Camera dei deputati

Vai al contenuto

Sezione di navigazione

Menu di ausilio alla navigazione

Cerca nel sito

MENU DI NAVIGAZIONE PRINCIPALE

Vai al contenuto

Per visualizzare il contenuto multimediale è necessario installare il Flash Player Adobe e abilitare il javascript

Strumento di esplorazione della sezione Lavori Digitando almeno un carattere nel campo si ottengono uno o più risultati con relativo collegamento, il tempo di risposta dipende dal numero dei risultati trovati e dal processore e navigatore in uso.

salta l'esplora

Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

Torna all'elenco delle indagini Torna all'elenco delle sedute
Commissione V
2.
Giovedì 9 febbraio 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE - ANALISI ANNUALE DELLA CRESCITA PER IL 2012 E RELATIVI ALLEGATI (COM(2011)815 DEFINITIVO)

Audizione di esperti:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3 12 16 22 25 29 36
Carpanzano Emanuele, Primo ricercatore del CNR e direttore del consorzio europeo Synesis ... 12 33
D'Amico Claudio (LNP) ... 26
Duilio Lino (PD) ... 26
Marchi Maino (PD) ... 25
Pareschi Giovanni, Direttore dell'INAF - Osservatorio astronomico di Brera ... 16 31
Petroni Giorgio, Rettore dell'Università di San Marino ... 22 29
Rocca Gianfelice, Presidente del gruppo Techint ... 3
Rubinato Simonetta (PD) ... 27
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.

COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 9 febbraio 2012


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

La seduta comincia alle 15,35.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di esperti.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nel quadro dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame della comunicazione della Commissione - Analisi annuale della crescita per il 2012 e relativi allegati (COM(2011)815 definitivo), l'audizione di esperti.
Sono presenti il professor Emanuele Carpanzano, primo ricercatore del CNR e direttore del consorzio europeo Synesis, il professor Giovanni Pareschi, direttore dell'INAF - Osservatorio astronomico di Brera, il professor Giorgio Petroni, rettore dell'Università di San Marino, e il dottor Gianfelice Rocca, presidente del Gruppo Techint.
Oggi, dopo il primo incontro con i rappresentanti dei sindacati, tenutosi il 7 febbraio scorso, prosegue l'indagine conoscitiva nell'ambito della comunicazione della Commissione relativa all'analisi annuale della crescita per il 2012 e ai relativi allegati. Quest'anno abbiamo voluto allargare lo spettro delle testimonianze rispetto a quelle - per così dire - tradizionali dei rappresentanti del mondo economico con alcuni soggetti che potessero portare un contributo anche innovativo e originale ai nostri lavori, che normalmente, avendo la Commissione bilancio competenze di carattere economico, si svolgono entro determinati sentieri.
Voi avete ricevuto anche una sorta di traccia degli argomenti di interesse connessi all'Analisi annuale della crescita per il 2012, ma è evidente che il vostro contributo potrà spaziare in ogni settore e investire ogni questione che, a vostro giudizio, possa dare un contributo significativo alla crescita e, quindi, ai nostri lavori e al documento finale che noi, come Parlamento, siamo tenuti istituzionalmente a fornire.
Ringrazio anche i colleghi presenti, che hanno colto l'importanza e la pregnanza di questo momento. Il primo contributo odierno è quello del professor Gianfelice Rocca, presidente del gruppo Techint. Do, quindi, la parola al professor Rocca, che ringrazio per essere con noi.

GIANFELICE ROCCA, Presidente del gruppo Techint. Ringrazio il presidente. Ho un passato di astrofisico ad Harvard e ho


Pag. 4

ricevuto una laurea honoris causa in Ingegneria dal Politecnico di Milano, ma mi manca il titolo di professore. Vorrei condividere con voi, approfittando di questa occasione e ringraziandovi dell'invito, alcune riflessioni che nascono da una considerazione di carattere imprenditoriale.
Il gruppo Techint ha in Italia e in Europa circa il 7-10 per cento della propria attività. Nel complesso dei Paesi sviluppati abbiamo circa il 30 per cento della nostra attività, mentre il resto è localizzato nei Paesi cosiddetti in via di sviluppo, quali Brasile, Messico, Argentina, Cina e India. Abbiamo una presenza forte anche in Germania, ragion per cui molte delle mie osservazioni nascono dai confronti intra-europei. È da quest'ottica che guardo al tema italiano, oltre che dall'ottica della mia esperienza in Confindustria.
Partendo dalle domande contenute nel documento che ci avete trasmesso, ritengo che molte di esse ricadano in una visione sistemica nella quale vanno collocati i singoli aspetti dell'argomento.
Ho visto l'applicazione di simili dinamiche in questi ultimi anni in Germania. Vi ricordo che la Germania fino al 1995 era considerata il cosiddetto böse Kind, il malato dell'Europa, ma poi ha varato numerosi provvedimenti, prima con il cancelliere Schröder, poi con il Governo di grande coalizione presieduto da Angela Merkel che l'hanno portata a essere oggettivamente l'economia che si è comportata meglio nel periodo caratterizzato dalla «globalizzazione» e dalla Information Technology Revolution.
Occorre riflettere su ciò che ha fatto la Germania, che aveva un saldo della bilancia commerciale negativo e un tasso di disoccupazione piuttosto elevato, e che oggi si trova ad avere un surplus del 5-6 per cento e una crescita della popolazione attiva, che è passata dal 60-62 al 71 per cento del totale. Mentre gli Stati Uniti declinavano, la Germania cresceva.
Io aggiungo che in Germania, che registra una crescita in un contesto caratterizzato dalla globalizzazione, a differenza di quello che è successo negli Stati Uniti, l'ineguaglianza non è cresciuta come in altri Paesi. Questo è un tema importantissimo, che io tendo ad attribuire anche al ruolo importante svolto dal settore manifatturiero.
Quando il settore manifatturiero svolge un ruolo vitale, ciò consente di preservare una minore diseguaglianza. I posti di lavoro che si perdono nel settore manifatturiero - in quello evoluto evidentemente, non in quello a basso contenuto innovativo - vengono recuperati nel comparto dei servizi a minor retribuzione oraria.
È un grande tema, che cito perché anche nella elaborazione della strategia italiana per rispondere a tutti i temi affrontati dalle question che ci avete sottoposto con metodo benedettino prima dell'audizione, si pone la necessità di avere una visione dell'Italia.
Quale è la vision che noi abbiamo in prospettiva dell'Italia per gli anni dal 2020 al 2025? Ciò che manca profondamente, e cui forse anche la vostra Commissione può supplire, è una visione strategica del nostro Paese. Sappiamo che stiamo attraversando una crisi, ma manca totalmente una letteratura che ci indichi quale sarà la nostra situazione in Europa - e in un mondo globalizzato - nei prossimi dieci anni. Nonostante l'abbondanza di centri studi di cui disponiamo, da quello della Banca d'Italia a tanti altri, che peraltro studiano profondamente l'aspetto finanziario dell'economia ma non quello industriale, manca profondamente un'analisi di come possa essere il Paese da oggi a dieci anni e di che cosa bisogni fare. È molto diversa la strategia di un Paese che legge il proprio futuro in una maniera o in un'altra.
Io faccio parte di un gruppo creato negli Stati Uniti dal presidente Obama con il MIT che studia il remanufacturing degli Stati Uniti. Il problema che si pongono gli Stati Uniti e il MIT è il seguente: perché, pur producendo conoscenze scientifiche ai più alti livelli nel mondo, non riusciamo ad applicarle nel sistema produttivo.
Per ogni iPad che viene prodotto e comprato negli Stati Uniti la bilancia dei pagamenti americana registra un deficit di 200 dollari. Tutte le componenti chiave


Pag. 5

dell'iPad sono prodotte a Taiwan e in Giappone, e le batterie in Cina. Mediamente in Cina si spendono tre dollari in termini di costi di assemblaggio dell'iPad nei grandi impianti della Foxconn, dove lavorano 700 mila persone. Su 700-800 mila persone che lavorano intorno alla produzione della Apple solo 27 mila sono negli Stati Uniti.
Questo è un modello di sviluppo, che peraltro ha al centro un dato tipo di finanziamento della ricerca, che io definisco modello di sviluppo basato sull'high hi-tech, dove si concentra nell'innovazione rivoluzionaria il modello di un Paese che pensa di fare fronte o di stare nel mercato globalizzato attraverso questo tipo di differenziazione altissima, cioè appunto attraverso lo sviluppo del settore high hi-tech.
Il modello basato solo sull'high hi-tech nella mia visione porta a una situazione di polarizzazione della ricchezza enorme. Si valuta, e molti di voi lo sanno, che il differenziale di ricchezza creata in questi anni - gli Stati Uniti sono cresciuti più dell'Europa - sia andato di fatto a vantaggio del 10 per cento della popolazione e che il 50 per cento di tale ricchezza sia arrivato all'1 per cento della popolazione. È un modello finanziario e supertecnologico che finisce per creare un modello sociale caratterizzato da enorme diseguaglianza, la cui conseguenza è costituita dalla mancanza della classe media, dalla caduta dei consumi, e dalla necessità di finanziare la classe media con meccanismi drogati, come è stato il caso dei subprime e di tutto il sistema di finanziamento della casa, da cui è derivata la crisi finanziaria.
Ho sempre sostenuto in altre sedi che la crisi finanziaria era figlia di una crisi del modello industriale e non era la causa della crisi finale. Le crisi finanziarie sono spesso le conseguenze più che le premesse di certi accadimenti. La finanza rappresenta le briglie e non il cavallo, come la schiuma della birra non è la birra.
C'è un tema di fondo. Il modello su cui vi pregherei di riflettere è quello di una società, riscontrabile parzialmente anche in Italia, basata su un sistema produttivo in cui prevale il settore medium hi-tech, con alcune isole di high hi-tech. Il nostro sforzo dovrebbe essere teso a cambiare la matrice del nostro portafoglio di prodotti oppure a difendere e a sviluppare la produzione caratterizzata dalla componente medium hi-tech, quella che è aumentata nelle esportazioni tedesche. Il primo prodotto di tale componente sono le automobili, poi ci sono le macchine utensili e via elencando.
Il settore medium hi-tech è ricchissimo di innovazione incrementale ma non di innovazione «rivoluzionaria». Per darvi un'idea, l'Italia ha una produzione scientifica per capitale dell'ordine dell'80 per cento di quella degli Stati Uniti, il che non è male, misurata in termini di impact factor, di citation factor e di parametri di questo genere.
La Germania in passato era molto meno avanzata in questo senso, ma oggi ha raggiunto gli Stati Uniti. La percentuale di nuovi brevetti in Germania rispetto agli Stati Uniti è del 150 per cento, mentre la nostra è del 30 per cento. Noi, che non siamo messi male dal punto di vista della produzione scientifica, non abbiamo in questa produzione la passione per svolgere una ricerca che si ponga l'obiettivo di cambiare il mondo intorno a sé. Chiunque si aggiri nelle sale del MIT percepisce che gli scienziati che lavorano per tale istituto, quando risolvono un problema complesso anche a livello di ricerca di base, risolvono, in realtà, un grande problema che riguarda tutta l'umanità, un problema di portata mondiale.
Questo modello, basato sul settore medium hi-tech con una componente high hi-tech e connotato da un forte desiderio di cambiamento, è uno dei grandi temi per la visione futura dell'Italia, su cui devono inserirsi le regole politiche.
Per esempio, il progetto Industria 2015 che avevamo elaborato con l'ingegner Pasquale Pistorio, aveva proprio lo scopo di collegare le università alle imprese intorno a grandi temi, che sono quelli che anche l'Unione europea ha riproposto attraverso il programma di ricerca e innovazione «Horizon 2020».


Pag. 6


Il fatto di avere una visione strategica del Paese e di costruirla consente di selezionare e poi di compiere le scelte in funzione di tale visione. Senza una visione strategica si distribuiscono le risorse in modo dispersivo. Questo è un grande tema che volevo porre alla vostra attenzione: molti dei quesiti che avete posto hanno risposte differenti in funzione della visione del Paese che viene presa in considerazione. Si possono attuare anche riforme abilitanti in termini orizzontali, cioè riforme trasversali che comprendono molti altri aspetti.
Negli Stati Uniti è ripreso il dibattito sulla politica industriale, che è stato considerato un tema non nominabile per molti anni. Molti hanno ripreso l'argomento, parlando di una politica industriale che non sia solo, per esempio, la politica del settore tessile, ma che tenga conto anche dei fattori abilitanti. Ci si è chiesti cosa occorra per far crescere le nanotecnologie, che servono a tutte le aziende in maniera trasversale e, quindi, le piattaforme di ricerca da finanziare.
Questa politica delle challenge europea è molto interessante e pone un altro problema rispetto all'impostazione della nostra politica economica, come quella di cui discutiamo oggi, ossia in che modo le nostre politiche economiche si collegano con quelle europee anche in termini di interventi per la crescita.
Uno dei programmi di ricerca di rilevante interesse nazionale (PRIN) che stiamo finanziando in questo momento studia quale sia la misura in cui i finanziamenti ci facilitano ad accedere meglio ai fondi europei, laddove sono disponibili molte risorse. Noi sappiamo che abbiamo una situazione critica per quanto riguarda le disponibilità di cassa e che dobbiamo allenarci per correre meglio su quei versanti. Possiamo farlo in modo coordinato, con quelle che io chiamo politiche industriali.
Vi ricordo che la Germania ha attuato su questo terreno alcune iniziative interessantissime, per esempio nella riforma scolastica, che, come voi sapete, io ho seguito più da vicino. Che cosa hanno fatto per i settori medium hi-tech e high hi-tech? Poiché tutte le università sono nei Länder, questo aspetto pone un problema con riferimento al federalismo molto interessante. Le università e le scuole hanno reagito molto bene, cambiando profondamente, comprese le scuole medie e quelle tecniche. Il Governo federale tedesco ha deciso di erogare 2 miliardi di euro distribuendoli fra 20 dipartimenti d'eccellenza, scegliendoli mediante una valutazione comparativa rispetto a tutti i grandi centri di ricerca europei e ha creato una competizione fra le università, che sono invece gestite a livello periferico. È un interessante modello, che può anche creare competizione volta al miglioramento delle grandi tecnologie. Si tratta di un esempio di grande interesse.
Perché in Germania la scuola è cambiata molto? Quando prese parte al programma PISA (Programme for international student assessment), un assessment dei ragazzi di 15-16 anni, la Germania risultò nella media OCSE, ma si parlò di un PISA shock. Il risultato non esaltante fu ampiamente commentato da tutta la stampa tedesca e partì una competizione tra le scuole dei Länder, che portò a modifiche profonde del sistema scolastico. Ci furono scuole che aumentarono la durata dei loro corsi di un anno.
È cambiato moltissimo in questo periodo, per esempio, il rapporto fra scuola e imprese. La Germania ha reagito e oggi ha recuperato notevolmente in termini di risultati nel programma PISA e anche in molti altri fattori.
Ciò che colpisce della Germania - vi spiegherò poi perché, secondo me, parlare di questo Paese è indispensabile - è che si tratta di un sistema adattativo, un sistema molto vicino al mondo delle imprese. È il Paese che ha maggiore capacità di fare sistema, che si adatta e collabora, ivi compresi la scuola e gli studenti. Noi riceviamo nelle nostre aziende tedesche i ragazzi, mediamente di due anni più giovani, che hanno già un'esperienza di lavoro che va dai 6 ai 18 mesi di contatto con le imprese attraverso i contratti di apprendistato intelligente. È obbligatorio,


