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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissioni Riunite
(III e IV)
5.
Martedì 6 ottobre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Stefani Stefano, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME, IN SEDE REFERENTE, DELLE PROPOSTE DI LEGGE C. 1213 CIRIELLI, C. 1820 GAROFANI E C. 2605 DI STANISLAO, RECANTI «DISPOSIZIONI PER LA PARTECIPAZIONE ITALIANA A MISSIONI INTERNAZIONALI»

Audizione di Giuseppe Cataldi, professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli studi di Napoli - L'Orientale e di Davide Brunelli, professore ordinario di diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Perugia:

Stefani Stefano, Presidente ... 2
Narducci Franco, Presidente ... 10 11 14 16
Brunelli Davide, Professore ordinario di diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Perugia ... 11
Cataldi Giuseppe, Professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli studi di Napoli - L'Orientale ... 2 10 15
Di Stanislao Augusto (IdV) ... 14
Villecco Calipari Rosa Maria (PD) ... 10
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

COMMISSIONI RIUNITE
III (AFFARI ESTERI E COMUNITARI) E IV (DIFESA)

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 6 ottobre 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE DELLA III COMMISSIONE STEFANO STEFANI

La seduta comincia alle 11,40.

(Le Commissioni approvano il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di Giuseppe Cataldi, professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli studi di Napoli - L'Orientale e di Davide Brunelli, professore ordinario di diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Perugia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame, in sede referente, delle proposte di legge C. 1213 Cirielli, C. 1820 Garofani e C. 2605 Di Stanislao, recanti «Disposizioni per la partecipazione italiana a missioni internazionali», l'audizione del professor Giuseppe Cataldi, ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli studi di Napoli - L'Orientale e del professor Davide Brunelli, ordinario di diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Perugia.
Mi scuso fin d'ora se mi sostituirà il presidente Narducci, ma ho un impegno improrogabile.
Nel ringraziarlo, do la parola al professor Cataldi per la sua relazione.

GIUSEPPE CATALDI, Professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli studi di Napoli - L'Orientale. Buongiorno a tutti. Grazie, signor presidente, per l'invito e per l'occasione che mi si offre di esprimere le mie opinioni a un livello così alto. Saluto le Commissioni affari esteri e difesa, che oggi sono qui convocate.
Il mio intervento ha luogo con riferimento a una materia sicuramente non semplice, la cui complessità è accresciuta dall'ambizione politica - che condivido - di pervenire a un disegno di legge, e poi a una legge, che organicamente disciplini la partecipazione della Repubblica alle missioni internazionali, superando sul piano della tecnica legislativa la logica emergenziale attuale della decretazione ad hoc per ogni singola missione.
Alla luce delle mie competenze, e anche degli illustri interventi che hanno preceduto la mia relazione odierna, non tratterò l'intero ventaglio delle questioni che si aprono con la discussione su questi disegni di legge e sull'eventuale approvazione di una legge in materia. Tralascio la questione degli scenari internazionali all'interno dei quali è presumibile che abbiano luogo interventi coinvolgenti le nostre Forze armate, né tratterò la questione


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amministrativa del trattamento economico previdenziale e assicurativo del personale italiano.
Mi soffermerò brevemente sulla questione costituzional-procedimentale (il cosiddetto decision making process) per l'invio di un contingente italiano in una missione internazionale. Mi limito, innanzitutto, a esprimere la mia adesione alle opinioni autorevoli dei colleghi Ronzitti e De Vergottini, che si sono espressi in questa sede poche settimane fa, secondo i quali la legge in cantiere può sicuramente ricalcare il riparto di competenze tra Governo, Parlamento e Capo dello Stato previsto dalla legge n. 25 del 1997, come precisata dalla cosiddetta risoluzione Ruffino del 2001.
Mi permetto di aggiungere che, a Costituzione invariata, secondo me, è da ribadire - anche se potrebbe essere inutile farlo - il principio espresso dagli articoli 78 e 87, giustamente definiti «ferri vecchi» dal collega De Vergottini, perché pensati all'epoca per ipotesi macroscopiche che oggi non ci sono più, o che si sono comunque modificate; mi riferisco alla guerra in senso classico. Tali due articoli della Costituzione esprimono, tuttavia, un principio ancora oggi valido, ossia la necessità del coinvolgimento del Parlamento e del Capo dello Stato nelle decisioni relative all'invio di missioni all'estero nelle forme che saranno disciplinate a livello legislativo, nonché un principio in senso negativo, ossia il freno all'utilizzazione dello strumento del decreto-legge.
Si tratta di una questione non nuovissima, che si pose addirittura già nel 1991 all'epoca della prima guerra del Golfo, allorché si ipotizzò l'eventualità che il decreto-legge, che costituì la base giuridica per le operazioni italiane nell'area, non fosse convertito nei termini prescritti.
Come sarebbe stato possibile rispettare il disposto dell'articolo 77 della Costituzione, che prevede l'inefficacia ex tunc, dopo che aerei militari italiani avevano effettuato incursioni e bombardamenti in Iraq? Questa è una delle tante ambiguità o difficoltà che scaturiscono oggi dal mutato contesto delle relazioni internazionali e dalla nuova tipologia delle missioni e degli interventi militari all'estero.
Ho letto nei resoconti alcuni dubbi espressi dal sottosegretario Cossiga in merito all'inopportunità di ricorrere alla legge ordinaria: egli paventa l'ipotesi che, con una successiva legge, si possa derogare a quanto viene deciso. Tale legge si pone come lex specialis, cioè come legge quadro. Non può, quindi, essere derogata da una norma successiva di forza formale uguale, a meno che non ci sia un'espressa, o anche implicita, statuizione, o che non sia ricavabile che tale deroga sia effettuata in piena cognizione di causa.
Pertanto, non vale necessariamente il principio della successione delle leggi nel tempo, perché tale norma si porrebbe come legge in qualche modo speciale, che continua a disciplinare la materia anche qualora vi sia una legge successiva che disponga in maniera differente, ma non in piena consapevolezza della deroga portata alla legge precedente.
Mi soffermerò sulla legalità internazionale della partecipazione e nella partecipazione dei nostri contingenti. Da un lato tratterò la legittimità della partecipazione italiana a missioni militari internazionali e dall'altro la giuridicità delle condotte poste in essere dai nostri militari in tale contesto, e dunque i problemi definiti di ius ad bellum e di ius in bello. Non posso farlo, però, senza tenere necessariamente presenti i valori fondanti la Repubblica e l'ordinamento internazionale, ossia la priorità di un modello che dedichi attenzione ai diritti umani.
Missioni di guerra o missioni di pace? Tertium datur: le missioni di sicurezza. Ho seguito il dibattito, anche giornalistico, di alcuni mesi fa a proposito del sequestro, disposto dai PM della procura di Roma, di alcuni blindati Lince coinvolti in attentati perpetrati in Afghanistan contro i nostri soldati. Tale questione ha riportato all'ordine del giorno la vexata quaestio circa il Codice penale militare di guerra versus il Codice penale militare di pace, guerra o pace, e via dicendo.


