Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

Cerca nel sito

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe e abilitare il javascript

Strumento di esplorazione della sezione Lavori Digitando almeno un carattere nel campo si ottengono uno o più risultati con relativo collegamento, il tempo di risposta dipende dal numero dei risultati trovati e dal processore e navigatore in uso.

salta l'esplora

Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

Torna all'elenco delle indagini Torna all'elenco delle sedute
Commissione IV
5.
Martedì 13 gennaio 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Cirielli Edmondo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ACQUISIZIONE DEI SISTEMI D'ARMA, DELLE OPERE E DEI MEZZI DIRETTAMENTE DESTINATI ALLA DIFESA NAZIONALE, A VENTI ANNI DALL'ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE 4 OTTOBRE 1988, N. 436

Audizione di rappresentanti dell'Istituto Affari Internazionali (IAI):

Cirielli Edmondo, Presidente ... 3 5 12 13 14
Mogherini Rebesani Federica (PD) ... 13
Nones Michele, Direttore dell'area sicurezza e difesa dello IAI ... 5 12
Silvestri Stefano, Presidente dello IAI ... 3 5 13
Speciale Roberto (PdL) ... 12
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-Repubblicani: Misto-LD-R.

COMMISSIONE IV
DIFESA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 13 gennaio 2009


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE EDMONDO CIRIELLI

La seduta comincia alle 14,05.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di rappresentanti dell'Istituto Affari Internazionali (IAI).

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'acquisizione dei sistemi d'arma, delle opere e dei mezzi direttamente destinati alla difesa nazionale, a venti anni dall'entrata in vigore della legge 4 ottobre 1988, n. 436, l'audizione di rappresentanti dell'Istituto affari internazionali (IAI).
Nel dare la parola al presidente dell'Istituto affari internazionali, professor Stefano Silvestri, e al professor Michele Nones, li ringrazio per la partecipazione alla seduta odierna.

STEFANO SILVESTRI, Presidente dello IAI. Grazie, presidente. Mi limiterò a fare qualche breve considerazione sulle evoluzioni di massima del mercato della difesa e su quello che ciò significa per gli armamenti.
Lascerò, in seguito, la parola a Michele Nones, il quale illustrerà più in dettaglio gli aspetti specifici, internazionali ed europei, cui il mercato italiano dovrà adeguarsi. Troverete tutte queste notizie in forma particolareggiata nel documento che abbiamo consegnato alla Commissione e che è, quindi, già a vostra disposizione.
L'evoluzione del mercato della difesa in Europa è cominciata, in maniera profonda, dopo la caduta del muro di Berlino, quando si è trasformato tutto quello che riguarda la tecnologia militare e, in genere, la domanda degli stessi militari.
Le nuove tipologie di impegno delle Forze armate hanno portato a una profonda modificazione della domanda: quelli che prima erano eserciti sostanzialmente stanziali o di caserma, che dovevano prepararsi per un grande conflitto europeo o mondiale - se mai fosse avvenuto - venivano impiegati, invece, in piccoli numeri, in operazioni fuori area non meno impegnative, ma completamente diverse, sia per la qualità degli armamenti richiesti, sia per le tecniche operative, le strategie, le impostazioni e gli obiettivi da conseguire.
Tale evoluzione ha determinato la diminuzione dei bilanci della difesa - ciò che è stato chiamato il «divivendo» della pace, cui hanno fatto in parte eccezione solo due Paesi in Europa, la Francia e la Gran Bretagna - che ha fortemente influito sulle capacità di rinnovamento delle stesse Forze armate; queste erano legate, da un lato, a programmi pluriennali maturati prima della caduta del muro, dall'altro avevano questa esigenza di rinnovamento per la quale, tuttavia, non disponevano delle necessarie basi finanziarie.
In questa situazione, gli stessi francesi e britannici, pur avendo bilanci molto più consistenti, hanno incominciato a sperimentare