Pag. 7

infatti, per le imprese tedesche assumere almeno un apprendista su tre, altrimenti si subiscono forti penalizzazioni.
È un sistema piuttosto interessante da questo punto di vista, profondamente adattativo e che quindi rappresenta una garanzia per un Paese che si muove collettivamente e in modo coordinato.
Il tema di fondo che si presenta adesso davanti a noi in Italia è un tema che io considero di importanza notevole. Ho citato questo come metodo di approccio, però noi stiamo per affrontare uno dei passaggi più difficili della storia italiana.
Noi abbiamo vissuto, come gruppo industriale, esperienze totalmente diverse, che non vorrei fossero portate a esempio, anche perché sono state esperienze drammatiche, in Paesi come l'Argentina, - nel periodo in cui vigeva il tasso di cambio fisso col dollaro, e si scatenò la grande crisi argentina - e il Messico, dove io ho vissuto, e dove si sviluppò la famosa «crisi della tequila». Stiamo parlando del 1995 circa.
Qual è il quadro di fondo? In un sistema economico basato sulla moneta unica si deve andare alla velocità del centro più potente e più veloce, altrimenti si incontrano difficoltà. Quando si sceglie di andare a correre su quel terreno, è come correre su un tapis roulant: occorre correre a quella velocità per non rischiare di cadere.
Il tema dell'Europa è grave, perché riguarda il sistema di adattamento in Europa di un'area debole o che perde velocità. Se questo succede in Alabama, vi riparano sistemi di aggiustamento automatico all'interno degli Stati Uniti, perché il 95 per cento delle tasse americane si paga a livello centrale, secondo i principi contabili dell'IFRS (International financial reporting standards). L'Alabama, che sta attraversando un periodo di crisi, paga poche tasse, ma continua a beneficiare delle politiche di welfare che sono gestite a livello centrale.
Il sistema europeo, invece, è prociclico, non anticiclico. Inoltre, gli Stati Uniti possono contare sulla mobilità delle persone: se l'Alabama va male e il Texas va bene, le persone si trasferiscono.
Da noi il trasferimento è reso difficilissimo da mille ragioni e comportamenti e il sistema è prociclico, perché l'Italia ha un deficit di bilancio e aumenta le sue politiche di austerity creando un sistema che favorisce la recessione. Stiamo andando verso una chiara asfissia della domanda, perché la domanda interna non può, in questi casi, che decrescere, dal momento che le persone perdono potere d'acquisto, temono la disoccupazione e perdono il lavoro.
Per darvi un'idea, in Argentina negli ultimi due mesi della crisi le entrate relative all'IVA scendevano al ritmo del 20 per cento al mese. L'implosione economica è dovuta al fatto che, a mano a mano, diminuendo l'attività economica viene meno il prodotto interno. Il nostro problema attiene al tema della crescita ed è il denominatore del rapporto tra debito e PIL.
Ricordo che gli Stati Uniti - il cui debito pubblico dopo la seconda guerra mondiale era al 200 per cento del PIL - solo per due anni della loro storia hanno registrato un surplus primario di bilancio. Con la crescita hanno esteso il debito, lasciando intatto il numeratore. Questi sono i grandi temi che noi abbiamo davanti.
Perché parlare del rapporto con la Germania? Noi siamo nel mercato unico e competiamo con la Germania, che ha similitudini con noi in molti settori, per esempio, la meccanica. Ricordo che attualmente il 60 per cento delle esportazioni tedesche è destinato ai Paesi dell'Unione europea. Anche il nostro Paese in passato registrava una percentuale simile.
Cosa è successo? La Germania ha svalutato rispetto all'Italia. Quando uso il termine «svalutato» intendo la svalutazione interna della moneta unica, il costo del lavoro per unità di prodotto, il cosiddetto CLUP, che è considerato l'equivalente delle svalutazioni interne.
La Germania ha svalutato rispetto all'Italia del 30 per cento nel momento in


Pag. 8

cui è stato adottato l'euro. La produttività, l'efficienza di sistema, fa sì che il costo del lavoro per unità di prodotto sia diminuito del 30 per cento. Immaginatevi un Paese di quella potenza che scambia con noi il 60 per cento dei prodotti, che svaluta del 30 per cento. Non a caso, le esportazioni italiane nell'Unione europea, che rappresentavano il 62 per cento del totale delle nostre esportazioni, sono scese al 58 per cento, mentre quelle tedesche sono rimaste uguali. Poiché abbiamo una moneta unica, se il CLUP va avanti così, il nostro Paese avrà delle difficoltà.
È questione di tempo e non solo: noi vedremo gli spread non scendere nel medio termine, perché la gente ha dubbi sulla nostra tenuta di lungo periodo. Non è solo un problema della nostra tenuta nel breve termine.
Se questo è il tema, noi dobbiamo considerare, ai fini del miglioramento della nostra situazione, l'arco temporale rappresentato dai prossimi dieci anni, perché il cambio di questi fattori da parte della Germania è avvenuto in dieci anni. I risultati veri si sono espressi quasi dieci anni dopo gli sforzi che ha compiuto. Noi dobbiamo avere una politica buona, che persegue le iniziative buone che stiamo realizzando e che deve avere gambe politiche per durare nei prossimi dieci anni, senza farsi condizionare dai mille interessi che l'hanno resa difficile o impossibile nel passato. Questa è una sfida per il Paese, per la politica, per i partiti, per il Governo tecnico, per la cultura, che, a mio vedere, è il fronte su cui ci sarà moltissimo da fare.
Vi ricordo che l'Italia, proprio per questa perdita di competitività, mentre in passato ha avuto un surplus dell'1 per cento nel conto delle partite correnti della bilancia dei pagamenti, oggi registra, con riferimento a tale conto, un saldo negativo del 3 per cento, uguale a quello americano.
Noi abbiamo criticato gli Stati Uniti per il twin deficit, ossia il deficit dei conti pubblici e il deficit dei conti con l'estero - avevano il 5 per cento e sono risaliti al 3 per cento e ora stanno di nuovo un po' peggiorando - ma noi abbiamo davanti a noi dei numeri che io ritengo debbano essere cambiati. Alcuni sono da cambiare per non cadere nell'asfissia finanziaria: parlo dello spread tra i Btp decennali e Bund e del credit crunch.
Questo è un tema su cui riflettere. Le aziende sono oggi assalite da questi problemi, ossia dalla mancanza di domanda interna e da una domanda europea modesta, perché il centro dell'Europa non sta facendo una politica espansiva, a differenza di quello che è successo negli Stati Uniti.
Viviamo un periodo in cui le imprese, che sono quelle che devono tenere in piedi il Paese, perché il PIL è generato dalle imprese, oggi sono sottoposte a una pressione veramente fortissima. Uscire da questa situazione, che è chiaramente recessiva e senza la possibilità di ricorrere alla svalutazione, perché noi siamo abituati a gestire queste situazioni senza la svalutazione, è un tema colossale. Abbiamo davanti a noi un compito veramente enorme, perché dobbiamo depurare un fenomeno che viene dal passato e diventare più simili al Nord Europa, che ha tradizioni differenti dalle nostre.
In altre sedi ho affermato che, mentre noi italiani siamo entrati nell'euro, ma abbiamo continuato a comportarci come se avessimo la lira, i tedeschi sono entrati nell'euro, che era una moneta più debole del marco, e hanno continuato a comportarsi come se fossero nel marco e ciò ha creato la situazione che noi abbiamo davanti in questo momento. Vorrei che fosse chiaro che noi possiamo abbassare lo spread e risolvere alcune questioni, ma siamo all'inizio di un'operazione che deve durare un decennio per non fallire e dare credibilità al Paese.
Con i numeri che abbiamo davanti, se non riusciamo a invertire il CLUP, se non riusciamo a invertire l'andamento dello spread e se non riusciamo a equilibrare la bilancia commerciale, il Paese avrà problemi evidenti. Sono numeri che si devono tenere davanti e devono considerarsi sintomi su cui noi dobbiamo agire.


Pag. 9


Vengo alla pars construens di questa relazione, dopo la parte critica: quali sono i temi più importanti? Il primo grande tema, richiamato anche nei vostri quesiti, è in realtà costituito da una catena di interventi in materia di semplificazione, di riduzione del peso e dell'invadenza dello Stato nell'economia e nella società.
In merito alle spese correnti, ritengo che sia assolutamente necessario ridurle. In Italia le spese correnti sono aumentate dal 37 al 42 per cento mentre in Germania sono scese dal 42 al 38 per cento. Le spese correnti sono un sintomo, oltre che essere un male, perché sono figlie dei tempi che le imprese e i cittadini dedicano per risolvere o affrontare determinate situazioni.
Noi abbiamo tempi della giustizia infiniti, che si traducono in costi, vista la quantità di persone che si occupa di questi temi, per esempio gli avvocati, Noi abbiamo tempi di rilascio delle licenze che sono infiniti, doppi, tripli, quadrupli di quelli necessari. Si è prodotto di tutto, in termini di regolamentazione dei servizi pubblici, e ciò incide sul tempo a disposizione dei cittadini.
Il tempo condiziona la produttività e noi abbiamo una crisi di produttività. È importante che riduciamo i tempi. La catena di azioni da intraprendere, richiamata nei vostri quesiti, è infinita, ma le parole chiave dovrebbero essere le seguenti: deregolamentazione, sburocratizzazione, semplificazione e information technology, ossia informatizzazione.
Attenzione, però: tutto questo significa che occorrono meno teste. Spesso si pensa di poter raggiungere questi obiettivi in forma indolore e questo ha bloccato sempre le iniziative. Purtroppo la razionalizzazione della spesa pubblica comporta una netta riduzione del numero degli impiegati pubblici. Essendo servizi a forte densità di impiego di manodopera, non esistono strade alternative e, quindi, pur essendo doloroso, terribilmente doloroso, occorre tagliare la spesa.
Sappiamo che è una manovra pro-recessiva, ma necessaria. Tutti i cittadini e anche molte imprese sono abituati a credere che, domandando un aiuto allo Stato, ci si possa tirare fuori dalla crisi. Oggi bisogna imparare a cavarsela molto da soli e diventare più forti facendo affidamento su se stessi, tenendo presente, però, che la riduzione della spesa corrente non sarà indolore; comunque, è necessario ridurla, perché la spesa corrente comporta tasse, che sono troppo alte per chi le paga. È un sistema che oggettivamente non incentiva le imprese.
Occorre, inoltre, considerare il tema della spending review. Ho alcune perplessità sulla spending review, richiamata anche nei vostri quesiti, per la ragione che, se non si cambia la macchina, la spending review è marginale. Occorre cambiare il Titolo V seconda parte della Costituzione, ossia il rapporto tra Stato, regioni e province. Se non si tocca tutta la struttura della macchina dello Stato, se non si tocca la struttura della legge civile, se non si torna, quando si parla di finanziamento, a determinate normalità nei pagamenti dello Stato, tutta la macchina dello Stato si inceppa. Peraltro, essa favorisce anche un interventismo della politica e dei partiti che a volte porta alla corruzione, perché tutta questa burocrazia invasiva offre il destro a qualunque intervento di questo tipo.
Occorre fare una rivoluzione copernicana. Non si può parlare di spending review senza parlare anche di rivoluzione e di costruzione da zero di un nuovo Stato, che è una situazione che vediamo realizzarsi in altri Paesi. Altrimenti, secondo me, noi vedremo grandi battaglie con risultati assolutamente marginali e del tutto insufficienti. Non si tratta di piccoli aggiustamenti, ma di colossali cambiamenti.
Ovviamente l'evasione fiscale è un tema che a noi sta estremamente a cuore e che anche alle imprese sta estremamente a cuore, per due ragioni, sia perché le tasse sono altissime, dal momento che abbiamo una spesa corrente altissima, sia perché le pagano relativamente pochi rispetto alla massa che dovrebbe pagarle. È un tema fondamentale.


Pag. 10


In secondo luogo, l'evasione è concorrenza sleale. Dietro l'evasione fiscale c'è la concorrenza sleale. Se noi concorriamo con aziende internazionali che pagano interamente le tasse e le nostre aziende ne pagano soltanto una parte, questa è chiaramente concorrenza sleale.
La riforma fiscale è certamente un'altra gamba, ma è importantissima e va realizzata. Se voi mi chiedete qual è una delle strade più drammatiche per realizzarla in modo chiaro, rispondo che bisogna considerare lo stato patrimoniale. Il giorno in cui gli italiani dovranno redigere lo stato patrimoniale, e quindi spiegare la loro situazione in termini di flussi di cassa, avremo la dimensione fiscale di ognuno di noi. Chi si occupa delle aziende sa che esse si guidano utilizzando il conto economico, il cash flow e gli stati patrimoniali.
Noi pretendiamo di compiere queste operazioni senza ricorrere allo stato patrimoniale. Noi siamo favorevoli al fatto che le tasse devono spostarsi di più sulla dimensione patrimoniale e sull'IVA sui consumi rispetto all'IRAP e alle tasse sul lavoro. Ricordatevi, però, che le persone che assumiamo e a cui diamo, per esempio, 100 euro come stipendio netto, all'azienda costano 210-220 euro ciascuna. È drammatico sapere che io assumo un giovane e gli do 100 euro, ma che all'azienda tale giovane costa 210 euro. Sono proporzioni che pongono in difficoltà le aziende e che rappresentano il cosiddetto cuneo fiscale.
Se conserviamo il sistema attuale, non riusciamo evidentemente a fare scendere il costo del lavoro per le imprese. Il cuneo fiscale scende se scende la spesa corrente, se l'evasione fiscale diminuisce e se si spostano le tasse verso il patrimonio. Sono cambiamenti assolutamente epocali.
Un altro motivo di riflessione, su cui voglio portare la vostra attenzione, è costituito dal fatto che le riforme rappresentano il 10 per cento della risoluzione di un problema. L'attuazione delle riforme rappresenta il restante 90 per cento. Einstein sosteneva che le idee rappresentano il 10 per cento, mentre il resto è sudore e olio di gomito. Questo l'abbiamo visto. Abbiamo istituito le conferenze dei servizi e lo sportello unico per risolvere i problemi, ma non abbiamo risolto i problemi di rapidità d'azione. Nonostante le innovazioni introdotte, anche la legge Bassanini non ha risolto tutti i problemi che intendeva risolvere.
È in corso di attuazione una riforma, che io ho seguito da vicino, che riguarda l'istruzione scolastica e la ricerca. Ritengo che sia importante l'attuazione della riforma. Se noi effettuiamo la riforma degli istituti tecnici, ma poi togliamo i fondi che servono per i professori tecnici, dove andiamo? Dobbiamo avere le idee chiare rispetto all'obiettivo da raggiungere, all'attuazione degli interventi, alla riduzione delle spese e agli interventi da finanziare. Per esempio, l'istruzione tecnica è uno dei temi fondamentali per questo Paese e l'attuazione della riforma sarà per noi un tema importantissimo.
In merito alle considerazioni svolte in precedenza, ribadisco che occorrono sia la semplificazione che la riduzione della spesa corrente, come dato per rivedere il carico fiscale, e aggiungo l'innovazione che è un elemento di importanza capitale. Oggi la competizione è basata più sulle idee, sulla «testa», anziché sul costo del lavoro. L'Italia non può pretendere di competere sul terreno del costo del lavoro con la Cina o con il Vietnam (dove il costo del lavoro è la metà di quello della Cina), o con Paesi simili. Si compete con un mix di cervello e di innovazione.
La dimensione delle aziende è la chiave per la crescita, perché, se rispetto alla dimensione dei mercati emergenti - quali i Paesi BRIC e altri - si è piccolissimi, non si va lontano. Dobbiamo favorire la crescita, ma la crescita delle aziende deve avvenire intorno alla tecnologia. Si cresce bene se si cresce intorno alla tecnologia, perché con la tecnologia si va lontano. Se, invece, si cresce giusto per crescere, si contraggono le malattie che derivano dalla crescita non controllata.
Il mio gruppo realizza circa 30 miliardi di dollari di fatturato nel mondo, è uno


