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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione V
3.
Mercoledì 15 febbraio 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 2

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE - ANALISI ANNUALE DELLA CRESCITA PER IL 2012 E RELATIVI ALLEGATI (COM(2011)815 DEFINITIVO)

Audizione di rappresentanti di Confindustria:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 2 10 12 14 15 20
Duilio Lino (PD) ... 13
La Malfa Giorgio (Misto-LD-MAIE) ... 12
Marchi Maino (PD) ... 10
Nannicini Rolando (PD) ... 10
Occhiuto Roberto (UdCpTP) ... 14
Paolazzi Luca, Direttore del Centro studi di Confindustria ... 2 15 19
Vannucci Massimo (PD) ... 12 19

ALLEGATO: Documentazione consegnata dai rappresentanti di Confindustria ... 21
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.

[Avanti]
COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 15 febbraio 2012


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

La seduta comincia alle 14,05.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di Confindustria.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nel quadro dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame della comunicazione della Commissione - Analisi annuale della crescita per il 2012 e relativi allegati (COM(2011)815 definitivo), l'audizione di rappresentanti di Confindustria.
È presente il dottor Luca Paolazzi, direttore del Centro studi di Confindustria, accompagnato dal dottor Alessandro Fontana, dalla dottoressa Patrizia La Monica e dalla dottoressa Anna Candeloro, che ringrazio per essere intervenuti.
Do la parola al dottor Paolazzi, ringraziandolo per la sua presenza e per il suo contributo in Commissione bilancio.

LUCA PAOLAZZI, Direttore del Centro studi di Confindustria. Sono io che ringrazio gli onorevoli deputati a nome di Confindustria, anzi a nome della presidente e del direttore generale. Porgo le loro scuse per non aver potuto essere presenti di persona a quest'audizione, ma, come voi sapete bene, sono periodi di intensi negoziati.
Ringrazio i deputati per aver dato la possibilità a Confindustria di condividere con voi alcune considerazioni sull'analisi annuale della crescita e sul contesto in cui essa si inserisce.
L'analisi annuale della crescita è propedeutica all'aggiornamento del Programma nazionale di riforma e del Programma di stabilità. Questi documenti costituiscono momenti essenziali nel coordinamento delle politiche economiche degli Stati europei per rispondere con coraggio e visione lungimirante alla sfida dell'integrazione e del coordinamento delle politiche economiche e strutturali a favore della crescita e della competitività e di contrasto all'accumularsi di squilibri che si traducono in forze centrifughe. Una risposta che è stata a lungo parziale e rinviata e che è diventata di massima urgenza con la crisi dei debiti sovrani e, più in generale, con la divergenza nei ritmi di crescita, nella competitività e nei saldi dei conti con l'estero.
L'Italia in tutti questi indicatori, che rientrano nel meccanismo di allerta preventivo predisposto dalla Commissione europea presentato ieri, mostra segnali di difficoltà. In particolare, per quel che riguarda la crescita economica. È fondamentale, perciò, compiere un esame approfondito e condiviso delle strozzature che ostacolano la crescita del Paese e delle politiche che possono e devono essere messe in campo per riguadagnare competitività in Europa e nel mondo.
Gli impegni europei costituiscono una straordinaria opportunità per il Paese per darsi obiettivi di progresso in campi cruciali


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per lo sviluppo economico. Lo scorso anno questa opportunità non fu colta pienamente.
Gli obiettivi di finanza pubblica che l'Italia si è data sono molto ambiziosi: raggiungimento del pareggio di bilancio nel 2013 e avvio, nello stesso anno, del rientro del debito pubblico in rapporto al PIL, a ritmi perfino superiori a quelli considerati opportuni a livello europeo.
Le politiche adottate per perseguirli sono imponenti, con correzioni pari a sei punti di PIL a regime nel 2013, grandezza calcolata sulla base del valore indicato negli interventi pluriennali varati dal 2009 al 2011, e si stanno dimostrando adeguate. Sono obiettivi e misure che non hanno uguali negli altri maggiori Paesi, ma che sono stati dettati dal quadro, da lungo tempo fragile, della finanza pubblica italiana. Fragilità che è diventata insostenibile la scorsa estate con la nuova ondata della crisi dei debiti sovrani.
Il merito di queste decisioni importanti va dato al Governo attuale e a quello che l'ha preceduto nonché al Parlamento che ne ha approvato l'azione risanatrice. Le manovre approvate nel 2011, unite a quelle dei due anni precedenti, paiono essere in grado di far conseguire al Paese gli obiettivi di finanza pubblica. Si tratta di interventi straordinari che comportano un aggiustamento del saldo primario di 72 miliardi di euro quest'anno e di ulteriori 26,8 miliardi l'anno prossimo. Tra la documentazione che consegno alla Commissione vi è una tabella che raffigura queste misure, suddividendole, per il 2012 e il 2013, in maggiori entrate nette e minori spese nette.
Nonostante la correzione sia basata per due terzi sull'aumento delle entrate, la spesa primaria nell'ultimo anno di programmazione, il 2014, subirà una flessione del 5,1 per cento in termini reali rispetto ai valori del 2010 - con una riduzione dell'1,3 per cento in media in ciascuno dei quattro anni - e la spesa corrente primaria scenderà del 3,3 per cento reale, con una riduzione media annua dello 0,8 per cento nel medesimo intervallo temporale.
In termini nominali, però, la spesa primaria continuerà a crescere a ritmi contenuti rispetto a quello che abbiamo osservato in passato: la spesa totale crescerà dell'1,8 per cento nel 2014 rispetto al 2010, e la spesa corrente crescerà del 3,7 per cento. È evidente che questa discrepanza di circa due punti è dovuta al taglio delle spese in conto capitale.
Sono profili di ripiegamento che non hanno precedenti e che recuperano quanto disperso in termini di sforzo di risanamento con la dinamica degli anni passati. Tra il 2000 e il 2007, infatti, la spesa primaria è cresciuta del 18,9 per cento in termini reali e quella corrente primaria del 15,3 per cento, entrambe, quindi, in media di oltre due punti percentuali l'anno.
Dunque, i progressi che ci si prefigge di compiere dal lato della spesa sono notevoli e saranno ancora maggiori una volta che entreranno a regime i risparmi previdenziali. Con il rientro del premio al rischio pagato sui titoli della Repubblica, il contenimento della spesa per interessi e il maggiore incremento del PIL renderebbero raggiungibile il pareggio di bilancio nel 2013 e il rapido ripiegamento del debito pubblico in rapporto al prodotto interno lordo.
Il rapporto tra debito e PIL calerebbe poco sopra l'88 per cento entro il 2020, sotto ipotesi prudenti riguardo alla dinamica del PIL che crescerebbe del 3 per cento nominale annuo, mantenendo nel tempo l'avanzo primario al 5,5 per cento del PIL.
Tuttavia, non si esce dalla crisi solo con l'aggiustamento dei conti pubblici. Da anni gli osservatori italiani, le istituzioni internazionali e le agenzie di rating non hanno mancato di sottolineare che è la combinazione tra alto debito e bassa crescita a mettere a rischio la solvibilità del Paese, oltre a pregiudicare il benessere faticosamente guadagnato dagli italiani. È insieme sui due fronti, quello dei conti pubblici e quello della crescita, che occorre agire, non su uno soltanto.
Gli obiettivi di bilancio diventano raggiungibili se e solo se poggiano su scelte