Pag. 4

problemi di adeguatezza della loro capacità di rinnovamento, soprattutto perché, nello stesso tempo, gli americani - dopo aver anch'essi all'inizio tagliato fortemente il bilancio della difesa - hanno ricominciato ad aumentare gli stanziamenti, soprattutto puntando su un grande rinnovamento tecnologico delle Forze armate stesse (quella che viene definita la «guerra netcentrica»). Gli americani compivano, quindi, un salto tecnologico, che naturalmente poneva dei grandi problemi alle Forze armate e all'industria europee: non solo quello di restare competitive, ma anche di continuare a essere in grado di operare insieme alle forze americane, adeguandosi a questo salto tecnologico.
In questa situazione, è risultato abbastanza chiaro che, se voleva tenere il passo con quella americana, la realtà europea doveva subire una trasformazione. La stessa realtà americana, peraltro, per riuscire ad attuare questa grande trasformazione procedette a una profonda trasformazione del suo mercato interno della difesa, che l'ha portata sino a creare quattro grosse realtà industriali della difesa in un processo di razionalizzazione e di concentrazione assolutamente impressionante, creando dei campioni, sia tecnologici che industriali, immensamente più forti e non paragonabili ai campioni europei.
Questa razionalizzazione ha preceduto di alcuni anni un processo analogo avvenuto anche in Europa: si è tentato, cioè, di razionalizzare anche l'industria europea. In effetti, questo processo di razionalizzazione, attraverso sistemi di acquisizioni, di alleanze, di scambi di pacchetti azionari e via elencando, ha portato anche in Europa alla costituzione di quattro entità industriali principali: EADS, Thales, BAE System e la nostra Finmeccanica.
Questa razionalizzazione, però, è avvenuta a livello delle grandi strategie, della proprietà, degli scambi di pacchetti azionari, mentre non è avvenuta a livello industriale, della produzione. Tutte queste società continuavano, infatti, ad avere impianti, linee di produzione e uffici dislocati nelle diverse nazioni, che rimanevano quindi isolati tra loro. Ciò avveniva sia a causa delle difficoltà a integrare produzioni a livello transnazionale - un qualsiasi prodotto che cominci ad essere costruito in Italia, perché si possa sviluppare ulteriormente in Francia e concludere in Gran Bretagna, richiede almeno due licenze di esportazione, anche se a produrlo è la stessa industria - sia perché, a livello di mercato, le domande sono rimaste strettamente nazionali. Tutto questo ha portato ad una notevole frammentazione del mercato.
Il mercato europeo, oggi, è quantitativamente molto più ristretto del mercato americano: noi spendiamo circa 42 miliardi di euro per gli equipaggiamenti - non è poco, certo - a fronte dei 154 miliardi di euro americani; il rapporto è quindi quasi di uno a quattro, più di uno a tre. Se guardiamo agli investimenti per ricerca e sviluppo, questi ammontano a circa 10 miliardi di euro in Europa, contro i 57 degli Stati Uniti.
La situazione si fa ancora più evidente se si considera che, delle cifre appena elencate, più di due terzi (circa il 76 per cento) sono spesi in Francia, in Gran Bretagna e in Germania. Tutto il resto dell'Europa, Italia compresa, si divide il restante 20-25 per certo. Tutto questo rende bene l'idea di come, in realtà, i mercati nazionali siano ancora fortemente dominanti in questo settore.
Tale frazionamento porta, naturalmente, a conseguenze abbastanza paradossali: si ricorda, per esempio, che la Commissione europea ha identificato 89 maggiori programmi di armamento in corso di sviluppo in Europa; in America sono 27. Quindi, noi, con un quarto dei finanziamenti e con il frazionamento appena illustrato, cerchiamo di sviluppare tre volte tanto sistemi di armamento rispetto agli Stati Uniti.
Questa situazione è stata riconosciuta, almeno sul piano teorico, anche dai Ministri della difesa. Il 14 maggio 2007 è stato, infatti, approvato un documento che considero, in un certo senso, divertente. Io lo condivido in pieno e potrei sottoscriverlo in qualsiasi momento; peccato, però,


Pag. 5

che dopo averlo approvato non siano seguite le necessarie conseguenze operative. Nel documento, che è stato approvato nell'ambito della European defence agency, cioè del consiglio direttivo dell'Agenzia di difesa europea, costituita a sua volta nell'ambito dell'Unione europea, si legge: «Riconosciamo che è giunto il momento in cui c'è bisogno di un cambiamento fondamentale. Il fulcro di questo cambiamento è riconoscere che una base industriale e tecnologica della difesa europea completamente adeguata non è più sostenibile su base strettamente nazionale - quindi è riconosciuto come un fatto oggettivo -, non possiamo continuare a determinare le nostre necessità su basi nazionali separate, a svilupparle attraverso strategie di ricerca e sviluppo nazionali, a realizzarle con contratti di approvvigionamento separati. Questo approccio non è più economicamente sostenibile».
Questo è quanto affermato dai Ministri della difesa. Inoltre, a proposito della cosiddetta deroga per la sicurezza nazionale nell'applicazione del Trattato della Comunità europea - il cosiddetto articolo 296, che esclude dalle regole del mercato interno gli approvvigionamenti della difesa - gli stessi Ministri della difesa hanno sostenuto che «tale applicazione è stata esagerata e ha avuto come effetto un ritardo nello sviluppo di un vero e proprio mercato europeo degli equipaggiamenti militari, negando sia ai clienti sia alle industrie i benefici della competizione e ostacolando la necessaria integrazione della base industriale e tecnologica della difesa».
Sono belle parole, alle quali però non ha fatto seguito nulla di concreto.

PRESIDENTE. Chiameremo i rappresentanti di questa Agenzia in Commissione per un'audizione e quella sarà l'occasione per porre una domanda a tale riguardo.

STEFANO SILVESTRI, Presidente dello IAI. Perlomeno sul piano intellettuale e dei princìpi la situazione è estremamente chiara e ciò rappresenta già un importante passo avanti.
Questo implica naturalmente delle conseguenze nella programmazione europea e nello sviluppo delle politiche industriali della difesa, che potrebbero essere di notevole importanza. In pratica, ci si dovrebbe avviare a un mercato integrato, che comporterebbe anche la possibilità di prevedere ulteriori integrazioni e razionalizzazioni nell'ambito dell'industria. Tale processo sarebbe estremamente delicato, soprattutto per un'industria relativamente piccola, rispetto ad altre, come Finmeccanica, o come l'industria italiana in generale in relazione ad altre realtà. Si tratta, quindi, di dar vita a una politica e a una strategia che, da un lato, permettano l'adeguamento dell'offerta alle reali esigenze delle nostre Forze armate e, dall'altro, naturalmente, non producano la dissoluzione delle nostre capacità tecnologiche e industriali.
Siamo in presenza, dunque, di un'esigenza complessa che, a mio avviso, richiede una politica consapevole da parte del Governo italiano nel suo complesso. Su questo lascerei la parola a Michele Nones, perché chiarisca cosa sta succedendo in concreto in questo momento.