Pag. 11

dei più grandi gruppi privati esistenti, e controlla 40 miliardi di dollari in veste di management.
La crescita deve avvenire lungo un asse tecnologico, non lungo un asse generico e l'innovazione in tal senso è importantissima. L'Italia, come vi dicevo, sviluppa della buona scienza, ma non riesce a trasferirla sufficientemente. Questo è uno dei grandi aspetti che riguardano la riforma della ricerca, stando attenti al settore medium hi-tech.
Il tema riguarda moltissimo anche gli economisti industriali, che non abbiamo più, e i metodi di valutazione dei prodotti della ricerca in campo economico, in base ai quali rischiamo di premiare solo coloro che seguono un modello americano e che adoperano ampiamente l'indicatore H-Index, cioè la misurazione della scientificità.
Noi ci stiamo adattando a un modello anglosassone anche nella valutazione delle università, per esempio, perché usiamo meccanismi di valutazione che sono quelli che si scambiano in un dato mondo, mentre dobbiamo trovare meccanismi più adatti alla realtà dell'Europa continentale, che è una realtà molto diversa e che - attenzione - è stata una realtà europea vincente negli ultimi anni.
Quando si calcolano i dati economici consolidati dell'Unione europea rispetto a quelli degli Stati Uniti e del Giappone, si vede che l'Unione europea ha una bilancia commerciale in pareggio o in surplus, ha un debito pubblico pari all'80 per cento del PIL, mentre negli Stati Uniti tale dato è salito al 100 per cento del PIL, e che l'Unione europea presenta un'ineguaglianza molto minore.
La crisi europea butta via una delle più belle conquiste realizzate dalla storia, perché l'Europa nel suo complesso ha numeri eccezionali rispetto agli altri Paesi in questo periodo caratterizzato dalla globalizzazione. Ma ciò è vero solo a livello consolidato. Bisogna metterla insieme e non guardare ai singoli Paesi che la compongono, perché questi ultimi, considerati singolarmente, presentano aspetti negativi. Considerando solo questi aspetti, si rischia di buttare via una storia che, a livello consolidato, è un'esperienza continentale di successo. L'istituzione europea, però, non riesce ancora a trovare le sua giusta fisionomia.
Molti sostengono che l'Unione europea sia un problema, ma ciò non è vero a livello consolidato. I numeri veri dell'Unione europea sono ottimi rispetto a quelli degli altri Paesi, che hanno deficit di trade, hanno un debito pubblico che è salito rapidamente al 100 per cento del PIL e, come gli Stati Uniti, hanno ineguaglianze e quindi non hanno più mobilità sociale, perché non si spende più per l'education. Oggi gli Stati Uniti sono il Paese a minor mobilità sociale, perché non si spende più l'education, che costa troppo, né per la sanità. Le famiglie non comprano più e non sono in grado di uscire dalla trappola creata dalla situazione precedente.
Noi abbiamo moltissime chance che ci possiamo giocare e in merito la dimensione, secondo me, è importante. Sulle imprese svolgiamo, dunque, un lavoro sull'innovazione e sulla produttività, il che significa agire sul mercato del lavoro e soprattutto sulla gestione dell'azienda in termini di rapporti di lavoro straordinari, flessibilità e uso degli impianti, interventi che i tedeschi hanno compiuto magistralmente.
La riforma del mercato del lavoro è stata effettuata moltissimo all'interno della gestione dell'azienda, non solo in termini di mobilità in entrata e in uscita, il che significa tener conto che il mondo cambia moltissimo, dipende dalle commesse e che non si produce più la stessa cosa nello stesso luogo e per lungo tempo.
Purtroppo, il mondo è fatto così. Bisogna trovare un mercato che sia più adatto, nell'interesse dei lavoratori, che quindi vanno formati molto di più, perché è la forza individuale che salva dai problemi delle crisi di lavoro. Occorre avere più competenze e più capacità. Cambia completamente il modello, e si passa da un modello totalmente difensivo a un modello offensivo della formazione, che diventa il vero tema con cui noi possiamo reggere il confronto.


Pag. 12


Un ultimo punto che lascio alle vostre considerazioni riguarda il tema di fondo della perdita di competitività rispetto alla Germania, la cui causa principale è dovuta alla perdita di competitività nei cosiddetti prodotti non-tradable. Mentre nei tradable, ossia nei prodotti industriali, dove c'è competizione, noi abbiamo perso circa il 6-7 per cento di competitività rispetto alla Germania, nei servizi pubblici, nella pubblica amministrazione, abbiamo perso circa il 20 per cento.
La rivoluzione che noi dobbiamo compiere, oltre che spingere giustamente le imprese a essere più internazionali e a effettuare quello sforzo perché stiamo perdendo quote di mercato, deve riguardare principalmente il settore dei servizi, delle infrastrutture e ciò che circonda l'azienda.
L'improduttività che circonda l'azienda è oggi molto elevata ed è andata molto peggiorando rispetto ai Paesi del Nord Europa. Noi abbiamo un'inefficienza della macchina di produzione dei servizi e dei beni che non sono tradable. Nel passato l'Italia risolveva questa sua inefficienza, dove non c'era competizione, con la svalutazione e, quindi, tutti coloro che non erano esposti alla competizione si trovavano più poveri in un giorno solo del 30 per cento rispetto agli analoghi cittadini tedeschi e si risolveva il problema.
Quando non si può ricorrere a tale strumento, non esiste una pressione interna o si riesce a evitare questa pressione, questi sono i settori in cui l'autodisciplina dovrebbe funzionare di più, ma non funziona. Occorre focalizzare bene la situazione davanti a noi.
Concludo osservando che abbiamo davanti a noi alcuni numeri da cambiare, che sappiamo quali sono, e che sono numeri di lungo periodo, perché il CLUP non si cambia in poco tempo. Dobbiamo tenere questa bandiera, quella della bilancia commerciale, davanti a noi giorno per giorno, mese per mese, nei prossimi dieci anni e combattere la battaglia per tenere l'Italia in Europa. Abbiamo costruito l'Europa e vogliamo restarci.
È una situazione che va vista anche da fuori, da lontano e da gruppi che sono in Italia per passione e per affetto, ma che vedono l'Italia da lontano. Abbiamo buone probabilità di vincere questa battaglia, perché noi abbiamo inventato soluzioni incredibili a questi problemi, che però richiedono una compattezza del Paese, una focalizzazione e un lavoro in team. Non ci sono più il Ministero dell'industria, il Ministero della ricerca o il Ministro per il Mezzogiorno, le questioni devono convergere. Solo convergendo, lavorando in team, avendo una strategia e una visione noi riusciremo a massimizzare le risorse e a portarle in una direzione unica.

PRESIDENTE. Grazie davvero per il suo contributo. Do la parola al professor Emanuele Carpanzano, primo ricercatore del CNR e direttore del consorzio europeo Synesis.

EMANUELE CARPANZANO, Primo ricercatore del CNR e direttore del consorzio europeo Synesis. Grazie. Mi ritrovo moltissimo nelle osservazioni svolte dal dottor Gianfelice Rocca, ragion per cui sposerò molte di esse.
In particolare anch'io mi occupo, e quindi ne parlerò principalmente, dell'industria manifatturiera, soprattutto di quella del made in Italy. Rispetto alle osservazioni già sviluppate in realtà considero importante anche i settori low-tech e non solo quelli medium hi-tech. Sono settori in cui comunque il nostro Paese è ancora molto forte e molto presente e ha una notevole tradizione in termini di storia industriale e di capacità competitiva, purché essa sia messa a frutto. Anche su questo tema vorrei portare poi alcuni esempi.
Spendo solo due parole per presentarmi, perché la mia è più una testimonianza che un contributo strutturato. Io mi occupo dell'innovazione nei settori del made in Italy, in particolare nel settore delle calzature, del tessile, dell'abbigliamento e del legno-arredo e, in questo contesto, ho la responsabilità di alcune strutture pilota. Oltre ad alcune strutture a livello nazionale seguo anche diverse attività a livello europeo, sia progetti europei,


Pag. 13

sia una grande iniziativa che si chiama PROsumer.net, in cui stiamo definendo, per cinque settori industriali europei, le priorità per l'industria dei consumer good, ossia dei beni orientati al consumatore finale.
Si tratta di un'industria che a livello europeo fattura 500 miliardi di euro, di cui 150 relativi a servizi a valore aggiunto. È un comparto industriale molto importante e l'Italia è prima in quasi tutti questi settori a livello europeo proprio in termini di fatturato e di produzione, in alcuni casi anche in modo molto accentuato. Noi abbiamo in questi prodotti una storia industriale molto rilevante, perché coniughiamo la capacità del design, della concezione e dello sviluppo dei prodotti con la capacità manifatturiera, che è comunque molto avanzata.
Tutti noi che lavoriamo in questo contesto riteniamo che la crescita non possa che arrivare attraverso l'economia reale e la generazione di valore. Generare valore, in questo caso, significa valorizzare l'industria manifatturiera presente e aumentarne il saldo commerciale, ossia avere più prodotti a maggiore valore aggiunto ed essere capace di esportarli.
Svolgo una veloce riflessione. Si tende a vedere tutto in negativo, ma il mercato globale oggi è in crescita e presenta fortissime opportunità. Ci sono interi segmenti di mercato totalmente inesplorati ed esiste, quindi, la possibilità di riuscire a realizzare prodotti che siano personalizzati, che siano salubri, che abbiano prestazioni avanzate, che siano sostenibili e abbiano sensibilità verso l'ambiente per specifiche nicchie di mercato, come gli anziani - sappiamo che è in atto una forte dinamica di invecchiamento della popolazione - gli obesi, i diabetici, i lavoratori e gli sportivi. Tutte queste opportunità sono segmenti che sul mercato globale sono molto importanti e noi avremmo il sistema industriale per coglierle al meglio.
È chiaro, però, che esistono alcuni vincoli. Ci sono problemi strutturali, come quelli che sono già stati citati, che sono presenti anche nel documento che ci è stato inviato. Ci sono poi problemi finanziari, nonché quelli legati al funzionamento della giustizia, che è lenta, il che crea molti problemi.
Io lavoro con molti imprenditori che spesso decidono di non vendere i propri prodotti perché non ritengono affidabili gli interlocutori e pensano di non potersi mai rivalere, nel caso in cui essi non pagassero. Decidono di non venderli neanche, dunque, ed effettuano già una selezione in partenza.
Si è già accennato agli aspetti legati alla burocrazia, al costo del lavoro, al costo dell'energia, al costo delle materie prime e dei trasporti. Un altro problema che è già stato nominato è quello legato al fatto che molte aziende medio-piccole, che non hanno massa critica, non hanno la capacità di muoversi su un mercato globale.
Tutti questi problemi devono essere affrontati, però la domanda a cui ho cercato di rispondere è se nel frattempo sia possibile crescere o no, dal momento che questo obiettivo non può essere raggiunto rapidamente.
Io vi ho portato un dato, perché ritengo che sia interessante in questo contesto. La settimana scorsa è stato pubblicato uno studio del Banco di Napoli - Intesa San Paolo sui distretti del Mezzogiorno, dal quale emerge un dato curioso. Se noi prendiamo due distretti calzaturieri che sono nella stessa regione italiana, in Puglia in questo caso particolare - mi balzava molto all'occhio questa situazione - vediamo un distretto di Barletta, che è cresciuto nell'ultimo triennio del 16,5 per cento e un distretto di Casarano, che è crollato del 50 per cento nello stesso triennio. Stiamo parlando di due distretti industriali che realizzano lo stesso prodotto nella stessa regione italiana, di cui uno aumenta del 16 per cento e uno crolla del 50 per cento.
Io conosco entrambi questi distretti per via della mia attività e ho la presunzione di delineare alcuni aspetti salienti che hanno fatto sì che uno risultasse vincente in Italia nell'ultimo triennio, nonostante tutti i problemi che abbiamo evidenziato, e l'altro no.


Pag. 14


Quali sono le caratteristiche? Innanzitutto la specializzazione sui prodotti, che sono prodotti ad alto valore aggiunto su nicchie di mercato. A Barletta hanno deciso di produrre calzature di sicurezza, calzature professionali molto avanzate, che servono l'80 per cento del mercato europeo e sono fornite solo dal distretto di Barletta.
A Casarano hanno cercato di continuare a realizzare prodotti di massa, competitivi, competendo sul prezzo, il che non è più pensabile oggi in Italia.
Un altro elemento è l'organizzazione. Alcune aziende si sono ristrutturate completamente e hanno creato reti di impresa, tutte medio-piccole, in cui c'è un'azienda che si occupa soltanto di innovazione di prodotto, design, marketing, retail e delle attività più strategiche, mentre altre aziende si dedicano solo alla produzione. Alcune attività produttive sono state esternalizzate, ma non tutte. È stato scelto con accuratezza che cosa fosse possibile realizzare in Italia e che cosa no per arrivare a prodotti competitivi. Queste aziende hanno tutte creato occupazione, perché hanno migliorato il loro fatturato in Italia, creando di conseguenza anche occupazione.
Sono aziende molto attente all'innovazione e hanno una padronanza completa dei processi di innovazione, ricerca e sviluppo e trasferimento delle tecnologie, e prestano un'attenzione anche ai nuovi prodotti che vanno bene sul mercato. In questi processi di innovazione è rilevante l'innovazione del personale e la formazione svolta in modo strategico, andando a leggere quali saranno le esigenze da oggi a breve.
Un'altra questione molto rilevante è la capacità di export, perché il mercato globale offre molte opportunità, ma bisogna essere in grado di coglierle e per aziende medio-piccole ciò può essere molto difficile. Sono tutte questioni su cui lavorare.
In questo caso i due distretti comparati secondo tale chiave di lettura hanno dato risposte nettamente diverse, che possono essere lette con riguardo a ogni singola impresa e che hanno generato questi numeri profondamente diversi.
Svolgo ora alcune considerazioni sulla parte di cui mi occupo di più e su cui penso di potere fornire un contributo utile. In merito alla filiera dell'innovazione, perché in Italia l'innovazione non funziona? Perché noi siamo bravi a fare ricerca, scriviamo pubblicazioni scientifiche comparabili, credo, a quelle di tutti gli Stati, che più si dedicano alla ricerca, ma poi non riusciamo a dare molto valore aggiunto ai prodotti?
La ragione è che la nostra filiera è zoppa. Noi abbiamo una grande capacità di fare ricerca a livello di ricerca di base e di ricerca applicata e, quindi, di produrre pubblicazioni scientifiche, ma non abbiamo la capacità di portare questa ricerca verso le imprese. Mancano alcuni attori proprio nel nostro sistema, attori che in Germania sono presenti.
Anch'io apprezzo e condivido molto il modello tedesco e lo conosco anche bene. Peraltro, ho vissuto per dieci anni in Germania. Vi sono alcune istituzioni, come il Fraunhofer e la Fondazione Steinbeis, che hanno migliaia di dipendenti che curano lo sviluppo e il trasferimento delle tecnologie verso il mercato. Questo aspetto in Italia non c'è. Noi in Italia abbiamo l'università, gli enti pubblici di ricerca, alcuni enti che si occupano di sviluppo tecnologico, ma tipicamente molto pochi e molto mal dimensionati. Non abbiamo un motore che si adatta alle esigenze dell'impresa e fa in modo che la ricerca produca risultati.
Abbiamo una carenza strutturale nella filiera dell'innovazione, ragion per cui siamo bravi a fare scienza e conoscenza, ma non siamo in grado di portarle sul mercato, con la beffa che questa conoscenza poi viene presa da altri e portata sul mercato altrove. Vi potrei raccontare di numerosi esempi di prodotti che noi abbiamo creato e che poi sono stati industrializzati e commercializzati in altre aree del mondo.
Esiste, dunque, una carenza strutturale e di attori. Questa è un'azione strutturale,