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Si tratta di difficoltà determinate da una strumentazione a disposizione che non è più adeguata ai problemi che si pongono sul tappeto. Perciò parlo di un tertium che è datur, ossia la missione di sicurezza: è la stessa Carta delle Nazioni Unite a suggerirlo, combinando il concetto di pace con quello di sicurezza internazionale, in primo luogo secondo l'articolo 2, paragrafo 4.
Esiste, dunque, uno slittamento da un valore generale ed etico della pace a un obiettivo, invece, politico, ossia quello della sicurezza internazionale, con tutte le implicazioni in ordine alla possibilità dell'utilizzazione dello strumento bellico inteso come uso legittimo della forza.
Le missioni militari internazionali non possono essere ridotte alle categorie esclusive della pace o della guerra. Sono due situazioni, due termini, che convivono tra loro. La pace, ovviamente, è l'elemento teleologico; la guerra - che oggi si definisce come conflitto armato interno o internazionale - può, però, essere lo strumento operativo, o almeno il contesto in cui sono dispiegate le missioni.
Denominando tali operazioni come missioni militari di sicurezza internazionale, si sviluppa quanto è già in nuce nell'articolo 1 della legge n. 331 del 2000 recante «Norme sull'istituzione del servizio militare professionale», dove si afferma che compito prioritario delle Forze armate è la difesa dello Stato, chiarendo però che il loro fine è la realizzazione della pace e della sicurezza, in conformità con le regole del diritto internazionale e con le determinazioni delle organizzazioni internazionali di cui l'Italia fa parte.
Oggetto di tale riforma legislativa non possono che essere le missioni internazionali che rispondano al requisito di legalità dal punto di vista del diritto internazionale. Tale requisito, naturalmente, non è altro per noi che una condizione di costituzionalità, come è desumibile dal combinato disposto degli articoli 10, primo comma, e 11 della Costituzione - che tutti conosciamo - sul ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Questo, però, non deve veicolare un'errata idea, secondo cui i padri costituenti avessero in mente una sorta di pacifismo imbelle per la Nazione liberata e restituita alla democrazia. L'articolo 10, primo comma, e l'articolo 11 segnano il limite di rottura del pacifismo del nostro Paese nell'ambito della comunità internazionale, prevedendo la possibilità, come anche ai sensi dell'articolo 78 e 87, comma nono, di uso della forza armata nelle relazioni internazionali, ovviamente con tutti i limiti e le procedure indicate. L'articolo 10, primo comma - è già stato ricordato dal professor Ronzitti, e lo illustro perciò rapidamente - ammette l'uso della forza armata come legittima difesa individuale, in supporto di altro Stato che la richieda purché il consenso sia valido e sia espresso da uno Stato che sia tale e da un Governo effettivo, e non sia in contrasto con norme di ius cogens, come l'uso della forza a supporto di Stato coloniale o razzista.
Tali ipotesi, quindi, sono contemplate: in sintesi, sarebbero consentite le missioni militari autorizzate o direttamente decise dal Consiglio di sicurezza, nonché quelle inviate nell'ambito di alleanze difensive (articolo 5 del Trattato NATO), ovvero legittimate dall'invito dello Stato territoriale interessato. Da questo punto di vista, la nostra Costituzione regge ancora, dopo sessanta anni, il confronto con i tempi. L'impianto costituzionale attuale, dunque, funziona; un po' diverso è il discorso sulle basi costituzionali della decisione dell'invio, perché occorre interpretare in senso lato la nozione di stato di guerra di cui agli articoli 78 e 87.
Come prima conclusione del mio intervento, suggerirei di non innestare sullo sfondo delle categorie oppositive guerra e pace il dibattito sul disegno di legge e sulle norme applicabili alle condotte dei corpi di spedizione, e quindi di ragionare in termini di sicurezza - categoria «anfibia» e meno politicizzabile - alla quale possono essere ascritte le missioni militari internazionali legittime. Sussiste la finalità


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della pace, ma, entro determinati termini, anche la possibilità di uso della forza.
Ciò consente, allo stato attuale della legislazione in materia, prima che intervengano modifiche, alcune applicazioni del Codice militare di guerra, che sono, per taluni versi, più garantiste rispetto a quelle del Codice di pace, e possono essere effettuate senza complessi di sorta. È evidente la trappola logico-ideologica nel aut aut tra Codice penale di pace e di guerra: cerchiamo di uscire da tale trappola ideologica.
Anche tale questione non è nuova e fu posta all'epoca della prima guerra del Golfo quando, dichiarato applicabile il Codice penale militare di pace, s'invocò l'articolo 118 della Convenzione di Ginevra del 1949, relativo al rimpatrio dei prigionieri di guerra, quando i nostri militari erano stati catturati. A parti invertite, ci si chiese, se i nostri militari avessero catturato soldati iracheni, a quale titolo lo avrebbero fatto e quale sarebbe stato lo status loro riservato. Esiste, dunque, un'ambiguità a cui bisogna porre rimedio.
Alle missioni armate inviate all'estero, come è noto, si applica per default il Codice penale militare di guerra, cioè un automatismo a cui lo stesso Codice, all'articolo 9, ammette deroga, nel senso che, come spesso ha fatto il legislatore, finora si è fatto uso della facoltà di ovviare all'applicazione del Codice penale militare di guerra disponendo espressamente, con i decreti-legge di copertura giuridico-finanziaria della missione, l'applicazione del Codice penale militare di pace.
Va poi ricordato che, sempre attraverso tali decreti-legge, sono state introdotte norme speciali per i reati commessi da stranieri nel territorio delle operazioni a danno dello Stato, o di cittadini italiani partecipanti alla missione, secondo uno schema poi reiterato: applicazione delle norme penali ordinarie, competenza territoriale del Tribunale ordinario di Roma, filtro politico del Ministro della giustizia, ed eventualmente del Ministro della difesa, qualora la vittima appartenga alle Forze armate.
Si tratta di un sistema penale ibrido, derivante dal coordinamento delle norme del Codice penale militare di guerra, o del Codice penale militare di pace - come è noto si è verificata una differenziazione, a seconda delle diverse missioni, nell'applicazione dell'uno o dell'altro - e del Codice penale ordinario, e poi, sul piano procedimentale, del Codice di procedura penale ordinario.
È noto che i codici penali militari risalgono al periodo fascista, ma sono stati poi trattenuti nelle maglie della storia costituzionale repubblicana, subendo diversi ammodernamenti nel corso della storia dell'Italia democratica.
Il Codice penale militare di guerra ha mantenuto il suo carattere originario di sistema di inasprimento di sanzioni in condizioni di conflitto armato; il Codice penale militare di pace è rimasto un corpus normativo aderente a un contesto di addestramento ed esercitazioni militari, in assenza di eventi bellici.
È noto che le norme repressive dei crimini internazionali - crimini di guerra e violazioni gravi del diritto di guerra - si trovano unicamente nel Codice penale militare di guerra e non in quello di pace. Si tratta delle codificazioni de L'Aja e di Ginevra, che hanno a oggetto coloro che partecipano alle operazioni belliche, nel primo caso, e coloro che non partecipano più, o non partecipano tout court alle operazioni militari, nel secondo. Mi riferisco ai feriti, ai prigionieri e alla popolazione civile.
Il corpus del diritto internazionale umanitario fa parte ormai, per affermazione pacifica, anche del diritto consuetudinario, nel senso che trova applicazione anche in assenza di adesione degli Stati alle convenzioni di Ginevra del 1949 e a quelle de L'Aja del 1899 e del 1907. Si tratta di norme garantiste che, nell'implicita consapevolezza dell'immanenza della guerra nella storia, si preoccupano di umanizzarla.
Le garanzie sul piano operativo, per quanto riguarda le nostre truppe, sono contenute nelle cosiddette rules of engagement, le regole di ingaggio. Occorre prestare