MICHELE NONES, Direttore dell'area sicurezza e difesa dello IAI. Signor presidente, onorevoli, mi concentrerò sulle principali iniziative europee in corso che hanno una diretta attinenza con il mercato della difesa.
Ci sono alcune ragioni di ordine generale che spiegano questo tipo di approccio. La prima è che due di queste iniziative, di cui parlerò a breve, riguardano direttamente il processo di acquisizione degli equipaggiamenti militari, e quindi influiranno, o stanno già influendo, direttamente sulla modalità con cui i singoli Paesi europei potranno approvvigionarsi di equipaggiamenti militari. Dunque, c'è un riferimento diretto con l'indagine che avete in corso.
La seconda ragione è di ordine più generale. Personalmente, cerco di seguire con attenzione i vostri lavori e vi confesso che in tutti questi anni - molti anni ormai - ho riscontrato un certo gap, una certa


Pag. 6

mancanza di informazione da parte di tutti i Governi nei confronti del Parlamento e delle Commissioni parlamentari per quanto riguarda le iniziative europee. Insomma, sembra che in qualche modo il nostro far parte dell'Unione europea sia visto come un aspetto non direttamente rilevante o non direttamente attinente con l'attività legislativa del Parlamento. Questo è un errore perché, come ha detto prima Silvestri, il processo di integrazione della difesa europea e, in particolare, del mercato della difesa europea è andato molto avanti e sta andando avanti molto più velocemente di quanto possa sembrare. Esiste, perciò, un rischio di scollamento nell'impostazione delle politiche nazionali se non si ha ben chiaro il quadro di riferimento europeo.
Utilizzando un approccio un po' ingegneristico - ho pensato fosse utile anche a me per affrontare un problema molto complesso - possiamo dire che ci sono due grandi aree su cui agiscono queste iniziative europee. La prima è l'area delle acquisizioni, la seconda è quella dei cosiddetti trasferimenti di materiale militare all'interno dell'Unione europea e, per ragioni che andremo a vedere, anche all'esterno dell'Unione europea.
Da un punto di vista giuridico, è abbastanza importante tener presente che alcune di queste iniziative sono giuridicamente vincolanti per l'Italia, come le direttive europee, nonché gli eventuali trattati internazionali che abbiamo sottoscritto, come l'accordo quadro del 2000. Allo stesso modo, esistono degli impegni di carattere politico che non hanno un effetto giuridico vincolante e immediato, ma che vincolano, in ogni caso, il nostro Paese a rispettare gli impegni assunti nel tempo. Mi riferisco alle posizioni comuni assunte in ambito di Unione europea, ai codici di condotta che abbiamo sottoscritto nell'ambito dell'Agenzia europea della difesa e al recente impegno del Governo a favorire una modifica del trattato-accordo quadro, approvato nella primavera di quest'anno e che dovrà essere ratificato dal Parlamento.
Come dicevo, le due aree sono quella degli acquisti di equipaggiamenti militari e quella dei trasferimenti. Nell'ambito della prima area troviamo, in particolare, alcune iniziative europee. La prima è stata il codice di condotta dell'Agenzia europea di difesa, approvato nel 2005 e in vigore dal 2006, che vincola gli Stati membri a rispettare un certo grado di competizione negli acquisti quando gli stessi Stati membri derogano dalle regole comunitarie.
Pertanto, nel caso in cui, invocando l'articolo 296, si decidesse di non poter applicare le normative europee, saremmo comunque vincolati da un impegno politico a introdurre un certo livello di competizione negli acquisti che vengono effettuati fuori dalle regole del Trattato europeo.
Si tratta di un impegno volontario e di carattere politico; ovviamente, ci sono una serie di clausole di esclusione da questo impegno: ad esempio, nel caso in cui ci sia la necessità di salvaguardare eventuali esigenze specifiche di sicurezza nazionale, oppure effettuare acquisti di carattere urgente, o ancora per escludere, ad esempio, i programmi di cooperazione internazionale e i programmi di ricerca e sviluppo. Tuttavia, tolte queste eccezioni, negli acquisti operati direttamente bisognerebbe procedere secondo una logica di competizione.
Lo strumento attraverso il quale viene verificata la competizione è il bollettino elettronico dei contratti, che l'Agenzia europea tiene in piedi sul suo sito web, nel quale vengono pubblicate le volontà e le opportunità di acquisto degli Stati membri. Infine, a posteriori dovrebbero essere pubblicate le decisioni assunte dagli Stati membri.
Si tratta di un esercizio in corso da due anni. Occorre osservare che, in realtà, il carattere volontario, ma soprattutto il fatto che per scegliere questa strada bisogna precedentemente aver deciso di derogare dalle regole del Trattato comunitario, fanno sì che lo strumento risulti abbastanza debole. Grosso modo, nel corso di questi due anni, sono state pubblicate 300 opportunità di acquisto a livello europeo, da parte dei 26 Paesi che fanno parte dell'Agenzia europea per la difesa. Di