Pag. 15

che non si può realizzare in tempi brevi, ma che è fondamentale. Io immagino associazioni in cui lavorino insieme imprese ed enti di ricerca, come quelle che si stanno articolando a livello europeo. Voi sapete che nel Recovery Plan europeo sono stati istituiti enti attraverso le PPP (Public-Private Partnership); la Commissione ha scorporato una parte del Programma quadro e l'ha dato in gestione a entità nuove partecipate dalla Commissione stessa, oltre che a più attori privati. Di fatto sono associazioni rappresentate da aziende.
Si è già tentato di fare qualcosa di simile a livello europeo, dunque, ma il lavoro è ancora lungo. Probabilmente può valere la pena cercare di farlo anche in Italia con attori nuovi, che gestiscano questi fenomeni di innovazione.
Ritengo che gli investimenti devono essere pochi e mirati. Io ho partecipato alcuni mesi fa, a livello europeo, a un incontro della Commissione in cui si cercava di individuare che cosa si può fare per riportare le fabbriche in Europa per farle produrre. La domanda che abbiamo posto è stata che cosa l'Europa può fare per supportare questo obiettivo.
Se si vanno a vedere i numeri, noi in Europa pensiamo di poter finanziare centinaia di iniziative con un finanziamento che magari può coinvolgere decine di imprese, per 10 milioni di euro complessivi. Ciò significa che la media dei finanziamenti che le imprese ricevono dai fondi europei è di 300 mila euro l'anno per azienda, con riferimento a quelle che riescono ad aggiudicarsi tali finanziamenti. Con questo modello a Bruxelles si pensa di poter convincere le imprese ad aprire nuovi stabilimenti.
In quella sede ho portato l'esempio degli Stati Uniti, dove il Presidente Obama ha dato 25 milioni netti alla BASF, a un'unica azienda, perché aprisse negli Stati Uniti il primo impianto per produrre le batterie al litio per l'industria dell'automotive. Gli Stati Uniti hanno finanziato un'azienda sola per aprire una fabbrica nel loro Paese, perché verosimilmente vi avrebbe poi installato anche le altre.
Occorre avere investimenti molto mirati e concentrati, altrimenti è difficile competere con chi ha questa possibilità. Se guardiamo ai programmi del progetto Industria 2015, che pure è stata citato poco fa, non ho i numeri puntuali, ma credo che sia stato previsto un finanziamento di 850 milioni di euro a favore di 2.200 partecipanti, con un livello di finanziamento ridottissimo, dell'ordine di circa 100 mila euro l'anno, per ogni partecipante. Vi è una grandissima frammentazione di risorse, che poi è scarsamente efficace.
A questa bisogna poi aggiungere la criticità, i tempi lenti, i vincoli che sono stati imposti, ragion per cui alcuni enti, come il CNR, per il quale lavoro, stanno addirittura uscendo dai progetti, perché non riescono a gestire la loro partecipazione. Anche le imprese hanno grosse difficoltà. Occorrono quindi strumenti snelli e pochi finanziamenti mirati laddove veramente c'è un reale vantaggio competitivo.
Aggiungo alcune considerazioni sulla base delle questioni già illustrate e vado alla conclusione. Che cosa manca? Noi sappiamo che in molti settori abbiamo una grande potenzialità in termini di crescita e di competitività, ma dobbiamo mettere in rete le imprese, perché sono medio-piccole. Che cosa manca oggi a queste imprese nella maggior parte dei casi? Mancano alcune funzioni, innanzitutto la capacità di conoscere, vedere e analizzare il mercato globale e di coglierne le opportunità, ossia le funzioni di business intelligence. Le piccole imprese non dispongono di tali funzioni, ragion per cui occorre creare unità che possano svolgerle per conto delle imprese. Una grande impresa dispone di tali funzioni, ma tante piccole imprese spesso no.
Occorre anche supportarle nell'export. Con riferimento a quello che era l'ICE - in questo momento non conosco esattamente quali saranno le evoluzioni di una struttura come questa - per le imprese è importante avere strutture di questo tipo, che possano essere gestite dalle imprese stesse come dalle associazioni industriali,


Pag. 16

eventualmente congiuntamente a organi governativi o pubblici. La business intelligence e l'export sono funzioni cruciali.
Occorre poi ovviamente supportarle nel migliorare i loro modelli organizzativi, nell'innovazione. Per l'innovazione oggi probabilmente non ci sono molte risorse, ma credo che riattivare lo strumento delle reti di imprese prevedendo al limite anche solo uno sconto fiscale per chi investe nella rete d'impresa possa essere già un elemento di stimolo.
Io ho visto molte imprese che hanno cercato di far partire reti di impresa e poi hanno rinunciato, perché la semplice dilazione fiscale per loro diventava addirittura un problema da gestire. Restava loro il debito col fisco protratto nel tempo, di cui non sapevano bene l'impatto sul bilancio. Forse anche un piccolo sconto gioverebbe molto di più.
Credo che possa essere uno strumento intelligente anche quello del credito per investimenti in ricerca. In questa fase in cui bisogna crescere velocemente credo possa essere importante dare alle imprese la possibilità di scegliersi gli enti di ricerca che producono risultati utili per loro. Oggi paradossalmente tendiamo a fare il contrario, cioè emaniamo bandi che sono poi valutati dai valutatori del ministero, i quali provengono tipicamente quasi tutti dal mondo della ricerca. È, quindi, il mondo della ricerca che valuta le imprese.
Se, però, vogliamo che ciò che le imprese producono vada sul mercato, il meccanismo deve essere il contrario, perché sono loro che devono capire quali sono le competenze più utili. Il credito di imposta può essere uno strumento, perché consente loro di governare il tipo di supporto che può essere dato.
Queste sono le considerazioni che volevo svolgere. In estrema sintesi, credo che sia importante compiere alcune scelte. Non possiamo pensare di mantenere tutti i nostri settori industriali competitivi contemporaneamente e, quindi, occorre compiere alcune scelte.
Io ritengo che il made in Italy per quanto riguarda il low-tech sia composto di settori che hanno grandi opportunità e in cui noi, comunque, abbiamo un vantaggio competitivo, perché conosciamo i prodotti, abbiamo il design e abbiamo il nome. I nostri marchi sono i migliori. Oggi accade che c'è una compravendita di marchi italiani. Le aziende italiane hanno difficoltà e da noi arrivano quotidianamente investitori stranieri a rilevare i marchi che vengono venduti con uno sconto del 70 per cento, per citare un dato semplice. Aziende che valgono 100 milioni di euro vengono vendute a 30 milioni di euro perché l'imprenditore non ce la fa più, è stanco, si ritira, vende il marchio e il nome e così se ne va via la forza di un marchio, che non è trascurabile.
Occorre compiere, dunque, alcune scelte, concentrare le risorse e strutturarci nel tempo per cogliere le opportunità che ci sono. Vi ringrazio per l'attenzione.

PRESIDENTE. Grazie a lei per il contributo. Quello della vendita dei marchi italiani, anzi della svendita dei marchi, è un fenomeno che dovremmo mettere sotto osservazione e che coinvolge anche alcuni marchi storici.
Do la parola al professor Giovanni Pareschi, direttore dell'INAF - Osservatorio astronomico di Brera.

GIOVANNI PARESCHI, Direttore dell'INAF - Osservatorio astronomico di Brera. Ringrazio per l'opportunità che mi avete dato di fornire il mio punto di vista sugli aspetti di interesse della Commissione.
A differenza di Gianfelice Rocca, io sono un ricercatore ancora attivo nel campo dell'astrofisica e non sono diventato un economista. Opero nel settore dell'astrofisica, delle scienze dello spazio e delle tecnologie collegate, e ricopro la carica di direttore di una struttura e di un ente di ricerca, e quindi vivo dall'interno i problemi della ricerca e dello sviluppo.
Il mio intervento è molto diverso da quelli tecnici svolti finora e, quindi, permettetemi di introdurre la mia struttura, che è l'Osservatorio di Brera, l'ente di ricerca più antico della Lombardia, fondato da padre Ruggiero Boscovich, uno dei


Pag. 17

personaggi più importanti dell'illuminismo, 250 anni fa. Oggi è un moderno centro di ricerca che opera sotto il coordinamento dell'INAF, l'Istituto nazionale di astrofisica, a livelli di eccellenza.
Recentemente abbiamo ricevuto la visita di un visiting committee. Riporto le parole del report in cui si afferma che «l'istituto si colloca come struttura chiave nell'ambito dell'astronomia europea».
D'altra parte, mi preme anche ricordare come l'astronomia, l'astrofisica e l'Istituto nazionale di astrofisica siano indubbiamente un vero e proprio fiore all'occhiello della comunità scientifica e tecnologica italiana e siano riconosciute come aree di eccellenza a livello tanto nazionale, quanto internazionale.
Il famigerato CIVR, il Comitato di indirizzo per la valutazione della ricerca, istituito dall'ex Ministro della pubblica istruzione, Letizia Moratti, ha valutato l'INAF come il miglior ente di ricerca italiano per il reclutamento disciplinare della fisica davanti ad altri enti come l'INFN, il CNR, l'INFM e l'ENEA.
Per darvi un'analisi della produttività scientifica e internazionale svolta da organismi indipendenti, l'ISI Thompson di Philadelphia ha mostrato che l'astrofisica italiana è al quinto posto nel mondo, con una produttività che raggiunge livelli da primato, il 10,3 per cento della produzione mondiale - torniamo sempre al discorso che svolgeva il collega Rocca prima - livelli che sono ben davanti ad altre discipline.
Dopo questa premessa tra i diversi temi di valutazione proposti dalla Commissione vorrei concentrare il mio intervento su quelli di maggior pertinenza per la mia expertise e, in particolare, sui seguenti aspetti: perché in un momento di grande crisi economica come quello che stiamo vivendo occorre continuare e perfino aumentare il sostegno all'attività di ricerca e sviluppo, malgrado i tagli che lo Stato deve effettuare per organizzare il proprio bilancio?
Vorrei discutere alcune azioni che possono rendere più efficace il sostegno alla ricerca e alle attività di sviluppo e ancora una volta vorrei discutere brevemente della necessità di un più efficace funzionamento della pubblica amministrazione, soprattutto nell'ottica di una migliore organizzazione delle attività di ricerca e sviluppo.
Partiamo dal primo punto. Perché è importante sostenere la ricerca e lo sviluppo anche e soprattutto in un momento di crisi? La conoscenza di per sé e, quindi, anche la ricerca di base e l'attività di sviluppo dovrebbero essere considerate di per sé un valore essenziale per un Paese come l'Italia, tenuto conto della storia civile e culturale della nostra nazione. Forse è questo un modo in cui si può mantenere viva l'ispirazione e non generare la depressione tra i giovani che devono affrontare le sfide molto difficili della nostra società. Per questo motivo va mantenuto e, nel caso dell'Italia, aumentato il sostegno ai settori della conoscenza.
D'altra parte, queste sono le linee guida dei grandi Paesi europei e, di là da quello che ci ha spiegato prima il collega Rocca, mi sembra che sia importante sottolineare come la Germania, il Paese che in questo momento sta soffrendo di meno l'attuale crisi economica, dia sempre un solido sostegno a tutti gli ambiti della cultura e dello sviluppo.
Mi ha colpito molto una conversazione che ho avuto alcuni giorni fa con un mio collega, che proviene da un istituto dell'ex Germania dell'est. Mi ha raccontato che una delle questioni di cui lo Stato tedesco si è preoccupato immediatamente, all'epoca della riunificazione, in un momento particolarmente critico anche dal punto vista economico, fu di assorbire e di integrare nel proprio sistema le università, i centri di ricerca e le industrie storiche, come la Zeiss, dell'ex Germania orientale.
A questo proposito mi ha anche colpito un episodio che riguarda direttamente il mio istituto di appartenenza, cioè l'Osservatorio di Brera. Negli anni Settanta dell'Ottocento, il grande astronomo Giovanni Virginio Schiaparelli, allora direttore dell'Osservatorio di Brera, quello che ha scoperto i canali di Marte, in un momento di grande crisi economica per il giovane


Pag. 18

Stato italiano - ricordo che era il periodo in cui era stata imposta una tassa sul macinato, quindi un periodo particolarmente grave - ottenne, tramite una specifica legge, il finanziamento di un nuovo grande telescopio, il telescopio rifrattore equatoriale da 50 centimetri. Questo finanziamento permise di mantenere l'astronomia italiana a grandi livelli internazionali. L'aspetto interessante è che quella legge fu approvata grazie all'interesse diretto e appassionato di Quintino Sella, il Ministro delle finanze di allora, famoso per aver promosso l'economia cosiddetta all'osso, che ha portato l'Italia al pareggio di bilancio per la prima volta all'epoca. Fu anche l'ultima, ma non lo volevo specificare. Aveva, dunque, capito come la scienza andasse comunque sostenuta, anche nei momenti difficili. Il telescopio sta per essere restaurato e restituito alla città di Milano, grazie a un finanziamento del Parlamento: probabilmente sarà esposto al Museo nazionale della scienza e della tecnologia.
Una volta ribadito il concetto dell'importanza di sostenere i settori legati alla conoscenza anche in momenti di crisi, mi preme osservare come la ricerca, anche quella di base, abbia anche un diretto impatto sull'economia, sebbene con effetti visibili a distanza di anni o di decenni. Se non si instaura il circolo virtuoso, non se ne avranno mai gli effetti positivi. Questo, in particolare, è vero per gli istituti di ricerca finanziati dallo Stato. Penso che il tema sia già stato affrontato nei precedenti interventi.
La ricerca può, quindi, costituire un fattore di recupero rispetto alla recessione che stiamo vivendo e ritengo che si possa parlare di un'economia legata alla conoscenza. Lo studio e la ricerca sono essenziali per affrontare le grandi sfide che si presentano davanti a noi, come quelle dell'energia, dell'ambiente, della salute e dello sviluppo delle nuove tecnologie, così come sono essenziali anche il rafforzamento delle cooperazioni internazionali e lo scambio di know-how.
Questo processo virtuoso può avvenire secondo diversi canali, diretti o indiretti. Tra i canali diretti vi è senz'altro quello dello studio delle soluzioni associate alle problematiche che preoccupano il cittadino e la società in questo momento, come i problemi dell'energia, dei cambi climatici, che peraltro sono fortemente connessi con fenomeni di tipo astronomico, e quello delle tecnologie innovative che possono portare a migliori prodotti.
Tuttavia, anche progetti più legati a scienze di base, come la realizzazione di grandi telescopi che operano da terra e dallo spazio, oltre che generare grandi ritorni in termini scientifici, impattano sulla dinamica economica, con particolari effetti benefici in un momento di recessione.
C'è un altro dato che mi ha colpito - peccato che non ci sia più il collega Rocca, perché avrei voluto verificarlo con lui - ossia che un'autorevole istituzione come lo U.S. Census Bureau ha stimato che, durante il proprio corso di studi di alcuni anni, uno studente di dottorato di ricerca negli Stati Uniti in materie scientifiche genera un movimento di denaro pari a 2,2 milioni di dollari, una cifra impressionante, che sicuramente è importante in una fase recessiva.
Ancora più importante è l'innovazione tecnologica associata ai progetti scientifici, con ritorni fondamentali anche in settori diversi da quelli che hanno inizialmente motivato lo sviluppo. Basti pensare alla microelettronica, che di fatto è nata come by-product del progetto Apollo, quello che ha mandato l'uomo sulla Luna. Voi sapete che gli americani avevano lanciatori molto meno potenti di quelli russi e la necessità di sviluppare sottosistemi molto più leggeri. Ciò ha fatto nascere la microelettronica, da cui poi è derivata la tecnologia per produrre i telefonini e i computer.
Vorrei portare un esempio concreto che riguarda più direttamente il mio istituto, l'INAF, e l'Osservatorio di Brera. Grazie al supporto dell'Agenzia spaziale italiana è stata sviluppata in Italia, a partire dagli anni Novanta, una tecnica innovativa per la realizzazione di linee ottiche per astronomia con riferimento ai raggi X provenienti dallo spazio. Questo


Pag. 19

ha permesso all'Italia non solo di partecipare a progetti internazionali con grandissimi risultati scientifici, come BeppoSAX e SWIFT della NASA, ma anche di trasferire e ingegnerizzare la tecnologia presso una piccola industria lecchese, la Media Lario Technologies, che ora è leader nel settore in Europa e ha ricevuto contratti importanti dall'Agenzia spaziale europea per i progetti XMM-Newton e perfino dall'Agenzia spaziale tedesca DLR, avendo vinto una competizione con la grande Zeiss. Tutto ciò è avvenuto l'anno scorso.
La questione interessantissima è che questa tecnologia è ora utilizzata da Media Lario Technologies per realizzare un sottocomponente fondamentale per linee ottiche per le catene produttive dei microcircuiti del futuro, che poi saranno nanocircuiti. Questa tecnologia sviluppata per gli specchi astronomici ha permesso all'azienda di entrare in diretta collaborazione con colossi internazionali dell'elettronica, come Philips e Intel.
Vengo al secondo punto del mio intervento: come rendere più efficace il sostegno alla ricerca e alle attività di sviluppo? Se, da un lato, è veramente auspicabile un aumento dell'investimento da parte dello Stato - nella ricerca e sviluppo ricordo che siamo al solito 1 per cento del PIL - occorre, dall'altro, pensare a ottimizzare le risorse e a rendere più efficienti le azioni associate al supporto in questo momento particolarmente difficile.
Ancora una volta mi ricollego a quello che sosteneva prima il collega Rocca, ossia alla programmazione e alla continuità. La ricerca, sia essa di base oppure di tipo applicativo, e i progetti a essa associati vivono di programmazione e soffrono senza programmazione. Questo punto è fondamentale. La programmazione è spesso impedita a causa di debolezze del sistema, tra cui l'incertezza dell'entità e dei tempi del finanziamento e le continue limitazioni nelle gestioni di spesa del reclutamento, anche quando le condizioni richieste per procedere sono soddisfatte.
Negli ultimi anni, per esempio, oltre ad aver subìto notevoli tagli di bilancio, gli enti di ricerca hanno avuto certezza del completamento del finanziamento solo alla fine di dicembre dell'anno stesso di riferimento. È una situazione estremamente difficile da gestire, che impedisce di fatto di svolgere una programmazione.
Analoga situazione è quella spesso affrontata dai singoli gruppi di ricerca, che, dopo aver ottenuto un finanziamento dai ministeri competenti, per esempio il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca per i PRIN o i FIRB o da agenzie a essi associati, come l'ASI, devono attendere molti mesi prima che il supporto economico venga erogato. Tali gruppi di ricerca sanno di essere stati selezionati, ma prima di ricevere il denaro passa un anno, se non di più.
Ancora più grave è il caso in cui, dopo aver terminato con successo la fase di studio di un progetto, la classica fase A, magari legata a una cooperazione con partner e agenzie internazionali, si debba attendere molti mesi, se non anni, per ottenere il via libera per la continuazione e la sicurezza che un bando permetta di potere continuare l'attività.
Programmazione e continuità sono, pertanto, le due condizioni fondamentali per poter svolgere efficacemente le attività di ricerca e di sviluppo, per poter salvaguardare il know-how, per mantenere il personale formato da giovani ricercatori e, alla fine, per evitare sperpero di denaro e ritardi. Il dover ricominciare, infatti, è uno sperpero di risorse. Ogni volta che si deve ricominciare da capo sono soldi sprecati dallo Stato.
Un altro aspetto importante è sapere quali finanziamenti ci saranno negli anni a venire, cioè sapere con certezza di poter competere, per la selezione meritocratica, su un ammontare di fondi certi e sicuri per almeno un quinquennio, mentre, al momento, non si sa nemmeno quanti e quali finanziamenti ci potranno essere per l'anno a venire.
L'altro aspetto è quello della meritocrazia. Ho già accennato prima alla valutazione del CIVR e al caso dell'INAF, che era risultato il primo istituto tra le scienze fisiche. Questo fatto non ha sortito alcun