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attenzione, quindi, a riportare di nuovo il discorso sulla scelta fra Codice penale di pace e Codice penale militare di guerra: quando si sostiene che il Codice penale di pace è un'ipocrisia, dal momento che vi è un evidente stato di conflitto armato interno e internazionalizzato (ad esempio in Afghanistan), e che occorre, quindi, il Codice penale militare di guerra per avere maggiori garanzie sul piano operativo, si ricorre a una mezza verità, in quanto le garanzie sul piano operativo sono offerte dalle regole di ingaggio.
D'altra parte, anche chi si oppone all'applicazione del Codice penale militare di guerra, perché tale scelta muterebbe la natura della missione con implicazioni a livello costituzionale, commette un errore, confondendo lo ius in bello con lo ius ad bellum.
Bisogna evitare di dare letture assolute dell'articolo 11 della Costituzione: l'applicazione del Codice penale militare di pace - lo ribadisco - rende inattive le norme di diritto internazionale umanitario, o le rende soggette a una rilevazione autonoma da parte di un eventuale interprete, di un giudice, alla stregua del diritto consuetudinario, operazione molto più complessa. È un paradosso inviare una missione militare umanitaria senza la garanzia dell'applicabilità del diritto internazionale umanitario.
Purtroppo, abbiamo il ricordo spiacevole dell'operazione Restore Hope in Somalia, in cui si verificarono sevizie e abusi, di cui furono accusati anche nostri militari, a danno della popolazione civile. Credo che sia imbarazzante rilevare che, al di là degli esiti giudiziari dei processi, si sia proceduto solo per reati comuni di lesioni personali, di violenza privata e addirittura, residualmente, per percosse e ingiurie.
Quando il legislatore ha ritenuto applicabile il Codice penale militare di guerra - nelle missioni Antica Babilonia in Iraq, Enduring Freedom e ISAF - ha simultaneamente previsto l'esercizio dell'ordinaria azione penale nei confronti dello straniero che arrechi danno allo Stato, ovvero ai cittadini italiani appartenenti alla missione.
Si tratta di uno strabismo, non solo italiano, che ideologizza le operazioni militari in corso e il nemico e afferma che agli uni si applica il diritto internazionale umanitario e agli altri quello penale comune come se fossero delinquenti comuni, senza il riconoscimento dello status di belligeranti. L'applicazione dello ius in bello innescherebbe, invece, in automatico il riconoscimento di tale status.
D'altra parte, però - speculare difficoltà - quando il legislatore ha ritenuto applicabile il Codice penale militare di pace - nella missione in Bosnia-Erzegovina del 1996 - ha simultaneamente previsto la possibilità di avere in custodia individui in stato di prigionia. Anche in questo caso vi è un paradosso.
Insisto, dunque, nel mio intento di dimostrare come a voi spetti il compito, difficile ma importante, di uscire dal pantano dell'aut aut tra Codice penale militare di pace e Codice penale militare di guerra. Probabilmente se ne uscirebbe attraverso un Codice penale nuovo per le missioni militari di sicurezza internazionali, una legge speciale, e quindi una nozione di missione di sicurezza internazionale che si affermi anche nel campo della normativa penale, con un eventuale libro primo sulla disciplina dell'uso della forza, e un libro secondo sulle sanzioni.
Il libro primo sulla disciplina dell'uso della forza dovrebbe fare tesoro, attualizzandola, della vecchia legge di guerra e neutralità, su cui si innestava il Codice penale militare di guerra del 1941, e fissare i parametri della liceità dell'uso della forza armata da parte di un nostro contingente nell'ambito di una missione multinazionale. Si tratterebbe di richiamare in modo organico il diritto internazionale umanitario e - perché no? - introdurre anche ipotesi più avanzate.
Non dimentichiamo che il corpus ginevrino, le convenzioni del 1949, non può che essere considerato come uno standard