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volte a rimuovere le criticità strutturali che impediscono al sistema economico italiano di esprimere tutte le sue potenzialità di sviluppo. Scelte in grado di liberare l'economia da vincoli inutili e di mutare le aspettative di cittadini e imprese, italiane ed estere, rendendo finalmente il Paese attrattivo per gli investimenti, con un contesto che incoraggi il fare impresa, anziché intralciarlo, come avviene oggi.
Ricordiamo, infatti, che l'analisi condotta dalla Banca mondiale colloca l'Italia, nel 2012, - i dati sono stati raccolti nel giugno del 2011 e il rapporto è stato diffuso alla fine dell'anno scorso - all'ottantasettesimo posto su 183 nazioni nella graduatoria internazionale per facilità dell'impresa. Nel 2011 era all'ottantatreesimo posto ed è scesa, quindi, di quattro posti.
L'Italia è una nazione ricca di capitale umano, di voglia di fare e di ingegno. Qualità che trovano la più evidente espressione nella vitalità del settore manifatturiero, secondo in Europa solo a quello tedesco, e in numerosi primati scientifici, tecnologici e di mercato in molti campi. Si tratta di risultati importanti, che prima della crisi si stavano, però, appannando. La crisi ne ha messo in pericolo la sopravvivenza. Occorre una svolta netta verso un nuovo corso che renda l'Italia ospitale per i giovani talenti, anzitutto italiani, ma anche stranieri, promuovendo la voglia di fare impresa e di rischiare con l'innovazione e con l'investimento.
In sé, l'esistenza di tali primati non garantisce al Paese di porsi su un sentiero di crescita pari a quello delle nazioni europee più dinamiche. Dal 1997, cioè da quando di fatto è nata la moneta comune europea, al 2007, il tasso di crescita dell'economia italiana è stato mediamente di quasi un punto percentuale inferiore a quello dell'insieme degli altri Paesi dell'area dell'euro, con un 9,4 per cento cumulato in meno. Si tratta di un enorme spreco, se si pensa che, uguagliando il ritmo di incremento allora registrato nel resto dell'area dell'euro, il prodotto interno lordo italiano sarebbe oggi di oltre 148 miliardi di euro più elevato. Con la crisi il divario si è accentuato, arrivando al 14,7 per cento cumulato nel 2011, e la perdita annua di PIL è diventata di oltre 232 miliardi di euro, cioè di 3.822 euro per abitante.
Il motore dello sviluppo è costituito dalla creatività basata sulla conoscenza. Ciò è ancor più vero nel contesto globale, caratterizzato da accesa concorrenza e continua e rapida innovazione. Un contesto che offre anche straordinarie opportunità per i prodotti italiani.
La strategia Europa 2020 è indirizzata proprio a generare le condizioni per determinare una crescita inclusiva, intelligente ed ecocompatibile. La gran parte dei suoi obiettivi riguarda la formazione, l'impiego del capitale umano e la ricerca. Sono obiettivi del cui rilievo l'Italia è ben consapevole e nella cui direzione ha agito in passato, ma mai con la continuità, la determinazione e l'urgenza che sarebbero state appropriate per raggiungerli, considerato che anche gli altri Paesi muovono nella stessa direzione e che ciò che conta, nel confronto competitivo, è la velocità relativa.
L'Italia deve, perciò, compiere un doppio sforzo: quello che occorre a mantenere il passo di cambiamento in corso nei Paesi concorrenti e quello necessario a colmare il divario accumulato lungo molti anni di scelte incompatibili con la salvaguardia delle condizioni della crescita nel lungo periodo.
Le carenze sistemiche, d'altronde, possono oggi rappresentare un vantaggio, se la loro eliminazione diventa un trampolino di lancio. Colmare le lacune, infatti, imprimerebbe una dinamica all'economia e alla società italiane aggiuntiva rispetto a quella racchiusa nelle tendenze spontanee e tale da elevare stabilmente il ritmo di incremento del PIL ben sopra il 2 per cento annuo, contro il dato molto inferiore all'1 per cento, che si determinerebbe spontaneamente.
Per far ciò bisogna intervenire con la massima celerità e simultaneamente su più fronti. L'arretramento competitivo e il declino relativo accumulati negli ultimi vent'anni hanno ormai raggiunto una


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massa critica tale da mettere a repentaglio la conservazione del benessere che gli italiani hanno conquistato dal dopoguerra. La violenza con cui la crisi ha colpito l'economia italiana e la difficoltà a risollevarsi, nonostante un sistema finanziario più solido e un maggior risparmio delle famiglie, testimoniano della concretezza di quel pericolo.
Il risanamento dei conti pubblici e le misure a favore della crescita vanno considerati come tasselli di un unico mosaico. Il primo genera stabilità, produce le condizioni di sostenibilità e libera gli operatori dall'incertezza. In questo modo crea il terreno favorevole alla crescita. Le seconde innalzano il dinamismo dell'economia, alleviano i gravi sacrifici e danno loro la più convincente e valida motivazione di migliori prospettive in un futuro non remoto.
L'attuale Governo in pochi mesi ha approvato importanti provvedimenti in materia di liberalizzazioni e di semplificazioni. L'elaborazione del Programma nazionale di riforma può rafforzare e ampliare le azioni avviate. Se realisticamente ambizioso negli obiettivi e dotato di indicazioni chiare sugli strumenti concreti per raggiungerli, il Programma nazionale di riforma può fornire un ulteriore e importante contributo alla riconquista della fiducia nella capacità dell'Italia di tornare a crescere, rimuovendo così definitivamente i timori dei mercati finanziari, abbassando lo spread ancora troppo elevato, allentando la morsa del credit crunch e ottenendo, in questo modo, concreti risultati di ritorno dell'economia sul sentiero di ripresa già nella seconda metà di quest'anno. Tutto ciò ritorna nello scenario disegnato dal Centro studi di Confindustria a dicembre e gli accadimenti successivi, interni e internazionali, lo stanno confermando.
Inoltre, come abbiamo già sottolineato precedentemente, ma è importante ripeterlo, il Paese presenta gravi gap di competitività sintetizzati nella più bassa crescita, nell'ampio deficit delle partite correnti e nella bassa dinamica della produttività. L'economia italiana ha sperimentato dalla seconda metà degli anni Novanta un ritmo di sviluppo nettamente inferiore sia rispetto al passato, sia rispetto ai partner europei. Il divario è divenuto particolarmente evidente nell'ultimo decennio, che è stato caratterizzato dall'emergere di nuovi attori sullo scenario mondiale e dall'affermarsi delle nuove tecnologie legate alla comunicazione e all'informatica, sulle quali l'Italia presenta notevoli ritardi.
Per l'effetto congiunto della bassa crescita nel periodo pre-crisi e della profondità della recessione, l'Italia nel primo decennio degli anni Duemila è risultato il Paese dell'area dell'euro che è cresciuto al tasso più basso, circa un terzo della media, meno della metà della Germania e quasi un terzo della Francia.
È nella dinamica della produttività del lavoro la spiegazione del rallentamento osservato. In particolare dal 2000 al 2007, cioè già prima della crisi, la produttività è cresciuta dello 0,2 per cento annuo - dato calcolato per l'intera economia - contro l'1,6 per cento negli anni Novanta, l'1,8 degli anni Ottanta e il 2,8 per cento degli anni Settanta.
L'incremento della produttività è indispensabile per recuperare il terreno competitivo perduto e ben rappresentato dal divario nell'andamento del costo del lavoro per unità prodotta, il cosiddetto CLUP. Tra il 2000 e il 2010, il CLUP in Italia, nel settore manifatturiero, è salito di 16,6 punti percentuali più della media dell'area dell'euro e del 26,3 per cento più della Germania.
In questo contesto, le riforme sono vitali proprio per innalzare la produttività e, quindi, il tasso di crescita dell'economia italiana. I campi in cui è necessario intervenire sono molteplici. Alcuni ambiti hanno una particolare priorità per gli effetti estremamente positivi che avrebbero sul ritmo di crescita del Paese. La selezione di questi temi è stata effettuata sulla base delle cinque priorità indicate dalla Commissione europea e dei quesiti molto puntuali avanzati dalla Commissione oggi qui riunita.
Un punto importante è costituito dagli investimenti pubblici. Il decreto-legge


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n. 201 del 2011 è positivamente intervenuto sull'argomento, spostando risorse dalla spesa corrente a quella in conto capitale per circa 1,2 miliardi di euro. Occorre continuare su questa strada, visto che le spese in conto capitale nel 2014, secondo le stime del Governo, dovrebbero contrarsi di circa due punti di PIL rispetto al 2009 e di un punto e mezzo rispetto al 2007. Si tratta di un taglio la cui natura penalizza particolarmente la crescita proprio quando, invece, essa va rilanciata.
Occorre, inoltre, lavorare per rendere più efficiente la spesa pubblica, sia corrente, sia in conto capitale. Questo è il compito della spending review. È un compito molto impegnativo, che va assolto con autorevolezza, esperienza e autorità, disponendo di tutte le informazioni sulla gestione del bilancio, non solo statale, ma anche degli enti decentrati, sull'allocazione territoriale del personale, sugli output prodotti da tutti i centri di spesa e sulle risorse utilizzate, finanziarie e non.
L'analisi dovrebbe consentire di individuare non solo oculate riduzioni di spese e riallocazioni di fondi nell'ambito del bilancio pubblico, ma anche nuove regole di funzionamento della pubblica amministrazione in grado di modificare i meccanismi che originano la spesa pubblica e le sue inefficienze. Si dovrà partire dai valori contabili, ma non si ci si può limitare a questi. Andranno collegate le risorse finanziarie utilizzate dai diversi centri di spesa con i risultati ottenuti e individuate le ragioni del successo o dell'insuccesso dei diversi interventi attraverso l'analisi di benchmarking.
Dal lato delle entrate le manovre del 2011 e, in particolare, il decreto-legge n. 201 del 2011 hanno apportato importanti innovazioni, spostando parzialmente il prelievo verso i consumi e il patrimonio. Gli interventi in materia di IRAP, IMU, gettito dei giochi, accise e IVA hanno mutato la distribuzione del carico fiscale.
Con questi interventi la composizione delle entrate si è molto avvicinata alla media degli altri Paesi europei, ma resta ancora molto alto il cuneo fiscale e contributivo. Nel 2010, includendo IRAP per la parte imputabile al costo del lavoro, trattamento di fine rapporto e contributi INAIL, esso era pari al 52,7 per cento del costo del lavoro, valore secondo solo a quello del Belgio nell'ambito dei Paesi OCSE e più elevato che in tutti i principali competitori dell'Italia.
Le risorse necessarie per modificare ulteriormente la composizione delle entrate possono essere reperite negli ampi margini di intervento che rimangono in materia di evasione fiscale. Quest'ultima non solo è illegale e moralmente riprovevole, ma provoca l'abbassamento dell'efficienza e della crescita, perché distorce il terreno competitivo e l'allocazione delle risorse a favore di chi evade e limita l'efficacia di interventi mirati nei confronti dei soggetti effettivamente a basso reddito.
Confindustria ha sostenuto in tutte le sedi gli sforzi antievasione compiuti e continuerà a sollecitarne di ulteriori. Tra le azioni possibili e auspicabili, la collaborazione volontaria tra fisco e contribuenti, in linea con le best practice suggerite dagli organismi internazionali, può produrre vantaggi in termini di accertamenti non invasivi o di minori adempimenti per l'impresa e in termini di aumento dell'adempimento spontaneo degli obblighi fiscali. Sono sicuramente necessari, inoltre, la revisione degli studi di settore in grado di favorire l'emersione di fatturato e limiti stringenti all'utilizzo del contante.
Il gettito recuperato dall'evasione, sia con le misure di contrasto, sia con l'aumento della compliance, va quantificato e destinato interamente alla riduzione del prelievo fiscale, in particolare quello sul lavoro e sulle imprese. Il cuneo fiscale e contributivo, come già ricordato, e il tax rate effettivo pagato dalle imprese sono ai massimi livelli internazionali.
La diminuzione delle aliquote avrebbe diversi effetti: favorirebbe lo stesso adempimento spontaneo agli obblighi fiscali, renderebbe il Paese attrattivo per gli investimenti e ne accrescerebbe la competitività.
In materia di credito, l'adeguamento dei ratio delle banche imposto dalla


