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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione V
5.
Giovedì 16 febbraio 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE - ANALISI ANNUALE DELLA CRESCITA PER IL 2012 E RELATIVI ALLEGATI (COM(2011)815 DEFINITIVO)

Audizione di rappresentanti di R.ETE. Imprese Italia:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3 6 7 8 10
Bella Mariano, Responsabile dell'ufficio studi di Confcommercio-Imprese per l'Italia ... 7 8
Giovine Claudio, Responsabile del dipartimento politiche industriali della CNA ... 9
La Malfa Giorgio (Misto-LD-MAIE) ... 6
Marchi Maino (PD) ... 10
Occhiuto Roberto (UdCpTP) ... 6
Venturi Marco, Presidente di R.ETE. Imprese Italiae di Confesercenti ... 3 7 10

Audizione del Presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 11 18 21 23 26 30
Ciccanti Amedeo (UdCpTP) ... 22
Duilio Lino (PD) ... 24
Giovannini Enrico, Presidente dell'ISTAT ... 11 18 19 23 26
La Malfa Giorgio (Misto-LD-MAIE) ... 19 21

ALLEGATI:
Allegato 1: Nota consegnata dai rappresentanti di R.ETE. Imprese Italia ... 31
Allegato 2: Nota consegnata dal Presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini ... 59
Allegato 3: Allegato statistico consegnato dal Presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini ... 76
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.

[Avanti]
COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta pomeridiana di giovedì 16 febbraio 2012


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

La seduta comincia alle 14,30.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione di rappresentanti di R.ETE. Imprese Italia.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nel quadro dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame della comunicazione della Commissione relativa all'Analisi annuale della crescita per il 2012 e relativi allegati (COM(2011)815 definitivo), l'audizione di rappresentanti di R.ETE. Imprese Italia.
Sono presenti il dottor Marco Venturi, presidente di R.ETE. Imprese Italia e di Confesercenti, accompagnato da rappresentanti di Casartigiani, CNA (Confederazione nazionale dell'artigianato e della piccola e media impresa), Confartigianato Imprese e Confcommercio-Imprese per l'Italia.
Do la parola al dottor Marco Venturi, che ringrazio per essere intervenuto.

MARCO VENTURI, Presidente di R.ETE. Imprese Italia e di Confesercenti. Grazie innanzitutto a voi per averci dato quest'opportunità di svolgere le nostre considerazioni in merito all'Analisi annuale della crescita per il 2012 nella quale la Commissione esprime forti preoccupazioni per la situazione economica dell'intera Unione europea. Nei prossimi dodici mesi è, infatti, probabile un ristagno del prodotto interno lordo e nel 2012 la crescita complessiva nell'Unione potrebbe non superare lo 0,6 per cento, con tassi di disoccupazione elevati - parliamo di circa il 10 per cento per il 2012 e per il 2013 - e ciò comporterà alcune conseguenze anche di carattere sociale piuttosto preoccupanti. La crisi, inevitabilmente, condurrà all'aggravamento delle tensioni sociali.
Proprio per questo motivo, a nostro parere, occorre una risposta incisiva e convincente che affronti il nodo della crisi - una crisi non solo nazionale, ma dell'intera area dell'euro - e riesca a invertire la tendenza, ridando fiducia e promuovendo opportunità, sia per le imprese, sia per le famiglie.
Le raccomandazioni dell'Unione europea ai Governi nazionali insistono soprattutto su cinque punti, che da noi sono, peraltro, condivisi: attuare politiche di bilancio orientate alla crescita; ripristinare l'attività creditizia al livello pre-crisi, il che è fondamentale per gli investimenti e per la crescita, agevolando l'accesso delle banche alla provvista di fondi e quello delle piccole e medie imprese, che sono il motore dell'economia nazionale, ai finanziamenti; rilanciare la crescita e la competitività puntando su alcuni obiettivi fondamentali quali lo sviluppo dell'economia digitale, il mercato comune, quindi europeo, dei servizi e il commercio con l'estero; contrastare, in tal modo, gli effetti sociali