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minimo di tutela, nel quale non è escluso - anzi, è auspicabile - che si possano introdurre garanzie anche maggiori.
Inoltre, potrebbe essere anche l'occasione per mettere a dimora un tassello, ancora mancante - come è noto - nell'ordinamento penale italiano, cioè il suo adeguamento allo Statuto della Corte penale internazionale, ratificato dall'Italia, in tema di crimina iuris gentium.
Occorrerebbe, poi, una norma finale sul principio di coordinamento, che la Corte internazionale di giustizia ha più volte ribadito come necessario, tra il diritto internazionale umanitario e i diritti umani. Il diritto internazionale umanitario è un corpus di norme speciali, che riguardano la fattispecie specifica dei conflitti armati interni o internazionali; ciò non toglie che continui a operare la tutela internazionale dei diritti umani in quanto lex generalis. Il giudice competente potrebbe, quindi, importare dalla lex generalis alla lex specialis contenuti o criteri attraverso i quali garantire i livelli di protezione adeguati agli individui. Penso al divieto di trattamenti inumani e degradanti, di cui all'articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali o all'articolo 7 del Patto internazionale sui diritti civili e politici.
Un vantaggio importante dell'eventuale libro primo dell'eventuale Codice penale speciale potrebbe essere quello di conferire una cornice giuridica certa alle regole di ingaggio di volta in volta fissate, in modo che esse non abbiano la forza espansiva che necessariamente viene loro attribuita, in mancanza di parametri certi sul piano giuridico. Ricordiamo che esse non rivestono forza di norme giuridiche giustiziabili. Laddove esiste una norma, deve esserci necessariamente un giudice e una possibilità di intervento.
Le norme di un eventuale libro secondo, relativo alle sanzioni, dovrebbero essere completate da una clausola finale che preveda l'applicabilità delle norme penali ordinarie in via residuale per tutte le fattispecie non disciplinate specificamente.
Esiste poi il problema del campo di applicazione dell'azione delle persone, che mette in piedi la delicata questione della nozione di «partecipante alla missione», sulla quale pure siete chiamati - credo - a legiferare.
Procedo velocemente, evidenziando che la scelta è fra un criterio di tipo formale, per il quale lo status verrebbe accertato sulla base di un documento rilasciato dall'amministrazione cui fa capo la missione, e uno di natura funzionale, il quale rimetterebbe a un eventuale giudice la verifica della sussistenza di un legame, di un genuine link, tra cittadino e missione. Un criterio formale offre maggiori garanzie, però è farraginoso, pesante e burocratico; un criterio funzionale offre, invece, meno garanzie, ma è più agile.
L'ultimo punto sul quale mi soffermerò - spero che mi possano essere concessi alcuni minuti in più - è quello della giurisdizione. Si tratta di un punto molto delicato, del quale - ho visto - si è trattato anche nelle precedenti occasioni in cui altri colleghi sono stati interpellati, ossia la questione della titolarità e dell'esercizio della giurisdizione penale rispetto a fatti avvenuti nell'ambito dello svolgimento di una missione internazionale.
I rapporti fra Stato di invio e Stato territoriale sono disciplinati mediante la conclusione di un accordo SOFA (Status of Forces Agreement), che dispone anche, e forse soprattutto, in merito alla giurisdizione, e quindi, in via preventiva, cerca di risolvere eventuali conflitti, sulla base della regola per cui, tranne eccezioni, la giurisdizione sulle truppe militari straniere rientra nella competenza esclusiva dello Stato di invio, ed è quindi sottratta allo Stato territoriale. Si tratta di accordi molto diffusi, che si sono moltiplicati nella prassi internazionale dopo il secondo dopoguerra, essenzialmente sul modello del SOFA NATO, la Convenzione del 1951.
Perché gli Stati concludono tali accordi? Per rendere più certe e dettagliate regole già esistenti a livello di diritto consuetudinario, oppure per evitare che, in assenza delle deroghe contenute in tali


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accordi, si applichi la giurisdizione esclusiva, o prevalente, dello Stato ricevente sui reati commessi nel proprio territorio, anche da membri di Forze armate straniere, o nei loro confronti?
In questo caso interviene una questione di tipo generale, ossia il rapporto fra accordo e consuetudine, che, nell'ordinamento internazionale, è un rapporto di eccezione alla regola: gli Stati, al fine di derogare a una regola generale, oppure di colmare una lacuna nel diritto generale, pongono in essere norme particolari, convenzionali. Se, però, la diffusione degli accordi con uguale contenuto è tale da ripetersi nel tempo e nello spazio in maniera significativa, ciò è sufficiente per sostenere che sia nata una nuova consuetudine che ha il contenuto di tali accordi, o almeno che vi sia una norma in statu nascendi.
Vi è una proliferazione di questi accordi bilaterali, SOFA, ma proprio la diffusione di tali accordi e del loro contenuto conferma, a mio avviso, che tra le due ipotesi prospettate l'esatta è la seconda, cioè che in questo caso siamo di fronte a un'eccezione alla regola. Con l'affermarsi del principio della parità formale fra i soggetti pari ordinati, a prescindere dal grado di sviluppo economico e di forza bellica, ciascuno Stato ha vissuto in maniera sempre più forte e gelosa la difesa delle proprie prerogative sovrane, in primis dell'esercizio della giurisdizione. È quindi venuta meno la finzione della extraterritorialità in molti ambiti, lasciando il posto al tema dell'immunità, sul quale, se avrò tempo, mi soffermerò. Spero, eventualmente, che ritorni tale tema nel dibattito.
Fino alla seconda guerra mondiale, era diffuso il principio per cui le truppe all'estero erano sottoposte alla giurisdizione esclusiva dello Stato di bandiera, ma così non è stato dopo. Il contenuto dei SOFA si ispira al regime della giurisdizione concorrente, come anche l'articolo 7 della Convenzione del 1951, che prevede una ripartizione delle competenze in funzione del tipo di reato commesso. La giurisdizione esclusiva sia dello Stato di invio che dello Stato ricevente è contemplata quale ipotesi eccezionale.
La giurisdizione dello Stato di invio è prevista solo per alcuni casi e deve essere esercitata in via prioritaria, e quindi non esclusiva, rispetto a quella dello Stato ricevente. Né il diritto consuetudinario, né i SOFA prevedono un principio di giurisdizione esclusiva dello Stato di invio, ma regolano la giurisdizione con una prevalenza, nella maggior parte dei casi, della giurisdizione dello Stato di invio.
Si pone, però, un problema nuovo, determinato dall'aumento progressivo delle missioni militari multinazionali, cioè la necessità di regolamentazione dei casi di conflitto di giurisdizione tra Stati operanti nell'ambito di una stessa missione. Questo è il nodo delle cosiddette relazioni orizzontali tra i contingenti militari, che non sono prese in considerazione dai SOFA, i quali si occupano solo dei rapporti verticali fra Stato di invio e Stato ricevente.
L'auspicio è che anche in questa materia intervengano discipline convenzionali, ovvero che i SOFA possano essere conclusi anche con riferimento alle relazioni orizzontali fra i contingenti. Il problema, però, è capire qual è la disciplina applicabile in assenza di tali SOFA. È opportuna una disciplina normativa interna che, in assenza di norme convenzionali, chiarisca il punto e contribuisca a dirimere il conflitto.
La Giurisprudenza italiana si è soffermata di recente su tale tema, sia con la sentenza della Corte d'Assise di Roma del 2007, sia con quella della Cassazione del 19 giugno 2008 I Sezione penale, caso Lozano. In entrambe le sentenze, da parte dei giudici è stato affermato il difetto di giurisdizione italiana, ricostruendo due distinte norme consuetudinarie: nel caso della Corte d'assise si è parlato di una consuetudine che riguarda la legge dello zaino o della bandiera, mentre la Cassazione ha sostenuto che tale norma non sussiste, affermando che si applica invece la norma consuetudinaria relativa alle immunità funzionali, per la quale sono sottratti


