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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione IV
10.
Martedì 23 giugno 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Cirielli Edmondo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'ACQUISIZIONE DEI SISTEMI D'ARMA, DELLE OPERE E DEI MEZZI DIRETTAMENTE DESTINATI ALLA DIFESA NAZIONALE, A VENTI ANNI DALL'ENTRATA IN VIGORE DELLA LEGGE 4 OTTOBRE 1988, N. 436

Audizione dell'amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono:

Cirielli Edmondo, Presidente ... 3 4 9 11 14
Bono Giuseppe, Amministratore delegato di Fincantieri ... 3 4 9 12 13
Di Stanislao Augusto (IdV) ... 13
Recchia Pier Fausto (PD) ... 12
Speciale Roberto (PdL) ... 11
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per l'Autonomia: Misto-MpA; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: (Misto-RRP).

COMMISSIONE IV
DIFESA

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di martedì 23 giugno 2009


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE EDMONDO CIRIELLI

La seduta comincia alle 12,15.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione dell'amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'acquisizione dei sistemi d'arma, delle opere e dei mezzi direttamente destinati alla difesa nazionale, a venti anni dall'entrata in vigore della legge 4 ottobre 1988, n. 436, l'audizione dell'amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono.
Nel dare la parola al dottor Bono, lo ringrazio vivamente per la partecipazione alla seduta odierna.

GIUSEPPE BONO, Amministratore delegato di Fincantieri. Ringrazio il presidente e i membri della Commissione per l'opportunità che mi è stata data, in quanto amministratore delegato di Fincantieri, di parlare di un'azienda che rappresenta - lo dico senza falsa modestia - un punto di eccellenza nel sistema Paese.
Vorrei organizzare la mia presentazione svolgendo, inizialmente, una breve illustrazione di Fincantieri, per poi soffermarmi in modo particolare sull'oggetto dell'indagine della Commissione.
Fincantieri è l'unica realtà al mondo nel settore della cantieristica ad avere un range di attività così ampio: infatti, operiamo nel settore delle navi mercantili, precisamente nella fascia alta (crociere e traghetti di dimensione e qualità superiori) in quello delle navi militari, dei megayacht, del refitting e della manutenzione. Poi, c'è Marine Systems che si occupa della componentistica. Si tratta di un'unità che abbiamo sviluppato al nostro interno, ma che a un certo punto abbiamo deciso di farne un'unità di business autonoma per metterla sul mercato e vendere ad altri cantieri.
Nel settore mercantile ci posizioniamo sulla fascia alta del mercato e, questo, direi che è fondamentale per la sopravvivenza dell'azienda. Infatti, ormai le navi a più basso livello tecnologico, come sapete, di fatto vengono costruite nell'estremo Oriente, in quanto, a causa della minore competitività, non sarebbe possibile costruire questo tipo di navi in Italia. Parliamo di navi importanti come le navi portacontenitori, le navi cisterna che trasportano gas (LNG) o le grandi petroliere, che in Occidente ormai non è più possibile costruire, a causa del differenziale di prezzo, prima nei confronti dei giapponesi (trent'anni fa), poi dei coreani e adesso dei cinesi (con il loro ingresso sulla scena, la situazione si è aggravata ancora di più da questo punto di vista).
Nelle navi militari, dopo un quindicennio di stasi, verso la metà degli anni '90 furono lanciati, da parte della Marina e dei Governi dell'epoca, e sostenuti dai


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Governi successivi, dei programmi di ammodernamento. Tali programmi hanno consentito a Fincantieri, che per la Marina rappresenta l'industria di riferimento, di sviluppare determinate tecnologie - avvalendosi anche dell'esperienza nel settore civile - nonché di avere una gamma di prodotti che riteniamo al momento essere quasi unica al mondo. Infatti, crediamo che non esistano altre industrie che abbiano un portafoglio prodotti simile al nostro e una capacità di soddisfare tutte le esigenze delle Marine più avanzate, come è nel nostro caso.
Ovviamente, come diremo dopo, se tutto questo da un lato ci favorisce, dall'altro occorre considerare che il mercato, nel settore militare, soprattutto per quanto riguarda la costruzione di navi, è un po' particolare.
Negli ultimi anni, sapendo che le grandi commesse da parte della Marina si sarebbero ovviamente esaurite - non si può immaginare di costruire una portaerei ogni quattro o cinque anni, oppure tanti sottomarini o tante grandi fregate - abbiamo cercato di prevenire questo problema, lanciando dei nuovi business da inserire nei cantieri militari. Ad esempio quello dei megayacht, ossia yacht oltre i settanta metri. In realtà, al momento essendo stati cancellati due ordini in seguito alla crisi, ne abbiamo in costruzione solo uno di 135 metri.

PRESIDENTE. Due da 70 metri!