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della crisi a partire dalla disoccupazione anche attraverso la creazione di imprese.
Dobbiamo pensare che la nascita di nuove imprese e le minori chiusure di quelle esistenti creano un valore aggiunto, in termini non solo di presenza di imprese, ma anche di lavoro, sia dipendente, sia autonomo, il che è fondamentale. Se non avessimo una presenza tanto ampia di lavoratori autonomi nel nostro Paese, probabilmente le difficoltà sarebbero molto più estese di quelle che stiamo vivendo.
Infine, bisogna pensare anche al miglioramento dei sistemi previdenziali, in particolare di quelli finalizzati alla tutela delle fasce più vulnerabili. Questo è un altro fattore importante.
Occorre procedere alla modernizzazione della pubblica amministrazione, riducendo la burocrazia, scommettendo sui servizi online e creando le condizioni per consentire l'apertura di nuove imprese, come noi diciamo, in tre giorni, nel senso di riuscire a eliminare tutta una serie di gravami e di vincoli burocratici che quanto meno allungano i tempi e aumentano i costi connessi all'apertura di una impresa.
Condividiamo, quindi, la preoccupazione della Commissione per la lentezza con la quale vengono attuati gli orientamenti individuati lo scorso anno, con un'evidente sottovalutazione della gravità della crisi.
L'economia del nostro Paese è chiaramente in una condizione di difficoltà e di rischio. Lo scorso anno ci sono volute ben tre manovre per tamponare una situazione molto difficile e perseguire l'obiettivo del risanamento del bilancio dello Stato. È importante, quindi, che tutto vada nel verso giusto, rispettando gli accordi con l'Unione europea, e aumentando la capacità di rispondere ai mercati per frenare le speculazioni. Una difficoltà rispetto ai mercati è dovuta, infatti, anche alla debolezza e all'incertezza manifestate dal nostro sistema economico.
Nello stesso tempo, però, le medesime misure che servono per risanare hanno un effetto restrittivo, creando vincoli alla crescita dell'economia, e fanno aumentare la pressione fiscale, giunta ormai al 45 per cento. Sono tutti fattori di cui dobbiamo sicuramente tenere conto.
È in corso una recessione che forse un po' di tempo fa non ci aspettavamo che si prolungasse anche nel 2012. Le previsioni sono di segno negativo, il che inevitabilmente avrà ripercussioni anche nel 2013. Occorre essere consapevoli del fatto che dobbiamo affrontare ancora una fase piuttosto lunga e difficile, in cui dobbiamo far sì che vengano posti in campo dal Governo e dal Parlamento interventi per mettere in sicurezza i conti pubblici.
Si tratta di un fattore fondamentale, che, in considerazione della mancata crescita, non solo italiana, ma anche internazionale, incide sulle prospettive e sulle possibilità di investimento. Se, per rimettere in equilibrio i conti pubblici e frenare l'aumento del debito, tagliamo eccessivamente la spesa è chiaro che dreniamo risorse che potrebbero, invece, essere utilizzate per rimettere in moto l'economia e irrobustire la crescita economica.
L'agenda europea contiene raccomandazioni che noi riteniamo condivisibili. Dobbiamo, però, evitare di adottare misure che diano il colpo di grazia all'economia reale. Gli effetti delle manovre contrasterebbero la crescita e creerebbero anche affanni molto rilevanti all'economia.
Il rigore di bilancio è comunque condivisibile. Nel nostro Paese ci sono sempre stati e ci sono ancora troppi sprechi e abusi e questo è uno dei nodi in merito al quale noi predichiamo da anni la necessità di affrontare la questione del risanamento del bilancio dello Stato anche attraverso un'azione di riequilibrio, intervenendo sulla spesa, soprattutto su quella non buona e non su quella che produce sviluppo e che crea nuove opportunità di crescita. Dobbiamo invertire la rotta proprio per rispondere ai bisogni e alle tensioni di cui parlavamo prima, a queste difficoltà.
Il debito pubblico si è attestato ormai al 120 per cento del PIL, ma per risanarlo non si può pensare di utilizzare ancora la leva fiscale, perché ormai siamo oltre il tetto massimo. La pressione fiscale al 45