Pag. 20

effetto, perché l'assegnazione dei fondi ordinari è stata effettuata, come al solito, a pioggia, o è stata basata su sedimentazioni di gestioni di bilancio degli anni precedenti. Alla fine, pur avendo lo stesso numero di ricercatori, il nostro budget è pari a meno della metà di quello dell'INFN.
Vi è una grande speranza in questo momento in cui c'è una nuova agenzia di valutazione, l'Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), la speranza che questa possa svolgere serenamente e con impegno la propria missione e che, alla fine, i dati che fornirà siano effettivamente applicati per la redistribuzione dei fondi secondo criteri meritocratici e non secondo sedimentazioni del passato.
Aggiungo anche, da membro della comunità scientifica, che vi sono state alcune perplessità nell'assegnazione dei fondi relativi al Programma operativo nazionale (PON) per il sud, che sono stati assegnati alla fine del dicembre scorso, ragion per cui alcuni temi di grande interesse non sono stati finanziati.
Un altro aspetto è quello della strategia. Voi sapete che i comitati scientifici vanno avanti, spesso, per partecipazioni a grandi progetti. In un momento di crisi di risorse finanziarie occorre, però, costruire una strategia, non si può far tutto. Bisogna individuare i progetti su cui concentrare lo sforzo, su cui inserirsi a livello di eccellenza con un finanziamento adeguato e possibilmente con il supporto dell'industria nazionale.
Scelte di questo tipo possono essere talvolta dolorose, ma è meglio poter partecipare con alta visibilità a pochi importanti progetti che entrare in troppi programmi con poca visibilità e scarso ritorno scientifico, tecnologico e industriale. Un tale atteggiamento potrebbe stimolare anche lo spirito di competitività e di aggregazione tra diversi gruppi scientifici, perché viene assicurata una valutazione trasparente delle proposte.
Occorre poi garantire l'ottimizzazione dello svolgimento delle ricerche. Abbiamo sentito come sia importante avere una strategia e ciò vale anche per la ricerca di base. Credo che una più efficiente organizzazione della ricerca dovrebbe prevedere lo svolgimento della ricerca di base e dello sviluppo tecnologico associato, quello che noi chiamiamo - e facciamo - «con scotch e cera», da svolgere dentro l'università e le piccole strutture periferiche, mentre la fase realizzativa dei progetti dovrebbe avvenire nei laboratori di importanza nazionale degli enti e nell'industria, a cui dovrebbe essere passato il know-how sviluppato negli istituti periferici.
La collaborazione tra industria e istituto di ricerca va favorita anche con criteri di premialità, per far sì che ciò che è sviluppato a livello di ricerca e sviluppo di base sia poi fruibile anche economicamente dal sistema Italia. Di questo aspetto si è già parlato.
A questo proposito si suggerisce di reintrodurre quello che è già stato applicato nel passato, cioè una più efficace attivazione di sgravi fiscali per le industrie che sostengono ricerche mirate all'interno degli istituti e supportano borse di dottorato di ricerca presso le università e gli enti di ricerca.
Vengo a un altro punto piuttosto importante, che è il problema dell'IVA. Spesso le spese associate ai progetti di ricerca approvati, anche quelli finanziati da enti esterni all'Italia, per esempio dalla Comunità europea oppure dall'Agenzia spaziale europea, sono gravate dall'applicazione dell'IVA. Questi enti esterni europei non riconoscono tale costo come finanziamento.
D'altra parte, il ritorno per il bilancio dello Stato dall'applicazione dell'IVA a costi associati alla ricerca è molto piccolo e talvolta rende estremamente difficile poter gestire questi progetti internazionali.
Si suggerisce, quindi, di togliere completamente questa imposta per i costi associati ai progetti di ricerca finanziati dallo Stato o, soprattutto, da enti esterni, come la Comunità europea e l'ESA, e di avere una chiara legislazione in proposito.
Concludo con un ultimo punto sul problema del settore dello spazio. Grazie


Pag. 21

al grande lavoro pionieristico portato avanti da scienziati del calibro di Beppo Occhialini e Luigi Broglio e all'opera di coordinamento e supporto da parte dell'Agenzia spaziale italiana l'Italia svolge un'attività di primo livello in ambito spaziale. Di particolare rilevanza è stata la collaborazione tra l'ASI, l'industria italiana e la comunità scientifica che lavora nel campo delle scienze astronomiche, che ha portato alla realizzazione di importanti missioni, con ampio riconoscimento internazionale. È proprio di pochi giorni fa l'attribuzione del più importante premio della società astronomica americana a un ricercatore italiano, il dottor Tavani.
Nell'ultimo periodo, però, l'ASI ha ridotto il supporto alla ricerca di base scientifica e tecnologica svolta dall'INAF, dall'INFN, dall'Università e dal CNR, facendo venire meno la spinta e il sostegno a idee innovative, anche con il rischio di una perdita di know-how, di ritorno scientifico e di capacità industriale nel settore delle missioni scientifiche. Io credo che occorra al più presto ritrovare un rinnovato spirito di collaborazione tra l'Agenzia e gli enti di ricerca e sostenere efficacemente le ricerche e lo sviluppo.
Concludo il mio intervento con i problemi del più efficace funzionamento della pubblica amministrazione, per arrivare a una migliore organizzazione delle attività legate alla ricerca. È il tasto dolente di cui stiamo parlando tutti.
Si è già discusso come il supporto della ricerca tramite finanziamenti ai progetti soffra spesso di ritardi che possono talvolta compromettere il buon esito delle ricerche e l'interruzione di progetti internazionali. Ciò riflette in qualche modo il cattivo funzionamento della pubblica amministrazione.
Da un lato, il problema può essere dovuto a una carenza di adeguata responsabilità all'interno degli enti di ricerca di gestire bandi e finanziamenti, ma, ed è un altro punto che forse non è stato discusso sufficientemente prima, vi è senz'altro una mancanza d'abitudine da parte dei dirigenti e soprattutto dei quadri a prendere decisioni e ad assumersi responsabilità. Anche a livello inferiore vi è una difficoltà da parte degli operatori a gestire in modo efficace pratiche ritenute altrimenti semplici nel mondo dell'industria privata.
Spesso la situazione viene complicata da organi e organismi che operano nello stesso ente - si tratta della semplificazione che citava prima Gianfelice Rocca - che, a causa di veti e di rallentamenti incrociati di pratiche, paralizzano il sistema. Troppe volte negli ultimi, pochissimi anni, i maggiori enti di ricerca italiani hanno dovuto subire un commissariamento per riportare il corretto funzionamento dell'ente. È successo all'ASI, diverse volte, come all'INAF e al CNR.
A questa situazione si aggiunge l'organizzazione interna degli enti di ricerca, sia livello di headquarter, sia di strutture periferiche, dove talvolta si instaurano processi di gestione amministrativi e contabili farraginosi e assurdi, lontani in modo abissale dalla gestione abile tipica delle industrie private.
Occorre ribaltare la politica e prevedere sempre più controlli per evitare gli abusi. È giusto farli, ma non è con l'esecuzione di mille controlli che si evitano gli abusi. Bisogna introdurre meno regole burocratiche e, nel contempo, responsabilizzare di più le persone, premiando coloro che si assumono responsabilità per velocizzare le procedure e colpendo duramente chi se ne approfitta in modo illecito.
Prevedere tutto per regolamento non permette invero alcuna flessibilità e capacità di risposta rapida ed efficace agli eventi e ciò è tanto più vero in un mondo come quello della ricerca, dove a volte si trova il successo delle proprie ricerche in modo imprevedibile e lungo strade diverse da quelle inizialmente pensate. Occorre iniziare al più presto un processo di formazione per gli appartenenti alla pubblica amministrazione che operano negli enti di ricerca pubblici, a livello sia di dirigenti e quadri, sia di operatori, che vada al di là di corsi sulla contabilità.
Poco tempo fa ho firmato un paio di missioni per l'ennesimo corso sull'IVA per due operatori. Dovrebbero seguire, invece,


Pag. 22

corsi di gestione. Poiché gestiscono molti soldi, tali operatori devono capire come si gestiscono. I corsi devono riguardare direttamente la gestione di progetti che creino chiari criteri di premialità e meritocrazia anche nell'avanzamento delle carriere e nell'attribuzione degli stipendi accessori.
Lasciatemi concludere ricordando che, nel momento in cui si parla di processi di liberalizzazione nello Stato, forse sarebbe bene introdurre criteri di liberalizzazione anche all'interno dell'amministrazione pubblica, criteri che prevedano avanzamenti di carriera e premialità su stipendi accessori in modo veramente liberale.

PRESIDENTE. Ringrazio il professor Giovanni Pareschi per il suo intervento. Do ora la parola al professor Giorgio Petroni, rettore dell'Università di San Marino.

GIORGIO PETRONI, Rettore dell'Università di San Marino. Credo che il motivo per il quale sono stato invitato a questo incontro, di cui ringrazio lei, signor presidente, e i suoi colleghi, sia legato a una mia particolare attenzione ai problemi del trasferimento tecnologico. Credo di essere uno dei non tantissimi italiani che si sono occupati da molti anni di questo problema. È su questo terreno, quindi, che vorrei passare alcuni minuti con voi, tenendo ben presenti le specifiche metodologiche che l'onorevole Duilio mi ha dato, chiedendomi di tirar fuori questioni concrete, il che mi pare molto onorevole, senza dimenticare che la situazione italiana, di cui ovviamente il Parlamento non può non tenere conto, è caratterizzata dalla mancanza di soldi, perché non ci sono risorse, e che possibilmente tutto si deve esporre in non più di quindici minuti.
Se sono grato per questo invito, osservo, però, che il compito non è semplicissimo, ma lo rilevo soltanto per iniziare in maniera un po' scherzosa la nostra conversazione. Mi atterrò comunque ai tempi previsti.
Il primo dato dal quale partire, che peraltro è sotto l'occhio di tutti e tutti ne abbiamo consapevolezza, è che il sistema industriale italiano è composto di piccole e medie imprese, perché le grandi sono rimaste poche. Dobbiamo, dunque, parlare di processi che vadano a irrobustire questo patrimonio di piccole e medie imprese, tenendo presente che è in atto una sorta di fenomeno di «santificazione» della piccola impresa.
Tutti sostengono, infatti, che la piccola impresa è bella, ma in realtà è un modo di fare di necessità virtù, perché nei sistemi industriali forti - è stata citata più volte la Germania, che ormai fa scuola, e si può prendere per esempio il Baden-Württemberg, con capitale Stoccarda, che è la più grande regione europea contando 10 milioni di abitanti e, dunque, è più grande del Belgio e dell'Olanda messi insieme, - c'è un tessuto di diverse migliaia di piccole imprese che vivono però a fianco delle grandi imprese.
Stiamo attenti quindi a non santificare la piccola impresa, perché può essere fuorviante. Non riusciamo bene a capire che cosa fare, se la santifichiamo. È ovvio che la piccola impresa ha una grande virtù, in quanto promuove l'imprenditorialità ed è meno conflittuale, ma, ahimè, non ha denari per fare ricerca e neanche le competenze. Quando adopera una tecnologia è quella, è difficile che sia così versatile - sono illusioni che noi coltiviamo - al punto da poter spaziare su diversi settori.
In un regime globale questi sono difetti gravi, come osservava qualcuno prima. Si pone comunque il problema di far crescere queste piccole imprese, altrimenti ci dobbiamo accontentare di essere quelli che siamo, per la verità, senza avere grandissimi slanci.
Io ho trovato eco della scarsità di risorse non soltanto sui giornali, ma anche nelle vostre domande. C'era un motivo conduttore nelle domande che voi avete presentato a noi, in cui si affermava che dobbiamo riconvertire, ma a risorse zero.
Come poter irrobustire il sistema delle imprese minori in queste condizioni? Il problema che io tratterò brevemente in alcuni minuti va visto dal lato dell'offerta,


Pag. 23

cercando di trasformare quella che è una minaccia, come sostengono gli strateghi, in opportunità. La minaccia è che questo sistema debole di piccole e medie imprese italiane, che non possono competere nella tecnologia, perché non la posseggono, se non in maniera limitata, ha due possibilità: o le imprese si irrobustiscono dal punto di vista tecnologico, e di ciò io mi permetterò di parlare, oppure devono inserire nei prodotti i valori culturali, simbolici ed estetici di cui si parlava poco fa, quando sono state svolte considerazioni piuttosto sagge e concrete.
Per la verità, l'inserimento di valori culturali e simbolici avviene in maniera disordinata ed è un punto di forza del cosiddetto made in Italy; però c'è moltissima strada da percorrere, riferendomi ai suggerimenti del collega.
Consideriamo, invece, che cosa vede nel mondo chi si è occupato di trasferimento tecnologico, come il sottoscritto, il quale continua a fare ricerca, ancorché abbia responsabilità gestionali da un po' di tempo, avendo studiato questo problema.
La prima questione è che il sistema industriale italiano - essendo l'Italia un Paese non piccolo, ma di grandi dimensioni e, tutto sommato, ancora notevolmente industriale - ha una domanda pubblica che ai fini del trasferimento tecnologico utilizza malissimo. Il giorno in cui la FIAT produce i treni ETR oppure l'alta velocità, le specifiche tecniche non vengono fornite dalle Ferrovie dello Stato, ma dalla FIAT stessa o dai francesi, perché l'alta velocità è francese, è stata trasferita tout court all'Ansaldo e le Ferrovie ci hanno messo - per così dire - il bollo tondo.
Questo fatto è di una gravità enorme e le Ferrovie lo sanno. Parlo delle Ferrovie per non parlare di altri settori. In questo modo - e ciò è vero - la nostra amministrazione pubblica, che pure gestisce commesse molto importanti come quelle concernenti lo spazio e quelle militari, dimostra di non avere un corpo tecnico adeguato per fornire le specifiche tecniche.
Perché questo aspetto è fondamentale? Perché evidentemente, se non si ha la capacità tecnica e tecnologica, è difficile promuovere i processi di apprendimento con cui si realizza il trasferimento di tecnologie.
Porto un esempio. Nel grande progetto Apollo lavoravano ben 5 mila piccole imprese, perché, lavorando a fianco delle grandi imprese, come la Martin Marietta e la Boeing, imparavano e, dunque, riuscivano, alla fine, una volta acquisite tali conoscenze, a rifletterle e a rovesciarle sulle proprie produzioni commerciali. Questa è stata la strada elettiva degli americani per decenni per compiere tale operazione di apprendimento.
Tutto ciò da noi viene ignorato. Il committente pubblico, le Ferrovie dello Stato, che non sono una piccola azienda, o l'Agenzia spaziale italiana, hanno un bilancio superiore a quello del CNR, ma lo sanno in pochi. Le grandi opere civili oppure le commesse militari ignorano totalmente questo problema: vengono acquisite le specifiche tecniche delle imprese, della FIAT, di Finmeccanica e non di altri. Non c'è alcuna preoccupazione per fare in modo che questi grandi investimenti possano produrre un know-how, un apprendimento tecnico, perché è in tale ambito che si gioca prevalentemente il trasferimento di tecnologie.
Porto un esempio velocissimo. Il CNES (Centre national d'études spatiales), la grande Agenzia spaziale francese, a Tolosa ha 1.500 ricercatori e tecnologi che forniscono le specifiche tecniche e non assumono quelle che vengono presentate dalle imprese. Questa è un'operazione che noi non compiamo.
Voglio essere un po' provocatorio, perché è un privilegio poter essere ascoltato da voi per chi ha svolto questi lavori e questi studi. Abbiamo, in passato, attuato operazioni che io non vedo riprodurre. Per esempio, coloro che hanno i capelli bianchi come il sottoscritto ricorderanno certamente la famosa legge 28 novembre 1965, n. 1329, cosiddetta «legge Sabatini». Era un sistema che consentiva di agevolare e incentivare la sostituzione di capitale fisso, di macchine, impianti e attrezzature, concedendo sconti sugli interessi dei mutui


