato giuridico internazionale di prigioniero.
Se così è, probabilmente la missione di pace è qualcosa di sensibilmente diverso da quello che si auspica.
Un punto collegato a questo è il problema dell'applicazione o meno del Codice penale militare di guerra.
Tutti siamo d'accordo che sarebbe auspicabile che le missioni si svolgessero in un contesto non conflittuale, che non richiedesse l'uso della forza armata, però da un punto di vista pratico la situazione è sensibilmente diversa.
Nell'evoluzione storica delle missioni, abbiamo fatto riferimento all'applicazione del Codice penale militare di pace proprio perché, da un punto di vista ideologico, si è sempre rifiutato il concetto che le missioni potessero in qualche modo coinvolgere i corpi armati italiani in operazioni di tipo bellico, cioè entrare nel quadro di conflitti armati. Così non è, da un punto di vista pratico e fattuale.
C'è stato un momento, per le missioni in Afghanistan e in Iraq, in cui è stato espressamente fatto riferimento all'applicazione del Codice penale militare di guerra. Poi, nel 2006, siamo tornati al Codice di pace.
Questo problema va chiarito (lo diceva il professor Ronzitti, ma credo che su ciò valga la pena insistere), anche se non si tratta dell'oggetto specifico che emerge dai progetti di legge esaminati. Penso che un collegamento vada fatto, perché, in realtà, permane un equivoco sullo sfondo di questa preoccupazione a inserire un riferimento al Codice penale militare di guerra.
L'equivoco è che le normative del Codice penale militare di guerra, adottate nel 1941 e aggiornate nel 2002, proteggono i soggetti deboli in caso di conflitto, quindi la popolazione civile, i prigionieri, i feriti e quant'altro. Il Codice penale militare di pace non fa altrettanto. Inoltre, si tratta di normative che conferiscono uno stato giuridico di legittimo combattente all'italiano militare che si trova su un teatro che può diventare di tipo conflittuale.
Per cui, da un punto di vista garantista, il Codice penale militare di guerra, pur essendo uno strumento adottato al tempo del passato regime, era effettivamente abbastanza avanzato, in quanto teneva conto del cosiddetto diritto umanitario vigente al momento e poi è stato opportunamente riadattato, in anni recenti. Dal punto di vista pratico, credo che tener presente la possibilità di far ricorso a questa fonte, piuttosto che al Codice di pace, sia molto importante.
Incidentalmente mi permetto di ricordarvi - chiedo scusa nel farlo, presidente - che se non avessimo i provvedimenti che semestralmente hanno confermato le missioni e che hanno puntualmente fatto riferimento all'applicazione del Codice penale militare di pace, in realtà avremmo pur sempre l'articolo 9 del Codice penale militare di guerra, che riguarda i corpi di spedizione all'estero e che prevede che, al