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per cento, come accennavo prima, è un fattore che pesa sia sui consumi e, quindi, sulle famiglie, sia sulle imprese e, quindi, sugli investimenti. Bisognerebbe, da un lato, pensare a una riduzione della pressione fiscale, utilizzando il recupero del gettito che sfugge attualmente al prelievo fiscale, e, dall'altro, ridimensionando la spesa pubblica per la parte su cui si può agire senza creare grossi scompensi economici e sociali. Pur con queste attenzioni, a nostro parere, esistono margini di intervento molto rilevanti.
Da parte nostra c'è un apprezzamento per alcuni interventi che sono stati compiuti dal Governo, come la riduzione del peso del costo del lavoro sulla base imponibile dell'IRAP, ma sicuramente è necessario un più ampio disegno per incidere su questo piano, un disegno che contenga anche un progetto di riforma fiscale che possa favorire la crescita, il lavoro e le imprese.
Contemporaneamente, bisogna affrontare il nodo della spesa pubblica, così come si è fatto con le pensioni. Si è deciso di intervenire, si è compiuto un atto molto preciso, ma bisogna intervenire anche sulla spesa pubblica, soprattutto sugli sprechi, di cui abbiamo più volte parlato.
Il primo nodo da affrontare è quello dei costi della rappresentanza istituzionale, ossia dei vari livelli di governo: province, comunità montane, piccoli e piccolissimi comuni. Ne cito alcuni a titolo di esempio. A nostro giudizio, si può intervenire e anche con una determinata rapidità.
Noi abbiamo registrato alcune resistenze, che consideriamo ingiustificate. Mi riferisco, per esempio, alla questione delle province, su cui ci viene risposto che occorre una riforma costituzionale per poterle abolire. Quando in diverse regioni è stato aumentato il numero delle province non è stata modificata la Costituzione: lasciamone magari venti, una per regione, e sopprimiamo le altre. Questo aspetto potrebbe consentire un intervento rapido.
Lo stesso ragionamento va svolto con riferimento alle società esercenti di carattere locale. Non dobbiamo abolire i servizi, ma potremmo procedere ad alcuni accorpamenti funzionali che ci possano far risparmiare molte risorse e probabilmente prestare servizi anche migliori, oltre che aggredire abusi, sprechi, inefficienze e corruzione. Credo che sia importante partire dalla riduzione della spesa corrente nella pubblica amministrazione, per esempio, basandosi sulle proposte presentate dal gruppo di lavoro sul bilancio e sul patrimonio pubblico, guidato dal professor Giarda. A mio avviso, dobbiamo dare più spazio a queste azioni, con la convinzione, però, di intervenire con rapidità.
Il nostro obiettivo è quello di spendere meglio per sostenere la crescita, per ridimensionare i settori che hanno un peso economico rilevante, senza limitarsi ad atti dimostrativi, che non incidono in maniera seria sulla dinamica dei conti pubblici.
Noi abbiamo giudicato molto positivamente l'avvio del confronto sulla riforma del mercato del lavoro proprio con l'obiettivo di creare ulteriori opportunità di sviluppo. Questo confronto è ancora in corso, ma ritengo che si stia manifestando una volontà comune di procedere. I risultati ovviamente scaturiranno dagli incontri che si terranno tra le parti sociali e il Governo.
Inoltre, è necessario affrontare, contemporaneamente a questi temi, altri nodi non marginali, come quelli della semplificazione e della modernizzazione della pubblica amministrazione, che assumono carattere fondamentale sia per i cittadini, sia per le imprese. Ci aspettiamo, per esempio, l'attuazione delle misure relative alle agenzie per le imprese. Anche questo potrebbe essere un passo importante verso la semplificazione. Promuovere l'avvio dell'ampliamento e della trasformazione delle attività imprenditoriali potrebbe essere una iniziativa molto utile.
Vogliamo sottolineare la necessità di risolvere la questione concernente i ritardi dei pagamenti delle pubbliche amministrazioni, un altro tema che, in periodi di crisi, pesa enormemente e spinge molte imprese alla chiusura. Se nei periodi di crescita si riesce a far fronte più a lungo ai ritardi, oggi non è così. Su questo punto noi


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chiediamo, non solo come fatto contingente, ma anche come metodo, di fissare scadenze accettabili per le imprese.
La questione del credito è un altro nodo importante e, infine, c'è la questione del Mezzogiorno. Ci sembra di registrare un allentamento dell'impegno in questa direzione. Secondo noi, pur con tutti i problemi, la crisi non deve diventare un motivo per bloccare le politiche di sviluppo, come nel caso dei contratti di programma e delle zone franche urbane, che potrebbero rappresentare altri due fattori su cui contare per sostenere lo sviluppo. Grazie.

PRESIDENTE. Ricordo ai colleghi che R.ETE. Imprese Italia ha consegnato anche un documento articolato, che risponde punto per punto a tutti i quesiti che sono stati posti all'attenzione dei nostri ospiti in sede di invito.
Do la parola ai deputati che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

GIORGIO LA MALFA. Ringrazio il presidente di R.ETE. Imprese Italia per la sua introduzione e per il documento che ha fornito, che sarà molto utile alla Commissione.
Nelle previsioni generali sull'andamento dell'economia italiana nel 2012 l'opinione prevalente è che ci sarà una caduta del reddito in termini reali, compresa, a seconda delle diverse istituzioni che formulano le previsioni, tra l'1,5 e il 2,5 per cento. Il Fondo monetario internazionale prevede addirittura il 2,5 per cento, ma generalmente si prevede una caduta dell'1,5 per cento.
La prima domanda è, dunque, se le vostre valutazioni corrispondono a questa indicazione o se sono meno o più favorevoli di questa.
Passo alla seconda domanda. Il giudizio che lei complessivamente esprime sull'insieme delle azioni messe in atto dal Governo, cioè la manovra di risanamento dei conti pubblici, i decreti-legge in materia di liberalizzazioni e di semplificazioni e quelle che si preannunciano in questo quadro sono, secondo le vostre organizzazioni, oltre che positive, come lei ha affermato, tali da migliorare la predetta previsione sull'andamento dell'economia nel 2012 o esiste, invece, la necessità di rivedere la politica economica per il 2012 al fine di adottare ulteriori interventi che possano consentire un miglioramento della situazione già nell'anno in corso che si innesti sugli effetti di medio termine - sicuramente molto positivi - che possono scaturire dalle misure in materia di liberalizzazioni?