Pag. 24

che il piccolo imprenditore aveva contratto. Ha funzionato benissimo, è una delle poche iniziative che hanno funzionato, perché voi sapete che il sistema delle imprese minori innova fondamentalmente attraverso la catena dei fornitori. Chi mi dà l'ultima macchina per lavorare il legno, in realtà, mi dà un prodotto che è stato ampiamente collaudato e messo a punto attraverso delle innovazioni incrementali che vengono dal fatto che ha dovuto servire alcune migliaia di clienti. Si è verificato, dunque, un processo di apprendimento straordinario.
Questa è un'operazione che non si svolge più e non si capisce perché. Costa un po', perché costa evidentemente la sostituzione di una parte degli impianti e delle attrezzature, avendone vantaggi in economia di processo e in migliore qualità.
Passo al successivo punto, su cui sono ancora più provocatorio. A cominciare dai professori universitari, io conosco persone che sui distretti hanno vinto le cattedre e posso affermare che noi abbiamo attuato molte misure di politica industriale italiana - io vengo da un Paese extracomunitario, ma in realtà sono italiano; anzi, vi ringrazio e vi saluto a nome della mia piccola università e anche del Governo di San Marino per avermi invitato - sui distretti.
Non ci si è accorti, però, che da vent'anni a questa parte i distretti stanno evaporando. Non se ne parla sui giornali, ma voi sapete che ci sono stati molti suicidi a Prato. Non c'è alcun motivo per immaginare che le donne rumene non sappiano realizzare le maglie come le nostre donne. All'inizio le fanno meno bene, ma poi le fanno anche meglio. Dunque la produzione a Carpi non c'è più.
La seggiola di Manzano, il marmo di Verona, ormai stanno andando in mano ai cinesi. Abbiamo attuato misure di politica industriale a sostegno dei distretti che evaporano, perché in realtà si tratta di produzioni che non resistono al differenziale del costo del lavoro. Questo è il punto. Ce ne siamo accorti oppure no? È così. La delocalizzazione avviene perché noi abbiamo tipicamente produzioni in cui si vince laddove si paga di meno il lavoro, ma non c'è un contenuto tecnico rilevante e di questo, invece, dobbiamo parlare.
In questa logica abbiamo trascurato i parchi scientifici e tecnologici, che naturalmente non sono un grandissimo successo in Italia, perché spesso istituiti in maniera improvvisata e dilettantistica. Alcuni funzionano benissimo. Ce ne sono due o tre di prim'ordine. Quello di Trieste svolge egregi programmi di trasferimento di tecnologia al sistema delle imprese territoriali.
Perché abbiamo puntato allora tutto sui distretti, abbiamo speso tanti denari e alla fine, in realtà, non abbiamo migliorato più di tanto il patrimonio tecnico delle nostre imprese minori?
Passo all'ultimo punto e concludo. Io parlo sempre con un po' di enfasi, ma mi interessa rivolgermi a voi in questi termini. C'è un modo - e dobbiamo evidentemente agire sulle inefficienze della scuola - di irrobustire il patrimonio tecnico delle imprese attraverso tecnologie cosiddette trasversali. Non vi sembri banale, ma la saldatura è una questione tecnica di grande complessità. Ci può essere un modo banalissimo di effettuarla, prendendo un cannello e attaccando due pezzi di legno con saldatura autogena, ma molto spesso, quando si tratta di realizzare pezzi di altissimo contenuto tecnico oppure, per esempio, recipienti o fermentatori, oppure ancora reattori che devono resistere ad altissime temperature, occorre una qualità della tecnologia assolutamente straordinaria. Chi si occupa di questo aspetto?
Lasciatemi svolgere un'affermazione: ancora una volta la colpa è dei professori. È stato citato il Baden-Württemberg e, nella fattispecie, la Steinbeis Foundation. In Germania le facoltà di ingegneria sono due. Una è una facoltà che elabora progetti e calcoli, come la nostra, e l'altra è quella degli ingegneri di fabbrica. Sapete chi sono? Sono quelli che vengono dalle Fachhochschulen, le quali hanno ricevuto dignità accademica, ma sono esattamente


Pag. 25

quelle a cui noi ci siamo riferiti nella prima epoca della nostra industrializzazione.
L'industria italiana non è stata avviata dagli ingegneri dopo la seconda guerra mondiale, ma dai periti. Gli istituti tecnici hanno avuto un ruolo assolutamente straordinario. Mi riferisco al Feltrinelli di Milano, al Rossi di Vicenza, al Malisano a Udine, al Montani nelle Marche. Erano quelli che sono poi diventati delle facoltà tecniche, dove il docente insegna l'analisi matematica, ma poi insegna anche il saper fare, il know-how. Ora, questa, è una grandissima carenza.
Perché hanno colpa i professori? Perché, quando si è trattato di seguire questa strada, non c'è stato verso. Io ero nella commissione e i colleghi hanno risposto di no, ragion per cui abbiamo creato il piccolo ingegnere, con la laurea triennale. Questo è un altro difetto di fondo.
Mi viene in mente un'ultimissima questione, con cui concludo. Ne parlavamo anche con l'onorevole Duilio. C'è una situazione che mi piace che voi possiate conoscere e, spero, apprezzare. In alcuni settori come il cartario, il legno e alcune lavorazioni tessili, c'è un'altissima mortalità delle imprese, perché, quando arriva un sinistro, la situazione è gravissima. Se qualcuno di voi ha avuto la sfortuna di vedere un'impresa che è andata a fuoco, lo sa. Ci vuole un anno perché questo sinistro, a meno che sia doloso, possa essere rimborsato.
Naturalmente il piccolo imprenditore, che ha 50-60-70 dipendenti e operai, non può aspettare un anno. A questo punto, i sinistri, che sono tantissimi e che stanno da sempre distruggendo il patrimonio italiano, generano non la perdita dell'impresa, ma dell'imprenditore, perché questo signore in un anno perde il mercato e non ha alcuna possibilità di inseguirlo, ragion per cui poi si trova magari ad avere un'unica figlia grande sposata e se ne va al mare. In questo modo si brucia l'imprenditorialità. È una piccola questione marginale, ma ci tengo molto a riferirla, perché è un problema cui potete provvedere voi, se volete, in sede legislativa. È una protezione che si deve dare al nostro sistema industriale.
Con questi sentimenti io mi taccio e vi ringrazio della vostra attenzione.

PRESIDENTE. È stato un pomeriggio di utilissime informazioni e provocazioni. Credo che possa essere utile la resocontazione della seduta odierna per i colleghi che oggi hanno deciso di dedicarsi ad altre attività. Sono ironico nel senso che purtroppo in tanti intendono l'attività parlamentare unicamente nel momento di schiacciare un pulsante, il che credo porti a poco in termini di soddisfazione intellettuale o di un qualche miglioramento.
Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MAINO MARCHI. Pongo due domande, prendendo spunto da alcune considerazioni del professor Carpanzano.
La prima è sul credito d'imposta per la ricerca. Credo anch'io che questo potrebbe essere il modo migliore per finanziare non attraverso procedure burocratiche, ma con meccanismi automatici, che premierebbero immediatamente chi opera e che non subirebbero i ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione che riscontriamo sempre.
Ci sono state diverse modalità legislative, anche se poi tra questa legislatura e la precedente un po' si è fatto e disfatto, senza arrivare a esperienze significative. Vorrei chiedere al professor Carpanzano quale ritiene che possa essere la modalità migliore. Abbiamo avuto, per esempio, il finanziamento in una determinata percentuale rispetto al totale delle spese, oppure modalità previste dal decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, il cosiddetto «decreto sviluppo», che riguardavano l'incremento rispetto al triennio precedente. Quali potrebbero essere, a suo avviso, le modalità migliori per attivare un canale di questo genere, che anch'io credo sia fondamentale per quanto riguarda le politiche per la crescita?
L'altra questione riguarda il trasferimento tecnologico. Si è parlato di mancanza


Pag. 26

di enti e di soggetti - sono stati svolti alcuni riferimenti in proposito da parte del professor Petroni - e la domanda che intendevo porre è a quale livello territoriale sarebbe ottimale organizzare e avere soggetti che aiutino il rapporto tra l'università e le imprese e che si attivino in particolare sul campo del trasferimento tecnologico.

LINO DUILIO. Anch'io pongo una domanda molto breve e ringrazio per questo pomeriggio utilissimo. La domanda è rivolta al professor Petroni e anche al professor Carpanzano e riguarda i distretti.
Si è affermato che ci sono state molte persone che hanno conseguito l'ordinariato nella docenza universitaria svolgendo una tesi sui distretti o lavorando sui distretti. Anch'io ho letto che questa stagione, che pure è stata fiorente e ha avuto una sua utilità, è destinata al declino e che di fatto bisognerebbe concentrarsi - anche per le implicazioni di natura normativa e istituzionale - sull'idea di reti di imprese piuttosto che non di distretti, essendo ormai fiorita anche una letteratura sul tema.
Volevo conferma di tutto ciò, perché non è questione di poco conto. Ciò non significa che domani mattina si debba cessare di riferirsi ai distretti improvvisamente, archiviando tutto, anche perché ci sarebbero implicazioni sociali non banali. Dovendo, però, compiere scelte un poco strategiche per il futuro, volevo conferma da parte vostra di questa innovazione - chiamiamola così - per quanto riguarda gli effetti sulle future politiche industriali, se mai rinascerà una politica industriale nel nostro Paese.
Ho conosciuto casualmente, andando a visitare l'Osservatorio di Brera, il distaccamento di Merate e ho visto anche com'era ridotto il telescopio di Schiaparelli per mancanza di risorse, ma soprattutto ho riscontrato l'entusiasmo e la passione.
Mi ha interessato molto, poi, quanto è stato affermato dal dottor Pareschi circa la ricaduta di alcune decisioni in termini di tessuto economico-industriale e di occasioni che si possono sprecare.
Ne parlo anche a beneficio del presidente. Non so se mi sono distratto, ma mi è capitato di leggere da qualche parte, che - per il fatto di non avere disponibili 50 milioni di euro - noi rischiamo di non partecipare a un progetto europeo d'avanguardia, il che produrrà effetti catastrofici per i prossimi dieci o quindici anni in termini di ricaduta sul tessuto industriale del nostro Paese, per quanto riguarda settori che beneficeranno fisiologicamente e conseguenzialmente degli effetti di quel progetto di ricerca.
Non so se qualcuno si occuperà mai di queste questioni e se il Governo vorrà tenerne conto, ma, di certo, sentendo queste testimonianze e altre che ascolteremo in futuro, se per un verso ci si esalta per le potenzialità che abbiamo, dall'altro un po' ci si deprime per la «sciatteria» con cui ci comportiamo.

CLAUDIO D'AMICO. Ringrazio tutti gli intervenuti. È stato un pomeriggio molto utile e sono dispiaciuto che siano rimasti in così pochi colleghi, perché queste audizioni sono state molto interessanti. È normale che ognuno di noi abbia anche un'attività sul territorio: c'è chi è amministratore e chi ha altre attività sicuramente da seguire sul proprio territorio, ma sono dispiaciuto.
Anch'io ero tentato di tornare nel mio territorio, essendo anche sindaco di un comune, appena finite le votazioni odierne, però sono veramente contento di essere rimasto ad ascoltarvi, perché ci avete fornito alcuni riferimenti importanti.
Mi dispiace che non sia più con noi, perché è dovuto andare via, il professor Rocca, il quale ha dato un segnale a questa Commissione, quello che bisogna guardare più avanti. Troppo spesso noi siamo legati alle incombenze politiche e ragioniamo in termini molto corti su questioni immediate, mentre dobbiamo prendere come metodo quello di guardare sempre a ciò che avverrà più in là e cercare di adeguare il nostro comportamento


Pag. 27

attuale al futuro, non solo a quello immediato, ma anche a quello a medio e a lungo termine.
Avevo anche alcune domande da porgli, però ognuno ha i suoi tempi e, quindi, mi riferirò solo ad alcune questioni che ho sentito da voi. Vi porrei non tanto una domanda, quanto una richiesta, ossia di farci avere proposte concrete. Sempre nell'ottica del tempo limitato che l'attività politica ci permette di dedicare per poter ragionare, perché siamo impegnati tra una Commissione, l'Aula e anche a livello locale, forse la soluzione migliore è che arrivino proposte da voi che poi qualcuno di noi potrà portare avanti.
Mi metto a disposizione per potermi rapportare con voi ed eventualmente raccogliere proposte che poi si possano tramutare in emendamenti o progetti di legge e che possano quindi andare avanti e magari arrivare a buon fine.
Per esempio, mi interessa un metodo per far sì che i fondi assegnati arrivino subito e non solo dopo la presentazione di 100 mila pezzi di carta. È una questione che mi ha fatto molto riflettere, perché l'ho potuta vivere anche nel mio comune. Abbiamo beneficiato di un finanziamento e adesso siamo ancora, dopo mesi e mesi, a compilare pezzi di carta per poterlo ricevere. Forse si potrebbe fare in modo che, quando un finanziamento viene assegnato a un ente o a un istituto di ricerca, il finanziamento sia immediatamente disponibile e poi quell'istituto o quell'ente, entro un dato numero di giorni, debba presentare la documentazione adeguata per mantenerlo, altrimenti lo dovrà rendere. Almeno in questo modo riusciremmo a lavorare.
Mi rivolgo anche ai colleghi dell'unico altro Gruppo parlamentare presente. Mi spiace che ci siano solo due Gruppi parlamentari. Mancano gli altri e ciò dispiace, però sono tematiche che potremmo portare avanti anche in modo bipartisan.
Cerchiamo di dare un seguito a questi incontri, non facciamoli cadere nel vuoto, come spesso avviene. Si viene in Commissione, si parla, ma sono parole che poi cadono al vento. Ai pochi che sono rimasti qualcosa rimane in mente, però poi viene a perdersi. Cerchiamo di concretizzare, invece, bisogna imparare a diventare concreti, altrimenti Roma diventa il luogo delle parole e poi si concretizza poco e non si attuano le riforme di cui si necessita.
Per esempio, anche il fatto di togliere l'IVA dalle spese per la ricerca mi sembra una proposta interessante e così il problema dei rimborsi per i sinistri. Io sono a vostra disposizione su questi temi per recepire eventuali proposte e poter poi vedere se con l'accordo di tutti si possano realizzare.
Mi esprimo in questa sede e non parlando personalmente con voi, perché mi piacerebbe su questi temi trovare una condivisione tra i diversi Gruppi per portare avanti iniziative che devono essere slegate dal colore politico. Non importa da chi provengano, sono questioni sensate che vengono dal mondo della ricerca e dell'impresa e che dovrebbero servire a far funzionare meglio questo Paese. Penso che si possa cercare di trovare una linea comune su questo fronte, come anche sulle riforme chieste dal dottor Rocca. Mi riferisco alla riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione.
Con questa considerazione vi ringrazio e chiudo il mio intervento.