Pag. 7

queste 300, 50 sono state abbandonate e ne sono rimaste 250. Inoltre, è significativo che di queste 250 opportunità di acquisto più della metà sono state assegnate alle industrie nazionali, il che fa ipotizzare che, alla fine, nonostante l'elevato livello di pubblicità o di trasparenza nelle procedure d'acquisto, siano state privilegiate le imprese nazionali.
La seconda iniziativa, a mio avviso molto più importante, che dovrebbe essere approvata domani dal Parlamento europeo - siamo ormai giunti alla fine di questa attività - è la direttiva che la Commissione europea ha proposto nel dicembre 2007 relativa alle procedure di aggiudicazione di taluni appalti pubblici per lavori, forniture e servizi nel settore della difesa e della sicurezza. Su questo punto vorrei tentare di fornirvi qualche elemento più articolato.
Ci sono diversi aspetti importanti. Innanzitutto, penso al fatto che finalmente la Commissione e l'Unione europea si sono rese conto che il mercato della difesa non può essere gestito secondo le regole del mercato civile. Fino a pochi anni fa questo ostacolo, anche culturale, di approccio, da parte della Commissione europea, ha fatto sì che gli Stati membri, in qualche modo, si sentissero e fossero giustificati nel ricorrere alla deroga dell'articolo 296 nel procedere agli acquisti. Poiché lo strumento disponibile a livello europeo non era adeguato, tutti erano giustificati nel non applicarlo.
La battaglia che si è portata avanti per decenni tra la Commissione europea e i Governi nazionali è stata estremamente sterile, perché la Commissione pretendeva di applicare le regole del mercato civile al mercato della difesa, mentre i Governi nazionali si rifiutavano di farlo perché, in realtà, non si potevano applicare, e quindi di fatto ricorrevano all'articolo 296.
Lo strumento che è stato messo a punto dalla Commissione europea con un lavoro, insieme ai Governi, che è durato tre anni - un lavoro molto complesso, che è stato a sua volta rielaborato come direttiva nel corso del 2008 - ha portato a mettere a punto una serie di regole che, a giudizio della quasi totalità dei Governi europei, rappresentano un ottimo compromesso tra l'esigenza di aprire finalmente il mercato europeo a un minimo di competizione e, nello stesso tempo, di garantire che questa apertura non si trasformi in una specie di rotta di Caporetto, che porti le industrie dei singoli Paesi, soprattutto quelli meno forti, a una totale distruzione. In qualche modo, dunque, questa direttiva rappresenta un compromesso tra l'esigenza di tutelare determinate capacità nazionali e l'esigenza di farle sviluppare verso una dimensione europea, laddove evidentemente queste industrie abbiano al loro interno delle capacità tecnologiche e industriali che possano consentire loro di diventare competitive sul mercato continentale.
La direttiva, proprio per questa ragione - credo che questo sia un aspetto emblematico - non prevede nemmeno la gara aperta. La gara aperta, che è la regola attraverso la quale le amministrazioni pubbliche europee procedono agli acquisti di materiali civili, non è nemmeno elencata fra le procedure di acquisto per il mercato della difesa; è evidente, infatti, che nel momento in cui ho bisogno di uno strumento per la mia difesa e la mia sicurezza, non posso affidarmi al primo venditore che passa per strada, ma ho bisogno di una procedura - com'è la procedura negoziata, com'è la selezione dei potenziali fornitori - che mi consente di essere garantito rispetto al fatto che non solo il prodotto avrà le caratteristiche da me richieste, ma che nel tempo il fornitore dovrà essere in grado di mantenere il supporto logistico e garantire la possibilità di tenere aggiornato il sistema.
Tenete presente che a volte parliamo di piattaforme che possono restare in vita per venti-trenta anni, dunque è ovvio che devono essere aggiornate. Non si tratta dell'acquisto che il nostro istituto, voi o l'amministrazione pubblica può fare di una fotocopiatrice; questa, infatti, dopo due anni è superata tecnologicamente, per cui non conviene ripararla e viene sostituita da un modello nuovo. Nel caso dei sistemi d'arma, le piattaforme restano,


Pag. 8

vengono aggiornate tecnologicamente e possono durare effettivamente anche decenni.
Per questa ragione servono fornitori affidabili e, a tal fine, è necessario che l'amministrazione, la stazione appaltante sia in condizioni di selezionare quelli che ritiene siano fornitori affidabili. Per questo non si utilizza la gara aperta, ma si utilizza, come strumento principale, la procedura negoziata.
Peraltro, va detto che in questa nuova direttiva sono state inserite una serie di clausole volte a salvaguardare le forme di cooperazione che, comunque, l'Europa ha messo in campo in questi anni e che, con tutti i loro limiti, rappresentano un successo per l'integrazione europea, come sono i programmi di cooperazione intergovernativa (Eurofighter, NH90, EH101, tutti i programmi che avete visto nell'attività di espressione dei pareri consultivi). Questi programmi internazionali, che hanno un certo livello di competizione, o di regole che garantiscono la competizione all'interno, sono esclusi dall'applicazione della direttiva. Sono esclusi, altresì, i programmi gestiti dall'agenzia europea OCCAR, che è stata costituita per sviluppare i programmi cooperativi europei.
Resta, comunque, per gli Stati membri la possibilità di invocare l'articolo 296 del Trattato, che garantisce, in casi eccezionali, la possibilità di derogare dalle regole europee. A tal proposito, credo che debba essere chiarito un concetto, poiché in passato c'è stato un largo uso - io direi un abuso - dell'articolo 296.
L'articolo 296 non stabilisce esattamente che il settore della difesa è escluso, ma che gli acquisti di materiali di difesa o i trasferimenti di materiali di difesa sono esclusi dalle regole del Trattato, quando si ritiene che ricorrano delle condizioni che possono mettere a rischio gli interessi essenziali della sicurezza nazionale. Quindi, non è un'esclusione erga omnes, bensì un'esclusione mirata, che richiede una motivazione.
È evidente che, nel momento in cui la Commissione, che è «guardiana» del Trattato, non è intervenuta - per tante ragioni, di carattere storico e politico - nel pretendere un rispetto puntuale dell'articolo 296, tutti hanno utilizzato questa deroga a loro uso e consumo.
Scusatemi la banalità, ma voglio citare un esempio molto semplice: ammetto di aver parcheggiato la mia automobile per dieci anni in divieto di sosta, e nessuno mi ha mai elevato una contravvenzione, ma dal giorno in cui hanno cominciato a farlo non ho potuto lamentarmi rivendicando un diritto acquisito; ero in divieto di sosta, la prima volta ho provato a lamentarmi, ma mi è stato risposto di ringraziare il cielo se per dieci anni non avevo preso multe. Naturalmente, da quando hanno cominciato a elevare le multe io ho smesso di parcheggiare.
Credo che sull'articolo 296 valga lo stesso discorso. Siccome la Commissione, fino a pochi anni fa, non ha mai aperto una procedura di infrazione, tutti gli Stati hanno ritenuto di poter utilizzare l'articolo oltrepassando i limiti dell'accettabile. Da quando la Commissione ha stabilito che questo non può più avvenire, i risultati si sono visti. Per essere molto sinceri con voi, il primo Paese, e quello che più pesantemente ha pagato le prime procedure di infrazione per abuso dell'articolo 296, è proprio il nostro. Le ragioni sono tante, compresa quella che, evidentemente, in Europa siamo un po' più deboli nel gestire determinate procedure senza dare troppo nell'occhio. Insomma, forse siamo stati un po' troppo espliciti nell'abusare dell'articolo 296, ma il risultato è che abbiamo avuto, nell'arco di due anni, tre condanne da parte della Corte di giustizia europea per abuso dell'articolo 296.
Nella futura evoluzione di questa direttiva ci sarà la possibilità di procedere agli acquisti di materiale militare anche salvaguardando determinate capacità tecnologiche e industriali nazionali. Non siamo, quindi, di fronte a una norma che impedisce la tutela delle capacità; questa, però, dovrà avvenire nel rispetto di una serie di procedure e, soprattutto, selezionando le capacità che si intende tutelare.
La seconda area di intervento delle iniziative europee riguarda i trasferimenti