PRESIDENTE. Se non ci sono altre domande, vorrei porre io due questioni. La prima riguarda i consumi. In particolare, vorrei sapere se il combinato disposto di due azioni del Governo che sono sicuramente innovative, la prima concernente la rimodulazione dell'IVA e l'altra recante un intervento dissuasivo in termini di contrasto all'evasione fiscale, ha prodotto un effetto a livello aggregato sui consumi, che registrano un andamento già di per sé piuttosto asfittico.
La seconda domanda è un approfondimento per quanto riguarda il credito. Credo che ci sia nelle vostre risposte un'articolazione su questo punto, però vi chiedo se rispetto al credit crunch voi avete notato un diverso atteggiamento del sistema bancario dopo la decisione da parte della Banca centrale europea di concedere a tale sistema un finanziamento «agevolato» al tasso di interesse dell'1 per cento o se confidate che questo atteggiamento possa effettivamente cambiare nel brevissimo periodo. Da più parti viene segnalato che le banche in realtà hanno destinato tali risorse all'investimento in titoli di Stato, anziché al finanziamento dell'economia reale.

ROBERTO OCCHIUTO. Poiché mi ha stimolato anche lei, presidente, proprio sul tema del credito io vorrei chiedere se l'esperienza dei confidi, un'esperienza tradizionalmente vicina al mondo delle associazioni, può essere valorizzata nella direzione di favorire l'accesso al credito, se ci sono esempi virtuosi in giro per l'Italia,


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se in alcune regioni, con l'ausilio delle regioni e dei fondi di cui dispongono, si sono compiute azioni che hanno aiutato a invertire la tendenza.
Vorrei sapere poi se con l'ABI avete attivato un'interlocuzione e se c'è una proposta da poter mettere in campo in questa direzione.
Un'ultima domanda riguarda l'estensione del regime dell'IVA per cassa. A vostro giudizio, quali sarebbero gli effetti finanziari di un provvedimento che, per esempio, ampliasse l'ambito di applicazione di tale regime alle imprese con un fatturano fino a 2 milioni di euro?

PRESIDENTE. Do la parola ai nostri ospiti per la replica.

MARCO VENTURI, Presidente di R.ETE. Imprese Italia e di Confesercenti. Sulla questione dei consumi preferirei rispondesse il dottor Bella, mentre, su quella relativa al credito, il dottor Giovine. In merito alla questione relativa al contrasto dell'evasione fiscale, faccio presente che noi non abbiamo mai frapposto pregiudizi. Ci siamo attivati sulla base di accordi che abbiamo sempre stipulato con i Governi.
Gli studi di settore sono stati una leva importante in questa direzione e noi ci saremmo aspettati che, avendo la rappresentanza del mondo imprenditoriale contribuito proprio al massimo rispetto degli studi di settore, e parlo, in particolare, di R.ETE. Imprese Italia, ci fosse un allentamento, un atteggiamento un po' più comprensivo, che mi pare ancora non ci sia.
Forse non si tiene conto del fatto che la crisi incide indubbiamente anche da questo punto di vista. Non ci si possono aspettare, in un periodo di forte crisi, chissà quali risultati. Nonostante ciò, c'è un rispetto sostanziale degli studi di settore. Se poi la questione si risolve fermandosi all'angolo di un negozio e fermare il cliente al quale non viene rilasciato lo scontrino per chiudere il negozio, pensando in tal modo di risolvere il problema, secondo me non andremo lontano.
L'accordo che noi già abbiamo sempre stipulato con i diversi Governi che si sono succeduti è stato quello di portare al rispetto degli studi di settore la stragrande maggioranza delle piccole e medie imprese, con il raggiungimento di risultati che io ritengo importanti. Bisognerebbe forse cambiare un po' l'atteggiamento rispetto a questo tema.
Lascerei la parola al dottor Bella sulla questione dei consumi e poi al dottor Giovine su quella del credito.

MARIANO BELLA, Responsabile dell'ufficio studi di Confcommercio-Imprese per l'Italia. In merito alla previsione di una caduta del reddito in termini reali dell'1,5 per cento nel 2012, osservo che essa è coerente con l'ultimo dato dell'ISTAT, ragion per cui possiamo convergere su questa valutazione.
La vera domanda a cui occorre rispondere - io dovrei rispondere ma ritengo necessario porre a mia volta una domanda - è la seguente: voi sapete se le previsioni del Governo relative ai saldi di bilancio sono coerenti con questa riduzione dell'1,5 per cento, e se lo sono anche in termini di gettito?
Mi pare di aver capito che il Governo abbia affermato di aver utilizzato previsioni molto pessimistiche. Ciò significa che prevedeva un meno 0,7 per cento per l'ultimo trimestre del 2011, che francamente nessuno aveva previsto. Ricordate bene che le ultime previsioni di chiusura dello scorso anno si attestavano tra lo 0,5 e lo 0,6 per cento. Nessuno aveva previsto lo 0,4 per cento.
Se le previsioni che sottostanno al raggiungimento del pareggio di bilancio, e che sarebbe bene rendere esplicite, anche per capire di che cosa stiamo trattando, sono troppo ottimistiche, quel risultato non sarà più ottenuto e, quindi, ci sarà bisogno di una manovra aggiuntiva. Bisogna vedere come sono stati calcolati anche i tassi di interesse.
In merito alla questione dei consumi, ritengo che un calo dell'1,5 per cento del prodotto intorno lordo comporti un calo tra l'1 e l'1,2 per cento del reddito disponibile,