Pag. 11

passaggio dei confini dello Stato, o al momento dell'imbarco o comunque nel quadro di altre clausole un po' dettagliate riguardanti un corpo armato che si muove per andare all'estero in operazioni militari (come si dice oggi), si applichi il Codice di guerra.
In realtà, quindi, se non ci fossero le norme derogatorie puntuali che, di volta in volta, dicono che si applica il Codice di pace, si applicherebbe il Codice di guerra.
Non c'è alcun trabocchetto in tutto quello che sto dicendo: è difficile negare che, dal punto di vista delle garanzie offerte sia alle popolazioni civili, sia ai soggetti cosiddetti deboli, sia agli stessi militari che operano in un teatro estero, l'attivazione della missione sotto il Codice penale militare di guerra è maggiormente garantista, per cui bisognerebbe cercare di non farsi condizionare da questo richiamo al termine «guerra» e cercare di vedere cosa effettivamente la normativa preveda.
Farei un'ultima considerazione, ma su questo cerco di andare più velocemente, sul problema della qualità e dei contenuti delle norme. Effettivamente, la parte che mi sembra più importante e che, francamente, a me interessa di più, è quella che, in un certo senso, razionalizza la risoluzione Ruffino.
In altre parole, è stato tenuto presente quanto ha a suo avviso disposto una fonte parlamentare - tra l'altro la Commissione difesa della Camera - che ha fissato dei principi (mi sembra pacificamente accettati, per otto o nove anni) che si riferiscono al modo in cui, in attuazione della legge n. 25, sia corretto muoversi per attivare la missione. Mi pare, quindi, che la preoccupazione richiamata in modo puntuale almeno in una delle proposte, sia la seguente: il Ministero della difesa si attivi, previa tuttavia una presa di coscienza e una visione politica a livello governativo, con informazione al Presidente della Repubblica.
Qui potrebbe sorgere un problema, se il Presidente della Repubblica dovesse essere di diversa opinione rispetto all'intervento governativo, ma qui entriamo, se non nella fantapolitica, comunque in altre ipotesi.
La strada maestra è dunque la seguente: presa di posizione governativa; verifica del Presidente della Repubblica; comunicazione al Parlamento; intervento parlamentare (che nella nostra prassi è la risoluzione); quindi una forma di autorizzazione che si potrà più avanti vedere come stabilire e verificare.
La novità è che, al posto dei provvedimenti di finanziamento e di aggiornamento e rettifica normativa, che abitualmente si fanno con decreto-legge convertito in legge, ci sarebbe una normativa tendenzialmente a tempo indeterminato, però con verifiche periodiche da parte del Governo, che informa le commissioni parlamentari. Si avrebbe quindi una conferma parlamentare, con tutto quel che segue.
Ho l'impressione che, da questo punto di vista, forse si potrebbe essere più analitici nella definizione di questi passaggi formali (parlo a livello di testo legislativo), però mi sembra che l'impostazione della procedura sia corretta dal punto di vista costituzionale, poiché coinvolge gli organi di vertice in una delle scelte più impegnative per la politica internazionale del Paese. Essa razionalizza e conferma una scelta fatta dalla Commissione difesa nel 2001, che credo di poter dire che si sia rivelata corretta.
Da questo punto di vista, quindi, direi che non si possono avere obiezioni. Probabilmente, l'unico problema è capire il livello di approfondimento di questa normativa: se debba essere così schematica, o se possa essere un po' più dettagliata.
Mi sono permesso di affermare all'inizio - lo confermo - che inserirei qualcosa sul coordinamento tra amministrazioni. Si può pensare a un comitato, ma le modalità analitiche possono variare.
Mi sembra importante che non si convalidi l'impressione, probabilmente non corretta, che la missione, pur essendo centrale il ruolo del Ministero della difesa, sia soltanto una missione militare. C'è, o ci può essere, qualcosa di più e quindi deve esistere l'organo di coordinamento tra i vari centri di decisione e di gestione.


Pag. 12


Un risvolto interessante - ma qui mi rendo conto che diventa una questione quasi amatoriale, se vogliamo - potrebbe riguardare la decisione (come è successo nei casi dell'Iraq e del Libano) se occorra prevedere che, quando riferisce al Parlamento sulle finalità, gli obiettivi, le modalità di organizzazione e invio della missione, il Governo debba anche far riferimento ai profili e alle regole d'ingaggio. Questa è una zona grigia: veramente entriamo nell'ambito della discrezionalità, e possono sussistere anche motivi di riservatezza. Si può discutere se questo tipo di informazioni debba essere fornito e comunque - me ne rendo conto - si tratta di una considerazione quasi amatoriale, rispetto all'impostazione complessiva.