SIMONETTA RUBINATO. Ringrazio davvero per i contributi apportati che sono stati di grande livello. Anch'io riprendo l'intervento dell'ultimo collega che è intervenuto, per osservare che evidentemente, oltre che tenere audizioni, bisognerebbe anche cominciare a costruire un rapporto di dialogo che renda fruttuoso quanto voi ci avete comunicato e ciò che noi possiamo produrre, cercando di essere un po' più efficienti per il miglioramento del sistema Paese.
Svolgo alcune considerazioni velocissime.
A proposito del credito d'imposta alla ricerca e all'innovazione, il credito d'imposta è già una misura che sostiene l'azienda che svolge ricerca e che già è nella condizione di poter anticipare del


Pag. 28

denaro, delle risorse, per poi recuperarle con i tempi che avete anche voi ricordato.
Credo, però, che un altro aspetto, che non è stato ancora messo a fuoco, sia quello delle start-up che possono portare un contenuto di innovazione tecnologica, in cui spesso possono cimentarsi anche e soprattutto i giovani e per le quali manchiamo di un sistema del credito capace di valutare la bontà, per esempio, dei progetti ai fini di finanziarli. Sto parlando di chi potrebbe avere un'idea, come il fondatore di Apple, Steve Jobs. Lui ha cominciato in un garage ed era un giovane. In Italia non ci sarebbe stato il credito di imposta per lui e chissà quante pratiche burocratiche avrebbe dovuto assolvere.
Come sostenere le start-up, come sostenere i giovani ricercatori che hanno un'idea e un progetto che vorrebbero sviluppare? Forse non sarebbero neanche tantissime le risorse iniziali, ma il credito d'imposta non è la risposta in questo caso. Bisogna, secondo me, per questa parte della ricerca, che di solito si può sposare con l'applicazione pratica e quindi anche facilmente al rapporto con le imprese, trovare alcuni strumenti. Quali ci potete suggerire? Credo che i Paesi più avanti di noi già si occupino di questa questione.
Sia sul credito di imposta, sia sul finanziamento delle start-up c'è un tema che è aleggiato anche nelle considerazioni che ho sentito sviluppare, ossia la selezione e la premialità dei progetti migliori. A volte non solo ci sono finanziamenti a pioggia, ma vanno - senza una strategia di fondo neanche da parte di chi li eroga - a progetti che non rendono a sufficienza. A quel punto il legislatore, nel momento in cui stanzia risorse pubbliche a sostegno di progetti, si chiede come fare a controllare l'esito delle sue decisioni.
Si innesta allora il meccanismo della legislazione e della regolamentazione. Come fare in modo che in questo Paese qualcuno non faccia il furbo e il progetto vada davvero a buon esito e si colleghi alla possibile applicazione?
Mi è piaciuta molto la considerazione di semplificare e responsabilizzare chi dovrebbe gestire. Noi dobbiamo semplificare, ma dobbiamo trovare anche forme di responsabilizzazione, nel caso delle start-up, per chi deve valutare il progetto meritevole, la ricerca meritevole, in modo da non aggravare e appesantire i processi di selezione e anche di decidere dove dirottare le poche risorse, facendolo in modo strategico.
La pubblica amministrazione è un tema che avete toccato quasi tutti, mi pare, anche come un'occasione e un'opportunità. Le commesse pubbliche sono un'occasione per far crescere lo stesso sistema di ricerca e, quindi, il sistema economico del Paese, ma, a sua volta, la stessa pubblica amministrazione ha il problema di diventare innovativa nei servizi che eroga.
Oggi, il Patto di stabilità colpisce soprattutto la rete delle istituzioni locali. Io sono sindaco di un comune di 14 mila abitanti e rilevo che abbiamo buone performance nei risparmi e nella gestione dei servizi, ma non siamo in grado di modernizzare l'apparato digitale e informatico del comune. Siamo appesi a un filo e al rischio continuo che tutto salti, perché il Patto di stabilità interno ci impedisce di rinnovare anche solo il parco macchine e i programmi tecnologici che abbiamo come comune. Questo è un tema che, secondo me, sta rischiando di rendere ancora più pericolosa l'efficienza della macchina pubblica.
Inoltre, noi abbiamo una pubblica amministrazione che ha molti livelli di governo, e io vorrei chiedere a voi qual è il livello di governo che più si adatterebbe a svolgere percorsi strategici di pianificazione, di controllo e di incentivazione. Mi riferisco a ciò che è stato osservato sulla selezione dei progetti di ricerca migliori e sulla loro implementazione e al collegamento con le imprese.
Nello stesso tempo, oltre a essere molti i livelli di governo, la pubblica amministrazione in questo Paese non è omogenea, soprattutto per quanto riguarda i governi locali. Noi facciamo finta di essere un unico Paese, tutti voi avete parlato di cifre


Pag. 29

che sono una media, ma poi in realtà ci sono almeno due Paesi e forse tre in termini di performance.
In tutto questo c'è un tema di fondo, ossia che, quando si legifera a Roma, lo si fa pensando a regioni che hanno già determinato medie europee - non voglio affermare che ci sono i primi della classe e gli ultimi, ma svolgere una mera analisi del dato di fatto - ma ci sono regioni che più di altre sono nella morsa di logiche territoriali non proprio a livelli europei, nonché, a volte, di inquinamento criminale particolarmente forte, che condiziona anche le pubbliche amministrazioni locali.
In un Paese così complicato anche dal punto di vista dello stesso apparato pubblico - sono d'accordo con quanto ha affermato il professor Rocca - che avrebbe bisogno di un piano di ristrutturazione aziendale complessivo dalle regioni all'ultimo comune, noi ci stiamo occupando del piccolo comune e non pensiamo che abbiamo una regione che ha 330 mila abitanti. Non si va a fare massa critica per costruire lo sviluppo di un territorio, non avendone gli attributi e i fondamenti.
Come fare a far diventare - chiedo a voi di indicarci la vostra visione, che siete fuori rispetto alla macchina pubblica - le buone pratiche a livello amministrativo le leve che guidano e creano un percorso di diffusione della buona amministrazione pubblica, anziché agire attraverso il Patto di stabilità e l'aggravio che deriva dalla necessità di essere rigorosi nei conti pubblici, mortificando proprio le pratiche che vorrebbero dare un maggiore contributo, mentre per le altre non cambia nulla e lo scenario rimane lo stesso?
Concludo con un'ultima domanda. Esiste una strategia offensiva e di prospettiva di lungo periodo, che avete tracciato bene, a dieci anni. Secondo me, nel breve periodo, però, c'è anche una strategia difensiva da attuare.
Parto da un caso concreto. In un comune vicino al mio c'è una piccola azienda che si sviluppa in trentacinque anni e che diventa un gioiellino nel settore dell'automazione per cancelli e porte industriali e residenziali. È il tipico caso veneto in cui un metalmeccanico diventa imprenditore e costruisce questo gioiello, con ricerca e sviluppo interni all'azienda. Due anni fa, però, la Assa Abloy, una multinazionale svedese, vede questo gioiellino e lo rileva. L'imprenditore cede l'attività perché ritiene di non essere in grado da solo e con le sue forze di internazionalizzarla e che questa potrebbe essere un'opportunità. Sono passati due anni dall'acquisizione e la multinazionale adesso delocalizza, però vuole tenersi i trenta dipendenti del settore ricerca e sviluppo. Come possiamo costruire anche alcune strategie difensive per non perdere questo valore aggiunto?

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

GIORGIO PETRONI, Rettore dell'Università di San Marino. Inizio con la domanda dell'onorevole Marchi su quale sia il livello territoriale istituzionale in cui collocare un'attività di promozione e di trasferimento tecnologico. Se si vedono le competenze trasferite alle regioni in base al Titolo V della parte seconda della Costituzione, ormai dovrebbero essere le regioni ad occuparsi di queste questioni, ma lo fanno e non lo fanno, secondo me, anche perché non c'è una grande cultura tecnologica nel nostro apparato amministrativo e nei governi locali in genere.
Si vedono esperienze interessanti, però, che descrivo in poche battute. Una delle regioni che da sempre si è occupata di queste questioni, almeno in Italia - non è la sola, ma la conosco bene - è l'Emilia-Romagna.
Occorre, però, compiere una distinzione, perché a livello regionale c'è chiaramente una situazione di propulsione. Addirittura hanno costituito un'agenzia che si chiama ASTER, però a livello territoriale sono nati quelli che loro chiamano tecnopoli. Occorre, in merito, compiere una distinzione tra tecnopolo, distretto industriale e parco scientifico.
I tecnopoli, in realtà, sono di origine francese. Sono i francesi che hanno immaginato che il loro territorio dovesse


Pag. 30

diventare specializzato in alcune grandi produzioni industriali. Tolosa, che non è stata mai una grandissima città, situata in fondo ai Pirenei, è diventata industriale perché i francesi hanno voluto farne un grande polo tecnologico dell'aerospazio. Il tecnopolo è, quindi, un aggregato di imprese su un territorio vasto, ma composto di grandi imprese.
I distretti scientifici o distretti, quelli che noi conosciamo, come Prato, Manzano o Solofra, quest'ultimo in Campania, consistono in decine di imprese che con metodo cooperativo, normalmente a livello di un comune, operano insieme e sono quelli che sono andati in crisi.
I parchi scientifici sono una realtà diversa. Senza dilungarmi, nascono negli Stati Uniti, quando le grandi multinazionali si accorgono che, mettendo i propri laboratori di ricerca e sviluppo nei campus universitari, aumentava la loro capacità produttiva. È da questo che sono partiti. Pensate che in Inghilterra ne esistono 65, di cui alcuni eccellenti. Tra quelli che si occupano di spazio c'è la University of Surrey, che ha compiuto una rivoluzione nel campo dei piccoli satelliti. È una struttura universitaria.
I parchi scientifici sono particolarmente adatti a intervenire laddove ci sono situazioni di ritardato sviluppo. Non è un caso che la prima normativa sui parchi scientifici, promossa nei primi anni Novanta da un mio carissimo collega che poi è mancato, il professor Colombo, fu immaginata per il sud. L'intenzione era di fare in modo che nei territori del sud ci fosse un coagulo e un'autorevolezza di dialogo sul piano tecnologico con i sistemi delle imprese territoriali. Ci abbiamo creduto poco, però, anche a livello dei ministri competenti che si sono succeduti, i quali hanno cominciato a parlare di distretti e poi abbiamo capito come sono stati creati.
Tornando alla domanda iniziale, bisogna vedere caso per caso se si tratti di aree a ritardato sviluppo - quelle che economisti e industriali chiamano il cono d'ombra - e di parco scientifico, una struttura stabile che fa trasferimento tecnologico a favore del territorio. Non è un caso che chi vi parla, insieme con un vostro collega, l'onorevole Massimo Vannucci, abbiamo immaginato di creare un parco scientifico a cavallo tra San Marino e Montefeltro. È un'area a ritardato sviluppo, si tratta di tre valli che di fatto hanno sentito poco la rivoluzione industriale.
Stabilirei di volta in volta quale opzione prevedere. La regione istituzionalmente se ne occupa, e le iniziative da prendere - se i tecnopoli come per l'Emilia-Romagna oppure i parchi scientifici o i supporti ai distretti - vanno di volta in volta esaminate a seconda della configurazione del territorio e delle culture che vi insistono.
La domanda dell'onorevole Duilio riguarda le reti. È interessante, perché chi si occupa di trasferimento tecnologico sa che stiamo assistendo da una decina d'anni a un evento assolutamente straordinario, ossia la relativa maggiore facilità con cui si viene in contatto con le innovazioni. Questo fatto è dovuto evidentemente a Internet e fondamentalmente allo sviluppo di information technology.
Per portare un esempio, è molto più semplice oggi sapere che cosa fa il proprio concorrente, quali sono i suoi brevetti e quali sono i centri di ricerca che si stanno occupando di un dato problema.
Addirittura stanno comparendo da due anni su Internet, e mi pare interessate che voi lo sappiate, i cosiddetti broker dell'innovazione. Se c'è un imprenditore che ha un problema, mette un annuncio su Internet, gli rispondono cinque, sei o sette persone e alla fine comincia un dialogo fittissimo, che diventa sempre più tecnico, fino a quando si arriva al punto che qualcuno ritiene di essere in grado di aiutare a risolvere il problema, magari con un piccolo anticipo di pagamento e il resto a conclusione del lavoro. È assolutamente straordinario. Chi risponde a questo profilo? Generalmente un professore universitario o un dirigente d'azienda che a sua volta ha una rete di esperti che può affrontare il problema. Questo si sta verificando


Pag. 31

sempre più di frequente ed è significativo della necessità di mettere in rete il sistema delle imprese.
Peraltro, voi mi insegnate che l'Unione europea ha programmi importanti di consorzi di piccole imprese che devono o possono partecipare a progetti di ricerca innovativa. Questo è un altro grande terreno specifico su cui lavorare.
Per quanto riguarda la disponibilità, ovviamente è totale, almeno per quanto mi riguarda. È molto bello e interessante farsi ascoltare, ossia studiare un tema e trovare addirittura una Commissione composta di parlamentari che ascolta. Io vi sono molto grato. Se posso almeno io contribuire, sono straordinariamente disponibile, io e la mia piccola università.
Per quanto riguarda gli spin-off, onorevole sindaco, secondo una ricerca quelli universitari non hanno funzionato moltissimo. È stata avviata una ricerca recentemente che ha stabilito che si fermano, in quanto i ricercatori italiani normalmente hanno un'educazione tecnico-scientifica. Quando si tratta di svolgere un'analisi di mercato e trovare i soldi, la barriera è pressoché insormontabile.
Anche i ricercatori italiani hanno cominciato a costituire piccole imprese all'interno dell'università, ma non crescono, perché non hanno la cultura gestionale. C'è un grande lavoro da svolgere su questo terreno. Sempre più spesso vedo che a quelli che si occupano un po' di economia vengono rivolte diverse domande. Oltre a essere rettore di questa piccola università io passo due giorni a Milano all'Istituto nazionale di astrofisica. In mensa mi vengono a porre domande persone che vogliono creare uno spin-off a proposito del marketing e del conto economico. C'è un'esigenza di conoscenze economiche e gestionali, soprattutto da parte di coloro che hanno una prevalente educazione di carattere tecnico-scientifico. È uno dei motivi per cui questi spin-off non crescono ed è importante saperlo.
La Banca d'Italia se ne era accorta e, come voi sapete, aveva addirittura favorito con un provvedimento di alcuni anni fa la costituzione delle cosiddette SGR, società di gestione del risparmio che raccogliessero il capitale, ma il livello minimo di risorse si è reso insufficiente. Con 100 mila euro una SGR non ha una grande possibilità di investimenti. Anche questo aspetto andrebbe rivisto e mi pare che sia una competenza specifica della vostra Commissione.