GIUSEPPE BONO, Amministratore delegato di Fincantieri. Due da 70 metri. Per dare un'idea di questo argomento posso dirvi che, da 50 a 70 metri, il valore è di un milione per metro lineare; quindi uno yacht di 70 metri vale più o meno 70 milioni. Dopo questa soglia, il valore cresce quasi in misura esponenziale; uno yacht di 135-140 metri, oggi, vale 300 milioni di euro. Vi starete chiedendo chi può comprarselo. Ebbene, c'è gente al mondo che lo compra: non solo arabi; anche russi, inglesi, americani, cinesi e indiani. C'è tanta gente che possiede patrimoni tali da potersi permettere spese di questo genere. Quando ero ragazzo leggevo Topolino - non so quanti di voi l'abbiano letto, visto che mi sembrate tutti più giovani di me - e in quel fumetto, Paperon de' Paperoni più investiva, più guadagnava. A un certo punto, quando ci si stufa di investire e guadagnare, succede che ci si permette lussi di questo tipo.
Adesso il mercato è fermo e tuttavia abbiamo comunque trattative in corso per uno yacht di 170 metri, che equivarrebbe a un traghetto piuttosto grande.
Peraltro, questi yacht vengono realizzati con una tecnologia abbastanza simile a quella usata nella cantieristica militare; dunque, si prestano bene ad essere costruiti nei cantieri militari, al coperto. Ritengo che questa rappresenti il non plus ultra della tecnologia della costruzione navale, e non stiamo parlando solo degli interni. Pensate che uno scafo di 135 metri viene verniciato a specchio e, quindi, non deve avere nessuna deformazione dovuta a ondulazione della lamiera. Pensate a un bestione di 135 metri tutto levigato come se fosse uno specchio!
Abbiamo poi lanciato il business del refitting e della manutenzione perché pensiamo - sebbene siamo ancora all'inizio - che l'aumento delle flotte, anche commerciali, spingerà sempre più gli armatori a concentrarsi nelle loro attività e ad affidare ai costruttori la manutenzione e l'operabilità del ciclo di vita della nave. Questo diventa ancora più importante sul piano militare (dirò dopo come vanno queste cose nel nostro Paese).
Quanto a Marine Systems, come tutte le industrie nazionali della difesa, anche noi abbiamo cominciato a realizzare all'interno molte parti (eliche, alcuni motori, sistemi di stabilizzazione e via dicendo), poiché l'indotto esterno non ce le forniva. Abbiamo poi pensato che, anziché farli vivere solo al nostro interno, avremmo potuto vendere questi sistemi anche all'esterno.
Ovviamente, anticipando un concetto di cui parlerò quando ci riferiremo in maniera più specifica al militare, le navi militari si vendono ai Paesi che hanno il mare. Ebbene, questi Paesi, se già non


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hanno un cantiere, desidererebbero averlo e, quindi, come contropartita alla vendita, molto spesso ci chiedono di costruire sul posto le navi. Alcuni Paesi sono già attrezzati per farlo; con altri si raggiunge la mediazione di costruire una parte da noi e una parte da loro (dobbiamo mettere a posto anche il cantiere). Se diamo a questi Paesi il progetto, riteniamo che dobbiamo dare loro anche le componenti (ad esempio, il sistema di propulsione, il sistema di generazione dell'energia e il sistema di stabilizzazione). Si tratta di componenti delicate che costruiamo in Italia e che dobbiamo fornire a chi ci commissiona la costruzione di navi, altrimenti questi Paesi si rivolgerebbero al mercato mondiale. Insomma, abbiamo cercato di fare un business di una struttura che era nata a supporto della nostra costruzione in Italia.
Recentemente abbiamo fatto una joint venture al 50 per cento con la ABB Italia per i sistemi di automazione navale. Siamo sempre più convinti che anche nel settore delle navi - penso, del resto, all'evoluzione che hanno avuto altri settori, ad esempio quello delle automobili - si introdurrà automazione. È importante, dunque, poterla padroneggiare fin dall'inizio, ossia dal momento in cui si progetta la nave, perché i sistemi saranno sempre più sofisticati e vi sarà sempre meno personale militare. Del resto, le navi militari che costruiamo adesso già prevedono la metà dell'equipaggio rispetto a quelle che venivano costruite prima. Sappiamo, peraltro, che ci sono problemi di arruolamento e, dunque, la nave ricorrerà sempre più all'automazione.
Riteniamo che costruire il progetto sul concetto di automazione sia un vantaggio, non solo in termini di costi, ma anche al fine di poter offrire alle Marine che ordineranno le navi requisiti più flessibili rispetto alle attuali varie classificazioni delle navi militari.
Come saprete - grazie alle numerose audizioni che avete svolto - normalmente tutte le Forze armate hanno delle specificità. Come avviene, nell'Aeronautica, per gli aerei, così accade per le navi nella Marina: vi sono navi diverse con diverse funzioni.
Dobbiamo dire che, rispetto alla situazione attuale, la storia - come sempre, in un Paese come l'Italia - non ci ha favorito dal punto di vista della possibilità di competere. In Italia ci sono otto cantieri: Monfalcone, Marghera e Ancona sull'Adriatico; Sestri Ponente, Riva Trigoso e Muggiano in Liguria, gli ultimi due dedicati alle costruzioni militari - a riguardo vorrei invitare la Commissione a farvi visita perché credo sia interessante vedere come si costruiscono questi oggetti di dimensioni imponenti - e, infine, Palermo e Castellammare nel sud.
Ora, questa distribuzione, che ci vede presenti in tanti siti, alcuni anche abbastanza piccoli, non ci favorisce dal punto di vista economico. È la storia che ci ha portato a questa situazione, dal momento che l'Italia stessa era divisa in tanti Stati e ognuno di essi - dai domini dell'Impero austro-ungarico al Regno di Sardegna, dallo Stato della Chiesa al Granducato di Toscana (prima avevamo un cantiere a Livorno, che adesso non esiste più) - aveva costruito il proprio cantiere, che è rimasto nel tempo.
Ebbene, Fincantieri sta cercando di rendere tale localizzazione, che non è la più conveniente dal punto di vista economico, un suo punto di forza e di flessibilità costruendo in tutti i cantieri singoli pezzi che poi assembliamo. Questo ci consente di dare risposte sulle consegne più ravvicinate, soprattutto per la parte mercantile, che altrimenti non avremo potuto dare se avessimo avuto soltanto uno o due cantieri nei quali concentrare tutte le costruzioni.
Vorrei far presente alla Commissione che, anche nell'attuale situazione di crisi, l'obiettivo di Fincantieri è di mantenere l'assetto produttivo esistente, benché sappiamo di dover fare fronte a degli «scarichi» che al momento si sono verificati e che, però, vorremmo gestire con gli strumenti ordinari, cioè con le casse integrazioni ordinarie. Pensiamo di avere la possibilità