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assumendo una previsione ottimistica, ma generalizzata, della propensione al consumo. Prevedendo che le famiglie non vadano per così dire «in depressione» e che la propensione al consumo continui a crescere, può ritenersi che il calo del reddito disponibile si attesti intorno all'1 per cento.
Si pone poi il problema dell'IVA. In quest'ambito, secondo me, si rischia un po' di fare confusione. Prestiamo attenzione al problema dell'IVA. Ho letto sui giornali, ma l'avrete letto anche voi, che il Presidente del Consiglio ha dichiarato che, se troviamo 4 miliardi di euro, possiamo evitare che, dal 1o ottobre di quest'anno, sia disposto l'aumento dell'aliquota intermedia dal 10 al 12 per cento e di quella più alta dal 21 al 23 per cento. Ciò è vero e non è vero, perché 4 miliardi di euro servirebbero per coprire il minor gettito dell'ultimo trimestre e poi se ne devono trovare altri 12 per il 2013. Occorre molta attenzione su questo punto.
Quanto alle liberalizzazioni, mi pare che letteratura e la pratica ci indichino che esse hanno l'effetto di incrementare l'offerta aggregata e la produttività dei fattori con benefici che, per definizione, si ottengono nel lungo periodo. Pretenderli hic et nunc mi sembra molto difficile.
Che cosa si può fare? Noi l'abbiamo scritto nel documento, ma colgo l'occasione per insistere su questo punto. Occorre verificare quali siano le previsioni di bilancio per il 2012, relative alle entrate tributarie, dopodiché, se possibile, si può approvare una legge che disponga, qualora il gettito accertato e riscosso definitivamente per il 2012 fosse maggiore rispetto alla cifra che contribuisce a definire i saldi di bilancio da voi approvati, l'utilizzo immediato di una quota, auspicabilmente ampia, di tale gettito per la copertura di una riduzione delle aliquote delle imposte sui fattori di produzione e in prevalenza delle imposte sul reddito.
È una questione di chiarezza, altrimenti ogni giorno noi leggiamo che sono stati recuperati 600 milioni di euro, che abbiamo trovato 5 miliardi di euro, che a seguito dei controlli a Canicattì ne abbiamo trovati altri 3 e via dicendo. Se si sommano le risorse ottenute, ne risulterebbe che non abbiamo bisogno di compiere le manovre. Ci vuole un po' di chiarezza su questo punto. Inoltre, credo che restituire un po' di soldi ai contribuenti onesti, che è l'unica possibilità per incentivarli, sia una misura per rilanciare un po' la crescita.

PRESIDENTE. Oltre alle questioni relative al credito e all'IVA, occorre considerare anche l'aumento delle accise. Che cosa segnala la rete distributiva in merito ai consumi di carburante per autoveicoli? A me risulta che ci sia non dico un declinare, ma almeno una significativa riduzione dei consumi, che alla fine si traduce anche in minori entrate.
Sono curioso di vedere i dati delle entrate relative alle varie voci dell'IVA aggiornati al mese di dicembre dell'anno scorso e al mese di gennaio di quest'anno. Ho l'impressione che non siano andate molto bene, ma magari mi sbaglio.

MARIANO BELLA, Responsabile dell'ufficio studi di Confcommercio-Imprese per l'Italia. Sono negativi, però si assume, come l'onorevole La Malfa le può raccontare meglio di me, che la domanda di questi beni rispetto al prezzo è poco elastica e, quindi, si presume che, se aumentano le accise - noi siamo contrarissimi all'aumento delle accise, per l'amor del cielo - il gettito dovrebbe crescere, nonostante la riduzione dei consumi.
Certamente la manovra sulle accise crea delle difficoltà, anche perché è una manovra continuativa nel tempo. Non si tratta di un singolo intervento, bensì di una sequenza di interventi, però bisogna anche ammettere che la riduzione di alcuni tipi di consumo, soprattutto dei carburanti, si spiega con una pluralità di cause, quali la riduzione della produzione e l'effetto di risparmio energetico a parità di potenza erogata.
Certamente i consumi sia della benzina sia del gasolio sono fortemente negativi e le prospettive per il 2012 sono ancora peggiori, se il PIL scende ulteriormente.