GIOVANNI PARESCHI, Direttore dell'INAF - Osservatorio astronomico di Brera. Ci sono diversi temi interessanti e vorrei partire dall'ultimo trattato dal collega Petroni, ma dal mio punto di vista.
Non credo che ci sia solo un problema di inesperienza da parte del ricercatore, il che senz'altro esiste, però è piuttosto significativo che nella regione Lombardia i fondi per le start-up non vadano esauriti. Ce ne sono di diversi tipi, anche rivolti al mondo femminile, ma non vengono esauriti.
Credo che i problemi siano due. Uno deriva dal fatto che forse la modalità con cui viene erogato il finanziamento è molto rischiosa, specialmente per giovani ricercatori che non hanno esperienza: il fatto di dover prendere 150 mila euro a prestito spaventa, anzi terrorizza.
La seconda questione, in merito alla quale mi ricollego a quanto sosteneva Petroni, è la mancanza di legame con la grande industria. Sono appena stato in Germania, all'università di Erlangen, dove c'è un ottimo esempio di una start-up che è partita, dopo che la Bosch aveva chiesto all'università di Erlangen di sviluppare un dato sistema di misura. Immediatamente è nata l'idea di far partire la start-up. Al di là di una pianificazione finanziaria, il business plan, se non c'è una richiesta fatta fin dall'inizio, il procedimento è meno funzionale.
Il problema è che è molto difficile far sì che le grandi industrie si rivolgano agli istituti per richieste di questo genere. A volte accade e a volte no e credo che questo sia uno dei problemi. Non so come possa essere affrontato, ma è ciò che fa la differenza rispetto al sistema Germania. In Germania spesso ci sono strumenti sviluppati dall'università; l'industria li va a cercare


Pag. 32

all'università e da questo contatto nasce in modo naturale anche il cliente.
Passo a un altro tema che è stato sollevato e che io ritengo molto importante: chi valuta. Si tratta di un problema fondamentale. Prima ho parlato dei PRIN e dei FIRB del Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca. A parte la formalità di presentare un report, non c'è nessuno che fa audit e capisce come i soldi siano stati spesi. Questo vale per una questione molto piccola, come i PRIN, o un pochino più grande, come i FIRB, ma per altri grandi progetti non c'è.
In merito ci ricolleghiamo un po' a quello che anche il collega sosteneva: c'è una mancanza di gestione tecnica all'interno degli enti statali. Tra l'ASI e il citato CNES c'è un abisso. Penso che gli ingegneri spaziali dentro all'ASI si possano contare sulle dita di una mano, mentre al CNES sono 1.500. Questa è la situazione reale. Manca la cultura di un apparato tecnico dello Stato che, di fatto, lo faccia funzionare, il che si riflette non soltanto sulle piccole iniziative. Io sono una piccola realtà, ma ci sono anche le grandi aziende. Queste giornalmente si comportano molto bene, c'è una capacità tecnica assai elevata in alcune di esse. Penso all'ex Alenia di Torino.
Spesso avviene che il monitoraggio sul denaro erogato alle grandi aziende per ricerca e sviluppo non viene svolto o viene svolto in maniera estremamente inefficace. Ho parlato prima del problema delle lungaggini burocratiche connesse ai contratti e all'erogazione delle risorse. Sono un tema drammatico per noi, ma pensate quanto possono esserlo per una grande azienda.
Su questo punto ci sono due commenti da svolgere. Uno è che purtroppo, nell'attuale crisi, si tende sempre più a livello industriale a vedere il finanziamento per la ricerca e lo sviluppo come un finanziamento per - in qualche modo - fare bilancio. Questo è un altro problema molto grosso. Siamo ridotti al fatto che le grandi aziende sono interessate al business dei 100 mila euro, quando, invece, normalmente pensano a fatturati molto più grossi, per cercare di movimentare il bilancio, e questo in una situazione di mancato controllo.
Dall'altra parte, torniamo al problema di come sia farraginoso il sistema. Che cosa succede nel sistema? Se io vado all'ESA, rispondo alla cosiddetta intention to tender e la vinco: ho una review in cui in una giornata viene esaminata la mia proposta e alla fine troviamo un accordo: viene mantenuta la proposta economica, ma l'ESA si assicura che il progetto possa essere portato avanti in maniera efficace.
Che cosa succede con l'ASI? Con l'ASI c'è la cosiddetta congruità. Fondamentalmente viene mandata una lista di item che si vogliono comprare, su cui viene effettuata una valutazione per vedere se il costo proposto sia ragionevole o no. È un'operazione assurda, che porta via un tempo infinito e per di più non è valutabile, perché di alcuni manufatti solo io posso sapere il costo. Di fatto generalmente viene apportato un taglio del 10 per cento sulle missioni, che è l'unico intervento che riescono a compiere, perché non riescono a valutare le altre voci. Quando parlavo di un cambiamento del sistema, mi riverivo a questo aspetto.
Torno sull'ASI perché è un'agenzia che dovrebbe essere di grande interesse per la Commissione bilancio, in quanto muove una quantità di denaro notevole. Ha un bilancio di 750 milioni di euro l'anno, di cui una parte va all'ESA.
È stato calcolato in una review interna che un procedimento per l'assegnazione di un contratto, sia a un istituto pubblico, sia a un'industria privata, è mediamente della durata di un anno. Praticamente, dal momento in cui si sa che il contratto viene assegnato, il processo per poter avere le risorse è lungo un anno. È una situazione pazzesca, che mette in crisi noi e l'azienda. Spesso, giustamente, i revisori dei conti faticano ad approvare somme di erogazioni da ricevere che non sono alla fine certe. Inoltre, c'è il problema della quota all'ESA, che è una gabbia molto grossa.
Queste questioni si possono affrontare in due modi: o ci si toglie dall'ESA, e qualcuno l'ha fatto, come la Danimarca,


Pag. 33

che ha una partecipazione all'ESA di 30 milioni, una cifra simbolica, oppure si cerca di partecipare all'ESA avendo una strategia e un grande ritorno.
Alcuni anni fa, il contratto per la realizzazione di un grande satellite scientifico, BepiColombo, dedicato a uno scienziato di Padova, è stato assegnato a un'industria tedesca, l'Astrium, che si presentava con una lettera di endorsement della Merkel. La nostra industria non si è presentata con alcuna lettera di endorsement da parte dello Stato e neanche dell'ASI.
Vorrei sottolineare che siamo in una situazione drammatica dal punto di vista strategico, ragion per cui le nostre industrie spaziali sono tutte di proprietà straniera: la Thales Alenia Space è diventata francese, Finmeccanica detiene solo il 30 per cento, con scelte strategiche che spesso vanno contro gli interessi italiani, la Carlo Gavazzi Space è tedesca, dell'OHB. Di fatto abbiamo perso sia il know-how, sia la presenza di un'industria strategica come quella dello spazio in Italia.
Io credo che ciò significhi che l'ASI deve essere in qualche modo riformata. Ci si deve spiegare il motivo per cui questo sia successo. Il finanziamento dello Stato all'ASI è molto grande, non stiamo parlando di piccole cifre.

EMANUELE CARPANZANO, Primo ricercatore del CNR e direttore del consorzio europeo Synesis. Credo che i colleghi abbiano già risposto a quasi tutti i quesiti. Io fornisco solo due elementi aggiuntivi a integrazione di quanto è stato osservato.
Mi sembra importante la considerazione su che cosa sono i distretti e che cosa siano le reti. È un tema importante, perché, per mantenere la competitività in un settore, occorre avere almeno due caratteristiche principali. Una è avere - per così dire - la filiera completa, altrimenti il settore nel tempo va perso e, quindi, occorre avere la filiera completa di tutti gli attori che rappresentano il settore stesso. Se produco scarpe, devo avere i fornitori di tomaie, di suole, di forme, di componenti, altrimenti il distretto si sgretola e vaporizza, come si accennava prima.
L'altra questione importante è che bisogna avere una filiera corta, cioè i tempi devono essere veloci, perché oggi il mercato è molto veloce. Ciò non significa che si deve avere necessariamente una filiera geograficamente vicina, però i tempi con cui tale filiera copre il mercato devono essere veloci.
Posso portare diversi esempi di strutture che ritengo ottime reti d'impresa e che sono distribuite anche su territori più ampi di un'unica regione italiana, perché comunque riescono a garantire i tempi per poter arrivare sul mercato in modo sufficientemente rapido: oggi, per alcuni prodotti significa avere tempi di una settimana o due. Se ci si mettono tre mesi a produrre il prototipo e ad andare sul mercato, in alcuni settori succede che arrivano sul mercato prima i prodotti copiati in Cina di quelli di coloro che li hanno concepiti e realizzati. Il nostro tempo di realizzazione e produzione per portare sul mercato un prodotto è più lungo del tempo che impiegano i cinesi a copiarlo, produrlo e portarlo da noi.
Il discorso di rete d'impresa significa questo, secondo me. La filiera completa è una filiera veloce, che può essere anche distribuita geograficamente su più regioni o che può addirittura avere unità produttive all'estero, quando fosse il caso.
È una considerazione importante. Noi perdiamo le filiere. Se si sgretolano i fornitori all'interno della filiera, inevitabilmente questa gradualmente va a morire.
Un'altra considerazione riguarda qual è il livello istituzionale giusto ove operare. In prima battuta direi che è quello delle regioni, perché, se vediamo anche a livello europeo, constatiamo che molto è attuato a livello di regioni, le quali sono il player che - bene o male - gestisce la massa critica adeguata.
Dopodiché, però, andrebbe elaborato un piano più articolato, perché alcune azioni sono molto importanti e richiedono l'intervento nazionale e altre possono essere territoriali e richiedere un intervento a livello locale. Bisogna rendersi conto che l'innovazione è complessa e che richiede


Pag. 34

almeno tre o quattro livelli di azione diversi. Non si può pensare che ci sia un unico livello preferenziale.
L'errore che si commette oggi è che si vuole fare tutto a tutti i livelli. Io ho eseguito una volta un conto che, secondo me, è molto significativo. Ci sono le regioni che danno i contributi alle aziende per partecipare ai bandi europei, per predisporre le proposte di progetto dei bandi europei. La somma dei contributi che tutte le regioni erogano alle aziende per partecipare a tali bandi europei supera la disponibilità di fondi che ci sono in Europa per realizzare i medesimi progetti. Questo è il paradosso cui ormai si è arrivati. Sono conti che nessuno esegue, però siamo arrivati a questa situazione.
L'importante è avere la consapevolezza di qual è il proprio ruolo e di che cosa ciascuno deve veramente fare. Ognuno si deve «tarare» al livello giusto. I progetti europei servono a dare progetti di un determinato respiro, che vanno sul mercato fra tre, quattro o cinque anni in una dimensione di cooperazione internazionale, mentre i progetti territoriali devono essere quelli che vanno a realizzare un'innovazione immediata, per cui dopo sei mesi o un anno si va sul mercato e si traggono benefici diretti sul territorio, perché anche le istituzioni vogliono vedere un ritorno in tempi appropriati.
Secondo me, non esiste un livello unico, però ognuno deve compiere le azioni giuste. Oggi, ripeto, tutti fanno tutto, con uno spreco di risorse incredibile. Se si effettua la comparazione tra i programmi delle regioni e degli Stati europei, io posso prendere alcuni temi che sono finanziati da ogni regione italiana, da ogni regione europea, da ogni Stato e ancora dalla Commissione europea. Ovviamente, ognuno mette un decimo delle risorse che servono veramente, che sono comunque sbilanciate, però questa è la realtà oggi: grandissima frammentazione, spreco e perdita di tempo anche in tutti i processi.
Svolgo un'osservazione volante anche sul discorso concernente le start-up e gli spin-off. Io credo che abbiamo un problema culturale di base su tali questioni, perché non abbiamo in Italia la cultura del rischio e del business, del management. È un nostro limite anche culturale, che però ci vincola molto. Da noi le attività di spin-off e di start-up fanno molta più fatica a partire.
Io ho potuto effettuare confronti internazionali con colleghi americani. Hanno un altro ritmo, perché ragionano proprio in modo diverso. Se vogliamo far nascere bene le start-up e gli spin-off italiani, potremmo stabilire che tutti i neolaureati in Italia debbano andare per un anno o due in un Paese anglosassone o americano e poi tornare in Italia, perché devono cambiare il loro atteggiamento culturale. In Italia, chi fallisce una volta nella vita è un fallito. All'estero, è uno che ci ha provato e dopo magari ci riprova. Preferiscono uno che ha già fallito, perché almeno ci ha provato, rispetto a uno che parte per la prima volta. È un problema importante che non si può risolvere in un attimo.
Sul venture capital io conosco bene l'amministratore delegato di Quantica, una società che raccoglie capitali. Ogni tanto mi chiama e mi riferisce di avere decine di milioni di euro di fondi di investimento per iniziative di start-up, ma che nessuno gli presenta mai un business plan convincente. Poiché poi lui, mediamente, deve garantire un ritorno, non riesce a impegnare questi soldi, che pure ha a disposizione.
Il discorso start-up e spin-off è molto delicato e vale anche per le piccole imprese. Quando parlavo di business intelligence, intendevo che ciò serve a maggior ragione per le piccole imprese, perché devono effettuare una start-up o uno spin-off.
Le procedure di verifica oggi sicuramente non funzionano. Io non ho alcuna remora nell'ammettere che sono uno dei valutatori del ministero. Lavoro sia per il Ministero dell'istruzione, dell'università e della ricerca che per il Ministero dello sviluppo economico e confesso di essere sempre in pieno imbarazzo, perché spesso mi trovo a valutare progetti che sono stati sottoposti dalle aziende quattro o cinque


Pag. 35

anni prima: sono chiamato come valutatore a compiere la verifica ex ante di un progetto che è finito due anni fa.
Mi è capitato di valutare un progetto che era finito diversi anni fa, che era finito con successo. Nel frattempo, però, l'azienda era fallita, era stata rilevata e l'impresa che l'aveva rilevata riteneva di avere ancora un credito verso lo Stato per un progetto di ricerca portato a termine da parte di un'azienda che era anche fallita. Sono situazioni veramente surreali.
Il meccanismo con cui oggi vengono gestiti i bandi, le valutazioni e i finanziamenti sono surreali, per non dire catastrofici. Per tale motivo, in questa situazione, va bene il credito d'imposta, magari anche destinando meno soldi, ma che sono erogati subito e a chi veramente produce qualcosa, perché il meccanismo attuale funziona poco.
Anche per quanto concerne il programma Industria 2015, di cui si è parlato, fra alcuni anni si potrà vedere che cosa ha generato. Io ho iniziato a lavorare su questo bando diversi anni fa, almeno quattro o cinque anni fa, e il progetto a cui ho contribuito oggi non è ancora partito. Si parla di uno strumento che è stato attivato quattro o cinque anni fa nelle sue premesse istituzionali. Adesso stanno cominciando a uscire le graduatorie, con una frantumazione di risorse che arriveranno ex post che sono a supporto di chi ha fatto innovazione o dichiara di averla fatta. È anche difficile fare la valutazione.
Io consiglierei di introdurre criteri di valutazione molto precisi e verificabili per quanto sia possibile. Ad esempio, se un'azienda ha compiuto un investimento in ricerca e dichiara di avere avuto risultati io andrei a verificare un anno dopo quante persone in più sono state assunte rispetto a quelle che c'erano prima e di quanto è aumentato il fatturato: sono numeri semplici, il numero di dipendenti e il fatturato, da verificare un anno dopo.
Oggi, quando finisce il progetto, non se ne sa più nulla e il risultato, la ricaduta, non è misurata da nessuno. Andiamo un anno dopo la fine del progetto a vedere se sono aumentati il numero di dipendenti e il fatturato. Se è accaduto, bene, altrimenti il beneficiario esce dalla lista dei soggetti finanziabili per un po' di tempo. Occorrono indicatori numerici semplici e misurabili, che io credo possano essere attuati. È un concetto che applicherei comunque.
Con riferimento al credito d'imposta, per quanto riguarda i tecnicismi io non riesco a essere particolarmente utile, però questo strumento mi sembra un meccanismo diretto allo scopo. Lo vincolerei comunque a un contesto preciso, perché chiunque può dichiarare di svolgere ricerca. Ci deve essere una rete, devono esserci investimenti mirati secondo una strategia di ricerca e sviluppo, e non investimenti genericamente dichiarati come tali; ci deve essere un contesto adeguato in cui si svolge la ricerca e, infine, ci deve essere una verifica di che cosa si è generato con il progetto. Se non si è generato nulla, non dico che i fondi vanno restituiti, perché tale meccanismo non funzionerebbe, però magari non si avrebbe più diritto ad avere altri finanziamenti. Questo potrebbe essere un meccanismo.
L'ultima questione che mi sta a cuore è la delocalizzazione, di cui si è parlato. Io credo che oggi, se l'impresa viene venduta a una proprietà straniera, sia molto difficile ipotizzare che non venga delocalizzata. Questo accade nel 90 per cento dei casi, per tutti i motivi che abbiamo descritto prima.
Oggi, pensare di produrre in Italia con tutti i problemi finanziari, di giustizia e di costi non è pensabile. Io credo che questo Paese si possa rimettere in piedi, però gli imprenditori di oggi - con alcuni imprenditori con cui collaboro, anche se non sono imprenditori in senso stretto, ce lo siamo ripetuti diverse volte - devono lavorare per i loro figli. Se si vuole fare l'imprenditore in Italia ai nostri giorni e mantenere nel Paese le imprese, si devono sicuramente compiere sacrifici importanti sui margini. Magari si è molto bravi e si riesce ad avere margini importanti, ma sicuramente si potrebbero avere margini migliori spostandosi altrove. Oggi è così.
Se non vogliamo che le imprese vengano delocalizzate, non dobbiamo vendere


Pag. 36

agli stranieri, perché l'imprenditore straniero, a meno che non si occupi di un prodotto ad altissimo valore aggiunto, non ha nessun motivo di restare in Italia, se il suo obiettivo è il profitto di impresa.

PRESIDENTE. Ringrazio veramente tutti coloro che hanno partecipato all'audizione. Devo ringraziare i colleghi per la loro partecipazione, ma soprattutto voi esperti per il vostro rilevante contributo.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 18.

Consulta resoconti delle indagini conoscitive
Consulta gli elenchi delle indagini conoscitive