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alla giurisdizione civile e penale di uno Stato estero i fatti e gli atti eseguiti iure imperii dagli individui, organi di un altro Stato, nell'esercizio dei compiti e delle funzioni pubbliche a esso attribuite.
Siamo di fronte, ripeto, a una questione nuova e di non facile soluzione. Bisogna partire dai princìpi generali, dagli interessi coinvolti in gioco, e da una considerazione di palmare evidenza, cioè che tutte le regole in tema di immunità, anche l'immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione per le questioni di lavoro, hanno nel tempo subìto trasformazioni, modificazioni, e soprattutto ridimensionamenti derivanti dall'evoluzione del rapporto tra persona fisica e ordinamento dello Stato, ossia dal superamento della relazione tra suddito e sovrano a favore del rapporto fra cittadino e istituzione.
In un tempo nemmeno troppo lontano uno Stato straniero faceva ciò che voleva all'interno dello Stato territoriale: se il primo licenziava un impiegato di nazionalità locale o non pagava una fattura per una festa all'ambasciata, nessuno poteva rivolgersi al giudice, perché questi sentenziava un difetto di giudizio, sostenendo che vi fosse un interesse superiore dello Stato alle buone relazioni con l'altro Stato sovrano, e quindi non dava ingresso alla richiesta del soggetto.
Oggi non è più così e tutto il tema delle immunità è stato ristretto al nocciolo duro, affinché non sia impedita la funzione sovrana dello Stato. Il privilegio immunitario deve garantire soltanto questo nocciolo duro. In altre parole, occorre un'interpretazione restrittiva del tema delle immunità.
Ciò si sposa anche con un'altra considerazione, cioè l'importanza, per ogni ordinamento, della giurisdizione penale come elemento di base della sovranità dello Stato. Ogni Paese dell'Unione europea ha ceduto fette di sovranità consistenti, ma la giurisdizione penale è ancora rigidamente nelle mani degli ordinamenti statuali.
Tutto ciò trova riscontro in alcune norme importanti del nostro ordinamento: articolo 24 della Costituzione, secondo cui «tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti e interessi legittimi»; articolo 2, comma 3, del Patto internazionale sui diritti civili e politici delle Nazioni Unite («ciascuno degli Stati parte si impegna a garantire che qualsiasi persona, i cui diritti e libertà riconosciuti dal presente Patto siano stati violati, disponga di effettivi mezzi di ricorso, anche nel caso in cui la violazione sia stata commessa da persone agenti nell'esercizio delle loro funzioni ufficiali»); e l'articolo 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che non leggo per ragioni di tempo, e che ha lo stesso contenuto.
Concludo con un'ultima considerazione: siamo sicuri che si sia formata una norma consuetudinaria come quella di cui parla la Cassazione e che quindi, ai sensi dell'articolo 10, primo comma, essa entri nell'ordinamento italiano con prevalenza rispetto alle norme e ai princìpi generali che ho appena ricordato? A me non sembra, perché la prassi che cita la Cassazione è tutta riferita al tema della giurisdizione civile. Noi dobbiamo avere la sicurezza di poter applicare una consuetudine certa nei suoi elementi, determinata, creata, rilevata, sulla base di elementi specifici.
Ebbene, la prassi sulla quale fondare una consuetudine di questo tipo, a mio modesto avviso, non esiste. Ciò è confermato, oltre che da quanto ho affermato prima, anche dall'osservazione di un dato elementare, cioè che si tratta di problemi nuovi. Tale prassi non poteva formarsi in un tempo così veloce. Non esistono in alcun ordinamento casi specifici cui fare riferimento, fatta eccezione per il caso Jones della House of Lords, che però riguarda una fattispecie specifica, tipica, ossia il caso delle torture. Non di questo parla certamente la risoluzione dell'Institut du droit international a cui ha fatto riferimento il collega Ronzitti, che tratta dei crimini internazionali. Si tratta di un'altra questione.
A mio avviso, ben venga una norma interna che disciplini quest'ipotesi e che ponga la necessità della giurisdizione italiana, del giudice italiano, magari a titolo


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sussidiario, in presenza, però, di un SOFA - mi auguro che siano adottati anche per queste ipotesi - che disponga, come titolo prioritario, la giurisdizione dello Stato di invio.
Il diniego di giustizia è un vulnus troppo grande e forte, alla luce dei princìpi generali a cui ho fatto riferimento, perché possa essere messo nel nulla da una norma consuetudinaria di dubbia esistenza allo stato attuale.

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE FRANCO NARDUCCI

PRESIDENTE. Grazie professor Cataldi per l'interessante esposizione.
Do la parola ai deputati che vogliano porre quesiti o formulare osservazioni.

ROSA MARIA VILLECCO CALIPARI. Ringrazio il professor Cataldi per averci fornito una puntualizzazione assai ampia e interessante su molte questioni relative ai codici penali militari di guerra o di pace e alla loro applicazione. In effetti, quest'estate tale tema è stato molto discusso a livello mediatico, ma poi stranamente non ha trovato la stessa attenzione nelle aule parlamentari. Il gruppo del Partito democratico, infatti, ha presentato al Senato un disegno di legge in merito, ma è ancora bloccato e non si riesce a calendarizzare, il che dimostra che l'attenzione dei media non sempre corrisponde alla reale attività parlamentare.
Trovo alcune sue riflessioni di assoluto interesse anche per il legislatore, per definire in maniera meno ibrida, e secondo qualcuno meno ipocrita, la questione delle applicazioni e, quindi, della tutela degli stessi partecipanti alle missioni di sicurezza. Mi piace molto questa definizione.
Nell'ultima parte della sua relazione ha fatto riferimento ad alcuni casi che conosco personalmente molto bene. Infatti, ho avuto il piacere di sentire personalmente in Aula la sentenza della Corte di Cassazione e questo rappresenta per me un punto su cui ho un vulnus che mi crea il bisogno di capire meglio quanto da lei riferito, anche perché mi sembra diverso - e vorrei capire se lo è - da ciò che è stato affermato in audizione dal professor Ronzitti.
Ad alcune mie domande relative alla necessità o all'esigenza di prevedere una norma interna speciale che possa evitare che si ripetano situazioni come appunto quella della citata sentenza della Cassazione che toglie allo Stato la sovranità della giurisdizione e, quindi, la possibilità di difesa anche delle vittime, seppur cittadini italiani, in nome di un diritto internazionale consuetudinario, il professore Ronzitti ha risposto dicendo che esiste già una norma speciale: l'articolo 10 della Costituzione.
Al contrario, mi sembra di aver capito - vorrei sottolinearlo perché non è un punto irrilevante quando si discute di una legge quadro come quella che stiamo cercando di mettere a punto - che lei abbia parlato invece di un diritto consuetudinario che in questo caso è lacunoso, e quindi dell'esigenza di una norma, nonché di un problema di tutela di giurisdizione a salvaguardia della sovranità statuale che, proprio in merito alla giurisdizione penale, non può essere sottratta allo Stato.
Se non ho capito male, lei sarebbe dell'opinione che, proprio in occasione di una legge quadro come questa, o durante la revisione dei codici penali militari per l'applicazione delle missioni internazionali - se mai si discuteranno nelle nostre Commissioni - si potrebbe pensare a un provvedimento che specifichi quali siano le immunità funzionali in questione e quali debbano essere sottratte o mantenute nella tutela della giurisdizione statuale. Ho capito bene professore?