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e la forza di mantenere questo assetto produttivo e di non dover chiudere nessun cantiere.
Per quanto riguarda i risultati, negli ultimi sette anni abbiamo sempre guadagnato; nel 2008 abbiamo registrato una flessione. Ora, quanto ho detto poc'anzi sul mantenimento della capacità produttiva ha senso perché, nel 2007, ci siamo presentati con un portafoglio ordini che Fincantieri non aveva mai riscontrato (12 miliardi di euro) e con circa 3 miliardi di produzione annuale. Gli anni da valutare che dovrebbero essere quattro, in realtà, poiché nel 2008 il margine si è ridotto, sembrerebbero dover essere solo tre.
Ovviamente la costruzione della nave non è un processo produttivo istantaneo, ma richiede tempo, dal taglio della lamiera fino al completamento. In alcuni cantieri, i primi reparti hanno iniziato a registrare degli «scarichi», ma noi speriamo che il mercato prima o poi si riprenda, e al riguardo siamo abbastanza fiduciosi.
La parte militare, ancorché, come ho detto prima, sia molto importante per Fincantieri, rappresentava comunque soltanto il 20-25 per cento circa del totale. La nostra strategia - benché scontassimo la riduzione dei programmi italiani, e quindi un probabile abbassamento delle commesse - è stata di far crescere il settore militare.
Per realizzare tale crescita abbiamo dovuto investire all'estero. In particolare, alla fine dell'anno scorso abbiamo investito comprando dei cantieri negli Stati Uniti, nella regione dei Grandi Laghi visto che eravamo venuti in contatto con l'industria della marina militare americana per un grande programma che gli americani hanno lanciato, denominato LCS (Littoral Combat Ship). Sino a un certo periodo della loro storia, gli Stati Uniti ritenevano che, in definitiva, il loro territorio fosse inviolabile. Pertanto, nel campo navale, hanno sempre adottato una strategia di proiezione all'esterno (tutti ricordano le grandi flotte nel Mediterraneo o nel Pacifico, con grandi unità) e al controllo delle coste americane erano state destinate poche unità, a parte quelle barche che vediamo in alcuni telefilm.
A un certo punto, però, gli Stati Uniti si sono resi conto che tale strategia non era più adeguata e hanno lanciato il programma Littoral Combat Ship, con navi di pattugliamento (le chiamo in questo modo, ma occorre tener presente che mentre le nostre navi vanno dalle Saettia, per la Guardia costiera, fino alla classe comandante di 1.000-1.200 tonnellate, le navi americane sono già, comunque, di 3.000 tonnellate).
Per una combinazione, la società di ingegneria cui era stato commissionato dal consorzio capeggiato dalla Lockheed - che è la prima azienda al mondo nel campo della difesa, anche se non ha cantieri - il disegno di una nave, prese a modello la carena di una nostra imbarcazione, il Destriero. Questo era uno yacht, costruito verso la fine degli anni Ottanta per l'Aga Khan, vuoto all'interno, giacché era stato progettato soltanto per raggiungere il record della traversata atlantica, il Nastro Azzurro, impresa nella quale è ancora imbattuto.
Dunque, per questa circostanza siamo stati interpellati; ci siamo recati sul posto e, progressivamente, gli americani si sono resi conto della nostra competenza per quel tipo di nave che, invece, in America non sanno costruire.
Come la Commissione avrà potuto verificare, in molti settori esiste un gap tecnologico tra l'Italia - l'Europa in genere - e gli Stati Uniti. Nel campo navale, però, il gap è al contrario e, infatti, gli europei - soprattutto gli italiani, ma anche i francesi e per certi versi i tedeschi - sono molto più avanti degli americani. Per questa ragione, siamo stati sollecitati a comprare questi cantieri, dalla Marina e anche dal Congresso.
Per rendere l'idea di quali siano i numeri che riguardano l'America, rispetto a quelli italiani ed europei in generale, è sufficiente dire che sono previste ben 56 navi del tipo LCS.
Non so se ne costruiremo 56, ma sicuramente parteciperemo al progetto. Per