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European Banking Authority nel pieno della crisi - con un tempismo non encomiabile - è stato realizzato per metà e sta accelerando i deleveraging delle banche, le quali tagliano gli attivi, se non riescono nell'immediato ad alzare il capitale. Tutto ciò, insieme al maggior costo della raccolta bancaria, che ha seguito il rialzo dei rendimenti dei titoli di Stato, e alla sfiducia sui mercati interbancari europei, determina una crescente selettività nella concessione del credito alle imprese italiane, come denunciano costantemente gli imprenditori e come confermano le informazioni raccolte dalla Banca centrale europea.
Il credit crunch, peraltro, non è affatto uniforme tra nazioni e la sua disomogeneità agisce da ulteriore fattore di divaricazione competitiva. Ciò sta accadendo nonostante l'azione della Banca centrale europea sia tesa ad assicurare liquidità anche nel medio termine.
Le piccole e medie imprese, giudicate erroneamente più rischiose, ne risentono maggiormente e pagano tassi d'interesse più elevati. Per fronteggiare questa situazione il Governo ha opportunamente reintrodotto incentivi alla patrimonializzazione delle imprese, con l'ACE, e potenziato il Fondo di garanzia per le piccole e medie imprese. Occorre proseguire in questa direzione, favorendo l'utilizzo di altri canali di finanziamento, in particolare migliorando le cambiali finanziarie, attraverso l'eliminazione di alcuni vincoli posti alla legge istitutiva, la legge n. 43 del 1994, che le rendono poco appetibili, e favorendo l'emissione di obbligazioni, anche da parte delle imprese, con procedure di emissioni più semplici.
In questo quadro di scarsa liquidità diventano improrogabili il recepimento della direttiva comunitaria sui late payment, che fissa in 60 giorni il termine massimo di pagamento dei debiti commerciali della pubblica amministrazione nei confronti delle imprese, e la liquidazione dell'enorme debito pregresso.
I tempi di pagamento della pubblica amministrazione, nel 2011, sono saliti a 180 giorni dai 128 del 2009, mentre negli altri Paesi partner europei sono stati accorciati, in Germania da 40 a 35 giorni e in Francia da 70 a 64.
Il Governo ha compiuto un primo passo nel decreto-legge n. 1 del 2012 in materia di liberalizzazioni, stanziando 5,7 miliardi di euro per il pagamento dei debiti delle amministrazioni statali, ma la maggior parte del debito commerciale riguarda le regioni e gli enti locali. È necessaria un'operazione di trasparenza sull'esatto ammontare del debito commerciale esistente in tutta la pubblica amministrazione e un patto fra Stato, regioni, enti locali e imprese per definire le modalità di erogazione delle somme dovute e per evitare in futuro il formarsi di debiti di tali dimensioni. Nell'immediato è bene iniziare ad attuare concretamente le misure già approvate, quali la certificazione dei crediti e la compensazione tra crediti e debiti.
Venendo alle altre riforme strutturali per la crescita, il settore dei servizi è quello che presenta le più rilevanti esigenze di intervento, come hanno confermato le analisi dell'OCSE. L'azione richiesta dalle imprese è centrata sulla liberalizzazione e sull'apertura dei mercati, con interventi sulla regolazione dei servizi professionali e dei servizi pubblici locali e nazionali. In alcuni settori, in particolare infrastrutture e trasporti, è necessaria anche l'istituzione di un'Authority per garantire parità di accesso alle infrastrutture e vigilare sui mercati e i servizi resi dai gestori delle stesse e dai servizi di trasporto. Su tali temi l'attuale Governo sta procedendo in modo positivo ed è auspicabile una rapida entrata in funzione delle norme recentemente introdotte. Di fatto questi interventi incorporano pienamente nella nostra legislazione il principio di libertà di mercato contenuto nella direttiva europea sui servizi, che obbliga a giustificare ogni restrizione con rigorosi criteri di interesse pubblico, comunque entro i vincoli di necessità e proporzionalità della restrizione per la realizzazione di quell'interesse.
È assolutamente auspicabile il recepimento della direttiva in materia di servizi


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di interesse economico generale al fine di circoscrivere l'ingiustificato ampliamento della presenza pubblica, anche attraverso la creazione di società in house. Più in generale, sulle utility, comprese quelle locali, occorrono indirizzi orientati all'apertura dei mercati e alla regolazione. Va, tuttavia, sottolineato che proprio nella direttiva europea tali indirizzi mancano e che ciò crea forti asimmetrie fra Stati e resistenze alle liberalizzazioni. Ciononostante, alcuni significativi passi avanti stanno maturando nell'ambito del decreto-legge in materia di liberalizzazioni, sia nei servizi pubblici locali, sia nei settori che vedono tradizionalmente una forte presenza pubblica, come i trasporti e le infrastrutture di trasporto.
In materia energetica, un quadro normativo certo e stabile nel tempo è premessa fondamentale per assicurare la necessaria continuità sia ai soggetti che investono, sia all'industria fornitrice di prodotti ad alta efficienza. Occorre orientare strutturalmente la produzione su beni ad alta efficienza, con un sistema di incentivazione in grado di promuovere la ricerca e lo sviluppo di nuove tecnologie, nonché promuovere comportamenti di consumo virtuosi attraverso campagne di informazione e formazione volte a sensibilizzare cittadini e imprese sulle opportunità di risparmio energetico.
La detrazione di imposta del 55 per cento è sicuramente un incentivo efficace per indirizzare le scelte di spesa in direzione del risparmio energetico. La promozione di tecnologie per la sostenibilità rappresenta per il Paese una grande opportunità di crescita sia nel mercato europeo, sia nelle economie emergenti, che dovranno fare un uso sempre più razionale delle risorse energetiche per mantenere gli attuali ritmi di crescita.
Molto positiva è la riprogrammazione delle risorse europee avviata dal Governo nel dicembre del 2011, che ha portato a concentrare su istruzione, agenda digitale, occupazione e trasporti ferroviari - terreni nei quali il Mezzogiorno sconta ampi ritardi - 3,7 miliardi di euro, pari all'8,5 per cento delle disponibilità per il periodo 2007-2013 per le regioni della convergenza.
Per rilanciare gli investimenti, a questi interventi va affiancata una misura automatica di incentivazione come il credito d'imposta finanziato con risorse europee, in analogia con il credito d'imposta già attivato per le nuove assunzioni. Andrebbe ripresa l'esperienza delle zone franche, ripristinando le originali agevolazioni fiscali per la creazione di nuove imprese nelle zone urbane degradate.
Lo strumento dei project bond può essere utilmente utilizzato per finanziare le infrastrutture, tuttavia non sembra appropriato nell'attuale fase congiunturale. Infatti, la redditività degli investimenti infrastrutturali, salvo rarissime eccezioni, è piuttosto bassa e di lungo termine, mentre la remuneratività richiesta dagli investitori, attualmente, si è fortemente elevata a causa dei maggiori rischi sui mercati finanziari.
Inoltre, sono più difficili da ottenere le garanzie necessarie ad acquisire un rating sufficiente. Non a caso le emissioni di questi titoli nei Paesi dove maggiormente sono diffuse, come il Regno Unito, sono sensibilmente calate e quelle poche poste in essere incontrano notevoli difficoltà di collocamento sul mercato.
In ogni caso l'emissione di project bond andrebbe promossa agendo sulle garanzie che potrebbero essere fornite da soggetti istituzionali, quali SACE Spa, Cassa depositi e prestiti Spa, e la Banca europea per gli investimenti, e sugli incentivi fiscali, in modo da avvicinarli alle migliori condizioni riservate ai titoli di Stato.
L'innovazione, come ricordato in precedenza, è e sarà il principale motore dello sviluppo. L'Italia è notoriamente arretrata nelle graduatorie internazionali sia di input, sia di output riguardo alle spese in ricerca e sviluppo. Ricerca e innovazione devono, perciò, essere poste al centro della politica economica del Paese, individuando obiettivi chiari e pochi strumenti strutturali con risorse certe e tempi rapidi di attuazione che promuovano la partnership tra pubblico e privato.