GIUSEPPE CATALDI, Professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli Studi di Napoli - L'Orientale. È evidente che la mia posizione è diversa da quella del collega e amico professor Ronzitti, il cui ragionamento è il seguente: l'articolo 10, primo comma, della Costituzione inserisce le norme consuetudinarie nell'ordinamento interno; tra di esse vi è


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quella per la quale le fattispecie in questione commesse dall'individuo o organo sono riportabili allo Stato, che per essi gode di immunità funzionale.
A mio avviso, invece, tutto ciò è da dimostrare. Non che il fatto sia riportabile allo Stato, ma che sia automatico che da tale situazione scaturisca l'immunità. Mi spiego meglio. Storicamente, l'immunità funzionale nasce per gli agenti diplomatici e consolari, e viene poi estesa, per analogia, ai Capi di Stato, ai Capi di Governo e ai ministri degli esteri. Tuttavia, non è automaticamente riferita a qualunque individuo che agisca per conto dello Stato, come ha affermato la Corte internazionale di giustizia nel 2002, quando ha asserito che nel diritto internazionale (in merito alla questione del mandato di arresto) oltre agli agenti diplomatici godono di tale immunità, alcuni individui che detengono un ufficio di alto livello, come i Capi di Stato, i Capi di Governo e i ministri degli esteri.
Al riguardo voglio citarvi il caso, piuttosto noto, dell'affondamento della nave Greenpeace nel porto di Auckland in Nuova Zelanda, nell'ambito della vicenda Rainbow Warrior. Agenti segreti francesi avevano effettuato tale affondamento in nome e per conto dello Stato francese, il quale reclamò l'immunità. L'Alta Corte di Auckland, tuttavia, li ha condannati a dieci anni, con sentenza del 22 novembre 1985.
Ciò dimostra che esistono sicuramente specifiche funzioni per cui il diritto internazionale ha previsto l'immunità giurisdizionale, ma che esse vanno verificate caso per caso. Tale verifica, ovviamente, non viene effettuata per un Capo di Stato o per un Ministro degli esteri, ma certamente nel caso di un soldato. L'immunità funzionale, il tema stesso delle immunità, si rileva, dunque, caso per caso.
Su questo sono d'accordo con l'atteggiamento assunto dalla Cassazione italiana in altre vicende, come la strage di Civitella, o il ben noto caso Ferrini, in cui si applica tale ragionamento, ossia, sulla scorta degli avvenimenti, si rileva se in un caso vi è immunità, oppure no. Per ora essa non è stata riconosciuta. Come è noto, peraltro, la questione è all'attenzione della Corte internazionale di giustizia.
Nel caso di un soldato è evidente che l'immunità va accertata; non è in dubbio l'imputabilità allo Stato, ma occorre che si esamini la ratio dell'immunità funzionale.
Riconosciamo l'immunità perché la funzione sia svolta, ma dobbiamo riconoscere il nocciolo duro; diversamente, si verifica un chiaro conflitto fra immunità e diritti umani. In questo mi aiuta anche la risoluzione citata dal professor Ronzitti, adottata a Napoli il 10 settembre scorso. Del resto, si pone il problema dell'immunità versus diritti umani, diniego di giustizia, articolo 24 della Costituzione, per cui tutti possono agire in giudizio per la difesa dei propri diritti e interessi legittimi. È vero, in alcune occasioni non si può perché vi è l'immunità, ma bisogna fare attenzione a verificare i singoli casi. La Cassazione non ha prestato tale attenzione, oppure essa si è basata su alcune sentenze che riguardano la giurisdizione civile.
Soltanto di fronte a una prassi certa, incontrovertibile e specifica si può derogare a valori fondamentali della nostra Costituzione e dell'ordinamento internazionale, in primis l'articolo 24. Il diniego di giustizia è un vulnus gravissimo ai diritti individuali in un'epoca, come quella attuale, di grande sviluppo della tutela dei diritti individuali.

PRESIDENTE. Do la parola al professor Brunelli per la sua relazione.

DAVIDE BRUNELLI, Professore ordinario di diritto penale presso la facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi di Perugia. Buongiorno. Intanto debbo premettere che, per il brevissimo tempo avuto a disposizione, non ho preparato una relazione né, a maggior ragione, una bozza di proposta normativa sul tema per il quale sono stato chiamato.
Vi proporrò, pertanto, dei brevissimi argomenti di riflessione dando soltanto dei piccoli flash e sarei pronto, poi, a rispondere alle vostre domande, sperando di


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poter offrire un piccolo contributo. Credo che il tema del quale mi è stato chiesto di parlare, sia pure molto rapidamente, sia quello di prevedere norme penali incriminatrici nella legge quadro che dovrà disciplinare le missioni dei militari italiani all'estero.
Si tratta di un tema estremamente delicato, che richiede la necessità di un intervento del legislatore proprio per l'assoluta carenza di normativa al riguardo e per l'assoluto bisogno di tutela penale in tale campo.
Ho individuato, in particolare, due settori in cui il diritto penale dovrebbe dire la propria nell'ambito della legge quadro che dovrebbe predisporsi: il primo riguarda la tutela del servizio dei militari, attraverso provvedimenti che intensificano, modificano e calibrano meglio le norme del codice penale militare di pace che regolano la materia del servizio, e dell'efficienza della prestazione di tale servizio, da parte delle Forze armate; il secondo, senza fare classificazioni, è quello della tutela dei soggetti deboli che si trovino di fronte a questo tipo di situazioni all'estero e che, in base alle convenzioni internazionali e alle regole che si è data la Corte penale internazionale, sono meritevoli di una specifica protezione derivante dall'uso delle armi e dalla legittimazione, in generale, della violenza in una situazione intermedia tra pace e guerra, anche se non è il caso di classificarla in questo senso.
Un aspetto importante di cui, secondo me, si deve tener conto è che nel teatro operativo delle missioni abbiamo un servizio militare caratterizzato da una finalità eminentemente operativa. I militari, in sostanza, sono chiamati a svolgere operazioni che hanno obiettivi concreti al fine di ottenere vantaggi per i risultati delle stesse operazioni, e non più semplicemente una finalità addestrativa quale quella del normale servizio in patria. Ciò cambia completamente l'impatto penale su questa realtà.
Intanto, il militare che presta servizio nella missione ha disponibilità di armi, materiali e munizioni in misura largamente superiore a quella che ha invece in patria. Si trova, inoltre, molto più spesso di fronte a conflitti a fuoco e attacchi e, pertanto, nella necessità di usare la forza. Ciò comporta, come dicevo, dei rischi per i soggetti deboli (la popolazione civile prima di tutto, ma anche beni culturali e strumentali) legati all'uso di armi e materiali: si tratta, quindi, del filone di tutela già preso da tempo in considerazione nella tematica dei crimini di guerra e nelle convenzioni internazionali (bisogna pensare non solo a una tutela particolare che arrivi all'incriminazione del crimine di guerra - essa è già presente oggi - ma a una tutela rafforzata e più calibrata nello specifico delle missioni internazionali). Accanto a questo ci sono rischi molto più elevati per la vita e l'incolumità del personale militare che presta servizio. Anche questo è oggetto di interesse.
In tali situazioni, il servizio militare - è un'annotazione di fondo che reputo piuttosto importante - non è caratterizzato, come quello in patria, da una miriade di prescrizioni. Nei teatri operativi, esso non è un servizio esecutivo di prescrizioni scritte e orali e, dunque, vincolato, impartite da superiori, ma piuttosto è un servizio caratterizzato da un'alta discrezionalità, da un dovere di agire di iniziativa, e quindi, più mirato verso risultati concreti che non verso il rispetto di prescrizioni.
Ciò comporta naturalmente conseguenze importanti, anche per quanto riguarda il discorso del diritto penale.
Vi sottopongo una riflessione quasi definitiva per poi restare a disposizione per le eventuali domande. Aumenta fortemente l'attività discrezionale del militare a tutti i livelli: non soltanto da parte del comandante, come oggi tende a delineare il Codice penale militare di guerra, ma anche del singolo militare che si trova concretamente a svolgere l'operazione di servizio.
Con l'aumento di questa discrezionalità, che impone al militare scelte immediate senza potersi riferire a superiori e senza dover rispettare prescrizioni già previamente impartite, nasce l'interrogativo di