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il momento, abbiamo ottenuto la seconda e ci stiamo preparando a concorrere per la costruzione di altre due. Ritengo che riusciremo ad ottenere anche queste e, quindi, dovremmo proseguire con due o tre all'anno.
Nel contempo, come sempre accade quando si è presenti sul posto, abbiamo avuto notizia che il prossimo anno gli Stati Uniti lanceranno un nuovo grande programma per la sostituzione dei mezzi di sbarco costruiti sul modello degli hovercraft, a cuscino d'aria. A questo proposito, abbiamo stretto un accordo con la Boeing, che normalmente costruisce aerei, ma in tale occasione dovrebbe fornire la tecnologia di sostegno, mentre noi ci occuperemo della parte navale. L'anno venturo, quando verrà bandita la gara, concorreremo insieme. I nostri cantieri in America sono leader per poter gareggiare. Se vinceremo la gara, dovremo fornire ottanta mezzi per un valore che si aggira intorno ai 4-5 miliardi di dollari.
Pertanto, attualmente, possiamo dire di essere presenti e ben posizionati in America. Inoltre, il nostro principale cliente per le navi da crociera si trova in America; dunque, costruiamo la maggior parte delle navi per gli americani.
Per darvi un'idea della crisi mondiale della cantieristica, vi ricordo soltanto che nel 2008, dopo il boom del 2007, si tornava al di sotto dei livelli registrati nel 2006. Nei primi cinque mesi di quest'anno - con riferimento a tutta la cantieristica - gli ordini sono stati il 90 per cento in meno rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso. Si tratta di una crisi spaventosa, che tocca soprattutto i cantieri della Corea, della Cina e del Giappone, anche se il Giappone è toccato in misura minore, perché, nella cantieristica, mantiene tutto al suo interno, avendo gli armatori. Il Giappone, infatti, non avendo materie prime trasporta molte merci e le compagnie armatrici costruiscono all'interno del Paese.
Del comparto mercantile abbiamo già parlato. La crisi ha toccato anche noi e, infatti, lo scorso anno non abbiamo preso in carico nessuna nave da crociera. In questo momento, sono due i fattori che impediscono di ricevere nuovi ordini: da un lato, le crociere vanno bene, ma per riempire le navi si sono dovuti ridurre i prezzi, e ciò porta ad avere meno margine e meno utili; dall'altro, il costo del danaro, ammesso che il denaro si riesca a trovare, è aumentato.
Abbiamo quasi la certezza che nei i prossimi anni ci saranno meno navi nuove in giro per i mari. Ripeto: da un lato, diminuiscono i margini per comprare e, dall'altro, il costo del danaro continuerà a essere alto, perché le banche dovranno almeno recuperare tutte le perdite che hanno registrato. Dunque, il mercato si ridurrà. Ad ogni modo riteniamo, comunque, di essere quelli che dovranno prendere le navi sul mercato.
A questo fine, per rendere più efficiente la nostra azienda, stiamo attuando al nostro interno una grande rivoluzione. Recentemente abbiamo firmato il contratto integrativo aziendale. Purtroppo, come capita spesso, non tutto il sindacato ci ha seguito: abbiamo firmato con CISL, UIL, UGL, ma non con la FIOM. Abbiamo posto un problema: riteniamo che nei nostri cantieri - ma oserei dire che il problema riguarda l'Italia intera - si lavori poco. Non possiamo più permetterci questa situazione, infatti, siamo quasi agli ultimi posti per la produttività.
Negli incontri sindacali, quando si afferma che i salari non sono tra i primi al mondo, sostengo che bisognerebbe calcolare il salario per le ore lavorate. A quel punto, forse, saremmo tra i primi al mondo.
Nella nostra azienda, comunque, stiamo muovendoci in tal senso. Credo che questa sia la strada giusta, sia essa oppure no condivisa anche da altre industrie. Dobbiamo organizzarci tutti quanti meglio e prendere atto che, sostanzialmente, bisogna aumentare l'efficienza. Infatti, essendoci meno prodotti e meno domanda sul mercato, la competizione sarà molto più agguerrita rispetto al passato.
Riguardo al comparto militare, non voglio tediare la Commissione, perché credo che ne sappiate più di me. Personalmente,


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penso che i budget della Difesa, anche quello degli Stati Uniti, che è il più importante, verranno ridotti nei prossimi anni. È una tendenza legata al fatto che il mondo non è più diviso come una volta e, quindi, le spinte sono minori. Esistono altri tipi di minacce, ovviamente, però credo che il modello di difesa che abbiamo immaginato in passato, in tutti i Paesi, conoscerà delle modifiche. Speriamo che se ne prenda atto.
Per quanto riguarda l'Italia - su questo punto vorrei essere piuttosto rapido - ritengo che il nostro Paese, nell'affrontare questo tipo di riflessione e di discussione su quello che può essere il proprio ruolo geopolitico e il proprio ruolo strategico in futuro, debba pensare al contributo che può dare in un'ottica più ampia, ossia europea.
Oggi il discorso non si pone, ma se immaginiamo la situazione che ci sarà tra dieci anni, è probabile che dei passi avanti, dal punto di vista dell'organizzazione, se non altro della sicurezza europea, in qualche modo saranno stati compiuti. Quando, come italiani, esprimiamo l'esigenza che l'immigrazione sia un problema europeo, di fatto stiamo affermando che la sicurezza deve essere sostanzialmente un problema europeo.
Dunque, se allarghiamo questo concetto - su ciò siamo tutti d'accordo - bisognerebbe costruire la politica per il futuro proprio su di esso, salvaguardando, da un lato, l'industria nazionale e, dall'altro, dando all'Italia un ruolo importante nello scenario costituito, perché altrimenti le decisioni strategiche verrebbero prese in altri Paesi. Per quanto l'Europa possa diventare forte, comunque passerà del tempo prima che diventi uno Stato come gli Stati Uniti.
Sul fatto che per gli occidentali la crisi sia solo una parola, mentre per gli orientali significhi pericolo più opportunità, io non sono d'accordo. Sicuramente quella degli orientali è un'altra mentalità, però - lo dico senza enfasi - dobbiamo ricordare che il superamento della crisi passa dagli Stati Uniti d'America, che comunque da soli rappresentano il 25 per cento del PIL mondiale. Si può anche criticare l'America, ma il superamento della crisi deve passare necessariamente da lì. Pensiamo, peraltro, che la situazione si risolverà abbastanza presto, conoscendo quale impegno gli americani mettono nell'affrontare i problemi.
Cito solo un esempio che si riallaccia a quanto dicevo prima sulla produttività. Rispetto ai nostri cantieri, in America, le ore lavorate secondo i contratti vigenti superano del 20 per cento quelle lavorate da noi. Abbiamo calcolato che nel complesso la produttività lì è superiore almeno di un 60 per cento rispetto all'Italia. E parliamo degli Stati Uniti, non della Corea! Questi dati, secondo me, ci devono far riflettere.
Non sono d'accordo nemmeno con quanto riportato in questa slide in cui si dice che spendere meno è selettivamente possibile; ad esempio, relativamente all'area del personale. E qui qualcuno potrebbe dire che non sono d'accordo con me stesso, ma io rispondo che anche al nostro interno ci sono delle sensibilità diverse. Non vi nascondo che, in occasione delle crisi, la prima misura che si assume in azienda è il taglio del personale. Tuttavia, se si guarda al futuro, è difficile ricostituire le risorse umane. Esse, quando ci sono, rappresentano comunque una risorsa.
Penso che, in definitiva, noi sprechiamo molto e che non dovrei essere qui a fare un pianto greco per la mancanza di risorse. Nel passato, ho avuto la fortuna o sfortuna di lavorare in tutti i settori dell'industria della difesa. Attualmente mi occupo di navi, ma fino a qualche anno fa mi sono occupato di aerei, di elicotteri e così via, pertanto credo di poter dire, quantomeno, di conoscere la situazione. Secondo me, dovremmo spendere meglio, il che a mio avviso è possibile. Il problema del personale, in un certo senso, si risolve da solo: naturalmente adesso, con la crisi, c'è più offerta di lavoro, mentre, quando l'economia tira, ci sono meno giovani sono attratti da questo tipo di impiego.
In ogni caso, occorre una politica che parta da una definizione geopolitica dello