PRESIDENTE. Ringrazio i professori intervenuti per la loro illustrazione.
Do ora la parola ai colleghi che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

ROSA MARIA VILLECCO CALIPARI. Signor presidente, ringrazio i relatori. Vorrei porre una domanda sull'ultima parte della relazione del professor Ronzitti.
In particolare, alludo al fatto che, con l'aumentare delle missioni internazionali, quindi dell'impiego dei contingenti militari all'estero, siano diventati sempre più frequenti i casi di conflitto di giurisdizione per reati che si possono verificare nello Stato in cui, appunto, è presente la missione.
Come lei giustamente diceva, professore, questo non è un problema tra contingenti militari stranieri e autorità locali, i cui rapporti sono in effetti regolamentati dai SOFA, bensì un problema di rapporti tra contingenti dei diversi Stati partecipanti alla missione, per i quali, in mancanza di una norma convenzionale, occorre fare riferimento al diritto consuetudinario, il cui contenuto non è sempre di così facile rilevazione.
Vorrei porre sinteticamente quattro domande, molto semplici e chiare, destinate soprattutto al professor Ronzitti.
Vorrei sapere, in mancanza di regole convenzionali, se, dal punto di vista del diritto internazionale consuetudinario, lo Stato della bandiera abbia sempre giurisdizione esclusiva, oppure se sia ammissibile un concorso di giurisdizione. In questo caso, vorrei sapere secondo quali regole verrebbe disciplinato tale concorso.
Mi riferisco anche a quanto lei ha detto nell'ultima parte della sua relazione, che ho ascoltato con molto interesse e che riguarda non soltanto i militari, bensì anche i civili: le chiedo se sia possibile adottare, secondo lei, una norma interna che, in assenza di norme convenzionali, laddove appunto prevalga il diritto internazionale consuetudinario, contribuisca a dirimere eventuali conflitti di giurisdizione. In particolare, le domando se secondo lei sia possibile e opportuno adottare una norma penale speciale che consenta allo Stato italiano di perseguire in Italia, in base al criterio della nazionalità passiva, cioè quella della vittima, stranieri colpevoli di reati commessi nei territori in cui siano presenti missioni internazionali a partecipazione italiana, specificamente rafforzando quella che lei ha chiamato la tutela del diritto individuale, quindi il diritto delle vittime, ad effettivi mezzi di ricorso per sollecitare un'azione penale.

NATALINO RONZITTI, Professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Luiss-Guido Carli di Roma. La ringrazio molto, onorevole, di queste domande, che non sono semplici.

ROSA MARIA VILLECCO CALIPARI. Ma io conosco molto bene i suoi scritti!

NATALINO RONZITTI, Professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Luiss-Guido Carli di Roma. Conosce i miei scritti e sa anche che mi discosto da altri colleghi, che seguono una dottrina diversa.
Per quanto riguarda la prima questione (Stato della bandiera e concorso di giurisdizione), è ovvio che esiste un concorso di giurisdizione, o un urto tra giurisdizioni. Il