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come debbano agire il giudice penale e il diritto penale. Da un lato, abbiamo un aumento di presa di responsabilità del militare, dall'altro lato, la sensibilità degli obiettivi, cioè persone da proteggere ed esigenze di servizio da conseguire.
Cosa si deve fare? Dobbiamo aumentare, dunque, l'ambito del penale, in modo da consentire al giudice penale un controllo più diffuso sulle scelte discrezionali, oppure dobbiamo ridurlo, a scapito evidentemente della tutela, per consentire - questo è il punto - margini di manovra al militare? Parlo del militare in genere, e ovviamente ancor più del comandante, che si trova a dover prendere decisioni delicatissime e che un giorno potrà sentirsi chiamare da un tribunale a rendere conto delle proprie azioni.
È una situazione simile a quella che si verifica anche nel campo medico, se vogliamo fare un parallelo, forse improprio, ma che credo che suggerisca alcune indicazioni. Se andiamo a responsabilizzare fortemente sul piano penale tali attività discrezionali, rischiamo di trovarci di fronte a burocrati che, in primo luogo, si «parano», per così dire, da tali responsabilità. Ritengo, quindi, che un aumento della sfera di interesse del diritto penale possa comportare questi rischi.
Vi sono, pertanto, due esigenze contrapposte: da un lato, maggior tutela, perché ci sono mezzi, armi e beni in gioco importantissimi; dall'altro, però, non ci dovremmo trovare di fronte a un militare ingessato dal rischio di andare incontro, a ogni piè sospinto, a un processo penale.
I modi per comporre tale conflitto, secondo me, sono due. Il primo si è affermato storicamente. Mi riferisco al processo penale militare in situazioni che una volta si chiamavano di guerra, ma che ora bisogna definire di emergenza, di conflitto armato, di servizio (non abbiamo più la dimensione addestrativa, ma quella operativa).
Una volta l'idea era quella di sottoporre l'inizio del procedimento penale a valutazioni tecnico-politiche delle diverse sfere: o al ministro competente o al comandante militare competente; ossia non si apriva un procedimento penale senza la richiesta del ministro o del comandante a diversi livelli. La valutazione di instaurare un procedimento penale era di natura politica o tecnico-politica.
Questo è un rimedio di fronte al problema che ho segnalato, perché da un lato il diritto penale minaccia le sue sanzioni, ma dall'altro, nel momento in cui deve infliggere la pena, o in quello del controllo processuale, compie valutazioni di opportunità.
Il secondo sistema, non necessariamente antagonista rispetto al primo, è quello di lavorare sulle regole sostanziali del diritto penale, ossia prevedere regole leggermente derogatorie rispetto a quelle ordinarie.
Faccio alcuni esempi. Quando si valuta la colpa, ci sono molte incriminazioni nell'attuale Codice penale militare di guerra in cui il militare risponde, a titolo di colpa, delle azioni che ha compiuto, degli eventi disastrosi che può aver causato. Tale tipo di incriminazione rischia di punire qualunque atteggiamento del soggetto. Credo, quindi, che si potrebbe introdurre una regola derogatoria sull'accertamento della colpa, che stabilisca che esiste colpa solo quando essa è grave, evidente, conclamata e il militare ha compiuto atti che nessun altro al posto suo avrebbe compiuto.
Si potrebbe, inoltre, ridurre fortemente l'incriminazione dei reati omissivi. Quando si verificano eventi disastrosi, i pubblici ministeri costruiscono ipotesi omissive a carico di chi avrebbe dovuto compiere determinate azioni e non le ha compiute. Soprattutto rispetto allo schema dei reati di evento, io ridurrei sensibilmente l'incidenza delle omissioni, che incriminerei come comportamenti specificamente indicati dalla legge. In sostanza, recupererei lo schema che noi chiamiamo di reato omissivo proprio e ridurrei, invece, l'incidenza del reato omissivo improprio, cioè di quello costruito sulla base di un evento che si è realizzato e che non si è impedito.
Procedendo in questo modo, si scriverebbero norme penali incriminatrici, ma si ridurrebbe l'incidenza pratica di scelte