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scenario in cui si colloca il Paese. Si pensi che per un certo periodo siamo stati o meglio siamo ancora - e questo è un vanto, perché ha contribuito alla crescita dell'industria in Italia - l'unico Paese europeo presente in tutti i programmi comunitari. Ma ciò richiede uno sforzo enorme. Per il futuro, bisogna capire se possiamo partecipare a tutti i programmi europei, in molti casi anche americani, oppure se dobbiamo concentrarci laddove abbiamo delle eccellenze da mantenere.
Tengo a sottolineare - mi sia consentita un po' di pubblicità - che sicuramente le navi rappresentano un'eccellenza mondiale, come del resto gli elicotteri. Nel comparto delle navi da crociera e dei Ferries, noi siamo i primi al mondo. Possiamo, quindi, dire la nostra in qualsiasi momento.
Mentre in Inghilterra e in Francia si dibatte di questi aspetti, da noi le discussioni, almeno negli ultimi anni, non hanno delle sedi specifiche eccetto sporadici convegni; pertanto il lavoro di questa Commissione è importante. Mi permetterei, dunque, di invitarvi a intensificare questi momenti di riflessione perché, secondo me, sono proprio questi che mancano nel Paese su un tema fondamentale come la difesa, assimilabile a quello della politica estera. La politica estera si svolgerà pure alla Farnesina, ma in misura rilevante anche in via XX settembre. L'industria, infatti, vende se, oltre che il Ministero degli esteri, ha alle spalle anche la Forza armata perché essa fornisce quelle risposte che l'industria non può dare, come ad esempio dimostrare che i mezzi sono funzionali.
Ora, una costante che riguarda sia l'Inghilterra, sia la Francia e gli Stati Uniti è che si tende a fare dei nuovi contratti che comprendono tutto il ciclo di vita della nave. In Italia si sente parlare del problema degli arsenali da quindici anni. Noi, nella scorsa legislatura, abbiamo presentato delle proposte, che tuttavia sono state respinte. In particolare, proponevamo di procedere gradualmente con vari step per non sconvolgere tutto, prevedendo, per esempio, la creazione di una società in comune con la Marina per gestire la fase di passaggio. Sembrava che si fosse adottata un'altra soluzione, che consisteva nel costituire un ente economico incaricato di gestire tali beni. Noi non intendiamo prenderci gli arsenali, ma vogliamo porre un problema la cui soluzione, probabilmente, ci porterà al futuro.
Penso che ognuno, soprattutto in un periodo di crisi come quello attuale, si stia concentrando sul suo core business. Il core business della Forza armata non consiste nel fare manutenzione ai propri mezzi oppure nell'accatastare, come succede molto spesso, pezzi di ricambio, ma probabilmente nel chiedere, al momento della stipula del contratto, che l'aereo o la nave siano in funzione per un certo periodo.
Un altro concetto importante dal punto di vista della riduzione del budget è quello che gli inglesi chiamano readiness, cioè l'approntamento dei mezzi. Vi suggerisco di chiedere, come Commissione, alle Forze armate, fatti cento i mezzi che hanno, quanti siano quelli operativi. È un aspetto importante perché se uno deve comprare cento mezzi per averne venti in funzione, forse può comprarne ottanta avendone quaranta in funzione. Come vedete, non mi sottraggo...

PRESIDENTE. Detto da lei è particolarmente apprezzato.