Pag. 13

problema è stabilire se lo Stato della bandiera sia anche lo Stato che ha giurisdizione nel caso concreto, poiché si applica il principio della personalità passiva.
Ebbene, quando si tratta di organi militari, è stabilito un principio di diritto internazionale consuetudinario detto «principio dell'immunità funzionale od organica». Abbiamo adottato la settimana scorsa, a Napoli, in occasione della sessione dell'Institut de droit international, proprio una risoluzione su questa problematica, in base alla quale l'atto viene imputato allo Stato e non resta proprio dell'individuo che lo ha commesso, tranne che si tratti di crimine internazionale. Se l'atto in questione (ad esempio, un omicidio) è anche un crimine internazionale, allora è responsabile non solo lo Stato (ovviamente civilmente, giacché - come si dice in latino - societas delinquere non potest), ma anche l'individuo che lo ha commesso.
Spesso, in queste missioni accade che, in caso di fuoco amico - poiché di questo si tratta - l'individuo organo, ossia il soldato che commette un atto del genere, non possa essere ritenuto responsabile secondo il diritto internazionale, sussistendo l'immunità dalla giurisdizione.
Noi ci adattiamo a queste norme, tramite l'articolo 10 della Costituzione italiana. Ho scritto in materia e ci sono alcuni autori che divergono dalla mia posizione, che è quella che vi ho appena detto e che credo sia anche confortata da quanto è stato stabilito a Napoli dall'Institut de droit international. Sarà mia cura farvi avere questa risoluzione.
Il problema, però, con ciò non si esaurisce, poiché lo Stato che ha subito il torto deve comunque farsi parte diligente nei confronti dello Stato della bandiera, affinché quantomeno ci sia un risarcimento del danno. Ciò risulta possibile tramite quello che noi chiamiamo l'istituto della «protezione diplomatica», in base al quale lo Stato, se lo ritiene opportuno (infatti è legittimato anche a sacrificare i diritti dell'individuo) può intervenire presso lo Stato della bandiera.
Stante l'esistenza di un tale meccanismo farraginoso, personalmente credo che le cose dovrebbero essere stabilite prima di intraprendere una missione. Penso pertanto che si possa avviare una riflessione in sede NATO e in sede Unione europea, dal momento che queste missioni a volte sono effettuate nell'ambito di coalizioni ad hoc, come è accaduto per l'Iraq nel 2003, ma nella maggior parte dei casi sotto l'egida della NATO e dell'Unione europea.
Per quanto riguarda l'inserimento di una norma speciale nella legislazione italiana, rilevo che essa già esiste, anche per quanto riguarda i decreti che hanno disposto un invio delle nostre missioni all'estero. Alludo ai reati commessi all'estero nei confronti di cittadini italiani. Sussiste, però, un problema procedimentale, poiché questi reati sono puniti a richiesta del Ministro della giustizia, sentito, per quanto riguarda i militari, il Ministro della difesa. Quindi, c'è una questione di opportunità politica.
Ciò detto, tuttavia, credo che non si possa andare contro il diritto internazionale, poiché esiste una norma superiore inserita nella nostra Costituzione, all'articolo 10. Ecco perché ho detto che si rende necessaria una norma ad hoc, stabilita da un trattato internazionale.
L'articolo 10 della Costituzione adatta il nostro ordinamento al diritto internazionale consuetudinario.
Quindi, se esiste una norma di diritto internazionale consuetudinario, questa viene immessa nel nostro ordinamento. Le dirò che non si tratta di argomenti semplici: è avvenuta una grossa battaglia, presso l'Institut de droit international, che dovrebbe essere una sorta di aeropago degli internazionalisti. Fra chi è giudice, chi è avvocato e chi è delegato di qualche Stato, spesso si discute in maniera non dottrinale.
Ad esempio, non si è potuta far accettare una norma che consentisse di convenire in giudizio uno Stato estero il quale fosse responsabile di violazione di gravi crimini internazionali; questione attualmente


Pag. 14

pendente davanti alla Corte internazionale di giustizia per quanto riguarda Italia e Germania.
A parte la semplice menzione al riguardo, non si è riusciti a far adottare una disposizione ad hoc perché gli internazionalisti sono divisi.
La nostra giurisprudenza interna è andata molto avanti, molto coraggiosamente. Non so cosa accadrà - alludo al caso della Germania - dinanzi alla Corte internazionale di giustizia.

AUGUSTO DI STANISLAO. Vorrei svolgere due riflessioni e chiedere due chiarimenti, se possibile. Vi ringrazio per la chiarezza e per avermi aiutato a dirimere una situazione che è sempre più complicata, complessa e anche molto contraddittoria, dal punto di vista delle decisioni del Governo italiano.
Quando il professor Ronzitti parla della durata della missione e quando dice che deve essere concordata con gli organismi internazionali di cui facciamo parte, ritengo che egli affronti un aspetto cruciale del tema che stiamo trattando. Le chiedo, professore Ronzitti, se non ritenga che quando, a livello di Governo, si prendono decisioni che riguardano le prorogatio a sei mesi, a quattro mesi per poi magari arrivare a tre mesi, a due o a un solo mese, non si perda di vista il nostro profilo internazionale, la nostra idea di politica internazionale sulle missioni. Le domando se questo non sia un elemento che ci distoglie dal dato più generale di riferimento entro cui ci stiamo muovendo.
Invece al professore De Vergottini vorrei chiedere se, quando afferma che ci sono problemi gravi di coordinamento tra missioni militari e civili e parla di snodo organizzativo, non sarebbe più utile e più concretamente produttivo parlare invece di una strategia condivisa a livello di politica internazionale da parte degli organismi di Governo. Diversamente, derubrichiamo il coordinamento a un elemento che riguarda solo l'apparato direttamente interessato, quando invece ritengo essenziale fissare chiaramente la strategia che consenta di entrare e di uscire dalle missioni internazionali. Credo che ciò dia anche la cifra della maturità e della consapevolezza di un Governo su ciò che intende fare, nel quadro dei rapporti con l'Unione Europea e con la NATO.