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Sono indispensabili, quindi, all'interno di un programma nazionale sia il credito di imposta per gli investimenti in ricerca e innovazione, sia Industria 2015, strumento capace di focalizzare risorse per favorire grandi progetti prioritari, aggregando grandi e piccole imprese, università e centri di ricerca.
Occorre assolutamente evitare la dispersione delle risorse tra i diversi livelli governativi. Va seguita una logica di programmazione congiunta, sfruttando al massimo i fondi europei, nazionali e regionali e attraendo capitali finanziari privati. Occorre, infine, rendere l'Italia protagonista nei programmi europei di ricerca e innovazione.
L'adozione delle tecnologie dell'informazione e della comunicazione - ICT -, soprattutto se accompagnata da cambiamenti organizzativi all'interno delle imprese, può avere eccezionali effetti di ricaduta sull'innovazione e sull'efficienza complessiva dei processi produttivi e, quindi, sulla produttività e sull'accumulazione di capitale in tutti i settori produttivi.
Su questo fronte l'Italia ha accumulato un grave ritardo, attribuibile principalmente alla scarsa penetrazione della banda larga, la quale è indispensabile per permettere alle imprese di sfruttare l'ICT, così da interagire in modo più efficiente con clienti, fornitori e pubblica amministrazione.
Da questo punto di vista è fondamentale la realizzazione dell'Agenda digitale italiana in tempi brevi e certi, ed è molto positiva l'istituzione di una cabina di regia, alla quale le organizzazioni di rappresentanza delle imprese che fanno capo a Confindustria sono pronte a collaborare per apportare le numerose proposte concrete già avanzate e di rapida attuazione.
L'efficienza della pubblica amministrazione è cruciale per catalizzare gli investimenti delle imprese italiane e attrarre quelli delle imprese estere. I costi amministrativi sono tripli rispetto a quelli dei migliori Paesi europei. L'esperienza insegna che soltanto un'opera di revisione dell'ordinamento legislativo a tutti i livelli, dalle leggi di diversa fonte ai decreti attuativi e alle circolari, può consentire un'effettiva semplificazione. Lo snodo cruciale è costituito dall'attuazione della semplificazione, che comincia con la chiarezza nella redazione delle norme vigenti e la riduzione del loro numero, così da non dare adito a difformi interpretazioni e applicazioni. A tale proposito, sono molto positive le misure contenute nel recente decreto-legge in materia di semplificazioni, anche perché già efficaci, riguardo ai poteri sostitutivi e ai tempi certi dei procedimenti.
Il rapido ed efficace corso della giustizia civile è indispensabile per il pieno rispetto dei contratti, a cominciare dai termini di pagamento anche tra privati. Questi ultimi raggiungono lunghezze elevatissime in Italia - 103 giorni, nel 2011, contro i 59 della Francia e i 37 della Germania - e costituiscono un fattore di innalzamento del fabbisogno finanziario delle imprese.
In Italia occorrono 1.210 giorni contro i 394 della Germania e i 331 della Francia per aver eseguito giudizialmente un obbligo contrattuale. Un processo civile di primo grado dura in Italia 533 giorni, contro i 286 della Francia. Tutto ciò riduce la fiducia, disincentiva gli investimenti e diminuisce la certezza del diritto. Perciò è importante definire con tempestività i compiti e le capacità del tribunale delle imprese istituito con il decreto-legge n. 201 del 2011 e dare rapido corso al ridisegno geografico dei tribunali.
Per l'occupazione giovanile è molto importante la recente riforma legislativa dell'apprendistato, che favorisce la transizione scuola-lavoro e poggia sulla formazione quale elemento centrale per garantire l'incontro tra le esigenze delle imprese e le competenze dei giovani. La formazione è chiamata a giocare un ruolo centrale non solo per i giovani, ma anche per tutta la forza lavoro, favorendo l'occupabilità attraverso il life-long learning.
Infine, la capillare diffusione di una rete di servizi per l'infanzia e per i non autosufficienti è cruciale per l'aumento dell'occupazione femminile, perché tale


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diffusione favorirebbe l'alleggerimento degli oneri di accudimento e di cura che oggi all'interno della famiglia sono prevalentemente a carico delle donne.
Vi ringrazio di aver ascoltato questa relazione e sono a disposizione per le vostre domande.

PRESIDENTE. Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

MAINO MARCHI. Grazie per l'illustrazione e le proposte formulate. Cercherò di approfondirne alcune.
In particolare, sulla green economy, sia con riferimento alle politiche energetiche, sia più complessivamente, quali sono gli interventi che ritenete prioritari in questo campo, che è fondamentale per l'economia del futuro, ma anche per quella di oggi. Credete che l'Italia possa essere tra i protagonisti e possa avere imprese all'avanguardia? Quali sono le politiche che occorrerebbe attuare come prioritarie, principali e anche immediate?
Sul credito di imposta per la ricerca, noi abbiamo avuto diverse esperienze in questi anni, dal 2006 ad oggi. La mia domanda è, sulla base di queste diverse esperienze, quale ritenete debba essere il sistema, ovviamente sostenibile anche sul piano della finanza pubblica, più efficace perché ci possa essere davvero un contributo per far sì che si riduca il gap tra il nostro Paese e la media dei Paesi europei, nonché per raggiungere non solo gli obiettivi che ci si è fissati l'anno scorso con il Programma nazionale di riforma, che sono troppo bassi rispetto agli obiettivi europei, ma anche per avvicinarci maggiormente a tali obiettivi europei?
La terza e ultima questione riguarda la presenza del pubblico nell'economia, le liberalizzazioni e soprattutto i servizi locali. In particolare, voi pensate che occorra intervenire soprattutto attraverso liberalizzazioni e gare, quando c'è la possibilità, o attraverso privatizzazioni, magari anche forzate?
Porto un esempio. Nel decreto-legge n. 1 del 2012 in materia di liberalizzazioni, mettendo insieme l'articolo 11 e l'articolo 25, nel campo delle farmacie succede che i comuni non hanno più il diritto di prelazione per nuove farmacie, il che può avere una sua logica, ma in più le farmacie pubbliche sono destinate gradualmente a esaurirsi, perché non possono più assumere personale, quando questo va in pensione oppure si licenzia. Sono soggette, inoltre, ai limiti del Patto di stabilità interno e a tutte le norme sul personale degli enti locali e, quindi, non possono funzionare come aziende. È inevitabile che ciò produrrà una contrazione della presenza attuale del pubblico.
Credete che sia questa la strada, oppure devono essere altre le misure da adottare per favorire un processo di concorrenza e di liberalizzazione anche nei servizi pubblici locali?

ROLANDO NANNICINI. Io vorrei approfondire un solo argomento.
A pagina 9 del documento che ci ha consegnato, lei ha citato la direttiva europea sui ritardi nei pagamenti della pubblica amministrazione. Io credo che sia giunto il momento anche di parlarne in termini più specifici, calandosi nell'attuale realtà della vita delle imprese e degli enti territoriali. Lei richiama giustamente le regioni e gli enti locali.
Vorrei soffermarmi su questo aspetto. Gli enti locali che sono in ritardo di pagamento non hanno debiti. Non si tratta di debiti, perché concettualmente sono ritardi di pagamento che stanno in un bilancio di competenza. Io ho un bilancio in termini di competenza giuridica, quindi posso effettuare l'impegno, posso emanare la delibera e posso svolgere il lavoro, perché ho la copertura di un documento che si chiama bilancio preventivo.
Il nostro errore è di tenere sempre in vita il bilancio preventivo e di non prevederne una specifica scadenza. Lei nella relazione, giustamente, ricorda l'aumento del ritardo che abbiamo accumulato e che questa situazione può ripetersi per anni.
Da un punto di vista legislativo io le chiedo perché non suggerite l'adozione di uno strumento che faccia coincidere la