GIUSEPPE BONO, Amministratore delegato di Fincantieri. Penso che dovremmo essere competitivi a livello mondiale perché, al di là delle nostre idee politiche o del mondo diverso che vorremmo, non esiste un mondo ideale. Non c'è dubbio che stiamo andando sempre di più verso la competizione globale. La scelta non è stata effettuata ora, ma nel momento in cui si è deciso che la moneta era un bene svincolato dai beni materiali e, dunque, viaggiava autonomamente. Oggi si sposta alla velocità della luce, per via telematica (attraverso un computer posso effettuare in un secondo una transazione in Congo).
L'economia reale, invece, si sposta molto lentamente, non molto diversamente a come si spostava in passato. Per costruire


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un cantiere occorrono comunque cinque anni. Se confrontiamo tutto questo con la situazione mondiale, ci rendiamo conto del perché la crisi finanziaria è scoppiata indipendentemente dalla crisi dei consumi. Normalmente accadeva l'inverso: prima scoppiava la crisi dei consumi, poi quella finanziaria. Mettere insieme questi due aspetti è sempre più difficile. Le barriere, dal punto di vista della circolazione della moneta, non esistono più e, in loro assenza, non possono esistere nemmeno barriere alla circolazione delle merci. A mio avviso, pertanto, andremo sempre di più verso una competizione globale.
In un simile contesto, penso che in un Paese come il nostro, in cui ancora, per fortuna, la maggior parte del prodotto interno lordo dipende dall'industria manifatturiera, esportatrice di eccellenze, si dovrebbe riflettere sulla difesa di questa industria, non tanto in termini di sovvenzioni - che altro non sono se non «pezze a colori» - quanto investendo in ricerca, formazione delle persone e via dicendo. Sento parlare da alcuni anni di riqualificare le scuole tecniche di una volta. Secondo me, si tratta di un passaggio obbligato se vogliamo andare avanti. Naturalmente questo comporterà anche una rivoluzione dal punto di vista culturale, posto che dovremo convincere i nostri giovani a fare, ad esempio, i saldatori pagandoli magari più di un laureato per poterli invogliare ad accettare, perché altrimenti continuerebbero a preferire un impiego nei call center. La mia preoccupazione è che tra dieci anni non riusciremo a costruire le navi perché non esisteranno più i mestieri.
Riepilogando, ho già parlato delle esportazioni e dell'importanza delle Forze armate senza le quali non esporteremmo. Per fortuna, non vendiamo mine anticarro o pistole, ma sistemi di una certa dimensione. Sappiamo anche dei problemi delle esportazioni, dunque in molti casi dobbiamo lavorare direttamente fuori dall'Italia.
Vorrei ora fare qualche osservazione a proposito delle licenze di esportazione, cioè della famosa legge n. 185 del 1990. Al riguardo, sappiamo che c'è un lavorio in Europa per uniformare le diverse norme. Naturalmente, ognuno in questo settore ha, per così dire delle «pruderie» ma, di fatto, il commercio mondiale delle armi riveste un'enorme importanza. Mentre in altri settori abbiamo avuto qualche difficoltà, in questo per la verità non ne abbiamo mai incontrate, anche perché, per fortuna, possiamo esportare la nave non armata e poi saranno i Paesi di destinazione a provvedere in tal senso.
Tuttavia, vi posso dire che questo è un grave problema che, a mio avviso, andrebbe inserito nella definizione - cui ho accennato in precedenza - del ruolo che l'Italia deve svolgere nel nuovo scenario geopolitico. Non c'è dubbio, infatti, che, fornendo le armi a un dato Paese, svolgiamo una certa influenza sullo stesso perché, in primo luogo, addestriamo le persone che usano quei mezzi e che sono venute in Italia appositamente (magari in qualità di ospiti delle Forze armate e delle industrie) e, in secondo luogo, dobbiamo fornire noi i pezzi di ricambio. L'esportazione stessa, dunque, a mio avviso può diventare un elemento importante.
Sapete meglio di me che alcuni Paesi, come gli Stati Uniti e la Russia, ma anche l'Inghilterra e la Francia, hanno sempre visto l'esportazione non solo come un fenomeno mercantile, ma anche di influenza nei Paesi verso cui essa si è diretta, dove hanno delle basi eccezionali. Noi, invece, ci siamo mossi per spot, nel senso che non esiste un Paese al quale forniamo o abbiamo fornito tutto.
L'Italia ha sviluppato un grande programma di ammodernamento della difesa, tuttavia è un po' deficitaria relativamente ai mezzi per la proiezione oltremare, ossia le LPD. Il budget della Difesa aveva previsto l'inserimento di questi mezzi, che servono anche alla Protezione civile, nella programmazione al 2013. Io mi ero permesso di sollecitare il Governo ad anticiparli in quanto essi erano per noi importanti come misura anticrisi. C'è stato un po' di dibattito e sembrava che la nostra


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richiesta potesse essere accettata, ma non ha avuto seguito, probabilmente anche per motivi di bilancio.
Questo per dire, comunque, che in periodo di crisi la domanda da parte dello Stato può costituire anche un momento di forzatura e può dare più ossigeno all'industria.
Un'altra domanda che, come Fincantieri, ci siamo posti è se sia proprio necessaria questa grande rincorsa allo sviluppo tecnologico su mezzi nuovi. C'è, infatti, chi tende a dire che lo sviluppo delle tecnologie dovrebbe di fatto comportare una diminuzione dei mezzi necessari, avendo questi la possibilità di svolgere più funzioni. Io mi domando, però, se non sia vero il contrario. Invece di portare avanti questa rincorsa tecnologica all'ultimo sangue, non sarebbe meglio, soprattutto quando le ricadute civili non sono così evidenti, aumentare il numero dei mezzi, magari costruendoli meno all'avanguardia dal punto di vista tecnologico? La mancanza di una nave in un pezzo di mare si avverte; analogo discorso vale per gli aerei.
Anche in questo caso, a mio avviso, sarebbe importante chiedersi se sia opportuno operare un trade off tra tecnologia e numero dei mezzi. So che negli Stati Uniti, per esempio, si stanno riconsiderando questi aspetti e ci si interroga sull'opportunità di proseguire la rincorsa tecnologica. Finché il mondo era diviso in due blocchi il discorso aveva un senso, ma oggi l'unica minaccia teorica è la Cina e, a mio avviso, prima che questo Paese arrivi a creare dei mezzi come i nostri - ammesso che ci riuscirà - passeranno trenta o quaranta anni. Quello dei Paesi che intendono costruire la bomba atomica è, invece, un discorso diverso.
Penso di aver dato un'idea di quelle che sono le nostre posizioni. Naturalmente, resto a disposizione per rispondere a qualsiasi domanda.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Bono, per l'importante relazione riguardante questo gruppo che, peraltro, è interamente pubblico e dà lavoro a migliaia di persone in quasi tutta l'Italia. Credo che il suo contributo meriterebbe un ulteriore approfondimento e, probabilmente, avremo modo di richiedere ancora la sua presenza, anche al di fuori di questa indagine conoscitiva.
Chiedo ai colleghi di limitarsi a una domanda per gruppo e ad interventi molto brevi, perché abbiamo già superato i tempi a disposizione e dobbiamo ancora svolgere un'altra seduta in sede consultiva (a tale riguardo ringrazio il sottosegretario Cossiga per essere qui presente) e successivamente dobbiamo tornare in Aula per le votazioni.
Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