NATALINO RONZITTI, Professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università Luiss-Guido Carli di Roma. Brevemente faccio riferimento al collega De Vergottini, che giustamente affermava che ci dovrebbe essere una normativa a tempo indeterminato, nell'ambito della quale, però, il Governo riferisce al Parlamento. Dal punto di vista internazionale, normalmente, le missioni delle Nazioni Unite sono a tempo determinato. Ci sono alcune missioni, però, che si rinnovano automaticamente, fermo restando il diritto di ogni Stato a ritirare il proprio contingente, com'è accaduto per la Somalia. Questa è un'interpretazione che noi internazionalisti diamo, anche se, probabilmente, il Segretario generale delle Nazioni Unite la pensa diversamente.
Quindi, se noi avessimo una legislazione che prevedesse missioni a tempo indeterminato, il Governo, quando riferisce al Parlamento, potrebbe cogliere l'occasione per stabilire l'opportunità di ritirarci dalla missione. Per evitare impasse parlamentari, non è necessario ritornare sulla decisione di carattere politico ogni sei mesi; il Governo potrà riferire al Parlamento che intende ritirare la missione, oppure il Parlamento potrà chiedere al Governo che la missione sia ritirata, avendo a disposizione l'arma potente della fiducia.
Come dicevo, quando mi ero occupato di questa materia avevo scritto che questa è una decisione del Governo, non una decisione parlamentare. Il Parlamento può sfiduciare il Governo e io mi ricordo quello che accadde quando inviammo alcune nostre navi a sorvegliare le rotte commerciali durante la guerra fra Iran e Iraq (1980-1988). Nel Golfo si sparava su qualsiasi naviglio, quindi esisteva un problema di scorta alle nostre navi, che dovevano procedere in convoglio. Queste


Pag. 15

navi sostarono al canale di Suez, perché si aspettava la decisione parlamentare, con i tempi che ovviamente una decisione parlamentare comporta.
Riassumendo il meccanismo: legislazione a tempo indeterminato; il Governo riferisce e può ritenere opportuno, con una decisione politica, ritirare la missione; il Parlamento può chiedere al Governo che la missione sia ritirata.