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cassa con la competenza e che dia alla prima una valenza giuridica. Gli enti locali sanno qual è la cassa. Io porto l'esempio del Patto di stabilità interno per il 2012. Esso prevede l'obiettivo del 15,6 per cento per la spesa dei primi tre titoli per i comuni sopra i 5 mila abitanti. Nell'anno successivo, a tali regole saranno soggetti anche i comuni sopra i 3 mila.
Che cosa significa questo 15,6 per cento? Significa che, nel 2012, i comuni hanno 6,4 miliardi di euro, che si può effettuare la relazione di dettaglio di blocco della cassa e che lo Stato ha tagliato loro 3,5 miliardi di euro in termini di competenza per gli strumenti di trasferimento. Di tale cifra, 2,9 miliardi di euro vanno non ai debiti, ma ai ritardati pagamenti. Fino a quando il comune redigerà il suo bilancio in termini di competenza e attribuirà allo stesso la valenza di strumento per effettuare appalti e acquisti, tutto determinerà ritardi nei pagamenti.
Perché non studiare un meccanismo di raccordo tra Stato centrale, enti locali e imprese che chiami in causa un ente terzo, che può essere un pool di banche o la Cassa depositi e prestiti? E ancora, perché non compiere il censimento delle amministrazioni e chiedere loro, anche con durezza, una volta eseguito un dato lavoro, quando pensano di pagarlo? Gli enti hanno i loro flussi di cassa e ognuno conosce il suo. Se io ho stipulato un appalto o fatto un acquisto per 100 euro oggi, so che pagherò, senza entrare nei dettagli, a una determinata data.
Bisogna necessariamente che il Governo, gli enti locali e le associazioni imprenditoriali si attivino. Io sono convinto che, se si dicesse a molti imprenditori di non aspettare 320, 400 o 180 giorni, a seconda delle amministrazioni, e di prendersi il 95 per cento dell'importo complessivo, mentre il pool che si sostituisce a queste amministrazioni riscuoterebbe le suddette risorse dagli enti locali secondo l'andamento previsto della loro disponibilità di cassa, le imprese accetterebbero. Deve essere, però, «stoppato» al 1o gennaio del 2013 il bilancio redatto in termini di competenza giuridica: non piace all'Europa il bilancio di competenza.
Io sento troppo stracciarsi le vesti, sento svolgersi una discussione pre-politica su questo fatto. Non si tratta di debiti, ma solo di pagamenti ritardati. Se sono stati effettuati fuori bilancio, chi li ha effettuati va alla Corte dei conti e chiude la partita - scusatemi la franchezza - e viene sanzionato.
Dovremo mettere in moto un meccanismo virtuoso, in cui un soggetto terzo si sostituisce alla pubblica amministrazione, se c'è l'accordo delle associazioni industriali e delle associazioni di categoria, perché, anche in modo facoltativo, si riscuotano subito al 95 per cento le somme dovute e l'altro soggetto si metta in attesa del ritardo. Dal 1o gennaio del 2013, però, non si potrà fare più, perché la cassa coinciderà con la competenza, ossia la valenza giuridica del bilancio sarà per quello di cassa. Se continuiamo a tenere il bilancio preventivo in vita, continuiamo tutti gli anni ad accumulare ritardi nei pagamenti.
Che cosa è successo negli altri Paesi europei? La Germania ha iniziato ad adottare gradualmente sistemi di questo genere e ha risolto il problema.
Mi sono permesso di entrare nei dettagli di un argomento, commettendo forse anche alcuni errori, perché l'argomento è difficile anche da interpretare, ma chiedo con forza, anche in modo informale, in un'audizione sulla crescita, e me ne scuso, se possiamo riaprire altri momenti di approfondimento del tema con il Governo, con la nostra Commissione e con gli enti locali.
Questo tema è discusso, secondo me, in termini - non nella sua relazione; lei ci dà una fotografia e non è tenuto a trovare sempre le soluzioni - pre-politici, in cui tutti si stracciano le vesti, perché le imprese aspettano sempre e continuano ad aspettare. Bisogna trovare necessariamente una forma per interrompere questo fenomeno, perché, se si va avanti con la legislazione vigente, i 200 giorni di ritardo diventeranno 315, 420 e via elencando.


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PRESIDENTE. Possiamo chiedere una valutazione degli strumenti che abbiamo adottato fino adesso e che evidentemente non hanno funzionato, come quelli della Cassa depositi e prestiti e di SACE.

GIORGIO LA MALFA. Vorrei svolgere solo un'osservazione generale e porre una domanda.
L'osservazione di carattere generale è che mi pare che Confindustria, nel prospettare le misure per la crescita, abbia indicato alcuni interventi di politica fiscale, di politica di bilancio: ha parlato di investimenti pubblici, di riduzione del cuneo fiscale, di pagamenti della pubblica amministrazione e di incentivazione per le nuove tecnologie. Mi pare, e io sono largamente d'accordo, che l'indicazione delle misure necessarie per accelerare la crescita dell'economia italiana sia interamente o largamente collegata alla possibilità di disporre di risorse di finanza pubblica da destinare a questi fini.
Le liberalizzazioni sono molto importanti, ma io penso che siano solo misure di medio termine, mentre le misure che sono necessarie per il rilancio dell'economia italiana sono collegate, stando a quanto ci ha riferito il rappresentante di Confindustria, al problema della finanza pubblica.
Naturalmente ciò pone un problema, perché con una mano stiamo stringendo, ma poi con l'altra, se vogliamo crescere, dovremo allentare. Bisognerebbe capire meglio la situazione e in merito pongo una seconda domanda.
La Confindustria non ci ha comunicato quali sono le sue valutazioni - le conosciamo per averle lette, ma mi interesserebbe risentirle - sugli effetti che le politiche di risanamento, su cui essa dà un giudizio molto positivo, con riferimento al cosiddetto decreto «Salva Italia» e alle misure del Governo precedente, avranno sull'economia italiana nel corso del 2012. Non sappiamo, cioè, se Confindustria condivida le valutazioni negative effettuate dal Fondo monetario internazionale, che ipotizza una caduta del reddito di 2,2 punti percentuali. Sarebbe utile sapere se questa previsione si determinasse, quali sarebbero le conseguenze di breve termine sull'andamento dell'economia italiana e se questo andamento, a sua volta, non riapra il problema del deficit pubblico. In sostanza, non ci comunica se le previsioni di rientro nei parametri di Maastricht non vengano messe in pericolo dall'andamento di breve termine dell'economia.
Se questo rischio esiste, che cosa si potrebbe fare nella seconda metà di quest'anno e all'inizio dell'anno prossimo per evitare che un andamento troppo negativo dell'economia nel breve periodo possa compromettere gli stessi obiettivi di risanamento della finanza pubblica?

MASSIMO VANNUCCI. Ringrazio il direttore Paolazzi. Le analisi sono ovviamente condivisibili. Mi sembra che le azioni che indica Confindustria siano nel solco delle iniziative in corso dopo il decreto-legge «Salva Italia», il decreto «Cresci Italia», le semplificazioni e via elencando.
Mi rifaccio alle considerazioni dell'onorevole La Malfa. È evidente che con la priorità attribuita al risanamento dei fondi pubblici, permane un forte problema di domanda interna, che, se ripiega, mal si concilia con la crescita.
In quest'analisi e nelle azioni conseguenti all'analisi che ci devono essere - alcune sono state indicate, come la leva fiscale - ed essendo pessimista sulla possibilità di una ripresa della domanda interna, io concentrerei molto di più le azioni verso la capacità di esportazione del Paese, oltre che sull'attrazione degli investimenti. Occorre una capacità di azione in questo senso.
È una parte che manca in questa vostra relazione. Il precedente Governo, come sapete, ha smantellato l'ICE, su forte pressione di Confindustria, la quale sosteneva di potersi occupare personalmente dell'argomento e di essere in grado di sostituirsi a tale istituto. Poi non si è sostituito nulla a nessuno e abbiamo rimesso in campo alcune agenzie, che non so che cosa stiano facendo.


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Non è tanto questo il punto, però, io approfittavo del Centro studi di Confindustria per cercare di parametrare la situazione normativa italiana con quella di altri Paesi, come Germania e Francia. La Germania ha un surplus di bilancio.
Per esempio, un aspetto che non viene mai evidenziato e che mi sembra decisivo in questa fase, riguarda l'attività di SACE volta a fornire garanzie assicurative per il credito dell'esportazione. Noi sappiamo di avere il secondo settore manifatturiero europeo, ma sappiamo anche che il nostro sistema manifatturiero non è basato sulla grande impresa, ma sulla piccola e media impresa. Abbiamo una struttura di assicurazione del credito all'esportazione che, però, guarda solo alla grande impresa e non ha strumenti per accompagnare la piccola impresa.
Le porto un piccolo esempio. C'è un'impresa marchigiana di calzature e di mobili che conquista un cliente in uno Stato dei cosiddetti BRIC, quale la Russia. Il cliente è disponibile ad acquistare elettrodomestici, mobili e scarpe, ma non a pagare in anticipo e in contanti. Quell'imprenditore sarebbe disposto a pagarsi un'assicurazione per garantire questo suo credito per una fornitura anche di 100 mila o di 200 mila euro, non solo, quindi, per le grandi commesse per le quali garantisce SACE. Magari l'impresa sarebbe disposta anche ad accettare una franchigia e a pagare un premio piuttosto alto.
Secondo me, questo meccanismo determinerebbe un moltiplicarsi di capacità di esportazione della nostra economia. L'Italia non ha un sistema di assicurazione al credito per l'esportazione per la piccola e media impresa. Io le chiedo, se possibile, di fornirci il suo parere su questo, che credo sia uno strumento formidabile per l'esportazione.
So che l'Associazione nazionale calzaturifici italiani (ANCI) da anni sta combattendo battaglie su questo fronte. Ne sto combattendo, modestamente, una anch'io. Facemmo approvare una norma in un decreto-legge in cui si estendeva la possibilità di intervento della SACE. C'è stato anche un decreto applicativo del Governo, ma che non ha dato risultati. Si potrebbero organizzare, per esempio, società regionali di assicurazione attraverso il sistema bancario e le Camere di commercio. Se noi mettessimo le nostre imprese in grado di non rinunciare alle forniture perché non si fidano dell'interlocutore, in quanto non lo conoscono, il nostro sistema dell'export ne risentirebbe di meno. Secondo me, questo intervento provocherebbe una piccola rivoluzione, se fosse studiato.
La prima cosa da fare, però, è confrontarsi. Si può anche copiare quello che fanno gli altri e poi vedere di proporre, se occorrono, soluzioni normative oppure soluzioni che il territorio possa mettere in atto autonomamente. Grazie.