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CLAUDIO GIOVINE, Responsabile del dipartimento politiche industriali della CNA. La questione del mercato del credito, come è noto, è riesplosa nell'estate scorsa e non è stata ancora risolta. Ci troviamo sicuramente a gestire una fase che presenta alcuni tratti simili a quella che avevamo sperimentato all'inizio della crisi, alla fine del 2008, con alcuni fattori che determinano una situazione ancor più grave del passato.
Innanzitutto l'attuale restringimento del credito, i cui dati, peraltro, sono anche avvalorati dalle analisi della Banca d'Italia, insiste oggi su un tessuto di imprese già provate, dal punto di vista finanziario, da lunghi anni di sofferenza nella gestione della liquidità, con l'aggiunta anche del fatto che si cala in un momento in cui l'economia ha, da un lato, prospettive oggettivamente poco rosee e, dall'altro, performance modeste in termini di reddito e, quindi, di capacità di generare una domanda «buona» di credito.
Tutto ciò genera nelle banche un atteggiamento estremamente prudente nell'erogazione del credito, solo in parte motivato dalla crescita delle sofferenze. Considerate che le sofferenze, in particolare per le imprese che noi rappresentiamo, sono aumentate, ma meno della dinamica che leggiamo per i crediti di importo più elevato. Sono passate, fissando a 100 il livello del 2008, prima della crisi, intorno a 160 nell'arco di questi anni, con una crescita del 20-30 per cento all'anno, il che non è poco.
La risposta del credito, oggi ancor più di allora, è eccessivamente prudente. Ciò significa che, da un lato, gli impieghi sono praticamente fermi, nel senso che negli ultimi dodici mesi le banche stanno razionando in maniera profonda le nuove erogazioni creditizie, e, dall'altro, che le condizioni di accesso stanno complessivamente peggiorando.
I tassi, come sapete, sono cresciuti, in virtù sicuramente dei maggiori costi che le banche pagano per la raccolta. È stato ricordato che, anche in virtù del calo del risparmio e dell'apprezzamento dell'Italia sui mercati esteri, il costo della raccolta delle banche è esploso ed è ormai prossimo ai famosi punti di differenziale del debito pubblico italiano rispetto agli altri Paesi. Quando una banca raccoglie ad un tasso di interesse che varia dal 4 al 6 per cento, non può che chiedere impieghi con tassi passivi nell'ordine del 7-10 per cento.
Questa situazione non è compatibile con un'economia che non cresce. L'intervento, non ultimo, della BCE di questi ultimi mesi ha sicuramente restituito una parte della capacità di approvvigionamento del sistema bancario, che però, per dire il vero, non si è trasferita in un abbassamento dei costi e un aumento della disponibilità del credito per le imprese. Se vogliamo, l'atteggiamento di rigore si traduce anche in un innalzamento dei costi collegati, non ultima una maggior richiesta di garanzie.
Vengo alla seconda parte della risposta. I confidi hanno già svolto, anche per diretta ammissione della Banca d'Italia, dal 2009 a oggi, una funzione importantissima nel facilitare l'accesso al credito e la mitigazione delle condizioni. I confidi, come sapete, hanno aumentato in questi anni la loro capacità di assistenza, portando al limite la loro operatività. Il calo della domanda, o meglio il calo dell'erogazione di credito, fa sì che già quest'anno ci sia una flessione.
Ciononostante, abbiamo bisogno di operare su due versanti. Uno è il rafforzamento patrimoniale dei confidi. Abbiamo più volte sollecitato il Parlamento a consentire innanzitutto l'utilizzo delle risorse fornite dalle regioni, che qualcuno ha ricordato, come patrimonio, in modo tale che servano come leva per il credito.
Il secondo versante è il rafforzamento di quella che noi chiamiamo la filiera pubblica della garanzia, sulla quale è intervenuto l'articolo 3, comma 4, del decreto-legge n. 201 del 2011, varato dal Governo Monti, che ha disposto l'incremento delle risorse del fondo di garanzia a favore delle piccole e medie imprese, ma che ancora oggi è frazionata tra troppi interventi a livello nazionale, europeo, regionale e delle Camere di commercio, cosicché, alla fine, la leva complessiva


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risulta minore rispetto a quella che si potrebbe utilizzare attraverso un'efficiente allocazione delle risorse pubbliche.
In questo senso riteniamo che qualunque provvedimento che riesca a razionalizzare gli interventi pubblici e a valorizzare al meglio la leva dei confidi - la quale, a parità di risorse impegnate rispetto a quelle direttamente erogate dal sistema bancario, genera un maggior flusso di risorse - che possa ragionevolmente far sì che nel prossimo futuro circa il 15 per cento di tutto il credito erogato dalle banche alle piccole imprese possa essere assistito da una garanzia solida e compatibile con le regole di Basilea, in modo da produrre un abbattimento del capitale che le banche devono accantonare, con effetti netti positivi per le imprese anche in termini di costi.
È un impegno che noi proviamo a tradurre in maniera costante sul versante legislativo, nonché su quello operativo - in merito arrivo all'ultimo punto - anche nei rapporti con l'ABI.
Ci è stato chiesto che cosa stiamo facendo proprio con l'ABI. Avete visto che i giornali stanno anticipando la notizia della ripresa del tentativo di trovare soluzioni come quelle adottate negli anni scorsi con le cosiddette «moratoria 1» e «moratoria 2». È vero, c'è un tavolo aperto e stiamo lavorando. Per adesso, un po' anche per la prudenza della stessa associazione bancaria e per il fatto che finora la componente pubblica nulla ha promesso alle parti in causa, prudentemente si sta ancora ragionando su un modello di allungamento delle scadenze dei crediti in essere e su una rinegoziazione, laddove le imprese hanno difficoltà a pagare.
Mancano, però, due aspetti, sui quali stiamo lavorando con l'ABI in questi giorni. Il primo consiste nell'aumentare il flusso di credito, valorizzando anche le risorse che le banche hanno ricevuto, in particolare, dalla BCE. Il secondo consiste nel migliorare le condizioni di accesso al credito, cioè ridurre i costi.
Si tratta di due condizioni per noi indispensabili per consentire a un'economia che, come abbiamo visto, ha prospettive di sviluppo modesto di avere, almeno sul lato finanziario, un nodo che non vada a serrarla ulteriormente e, quindi, a renderla ulteriormente asfittica. Grazie.