Pag. 9

intracomunitari. In realtà, questa seconda area è intrinsecamente legata alla prima: non possiamo pensare, infatti, di avere un mercato competitivo e aperto - in cui, cioè, gli Stati nazionali sono in grado di acquistare i loro prodotti su una base più competitiva - se i prodotti non possono essere realizzati trasferendo i materiali all'interno dell'Unione europea come se questa fosse un unico Stato.
Il nostro punto di riferimento è costituito, evidentemente, dagli Stati Uniti. Quando la Boeing, collaborando con la Lockheed, trasferisce i suoi materiali da uno Stato americano all'altro perché, poniamo il caso, ha deciso di costruire il JSF a Fortwarth anziché a Seattle (non sarebbe il caso perché parliamo della Lockheed, ma è solo un esempio), non deve chiedere alcun tipo di permesso; semplicemente, trasferisce materiali, personale e tecnologie sulla base di una logica di efficienza industriale.
Il nostro problema, come diceva il professor Silvestri, è che abbiamo realizzato l'unificazione dei grandi gruppi europei sul piano della gestione strategica e finanziaria, ma non abbiamo potuto farlo sul piano della produzione industriale.
Faccio degli esempi concreti. Nel campo missilistico abbiamo costituito un'unica società europea che si chiama MBDA e che ha sedi in Italia, in Francia, in Germania e in Inghilterra. Ebbene, se si considerano le strutture industriali di questo gruppo, ci si rende conto che sono rimaste esattamente quelle che erano quando la fusione è stata compiuta, nonostante da allora siano passati otto anni. Certo, pesa il fatto che i programmi richiedono molto tempo e che, quindi, non è possibile smantellare una linea di integrazione o di assemblaggio dall'oggi al domani solo perché si è costituita un'unica società; il problema, però, è che non è ancora partita una fase in cui gli investimenti sulle nuove attività o sul rinnovo delle attività stesse si possono fare secondo una logica di mercato integrato.
Fino ad oggi, fino a quando non entreranno in vigore le nuove regolamentazioni europee, sussisterà il rischio, per i gruppi industriali, che essi smantellino una capacità produttiva ad esempio in Italia, per concentrarla magari in Inghilterra, trovandosi poi svantaggiati in Italia perché non si è più italiani. Intendo dire che la perdita, da parte delle aziende, della dimensione nazionale dovrebbe essere compensata dall'acquisizione di una dimensione europea, che sia riconosciuta però come nazionale/europea e non come una dimensione straniera.
In altre parole, se un'azienda italiana diventa parte di un gruppo multinazionale, non c'è ragione per cui non debba più essere considerata italiana: dovrebbe rimanere tale e, al tempo stesso, europea. Mi si lasci dire che un approccio del genere, anche dal punto di vista normativo, non è ancora consolidato non solo in Italia, ma probabilmente in tutti gli altri Paesi europei.
In questo campo, abbiamo registrato quattro iniziative europee. La prima, risalente al 2003, riguarda la posizione comune del Consiglio europeo circa l'intermediazione di armi. Quando questa iniziativa fu presentata, tutti - lo ammetto, anche io - la considerarono come riguardante un problema etico. In teoria, può sembrare corretto pensare che non si debba tollerare che un cittadino russo residente in Italia - faccio un esempio - commerci in armi prodotte in Ucraina e vendute in Pakistan. In realtà, il problema è molto più importante e riguarda la formazione di società transnazionali europee. Oggi può accadere che Agustawestland, che ha sedi in Italia e in Inghilterra, venda dall'Italia elicotteri all'India e, per esigenze industriali, l'elicottero venga prodotto in Inghilterra, non in Italia.
Nell'attuale quadro normativo italiano, però, questo non è possibile. Se Agustawestland chiede al nostro Ministero degli esteri il permesso di esportare in India, in Giappone o negli Stati Uniti un elicottero prodotto in Inghilterra, noi dobbiamo prendere l'elicottero, portarlo fisicamente in Italia e da qui spedirlo alla sua destinazione finale. È chiaro che un simile