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processuali che spesso vanno a gravare su soggetti che devono assumersi in concreto le loro responsabilità. Senza entrare nel dettaglio - se volete, comunque, potremmo parlarne più approfonditamente in seguito - direi innanzitutto che chi dovrà scrivere la legge penale militare, nell'ambito di tale legge quadro dovrà tener conto delle esigenze di deroghe che ho segnalato sul piano sostanziale.
Per quanto riguarda poi l'aggiunta anche dell'eventuale clausola di richiesta di procedimento in sede politica o tecnica, essa è una valutazione che compete a voi. In questo caso, forse, bisognerebbe differenziare: ci possono essere reati per i quali la punibilità non è subordinata a nessuna richiesta, perché sono gravi al punto che non vi è bisogno di valutazioni tecniche e politiche, e altri che richiedono invece una riflessione maggiore in questa sede. A mio avviso, il modo per risolvere il conflitto che ho delineato è quello che ho descritto.
Un altro settore molto delicato che vi segnalo è quello delle scriminanti, cioè delle cause di giustificazione, di cui abbiamo la necessità di incrementarne l'area. Non possiamo pensare che per il militare che svolge un'operazione militare all'estero valgano le normali cause di giustificazione; tutt'al più vale la legittimazione all'uso delle armi che gli deriva dal codice penale.
Occorre che il militare sia maggiormente tutelato quando compie un'operazione militare che richiede l'uso delle armi, non solo in una visione difensiva della sua incolumità fisica, ma anche di ottimizzazione del risultato militare che deve raggiungere. Ciò non significa, secondo me, costruire una clausola di giustificazione del tutto generale, come nell'attuale legge di guerra, che prevede che la violenza bellica in guerra è sempre giustificata, qualunque cosa succeda. Credo però che bisognerà ricalibrare una causa di giustificazione ad hoc che preveda la legittimazione all'uso delle armi anche in funzione di ottenimento di risultati, naturalmente quando tale uso sia destinato a obiettivi legittimi e previsti dalle convenzioni internazionali, in modo tale che il militare si senta più al sicuro dai rischi legati all'impiego dell'uso delle armi.
L'attuale codice penale militare di guerra, che, come sapete, è stato in vigore nelle zone dell'Iraq e dell'Afghanistan dal 2001 al 2006, non è più soddisfacente. Esso propone l'alternativa secca pace-guerra, di cui forse avrà già parlato chi mi ha preceduto, che ormai è assolutamente superata, antistorica e da cancellare dalla legislazione italiana (ma credo che il vostro intervento legislativo non abbia una portata così ampia). Credo che anche solo pensare, come si era fatto nel 2001, di applicare il codice penale militare di guerra - al di là dell'etichetta che politicamente non è delle migliori e non è la più spendibile - comporti inconvenienti pratici notevolissimi.
Il codice penale militare di guerra espande molto il diritto penale e sanziona una miriade di comportamenti. Ad esempio, una fattispecie punisce un comandante che, per colpa, difende in maniera non adeguata la propria base e la propria struttura. Allo stesso tempo, però, concede un'ampia possibilità al ministro competente di bloccare il processo penale. Da un lato, vi è una minaccia molto seria; dall'altro, in concreto, un blocco sostanziale a livello politico. Credo che questa soluzione non risolva i problemi che vi ho rapidamente indicato.
Sono pronto a rispondere alle vostre eventuali domande, o ad approfondire in futuro le riflessioni che adesso ho soltanto accennato.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Brunelli per il suo contributo alla nostra riflessione.
Do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

AUGUSTO DI STANISLAO. Vorrei fare una domanda al professor Cataldi, che ringrazio perché mi ha aperto di più gli orizzonti su alcune questioni attinenti alle nostre proposte di legge sulle missioni internazionali. In effetti, alcune di tali questioni mi convincono molto e mi costringono anche a riconsiderare alcuni


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aspetti che nella mia proposta di legge non erano ricompresi.
Penso che anche gli altri colleghi, nella stesura delle loro proposte di legge, come è successo a me, si siano fermati agli aspetti costituzionali, istituzionali, o ancor di più, politici. Il suo suggerimento, invece, di cominciare ad introdurre questioni di carattere procedimentale, oltre che costituzionale, va nel senso di cogliere le nuove, mutate esigenze di cui lei parlava.
Questo mi suggerisce una riflessione, che ho fatto anche in un'interrogazione, presentata in Commissione, sulla nostra missione ISAF, nella quale si verifica una situazione paradossale, ma reale.
Se la realtà non è un'opinione, l'ISAF oggi continua a fare ciò che faceva prima. Ne condividiamo la missione e la vocazione di ricostruzione, partecipazione umanitaria e addestramento, ma qualcun altro intorno ci sta facendo la guerra.
Detto ciò, noi tutti dovremmo cominciare a capire le cose che lei ha messo a fuoco - la missione di pace, le missioni di guerra, il loro superamento affinché esse diventino missioni di sicurezza - e a capire che ognuno di noi se ne deve impossessare non solo come terminologia, ma anche come connotato fortemente culturale, che serva non solo a stabilire chi ha ragione e chi ha torto. Le commissioni parlamentari e il Governo devono in tale elaborazione superare la loro stessa identità. Si compie uno sforzo bipartisan nel decidere di emanare una legge quadro il più possibile condivisa, e poi, invece, - domani ne parleremo col sottosegretario Cossiga - non è possibile procedere perché vi sono elementi che, di volta in volta, impediscono tale possibilità. Ciò non è assolutamente vero.
Le chiedo, dunque - condivido ciò che ha detto e la ringrazio per avermi fornito importanti ragguagli sia dal punto di vista culturale sia da quello costituzionale - se lei non ritenga veramente importante codificare tutti gli aspetti trattati nella sua relazione, ivi compresa la nuova definizione del codice penale speciale, che tenga conto anche delle regole di ingaggio. In sostanza, vorrei sapere se non ritenga utile una legge quadro sulle missioni internazionali, per evitare ancora una volta di trovarci sempre a ridosso dell'emergenza, del dato economico, e del fatto che bisogna agire in risposta a uno specifico evento.
Possiamo anche noi prevenire e avere un quadro diverso delle occasioni e delle opportunità, anche per dire la nostra su uno scenario che non solo ci vedrebbe residuali, ma farebbe anche aumentare notevolmente la quantità di giovani vite che potremmo salvare, laddove invece abbiamo un profilo alto anche dal punto di vista della governabilità di tali situazioni?

GIUSEPPE CATALDI, Professore ordinario di diritto internazionale presso la facoltà di Scienze politiche dell'Università degli studi di Napoli - L'Orientale. Indubbiamente bisogna assolutamente uscire dalla logica emergenziale. Mi rendo conto che il mio e il nostro compito, da questo punto di vista, è agevole, perché si tratteggiano gli ambiti della materia secondo la specificità degli studi.
Mi rendo conto, invece, che il vostro compito è difficilissimo, perché cominciare a ragionare di chi opera in un teatro in termini di riconoscimento come belligerante legittimo è una decisione politica che non so fino a che punto possiate inserire nel lavoro che state facendo; forse occorrerebbe un intervento a monte.
Ciò non è nelle corde di chi vi parla. È mio compito, però, - e spero di averlo svolto in maniera convincente - dimostrare che non si può andare avanti in questo modo, ossia che non si può agire, ogni volta, con un decreto-legge, soggetto a tutti i limiti previsti dalla Costituzione e, in particolare, con l'ipocrisia di decidere di applicare una volta il Codice penale militare di pace e un'altra quello di guerra, sbagliando, per ragioni opposte, in entrambi i casi.
Spero di essere riuscito a dimostrare questo. Occorre un intervento volto a superare questa logica; occorre anche cominciare a parlare in termini di sicurezza internazionale, di applicazione di un codice specifico o di una legge speciale sulle missioni di sicurezza, che tenga presente


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che il diritto internazionale umanitario va applicato, che l'obiettivo è la pace ma lo strumento può essere bellico, e che di fronte abbiamo belligeranti, ossia persone che non possiamo qualificare in termini diversi. Del resto, se si applica il diritto internazionale umanitario, lo si applica per tutti.
Esistono alcune incongruenze e forse questa è l'occasione per superarle se non tutte, almeno in parte.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Cataldi ed il professor Brunelli per le loro valutazioni su una materia molto complessa, sia dal punto di vista giuridico che politico, e importante per l'Italia e per il Parlamento. Grazie per la vostra disponibilità.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 12,50.

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