PRESIDENTE. Do la parola al collega Marchi che intende intervenire per porre un ulteriore quesito.

MAINO MARCHI. Pongo una domanda molto veloce. Se nel periodo che va da oggi a ottobre ci trovassimo nelle condizioni, in conseguenza delle manovre effettuate - soprattutto in riferimento alla possibilità di avere un costo minore degli interessi sul debito pubblico rispetto a quello che si prevedeva a dicembre dello scorso anno - di avere un ammontare di risorse per realizzare politiche fiscali di riduzione delle imposte e potessimo giostrarle o nella riduzione dell'aumento già previsto dell'IVA o in ulteriori interventi di riduzione dell'IRAP, o ancora per la riduzione dell'IRPEF sui redditi più bassi, quale scelta tra queste, a vostro avviso, sarebbe preferibile per favorire la crescita?

MARCO VENTURI, Presidente di R.ETE. Imprese Italia e di Confesercenti. L'incognita incombe, ovviamente, però è importante la questione dell'IVA. Se voi tenete conto della reazione che c'è stata da parte delle associazioni dei consumatori, quando si è deciso l'aumento di un punto e soprattutto quando è stato annunciato il possibile aumento di due punti nell'ottobre prossimo, operazione su cui mi pare di aver letto che forse c'è un ripensamento, il che spero sia vero, è chiaro che è uno dei punti importanti. Apportare un beneficio immediato e diretto sui redditi va benissimo, perché anche quello è un problema non da poco, però, riuscire a rimettere in moto l'economia, che passa attraverso un aumento dei consumi e soprattutto dalla fiducia dei consumatori, sarebbe un fattore fondamentale.

PRESIDENTE. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della nota consegnata


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dai rappresentanti di R.ETE. Imprese Italia (vedi allegato 1). Ringraziamo gli stessi per il contributo che hanno portato ai nostri lavori e auguriamo loro buon lavoro.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta, sospesa alle 15,10, è ripresa alle 15,15.

Audizione del Presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nel quadro dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame della comunicazione della Commissione relativa all'Analisi annuale della crescita per il 2012 e relativi allegati (COM(2011)815 definitivo), l'audizione del Presidente dell'ISTAT, professor Enrico Giovannini, che ringrazio per essere intervenuto.
Do la parola al professor Giovannini.

ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell'ISTAT. Grazie, presidente. L'Analisi annuale della crescita realizzata dalla Commissione europea costituisce un riferimento obbligato per l'azione di governo, ma è anche un'opportunità per riflettere sulla consistenza delle politiche messe in campo dall'Italia, tanto più preziosa e urgente quanto più la situazione nazionale si distacca da quelle di Paesi che appaiono maggiormente virtuosi e performanti.
I quesiti sottoposti dalla Commissione possono essere ricondotti ad alcuni temi chiave per la politica economica, intorno ai quali svilupperò il mio intervento, e cioè: l'appropriatezza delle dinamiche della finanza pubblica rispetto alla crescita, dati gli obiettivi sui saldi; il miglioramento dell'efficienza delle politiche di bilancio e della capacità di intervento sul territorio; gli interventi e, in particolare, le riforme per aumentare la concorrenza e la competitività; le misure per promuovere l'occupazione e la coesione sociale.
Coerentemente con il ruolo dell'Istituto, mi ripropongo soprattutto di offrire elementi conoscitivi. Preliminarmente, però, vorrei concentrare l'attenzione sul processo di governance comunitario, di cui l'Analisi annuale della crescita è parte essenziale.
Proprio l'Analisi annuale della crescita è, infatti, il primo passaggio del cosiddetto «semestre europeo», in cui si definiscono le linee guida generali valide per l'insieme dell'Unione, alle quali i Paesi membri fanno poi riferimento nei propri documenti programmatici, primo fra tutti il Programma nazionale di riforma (PNR).
Al termine di questo iter la Commissione e il Consiglio valutano gli obiettivi e gli strumenti, proponendo raccomandazioni specifiche per ciascuno Stato. Nel caso dell'Italia, le indicazioni fornite nel 2011 sono state in parte già recepite nella manovra di bilancio adottata nell'anno scorso, fino al decreto-legge «Salva Italia» varato lo scorso dicembre.
Ricordo questi passaggi per segnalare che le linee guida contenute nell'Analisi di quest'anno sono necessariamente generiche e, al tempo stesso, rappresentano l'iterazione del ciclo di programmazione precedente.
Se, quindi, guardiamo le raccomandazioni formulate dalla Commissione e dal Consiglio la scorsa estate, possiamo vedere se esse sono state seguite dall'Italia ed è per questo motivo che ricorderò queste raccomandazioni insieme ad alcune decisioni di policy già prese e ad altre ora in discussione.
La prima raccomandazione è centrata sugli obiettivi di finanza pubblica, poiché si chiedeva di definire, entro il mese di ottobre dello scorso anno, le misure concrete per il biennio 2013-2014 e di utilizzare l'eventuale extragettito per la riduzione del deficit e del debito, nonché di rafforzare il quadro finanziario con l'introduzione di tetti di spesa e di migliorare il monitoraggio delle spese dei diversi settori della pubblica amministrazione.
Questo aspetto è già stato affrontato in Italia con le manovre di luglio, agosto e dicembre 2011, anche se va segnalato come lo scenario macroeconomico nel frattempo sia divenuto meno favorevole. Sono di ieri le stime preliminari relative