LINO DUILIO. Svolgo tre osservazioni, di cui una di carattere generale che potrebbe essere anche considerata una digressione rispetto alle finalità proprie della nostra indagine. La pongo, però, perché in questa sede ci interessano anche le opinioni e i pareri di interlocutori importanti e autorevoli come Confindustria.
Vorrei una sua opinione sulle ragioni di questa situazione di crisi, in cui non solo il nostro Paese si è venuto a trovare. Lei sa bene che vi sono analisi che portano a sostenere che questa situazione sia dovuta agli errori degli uomini e dei Governi. Se questa è la diagnosi, la terapia consiste nel porre rimedio a tali errori e, quindi, nell'adottare correzioni conseguenti anche in termini di politica economica.
Qualcuno, invece, sostiene che questa crisi è sistemica e ineludibile, perché è il sistema in sé che produce queste situazioni di crisi. Di conseguenza, c'è poco da fare, se non rivedere antiche teorie che sembravano consolidate, ragion per cui oggi liberisti e neoliberisti si appellano a un intervento dello Stato, situazioni che in tempi nemmeno tanto lontani erano ritenute impensabili.
In breve, qual è la sua opinione? Tale questione può essere considerata una digressione, ma in genere le terapie fanno sempre seguito a un minimo di diagnosi.


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Passo alla seconda domanda, più precisa, in materia di politica industriale. Nel nostro Paese si afferma ogni tanto - in verità, non è un'affermazione che ricorre in modo tambureggiante, come sarebbe necessario, a mio parere - che da troppi anni non c'è una vera politica industriale, che non c'è una linea di politica industriale e che, quindi, sarebbe necessario, sia pure in un contesto che oggi è interdipendente, esaltare un proprium di politica industriale, che evidentemente fa riferimento non solo a innovazioni di processo e, quindi, a una razionalizzazione dell'esistente, per cui si gratta il fondo di un barile che ormai è già ampiamente raschiato e si torna comunque sempre più o meno sulle stesse questioni, ma anche a innovazioni di prodotto, ponendosi possibilmente anche alcune domande.
Lei all'inizio ha parlato di coraggio, di visione e di lungimiranza. Sarebbe interessante valutare se, sulla scorta di questi princìpi, non sia il caso di chiedersi quali sono i segmenti produttivi peculiari del nostro Paese, ovvero se ci si debba affidare ai tradizionali segmenti di un made in Italy, che taluno sostiene potrebbe andare incontro a fenomeni di obsolescenza piuttosto preoccupanti, se non altro perché su molti di questi settori la competizione di Paesi che stanno emergendo ci mette in grandissima difficoltà. A fronte di questo problema, qual è a suo giudizio il ruolo che un'associazione come Confindustria dovrebbe svolgere al riguardo, anche per aiutare a confezionare una politica industriale nella quale lo Stato possa esercitare, a sua volta, un ruolo?
Passo alla terza questione, più rapida, che riguarda le banche. Non ho sentito parlare molto di banche. Sto leggendo un libretto interessante di pochi anni fa di Salvatore Rossi, allora Capo del Servizio studi della Banca d'Italia, che, intervistando imprenditori di successo, eccellenti e di nicchia, evidenzia un dato già noto, cioè che le banche, secondo gli imprenditori, danno i soldi quando non ce n'è bisogno e non li danno quando ce n'è bisogno.
Secondo me, questa è un'affermazione assolutamente corretta, oggi più che mai, in un'epoca in cui le banche erogano i prestiti semplicemente quando sono garantiti, magari con garanzie reali al 100 per cento. Esagero, ma non più di tanto. Penso all'ultimo episodio che ha visto le banche utilizzare danaro loro prestato a determinati tassi di interesse per comprare titoli con rendimenti superiori. Non mi è parso che si siano levate voci anche nell'ambito confindustriale particolarmente significative per stigmatizzare un comportamento che mi sembra dia ragione alle affermazioni riportate nel libro di Salvatore Rossi. Lei che cosa ne pensa? Grazie.

PRESIDENTE. A tale proposito, anche se non è scritto da nessuna parte, mi risulta che per alcuni fattori - mi riferisco, in particolare, all'indirizzo di assicurare determinati coefficienti nella gestione bancaria - di fatto le risorse reperite attraverso la Banca centrale europea sono indirizzate all'acquisizione di titoli pubblici e inesorabilmente negate al sistema produttivo. Se così fosse, come ci sembra di capire, si tratta di un'operazione sicuramente utile a sistemare alcune partite di contabilità pubblica, ma non a promuovere lo sviluppo.

ROBERTO OCCHIUTO. Ho visto che lei nella sua relazione ha riservato al Mezzogiorno alcuni passaggi. Io sono piuttosto preoccupato dal fatto che, anche quando il nostro Paese cresceva, in verità poco, ma con tassi di incremento del prodotto interno lordo intorno all'1 per cento, nelle regioni del Mezzogiorno c'erano tassi di incremento del prodotto interno lordo prossimi allo zero e in alcune regioni addirittura inferiori allo zero. Se dovesse essere confermata la previsione del Fondo monetario internazionale di una decrescita del prodotto interno lordo del 2,2 per cento, ho paura che il dato riferito al Mezzogiorno possa essere davvero molto preoccupante.
Nella sua relazione, però, ho trovato interessante e, allo stesso tempo, preoccupante


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il giudizio che lei esprime sui project bond. È pertinente, perché, peraltro, fa riferimento anche a quanto sta avvenendo in Inghilterra, dove questo strumento è ampiamente praticato, ma negli ultimi anni, proprio in ragione dello scenario sui mercati, sta producendo scarsi risultati.
Poiché le altre iniziative contenute in alcune manovre già adottate, quali, per esempio, il credito d'imposta per i nuovi occupati o per le attrezzature e gli impianti, di fatto sono ancora al palo - mi pare, infatti, che per il credito di imposta per i nuovi occupati, le regioni del sud non abbiano ancora stabilito l'ammontare delle risorse dell'Unione europea da destinare a questo intervento, e sull'altro credito di imposta, che peraltro mi pare fosse stato suggerito proprio da Confindustria, mancherebbe persino l'autorizzazione della Commissione - mi chiedo quali strumenti, secondo il Centro studi di Confindustria, andrebbero messi in atto per fare davvero del Mezzogiorno una leva per la crescita del Paese, e se il richiamo che faceva l'onorevole Duilio alla necessità di una politica industriale nel nostro Paese non sia ancora più pertinente in ordine alle questioni che riguardano lo sviluppo del Mezzogiorno. Mi domando, cioè, se la necessità di una politica industriale non debba riguardare innanzitutto una parte del Paese che di scelte sbagliate, anche dal punto di vista industriale, negli ultimi anni ne ha compiute numerose.

PRESIDENTE. Do la parola al dottor Paolazzi per la replica.

LUCA PAOLAZZI, Direttore del Centro studi di Confindustria. Innanzitutto ringrazio vivamente gli onorevoli per la numerosità e la profondità delle domande e l'interesse che esse sollecitano.
Procedo nell'ordine della loro presentazione, svolgendo una premessa generale. In molte di queste domande giustamente si sottolinea in un certo modo una carenza in questo testo e in quest'audizione: non si è parlato di un dato tema, non si è posta enfasi sufficiente su un altro e via elencando. Inevitabilmente, come ha sottolineato più d'uno di voi, ne emerge l'impressione che la visione che Confindustria ha di ciò che va fatto e di ciò che non va fatto sia tutta contenuta in questo testo e che, di conseguenza, manchino pezzi importanti.
In realtà, come ho cercato di evidenziare nella parte iniziale di quest'audizione, noi abbiamo cercato di rispondere alle domande di questa Commissione, ispirate a loro volta dalle direttrici dell'Annual Growth Survey della Commissione europea, che erano rivolte ad alcuni temi e a quelli soltanto. Questa è la ragione per cui altre tematiche non sono state affrontate e magari l'enfasi sull'una o sull'altra non è stata posta nel dovuto modo. Tornerò, peraltro, su questi aspetti.
Fatta questa premessa, rispondendo alle domande che sono state poste, sottolineo che la green economy è stata da tempo indicata, fin dall'inizio di questa recessione - anzi di questa grave crisi, perché recessione è un termine riduttivo - da Confindustria come uno dei driver dello sviluppo economico. Riteniamo che il motore dello sviluppo, come è scritto anche nel testo, rimanga l'innovazione e che tale innovazione non possa replicare - in quanto, per definizione, è innovazione - l'esistente, ma debba puntare a campi nuovi. In un mondo che vede crescere notevolmente la richiesta di utilizzo di risorse naturali per innalzare gli standard di vita di centinaia di milioni, se non miliardi di persone, è inevitabile che ci si debba rivolgere all'utilizzo di queste risorse naturali.
Quali sono gli strumenti che Confindustria valuta? Per la mia competenza e per ciò che conosco, essa ha indicato sempre e innanzitutto il risparmio energetico come primo fattore di green economy in tutti gli ambiti, dalla riqualificazione delle abitazioni, al modo in cui viene prodotta l'energia, alla concentrazione in uno o nell'altro settore degli incentivi. A nostro giudizio, per esempio, sono stati fin troppo generosi gli incentivi al fotovoltaico, mentre altri ambiti non sono stati sufficientemente considerati. Questa è la risposta che mi sento di dare su questo terreno.