ROBERTO SPECIALE. Innanzitutto, dottor Bono, mi devo complimentare perché lei non ha la lingua biforcuta: quanto ha detto nel corso della trasmissione televisiva a «Porta a Porta» lo ha ripetuto in questa sede. Non ha ritenuto, quindi, di differenziare il suo intervento a seconda della platea di riferimento.
Ho, inoltre, apprezzato molto la chiarezza del suo intervento e gli obiettivi che lei ha delineato e mi trovo perfettamente d'accordo con lei in diversi punti. In primo luogo sono d'accordo che senza Europa non si va da nessuna parte.
Quando svolgevo un'altra professione, sono stato un assertore dei contratti per «ciclo di vita». Il destino degli arsenali non è un problema di semplice soluzione, ma va affrontato. Di primo mattino, appena mi svegliavo, mi occupavo per prima cosa dell'efficienza dei mezzi. Un reparto è operativo se è addestrato e dispone di mezzi efficienti. Se uno di questi due parametri viene meno, non si può fare nulla.
Per quanto riguarda le LPD, ho sempre sostenuto - e speriamo che anche la Commissione possa al riguardo rendersi utile - che le nostre Forze armate hanno bisogno di navi da trasporto prima ancora che di portaerei. Questo è ancora più vero in considerazione del tipo di missione, soprattutto di proiezione, che


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debbono svolgere. Infine, concordo con quanto affermato a proposito della rincorsa tecnologica: non c'è bisogno di una corsa spasmodica al giocattolo più prezioso e più costoso in un dato momento, poiché gli strumenti a disposizione sono ancora utili.

PIER FAUSTO RECCHIA. Grazie, dottor Bono, per la sua relazione che è stata particolarmente interessante. Lo è stata ancora di più per noi che abbiamo qualche difficoltà a vedere «Porta a Porta» e, ultimamente, persino a seguire il TG1. Ritengo il suo intervento illuminante e molto interessante dal punto di vista degli scenari di crescita, soprattutto per quanto ci ha detto riguardo gli Stati Uniti.
Effettivamente la sua relazione meriterebbe un approfondimento. Lei, infatti, ha fatto riferimento a quello che potremmo definire come il livello di ambizione del Paese sullo scenario internazionale. È di tutta evidenza che questa riflessione meriterebbe un'analisi ulteriore anche da parte della nostra Commissione, posto che, la politica estera cammina indiscutibilmente di pari passo con la politica di difesa.
Naturalmente, questa relazione rientra nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'acquisizione dei sistemi d'arma, che ha già evidenziato diverse problematiche. Infatti oggi ci troviamo di fronte a programmi pluriennali che si protraggono oltre la durata del Parlamento - forse questo è anche normale - e del Governo, poiché durano quindici o anche venti anni. È gioco forza, quindi, che, ogni volta, il ministro di turno impieghi un po' di tempo prima di capire di che cosa si tratta.
Quando fa riferimento a questo tipo di riflessione, che in qualche modo riporta il Governo al centro della vicenda politica e strategica sui sistemi d'arma, secondo me lei ci invita a rivedere in parte il sistema e l'iter tramite i quali noi acquistiamo i medesimi sistemi d'arma, indirizzando persino la discussione sul modello di difesa. Infatti, dal momento che durano nel tempo, i programmi, in una certa misura, condizionano anche il modello difensivo, a prescindere dalla scelta politica. Penso, dunque, che alla fine di questa indagine dovremmo avviare una riflessione seria sull'iter da adottare.
Volevo chiederle, inoltre, se, per le aziende, non sia più conveniente e più opportuno avere una programmazione certa dal punto di vista delle risorse e della durata anziché avere delle oscillazioni nell'ambito di risorse che raggiungono determinati picchi e poi scompaiono nonché programmi pluriennali che si allungano nel tempo e nell'incertezza. In altri termini, è più importante disporre di una quantità di ordini più ridotta con una pianificazione certa o, piuttosto, come è stato finora, di una quantità più grande, ma in tempi che si modificano?
Infine - sempre in relazione all'iter che le istituzioni dovrebbero utilizzare per l'acquisizione dei sistemi d'arma - vorrei chiederle, proprio in virtù della sua esperienza sullo scenario internazionale, se c'è un modello, da lei verificato, che in qualche modo auspicherebbe per il sistema italiano.