GIUSEPPE DE VERGOTTINI, Professore ordinario di diritto costituzionale presso la facoltà di giurisprudenza dell'Università degli studi di Bologna. In termini generali, ho l'impressione che il problema della scelta di fondo (se partecipare o meno alle missioni e a quali condizioni) rivesta un profilo che interessa l'intero Consiglio dei ministri e non solo uno o due ministri.
Riguardo alle sollecitazioni ricevute, probabilmente si può ipotizzare una risposta che concili, o faccia superare le preoccupazioni di chi ha posto la domanda. Faccio un esempio: la nomina di un consigliere diplomatico presso la missione rappresenta già una norma di coordinamento che, mi pare, sia ricorrente in tutte le proposte. Ciò vuol dire che ci si è resi conto che, pur essendoci una prevalenza, anche se tradizionale, della componente militare, però si dà atto del fatto che è opportuno che ci sia un collegamento con le scelte di politica internazionale. Questa, lo ripeto, è già una norma di coordinamento.
Ribadirei il concetto che non è importante solamente il momento della scelta e della decisione che, ripeto, vedo più spostato sull'intera collegialità governativa, confortata dall'intervento successivo a livello parlamentare. È altrettanto importante vedere sotto quali profili si svolge la missione.
Per esempio, se invio una missione su un territorio dove sussiste il rischio di un uso delle armi (quindi di qualche incidente di percorso, anche serio, come può accadere in Afghanistan o in Kosovo, lo vediamo tutti i giorni) e quindi invio persone che rischiano di morire, di essere ferite e quant'altro, un conto è la logica tradizionale seguita a livello di amministrazione militare (che, tra l'altro, ha alle spalle tutta una serie di regole consolidate nonché la protezione, più o meno sufficiente, di un codice penale ad hoc); un altro conto è quello che può succedere alla persona priva dello status di militare, che, magari, viaggia in automobile accanto al militare, oppure che si trova in un fabbricato sorgente a qualche metro di distanza da quello dove stanno i militari.
Da un punto di vista nominalistico esiste una differenza, ma dal punto di vista pratico, probabilmente, data la funzione svolta in concreto in un certo momento, la veste di militare e di civile probabilmente coincidono.
Ecco che diventa importante che si prevedano ipotesi di coordinamento che riguardino non tanto e non solo la scelta iniziale: alla fine, è fin quasi troppo facile limitarsi a decidere soltanto se dobbiamo entrare o uscire dalla missione; il problema è vedere cosa succede sul territorio, durante lo svolgimento delle missioni.
Da questo punto di vista - lo ripeto - il fatto che si cominci a dire di voler mandare anche il personale del Ministero degli affari esteri o della Protezione civile dovrebbe a mio avviso mettere in moto, se non altro, qualche riflessione.
Per quanto riguarda lo strumento, non sono certamente affezionato alla formula del comitato interministeriale. Sappiamo tutti che si rischia di istituire un organismo che rimane poco più di una targa davanti a una porta. Tuttavia, occorre capire se, a prescindere da forme di coordinamento al vertice politico-amministrativo, sul territorio esistano organismi o meccanismi di coordinamento che consentano un'armonizzazione degli interventi del personale.
In altre parole, la mia osservazione è legata al fatto che - a prescindere da quello che ho detto con riferimento alla parte iniziale delle disposizioni che ho letto - il grosso delle disposizioni è soprattutto mirato a dare tranquillità e serenità, per quello che può essere, al personale militare che ha uno status giuridico


Pag. 16

più o meno noto, che subisce contraccolpi e che quindi, quando partecipa alle missioni, richiede assestamenti per quanto riguarda il trattamento economico, pensionistico e di assistenza varia nonché i profili di responsabilità.
Del resto mi pare che su questo, nel 2007, il progetto Pinotti e altri erano concordi.
È assolutamente fisiologico che sussista la preoccupazione di fare chiarezza su questi profili, ma se guardiamo poi in concreto, si tratta - mi pare di capire - quasi esclusivamente di profili del personale militare.
Mi trovo nuovamente d'accordo con il collega Ronzitti quando dice che sappiamo che, in primo luogo, ci sono missioni che non sono solo militari e che, in secondo luogo, nelle missioni militari ci sono nuclei di operatività di personale che militare non è.
Ebbene, mi pare che non ci sia dubbio che tutto ciò richieda un coordinamento.
Di fatto, esiste già sicuramente qualche forma di coordinamento: si tratta di vedere se bisogna, in un testo legislativo, mettere un aggancio che ci faccia capire che sussiste anche questo problema.
Sulle modalità, è vostro compito riflettere e fare proposte. Il problema, effettivamente, esiste.
Spero con ciò di avere risposto a tutte le domande.

PRESIDENTE. Ringrazio moltissimo i professori intervenuti per la loro disponibilità e per l'importanza delle valutazioni offerte, che saranno oggetto della nostra massima attenzione. Ringrazio anche i colleghi intervenuti e che hanno posto domande.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 14,15.

Consulta resoconti delle indagini conoscitive
Consulta gli elenchi delle indagini conoscitive