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Riguardo al credito d'imposta per la ricerca, finora la politica è stata inefficace fondamentalmente perché sono troppo incerti gli ammontari, troppo incerta la tempistica, discontinua la politica, discontinuo l'indirizzo, fino ad arrivare al parossistico episodio del click day per l'attribuzione dei pochi fondi disponibili, per cui vinceva non il progetto migliore, ma quello arrivato prima anche e soprattutto per la disponibilità di una rete a banda larga. Anche questo è un problema grave del nostro Paese.
Come è scritto in questo testo, noi chiediamo che ci sia uno stanziamento certo, con un orizzonte temporale lungo e stabile e strumenti che permangono nel tempo. Solo questi riescono a orientare efficacemente le politiche di investimento delle imprese.
Quanto ai servizi pubblici locali, io penso che possano essere perseguite entrambe le direzioni: sia le liberalizzazioni, sia le privatizzazioni. Mi permetto di sottolineare, però, che, se arriviamo a interventi come quello sulle farmacie comunali, che, mi scuso, ma non conoscevo, è perché tutti quelli adottati in passato, anche riguardo alle farmacie comunali stesse, non hanno avuto efficacia.
Di fatto abbiamo osservato e continuiamo a osservare un allargamento dell'intervento degli enti territoriali nell'economia con un moltiplicarsi di società controllate dagli enti locali anche in terreni molto lontani dai servizi pubblici. Pensiamo, ad esempio, alla proprietà di autostrade o di quote di autostrade.
Se arriviamo a questo tipo di interventi un po' draconiani e un po' colbertiani e dirigistici, probabilmente ciò è dovuto al fatto che tutto quanto è stato finora varato in termini di incentivi e di disincentivi non ha funzionato. Noi pensiamo che si debba procedere insieme a liberalizzazioni e privatizzazioni. Peraltro, una parte delle privatizzazioni servirebbe anche a ridurre, per quel poco che si riesce, lo stock di debito pubblico.
A proposito della direttiva europea sui pagamenti, ho ascoltato con attenzione l'appassionato intervento dell'onorevole Nannicini, che adesso non è presente, ma la mia impressione è che non si tenga presente il fatto che le imprese che hanno crediti nei confronti della pubblica amministrazione hanno bisogno di maggiore capitale per finanziare tali crediti e, quindi, che di fatto questi crediti rappresentano debiti della pubblica amministrazione.
L'aggravante di questi debiti è l'allungarsi dei termini di pagamento. Ciò significa fondamentalmente che il capitale circolante necessario alle imprese aumenta. Se un'impresa ha deciso di operare con la pubblica amministrazione, che dovrebbe essere teoricamente il miglior pagatore, aspettandosi tempi di riscossione di 100 giorni e poi questi 100 giorni diventano 200, questa impresa, soprattutto nell'attuale contesto di credit crunch, fallisce.
Sono tanti gli episodi di imprese che sono fallite e tanti gli imprenditori che si sono tolti la vita per via di questi fallimenti. Nel solo Veneto sono cinquanta gli imprenditori che si sono tolti la vita per le difficoltà delle proprie imprese, e, in molti casi, per mancati pagamenti della pubblica amministrazione.
Va seriamente presa in considerazione la proposta di passare dal bilancio di competenza al bilancio di cassa, però questa proposta non risolverebbe il problema dell'esistente e, a mio giudizio, non tiene conto del fatto che, purtroppo, anche con il bilancio redatto in termini di cassa spesso accade che vengano effettuate spese senza avere a fronte iscrizioni in bilancio.
Recentemente ci sono stati episodi aneddotici che hanno riguardato amministrazioni statali, quali commissariati di polizia che detengono edifici e non hanno iscritto in bilancio il fatto che c'è un affitto da pagare. Non sarà quella la somma che fa traboccare l'acqua del bicchiere, ma è un modo di comportarsi non esemplare. Comunque, approfondiremo sicuramente questo aspetto.
Riguardo al fatto che noi riteniamo che le uniche misure che possono aiutare a rilanciare la crescita siano collocate nell'area di finanza pubblica mi concentrerei un attimo su questo aspetto.


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Innanzitutto penso che si sarebbe dovuta concentrare l'attenzione sulla finanza pubblica molti anni fa, ma purtroppo ciò non è stato fatto. Ricordo che nel 1998 l'allora Ministro del tesoro, del bilancio e della programmazione economica, diventato poi Presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, affermò che bisognava passare da leggi finanziarie di quantità a leggi finanziarie di qualità. Ciò non era semplice, anzi era molto difficile, perché significava fondamentalmente togliere a qualcuno per dare a qualcun altro, ossia spostare voci in bilancio. In alcuni anni sono state adottate anche manovre molto corpose, in termini lordi, con risultati netti piccoli, perché in quel momento non bisognava mettere a posto il disavanzo, ma riorientare l'economia.
Io penso che ci sia spazio all'interno della finanza pubblica per riorientare il modo in cui lo Stato spende e incassa, perché anche le tax expenditure influenzano la crescita, senza per questo compromettere l'andamento dei conti pubblici e, quindi, gli obiettivi di finanza pubblica.
È uno degli aspetti che citavo prima, attenendoci al compito che la Commissione ci ha gentilmente richiesto di rispondere alle domande. Noi pensiamo assolutamente che il primo tema per il rilancio della nostra economia sia legato all'amministrazione pubblica e alla semplificazione. A qualunque imprenditore chiediate, la risposta sarà che le priorità sono: tempi certi, chiarezza delle norme, rapidità di decisione, nonché riduzione della pressione fiscale.
Questi sono gli elementi fondamentali, ma al primo posto c'è assolutamente la semplificazione amministrativa. Non si può pensare di progettare un investimento che ha profittabilità certa, presentare una domanda e aspettare tre anni per avere il via libera.
È successo, peraltro, anche a un importante imprenditore del settore chimico - che attualmente è tra i «papabili» alla presidenza di Confindustria - a Ravenna - non in un posto, quindi, particolarmente disagiato - di aspettare tre anni per poter avviare l'ampliamento, nemmeno l'insediamento, di un suo impianto chimico. In questo modo ha dovuto ritardare il soddisfacimento di una domanda certa da parte di un committente statunitense.
Quali sono gli effetti sull'economia italiana della manovra di bilancio pubblico? Sicuramente è una manovra che ha effetti di contrazione della domanda finale. Il punto è chiederci che cosa sarebbe successo senza questa manovra e quale sarebbe stato l'andamento dell'economia italiana, e non solo di quella italiana, se non se si fosse intervenuti con queste misure ponendosi un obiettivo forse troppo ravvicinato di bilancio in pareggio. Questo è quanto ci è stato chiesto e imposto dopo troppi anni di promesse non mantenute anche da parte del nostro sistema di governo.
Non sarebbe uno scenario nemmeno quantificabile quello in cui l'Italia non avesse rispettato gli impegni: caduta del PIL con percentuali a due cifre, disgregazione della moneta unica europea, fallimento di centinaia di banche e di decine di migliaia di imprese. Non parlo solo per l'economia italiana, perché avremmo assistito anche alla disgregazione di un progetto, quello della moneta unica e, a questo punto, anche del mercato unico. Già oggi ci sono tante tensioni protezionistiche nel comportamento di Stati sovrani all'interno dell'Unione europea.
Se la domanda verteva su che cosa si debba fare nella seconda metà dell'anno, rispondo come già è stato detto dall'Esecutivo, nessuna nuova manovra. Sicuramente non ci aspettiamo che ci sia una nuova manovra di aggiustamento. Pensiamo che quelle che sono state varate siano sufficienti a raggiungere l'obiettivo, se - e questo punto si ricollega a un'altra domanda che è stata posta - si ha successo nel ridurre il livello assoluto dei tassi di interesse e, quindi, lo spread, rimettendo in moto il credito nel sistema.
È stato, inoltre, ricordato il fatto che le risorse erogate dalla Banca centrale europea sono state prevalentemente utilizzate dalle banche - non solo da quelle italiane, ma anche da quelle spagnole e di altri Paesi - per l'acquisto di titoli pubblici e