GIUSEPPE BONO, Amministratore delegato di Fincantieri. Per la verità, non sono un frequentatore di salotti televisivi; sono stato invitato alla trasmissione perché si parlava delle eccellenze dell'industria italiana, una delle quali, con molto orgoglio, rappresento. Normalmente si tende ad essere ottimisti, ma io ho cercato invece di non esserlo.
Quello che lei ha detto sulla durata dei programmi, onorevole Recchia, rappresenta a mio avviso il cuore del problema. Infatti interessa tutti i Governi e i nuovi, di solito, si ritrovano programmi ideati da altri. La verità - parlo nuovamente senza lingua biforcuta, perché penso che la mia esperienza me lo consenta, soprattutto in una Commissione parlamentare - è che in tutto il mondo occidentale tale durata è al di fuori di qualsiasi controllo. La pianificazione iniziale non è mai rispettata, forse per la difficoltà dei programmi stessi, ma anche per la tendenza umana ad allungare


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i tempi, che in qualche modo assicura anche la permanenza in un posto di lavoro.
Peraltro, non solo i programmi si protraggono nel tempo, ma costano anche enormemente di più rispetto alle previsioni iniziali. Pertanto, ogni nuovo Governo deve farsi carico del programma ed aumentare il budget. Questo, tuttavia, non è solo un problema italiano, ma è comune in tutto l'occidente. In Inghilterra, per esempio, ogni tanto il procurement (MoD) si stanca della situazione e per arginare il fenomeno si inventa una serie di procedure; ricordo che una decina anni fa fu introdotta una procedura definita smart procurement, ma non ha dato risultati particolarmente positivi.
Il problema, dunque, riguarda anche l'industria. Spesso molti programmi servono - questa volta parlo da consulente, altrimenti dovrei dire anche altro - per mantenere, dietro il discorso tecnologico, poca occupazione, magari qualificata, oppure con ricadute che non sono al livello tecnologico dell'investimento effettuato.
Conosciamo programmi italiani per lo sviluppo che durano venti anni, il che è assurdo: aerei programmati negli anni Ottanta, cioè in un altro scenario, devono essere acquistati quasi dopo trent'anni! Lo stesso vale per altri tipi di mezzi.
Negli Stati Uniti il discorso è analogo, ma con una differenza rispetto all'Europa e, relativamente al caso che ho citato, all'Inghilterra: in America il budget viene deciso dal Presidente, ma le Commissioni parlamentari hanno l'ultima parola e possono stabilire il limite massimo. Oggi, per esempio, stiamo concorrendo per le LCS, per le quali è stato stabilito il limite massimo d'acquisto. Tale limite riguarda sia la Forza armata - alla quale il costo interessa relativamente - sia l'industria. Non so se saremo in grado di rispettarlo e, comunque, bisogna anche valutare se si tratta di un limite giusto, perché in caso contrario si rischierebbe di non riuscire nemmeno a realizzare il proprio obiettivo. Intanto, però, si apre un dibattito.
Frequento da un po' di tempo questa Commissione e so che, da sempre, uno dei dibattiti tipici, nei confronti del Governo riguarda chi deve stabilire i limiti del budget. Naturalmente il funzionamento del nostro Parlamento è diverso. Abbiamo la finanziaria, il bilancio; inoltre da noi le Commissioni hanno un valore più che altro consultivo. Molto dipende, dunque, dall'organizzazione dello Stato. Questo, comunque, è un problema mondiale, che dovrebbe essere inserito nel discorso geopolitico di cui abbiamo detto.

AUGUSTO DI STANISLAO. Ringrazio il dottor Bono, per essere intervenuto. Mi sto acculturando sempre più rispetto alle questioni discusse in Commissione, ma - a quanto vedo - abbiamo sempre meno strumenti per poter intervenire: credo che questa sia la difficoltà più grande.
La sua relazione è bella e ammaliante, ma vorrei chiederle se, con un livello ridotto di investimenti, è possibile mantenere una capacità competitiva, attraverso ricerca e sviluppo, che non ci faccia passare in secondo piano rispetto agli altri partner.

GIUSEPPE BONO, Amministratore delegato di Fincantieri. La risposta è nell'equilibrio tra tecnologia e mezzi. È vero che il Paese è quello che è, ma è anche vero che il Paese siamo tutti noi, ogni giorno. Dobbiamo ricordare con orgoglio che l'Italia, nonostante i problemi di budget eccetera, è riuscita a portare una forza importante in Libano in solo otto giorni; credo che sarebbe stato difficile in altri Paesi.
Secondo me, le nostre Forze armate non sono più quelle di una volta perché l'integrazione, le collaborazioni con la NATO e con gli altri Paesi hanno ovviamente, elevato anche il livello culturale e introdotto cambiamenti.
Naturalmente, come diceva il generale Speciale, abbiamo bisogno di alcuni mezzi. Oggi abbiamo la portaerei, ma servono anche le forze di proiezione. Tenete conto che la nostra portaerei equivale a quattro navi, essendo dotata di sistemi di comando e controllo della flotta e ed essendo in grado di trasportare truppe anche da


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sbarco. Possiamo dire di aver fatto il massimo per dare alla Marina italiana una nave che potesse soddisfare contemporaneamente più esigenze, sostituendo addirittura quattro navi.
Tuttavia, secondo me, è necessario realizzare subito altre navi: dovendole comunque costruire, è meglio farlo oggi, che andiamo contro la crisi, piuttosto che tra due anni, quando magari questa situazione sarà superata. Le costruiremmo comunque volentieri, ma ci sarebbero meno utili per superare il momento di difficoltà.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Bono e i colleghi intervenuti.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,20.

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