Pag. 10

sistema è incompatibile con una logica di mercato europeo e di efficienza industriale.
Questa è la ragione per cui questa posizione comune, forse assunta all'inizio come un problema di carattere quasi etico, si è poi trasformata in un problema di natura politico-industriale.
Un'altra questione inerente a questo nuovo modello di mercato europeo, riguarda l'emendamento dell'articolo 16 dell'accordo quadro che il Parlamento si troverà, probabilmente, a dover ratificare quest'anno. Esso introduce nell'accordo quadro del 2000, che coinvolge solo i sei principali Paesi europei, la cosiddetta «licenza per componenti», ossia la possibilità data all'interno di uno stesso gruppo industriale o di gruppi industriali associati nella produzione di un determinato equipaggiamento di trasferire componenti da un Paese all'altro, dovendo sottostare a un'unica autorizzazione iniziale e non ad autorizzazioni date volta per volta per consentire l'attività.
Il 13 marzo 2008 il comitato esecutivo dell'accordo quadro ha approvato, a nome dei suddetti sei Governi europei, tale emendamento; a dicembre esso è stato ratificato dalla Svezia e ritengo che il Governo italiano lo presenterà al Parlamento nel corso del 2009. Questo emendamento dovrebbe consentire ai grandi gruppi italiani che hanno una base transnazionale di procedere nella logica della ristrutturazione delle attività industriali.
A dicembre, quindi molto recentemente, è stata approvata un'altra posizione comune del Consiglio europeo affinché sia reso vincolante il codice di condotta che da dieci anni l'Europa si è data per le esportazioni verso Paesi terzi e che, fino a questo momento, è rimasto solo un impegno politico. Tale impegno, fino ad oggi di carattere puramente volontario e politico, è ora diventato una posizione comune, quindi tutti i Paesi membri si sono impegnati a trasfonderla nella rispettiva normativa nazionale.
È chiaro che l'esempio italiano, riguardo all'altra posizione comune, non è dei migliori. Abbiamo, infatti, approvato la posizione comune sull'intermediazione delle armi nel 2003 e, ad oggi, nessuno dei Governi che si sono succeduti negli ultimi cinque anni ha mai presentato al Parlamento un disegno di legge per il recepimento di tale posizione. In Europa siamo solo in due a non averla ancora recepita. Speriamo che non si segua lo stesso percorso anche per quanto riguarda la nuova posizione comune sul codice di condotta per l'esportazione a Paesi terzi.
Ritengo, infatti, che nella misura in cui si è persuasi che la politica esportativa di armamenti ricopra un ruolo fondamentale nella politica internazionale di ogni entità statuale (compresa l'Unione europea), sia indispensabile che questo embrione di politica esportativa comune - per ora si tratta di regole volte a garantire la correttezza delle politiche esportative nazionali, e non ancora di una vera e propria politica esportativa comune - venga recepito e reso obbligatorio per tutti.
Quarta e ultima iniziativa europea è quella relativa alla direttiva che il Parlamento europeo ha approvato lo scorso dicembre (e che, quindi, sarà pubblicata sulla Gazzetta ufficiale europea entro pochi mesi), la quale impone agli Stati membri di procedere a un sistema di controllo comune sui trasferimenti di prodotti militari all'interno dell'Unione europea.
Finora, sempre in base all'articolo 296, tutti gli Stati membri hanno considerato i trasferimenti da uno Stato a un altro come esportazioni. Dal punto di vista comunitario, queste non sono esportazioni, ma trasferimenti. Le esportazioni sono quelle indirizzate verso l'esterno dello spazio comune europeo, oltre i confini europei, mentre all'interno dell'Unione europea si tratta di trasferimenti. Ora, questo punto, che può apparire una pura disquisizione lessicale, in realtà, dal punto di vista giuridico, rappresenta un nodo cruciale, perché se si tratta di trasferimenti non possono essere assoggettati agli stessi controlli a cui sono sottoposte le esportazioni.
Per far ciò la direttiva fissa una serie di modalità; stabilisce, cioè, l'introduzione di una serie di licenze - licenza generale e licenza globale, oltre alla licenza individuale