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che ciò ha consentito, innanzitutto, di abbassare notevolmente e di rinormalizzare la curva dei rendimenti dei titoli pubblici e, in secondo luogo, di ridurre i tassi. Ricordo che agli inizi di novembre i tassi di lungo termine italiani erano intorno al 7,5 per cento e che oggi sono intorno al 5,5 per cento.
Senza le misure adottate il credit crunch sarebbe stato ancora più violento. Le banche sarebbero state costrette ad aumenti di capitale molto più consistenti di quelli che effettivamente verranno chiamate a effettuare. Il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, ha criticato l'European Banking Authority per la tempistica usata nel chiedere la ricapitalizzazione delle banche e l'incremento dei ratio patrimoniali e ha sostenuto che questa richiesta non avrà corso, anche perché i corsi dei titoli pubblici sono risaliti e hanno colmato i buchi virtuali nei conti delle banche. Questo consentirà, anche grazie all'asta che la Banca centrale europea terrà a fine mese e all'abbassamento della qualità del collaterale richiesto, di erogare credito al sistema produttivo.
La domanda interna, invece, soffrirà a lungo nel nostro Paese, finché non saremo capaci di rilanciare l'economia. Io sono tra gli ottimisti, nel senso che penso che siamo arrivati a un punto tale di difficoltà percepita e sentita dal mondo delle imprese, dal mondo del lavoro e da tutti i cittadini di qualunque età e genere e la domanda di cambiamento sia talmente forte, che liberalizzazioni, privatizzazioni e semplificazioni possano dare un impulso anche piuttosto rapido al nostro sistema economico, facendo migliorare le aspettative.
È chiaro, però, che noi dobbiamo assolutamente puntare sui mercati emergenti. Il Centro studi di Confindustria ha svolto più di un'analisi in questa direzione, guardando agli sbocchi potenziali del cosiddetto made in Italy tradizionale. Su questo punto compierei un inciso riguardo all'affermazione che si tratti di un settore destinato a obsolescenza.
Emblemi del made in Italy sono considerati la moda, le calzature, i mobili, il design di arredamento e il comparto alimentare, che, però, costituiscono appena il 14 per cento delle nostre esportazioni. I due terzi sono costituiti da beni strumentali e da beni semilavorati, da componentistica di alta qualità e di medio-alta tecnologia. Forse non tutti sanno che, quando prendiamo il nostro bell'iPod o iPad, la tecnologia che consente a questi oggetti di orientarsi a seconda di come noi li giriamo è italiana. Si tratta di un giroscopio che ha una larghezza di tre millimetri e una lunghezza di quattro e che si trova al loro interno.
Tornando al punto, è sicuramente importante che noi puntiamo all'internazionalizzazione - anche questo è un tema che manca nell'audizione semplicemente perché non faceva parte delle domande rivolteci - e Confindustria continua a spingere nella direzione dell'internazionalizzazione.
Se si è parlato di riforma dell'ICE è perché si era a tal punto esasperati dal suo cattivo funzionamento e dallo spreco di risorse di questo Istituto da sostenere che ci avremmo pensato noi. Chiaramente non pensavamo di chiuderlo da un giorno all'altro e operare senza, perché negli altri Paesi è accaduto esattamente il contrario. In Germania e in Francia, le risorse per l'internazionalizzazione e per la promozione all'estero, oltre che essere gestite in modo diverso - basti pensare che la signora Merkel è andata in Cina recentemente per la quinta volta a promuovere il made in Germany - sono state decisamente aumentate.
Riguardo alla SACE e all'assicurazione delle piccole e medie imprese, confesso di non avere competenza sufficiente per rispondere. Approfondiremo sicuramente. È un tema che sicuramente dentro Confindustria è seguito da chi è competente, ma io purtroppo non lo sono.
Tenete presente, però, che i margini delle imprese sono molto bassi e che, se i premi assicurativi chiesti da SACE sono alti, diventa difficile per l'impresa riuscire a coprire con i margini di cui dispone i premi di assicurazione e rientrare dagli


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investimenti che ha effettuato. Si pone, quindi, anche un problema di costo di tale assicurazione.

MASSIMO VANNUCCI. Bisognerebbe comparare il nostro sistema con quelli degli altri Paesi. Se questi ultimi sono più efficienti, significa che il costo può essere sopportato, con una franchigia, con un costo o con alcuni premi.

LUCA PAOLAZZI, Direttore del Centro studi di Confindustria. Quanto alla crisi, il Financial Times ha pubblicato una lunga serie di articoli chiedendosi quale destino avesse il capitalismo.
Ne emerge la considerazione che, non è una questione di Stato o di mercato, perché non esiste mercato senza lo Stato e non esiste mercato senza le regole, ma esistono incentivi e disincentivi sbagliati, cattiva applicazione delle regole, mancanza di sorveglianza e di vigilanza, anche se, ricordiamolo, il settore che ha creato la crisi dal punto di vista finanziario è quello più regolato. Sono state le banche, non quelle italiane, ma comunque le banche.
Si pone il problema di come le regole vengano applicate e di come un dato tipo di finanza sia stata troppo libera di inventarsi, come una sorta di apprendista stregone, strumenti che nemmeno chi li elaborava in realtà sapeva esattamente come avrebbero operato e funzionato.
Pensiamo che un'avvisaglia di questa situazione si ebbe nel 1998 con il quasi fallimento di un grande hedge fund, il Long Term Capital Management, che era stato creato e gestito da premi Nobel per la finanza, i quali si erano inventati il gioco di investire e guadagnare operando sugli spread, sui differenziali, dimenticandosi l'importanza dello spessore dei mercati e trovandosi quindi intrappolati e impossibilitati a smobilitare risorse e investimenti, perché quei mercati erano diventati improvvisamente sottili dentro la crisi.
Io resto dell'idea che non c'è un sistema alternativo e che l'attuale sistema è potentissimo e va ben utilizzato.
In tema di politica industriale, io credo che non si possano scegliere i settori, né i campioni e i vincitori. Si possono, invece, far operare in modo da incoraggiarne la crescita dimensionale, promuovendo un'alleanza fra imprese. Dal momento che uno dei problemi del nostro sistema e del nostro apparato produttivo è rappresentato dalla limitata dimensione di tante imprese, si può operare e promuovere l'innovazione, come si può operare a favore della green economy. Si può operare a favore di un miglioramento del capitale umano attraverso un'università che premia e promuove i migliori, ripensando probabilmente il meccanismo attuale di finanziamento, incentrato su un limite alle tasse universitarie. Il sistema di tassazione in materia non dovrebbe essere più indipendente dal reddito, ma andrebbe sostituito con un sistema più liberale, con generose borse di studio per chi non può pagare le tasse.
Infine, le banche sono sempre state cicliche, hanno sempre offerto l'ombrello con il sole e l'hanno sempre tolto quando pioveva, per usare una metafora nota, tant'è vero che nelle recenti modifiche regolatorie si è cercato di inserire un elemento che fosse anticiclico. Peccato che poi nell'exit strategy utilizzata in Europa negli ultimi due anni si sia sbagliato clamorosamente, adottando un'exit strategy anticipata sia sulla finanza, sia sui conti pubblici, perché di fatto l'Unione monetaria e l'Unione europea nel loro insieme sono un'associazione tra Stati sovrani, anziché essere uno Stato sovrano.
Per quanto riguarda il Sud, tutti gli studi più recenti sul Mezzogiorno, compresi quelli redatti dal Centro studi di Confindustria indicano che il Mezzogiorno non ha bisogno di interventi straordinari o di misure straordinarie, ma ha bisogno che vi funzionino le stesse politiche nazionali, che spesso non funzionano in altre regioni o in altre aree del Paese, ma che nel Mezzogiorno funzionano ancora meno. Basta vedere i punteggi degli studenti nel programma PISA, le aree con criminalità organizzata, la povertà di infrastrutture, che viene lamentata al nord, ma che al sud è ancora più marcata. Basta pensare al


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fatto che la corrente elettrica nel Mezzogiorno non è sempre garantita, il che rende molto difficile fare impresa.
Credo che la prima iniziativa da intraprendere sia quella di attuare politiche nazionali che funzionino anche nel Mezzogiorno.
Aggiungerei che noi abbiamo calcolato - sono calcoli eseguiti sul retro di una busta, che sicuramente la vicepresidente per il Mezzogiorno Cristiana Coppola ha avuto già occasione di portare all'attenzione del Parlamento - che al Sud mancano più o meno 3 milioni di occupati, se vogliamo raggiungere il tasso di occupazione del nord. Potremmo registrare un incremento del PIL italiano di un punto e mezzo l'anno, in un orizzonte di quindici anni, soltanto pareggiando il PIL pro capite del sud con quello del nord.
Ripeto, sono conti sul retro di una busta, ma ciò significa che noi abbiamo, come è scritto nel testo allegato a questa audizione, la possibilità di usare i nostri handicap come potentissimi trampolini di lancio.

PRESIDENTE. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dai rappresentanti di Confindustria (vedi allegato). Ringraziamo Confindustria, in particolare il dottor Paolazzi, per il suo contributo ricco e articolato.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,35.

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