Pag. 11

- determinando alcuni criteri per l'assegnazione delle stesse. Non vorrei tediarvi su questo aspetto, anche perché avrete modo di tornarci sopra nel momento in cui - e questo è un punto importante - la direttiva dovrà essere recepita dall'Italia.
Vorrei concludere, al di là di tutti i dettagli tecnici che abbiamo cercato di inserire nella nota che vi abbiamo consegnato, con una riflessione sul fatto che, a partire da quest'anno, il Governo prima e il Parlamento poi saranno chiamati a procedere al recepimento di questi impegni internazionali.
Nel caso delle acquisizioni, il recepimento presuppone che venga elaborato un codice degli appalti pubblici militari che affianchi l'attuale codice per gli appalti pubblici civili; insomma, un set di norme italiane che recepiscano la direttiva sugli appalti pubblici e che offrano alle amministrazioni lo strumento attraverso il quale procedere nelle acquisizioni.
Nel caso, invece, dei trasferimenti siamo in presenza di una situazione molto complessa. È in vigore una legge, la legge n. 185 del 1990, che è stata aggiornata nel 2003, ma che sostanzialmente ha mantenuto l'impianto che era stato dato dal legislatore ormai quasi venti anni fa. Ebbene, questo impianto collide con l'impostazione propria di tutte le iniziative europee che vi ho citato. Tale impostazione è caratterizzata, innanzitutto, dal principio secondo cui all'interno dell'Unione europea il materiale deve poter circolare con un sistema di controlli molto semplificato; in secondo luogo, dal principio che la responsabilità di rispettare le regole che gli Stati fissano per l'esportazione a Paesi terzi debba essere trasferita maggiormente verso le imprese che non verso le amministrazioni.
In pratica, la logica è quella di un sistema in cui le imprese vengano certificate dai Governi. Questi ultimi, però, debbono occuparsi non tanto di verificare, come accade in Italia, se le imprese hanno la fedina penale in regola, o se hanno pagato la tassa di iscrizione al registro delle imprese, e cose simili, ma piuttosto se i sistemi di autocontrollo interni alle aziende stesse sono efficienti ed efficaci e possono essere considerati affidabili. Se questo si verifica, se l'impresa è certificata, è ad essa che spetta l'onere di garantire il rispetto delle eventuali indicazioni politiche date dal Governo. Ovviamente, i Governi devono dotarsi di un potere ispettivo, di capacità ispettive che non si esauriscono nell'invio della Guardia di finanza. Ogni volta, infatti, che la Guardia di finanza verifica l'esistenza di qualsivoglia anomalia nel funzionamento di un'impresa, le possibilità sono due: chiudere un occhio oppure informare l'autorità giudiziaria. Non si hanno altri strumenti a disposizione. Questo non è accettabile, perché è come se in campo militare si potesse usare come unica arma la bomba atomica, per cui o si lancia quella o si resta fermi. Questa situazione non va bene.
Dobbiamo dotarci di capacità ispettive che consentano di valutare e apprezzare le dimensioni e l'entità dell'eventuale errore, il quale può essere materiale, involontario o interpretativo. Deve essere valutato il risultato, l'effetto e soltanto a quel punto, se l'impresa non adempie alle prescrizioni che le vengono date, è giusto procedere sulla strada della repressione; altrimenti, come avviene nel nostro sistema, ci si trova di fronte a due alternative: la repressione totale o il dover chiudere gli occhi.
Non è questo il sistema sul quale sono impostate le regole degli altri Paesi europei; il nuovo sistema europeo prevede esattamente che i Paesi certifichino e controllino le loro aziende attraverso queste modalità.
Concludendo, credo che per l'Italia questo cambiamento e questo processo di integrazione europea siano un'occasione importante di adeguamento e ammodernamento del proprio sistema di acquisizione e controllo nei confronti della movimentazione dei materiali militari, ma credo anche che tale processo rappresenti un impegno molto forte per tutti noi, e per voi in particolare, che sarete chiamati a


Pag. 12

discutere e a deliberare circa le modifiche e le riforme necessarie nella nostra normativa.
Ovviamente, questo processo rappresenta anche un rischio, perché, mentre nel nostro caso saremo obbligati a fare un doppio salto, in quanto si tratta di recepire le nuove norme partendo da una base molto lontana dalla loro impostazione. Per altri Paesi si tratta di cambiare molto poco; avendo provveduto prima a modificare il proprio sistema, il loro salto sarà molto più rapido.
Dal momento che queste decisioni avranno degli effetti sulla competitività del nostro sistema industriale, credo che l'impegno di tutti dovrebbe essere quello di assumere le decisioni necessarie nel più breve tempo possibile.
L'ultima parola vorrei spenderla sul problema del personale. Come esperti, siamo a contatto con il personale civile e militare che, nelle varie amministrazioni, segue questa attività. Devo dire, con onestà, che ho trovato grandi competenze e un livello d'impegno che non credevo nemmeno possibile ed che ho avuto modo di apprezzare molto. Mi dispiace solo che non si sia investito e non si investa tuttora abbastanza nella formazione del personale.
Fino ad oggi gli strumenti a disposizione del personale sono stati molto semplici, paragonabili ad una specie di bilancia: si soppesavano le situazioni e, a seconda che la bilancia pendesse da una parte o dall'altra, si aveva un certo risultato. La nuova strumentazione europea introduce una forte flessibilità, ma affida anche una maggiore responsabilità al personale. Non si tratterà più di distinguere semplicemente il bianco dal nero, ma di saper cogliere il grigio e ogni possibile sfumatura. Il maggiore livello di responsabilità dovrebbe essere, quindi, accompagnato da un investimento che consenta di dotare il personale di nuove capacità e, ovviamente, di un livello di soddisfazione adeguato alle responsabilità che esso è chiamato ad assumersi.
Credo che, proprio in occasione dell'ammodernamento del nostro apparato normativo in materia, bisognerà anche farsi carico di trovare le soluzioni affinché il personale destinato ad applicare queste normative sia più motivato, più soddisfatto e maggiormente gratificato per l'impegno profuso.

PRESIDENTE. Vi ringrazio per le vostre relazioni molto esaurienti.
Do la parola ai colleghi che intendano brevemente porre quesiti o formulare osservazioni, ricordando che alle 15 dobbiamo concludere l'audizione.

ROBERTO SPECIALE. Vorrei ringraziare innanzitutto il professor Silvestri e il professor Nones per la chiarezza con la quale hanno reso attuali problematiche che, molte volte, rimangono sullo sfondo anche in questa Commissione e nel Parlamento, come hanno sottolineato.
Intendo riallacciarmi, principalmente, alle conclusioni del professor Nones per quel che riguarda, innanzitutto, il personale. La mia domanda è la seguente: tra il personale citato, rientra pure personale altamente qualificato da inviare nelle varie rappresentanze e nelle diverse agenzie? Lo chiedo perché è lì che il più delle volte soccombiamo.
In secondo luogo, non so se ho ben capito, ma, se ho letto bene tra le sue parole, spesso in Italia ci autocelebriamo, facciamo i furbi, ma poi veniamo «sgamati» all'estero e soccombiamo. Le buone intenzioni sono state e sono tuttora tante, però mi sembra che ci si sia guardati bene dall'attrezzarsi per eliminare sprechi e diseconomie e per rendersi veramente operativi, così da poter competere non solo nel mercato continentale, ma anche in quello globale.

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri auditi per la replica.

MICHELE NONES, Direttore dell'area sicurezza e difesa dello IAI. Risponderò in maniera telegrafica.
Quello del personale italiano che viene messo negli organismi internazionali è sicuramente un problema e, in questo


Pag. 13

settore, devo spendere una parola a favore dei nostri rappresentanti negli organismi europei che si sono occupati di questo tipo di problematiche.
Vi stupirà ma, venendo dall'esterno, riconosco che nutrivo una certa prevenzione rispetto al personale con il quale sarei venuto in contatto all'interno di questi organismi. Devo dire, invece, che sia nell'ambito della Commissione europea sia in quello dell'Agenzia europea per la difesa, che avrete certamente occasione di audire, ho trovato personale di altissimo livello.
Su un piano più generale, però, lei ha perfettamente ragione: dovremmo essere molto più attenti nel gestire il processo di selezione dei nostri rappresentanti all'estero, perché è vero che in altri settori non occupiamo questi posti.
Contrariamente a quanto avviene negli altri settori delle istituzioni europee, in questo caso, fortunatamente, abbiamo puntato ad avere pochi posti, ma di qualità, anziché - come avviene nella restante parte della nostra partecipazione alle istituzioni europee - tanti posti di bassa qualità.
In generale, il mondo della difesa ha prodotto, da questo punto di vista, dei buoni risultati. Il discorso relativo all'eliminazione degli sprechi non si può che sottoscrivere; tuttavia, resta il fatto che, in un sistema più efficiente, come sicuramente sarà quello che emergerà dalle nuove regole europee, le occasioni di spreco, anche nazionali, verranno automaticamente ridotte. Credo, peraltro, che questo avverrà per uno stato di necessità, nel senso che non possiamo più permetterci sprechi, e non solo per motivi di scelta etica.

STEFANO SILVESTRI, Presidente dello IAI. Signor presidente, volevo solo aggiungere una brevissima chiosa a quanto testé detto dal professor Nones. Il problema è che, molto spesso, quando abbiamo persone di qualità, queste vanno anche avanti, ma è il sistema complessivo, in un certo senso, che ignora completamente quello che le stesse fanno.
C'è, insomma, uno scollamento completo tra l'iniziativa politica, la programmazione e l'attività di queste persone. Magari questa attività viene anche riconosciuta - a seconda delle situazioni - ma non completamente accettata dal resto dell'amministrazione o del Governo. Si continua, cioè, ad operare come sempre perché non c'è, in realtà, il passaggio dalle parole ai fatti.
Spesso ho a che fare, ad esempio, con i francesi, i quali mi chiedono su ogni questione qual è il programma o il piano italiano; ogni volta sono costretto a grattarmi la testa perché, in genere, il programma italiano non esiste. Ci sono delle idee, ma per loro il piano è qualcosa che coinvolge tutti, dal Primo ministro all'ultimo ufficiale.
Questo, purtroppo, è un problema del sistema Italia.

PRESIDENTE. Credo che le audizioni come questa servano a creare l'idea di una programmazione.

FEDERICA MOGHERINI REBESANI. Signor presidente, desidero solo chiedere un chiarimento. Se ho ben compreso, il professor Silvestri - mi scuso per aver perso la parte iniziale della sua relazione - ha fatto riferimento alla necessità di una maggiore coerenza tra i livelli decisionali. In Italia, ma forse anche altrove, mancherebbe un impianto coerente rispetto ai diversi livelli decisionali in ambito europeo e nazionale.

STEFANO SILVESTRI, Presidente dello IAI. Ci sono degli elementi di coerenza, ma certamente questa coerenza dovrebbe crescere. È un problema anche di competenze. Dove, cioè, si realizza questa coerenza? Al livello della Presidenza del Consiglio, dei comitati interministeriali, dei ministeri? Esiste, per legge, una suddivisione di competenze che rende molto difficile, talvolta, la conduzione di una vicenda.
Ciò diventa ancora più complesso nel momento in cui si approvano delle direttive, che, dopo aver ricevuto il consenso


Pag. 14

del Governo, a vari livelli, vengono recepite dal Parlamento italiano, presto o tardi, quindi diventano leggi. A questo punto, è necessario essere consapevoli che questo implica una modifica delle procedure, se non altro, e spesso delle argomentazioni. A volte siamo stati condannati perché le argomentazioni che avevamo invocato non erano più valide e non perché, di sostanza, non potevamo invocare, per esempio, l'eccezione. Questo indica uno scollamento tra il processo legislativo in atto a livello europeo e il processo amministrativo in atto in Italia.

PRESIDENTE. Ringrazio gli auditi e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15.

Consulta resoconti delle indagini conoscitive
Consulta gli elenchi delle indagini conoscitive