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all'ultimo trimestre del 2011, nel quale il PIL è diminuito dello 0,7 per cento rispetto al trimestre precedente e dello 0,5 per cento rispetto al quarto trimestre del 2010.
Nel complesso, nel 2011, il PIL - attenzione, facciamo riferimento al dato corretto per le giornate lavorative, che sono tre in meno dell'anno precedente, mentre i dati che normalmente si commentano a marzo sono al lordo delle giornate lavorative - è aumentato dello 0,4 per cento, determinando una crescita acquisita, per il 2012, negativa, pari a meno 0,6 per cento.
Va sottolineato che l'ultimo trimestre dell'anno è stato caratterizzato da una contrazione congiunturale dell'attività anche in molte altre economie europee, per le quali la situazione resta comunque più favorevole rispetto al nostro Paese, con una crescita tendenziale dello 0,7 per cento per l'area dell'euro e dello 0,9 per cento per l'Unione a 27 Paesi.
Per quanto riguarda il monitoraggio della spesa pubblica va ricordato l'avvio della spending review, dal quale il Governo si attende risultati significativi.
Due raccomandazioni riguardano il mercato del lavoro e la contrattazione collettiva. Le indicazioni specifiche sono le seguenti: ridurre la segmentazione del mercato del lavoro; intensificare l'azione di contrasto al lavoro nero; accrescere la partecipazione femminile; collegare la crescita salariale all'andamento della produttività e alle condizioni delle singole imprese sul territorio.
Alcuni di questi aspetti sono stati affrontati prima nella manovra varata nel dicembre scorso, con gli incentivi IRAP per l'occupazione femminile e giovanile nelle aree a bassa partecipazione, e con il rafforzamento in atto dell'azione di contrasto all'evasione contributiva da parte degli enti vigilati dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali. La riforma del funzionamento del mercato del lavoro è, invece, ancora nell'agenda dell'Esecutivo ed è oggetto del negoziato in corso con le parti sociali.
Altre due raccomandazioni riguardano l'aumento della concorrenza e il miglioramento delle condizioni di contesto per le imprese. Le misure richieste sono: l'aumento della concorrenza nel settore dei servizi; la riduzione della durata delle procedure per l'applicazione del diritto contrattuale; la promozione dell'accesso delle piccole e medie imprese al mercato dei capitali; il miglioramento del quadro per gli investimenti del settore privato nella ricerca e nell'innovazione.
I provvedimenti già adottati e in itinere su questi aspetti hanno intensità diversa e, in alcuni casi, esiti ancora incerti: dalle norme sulle liberalizzazioni al «tribunale delle imprese», alle misure di incentivazione per innovazione e ricerca contenute nel decreto-legge «Salva Italia», tradotte parzialmente nella legge di conversione. Si tratta, anche in questo caso, di un tema al centro dell'agenda di Governo.
Infine, l'ultima raccomandazione fa riferimento alla coesione territoriale, chiedendo di accelerare la spesa atta a promuovere la crescita, cofinanziata dai fondi della politica di coesione, per ridurre le disparità tra le regioni, migliorando la capacità amministrativa e la governance politica. Ancora una volta il Governo ha affrontato questi temi puntando a un'accelerazione del processo di impegno dei fondi strutturali ancora disponibili e a un loro forte orientamento a conseguire gli obiettivi di servizio già definiti nel passato.
In conclusione, si può osservare un elevato grado di coerenza tra le raccomandazioni e gli interventi già adottati e annunciati per i prossimi mesi, anche se l'ampiezza delle tematiche e l'incertezza sull'impatto di alcuni provvedimenti impediscono, per il momento, una valutazione complessiva.
Ciononostante, è importante che l'azione politica e la stessa opinione pubblica proseguano a porre l'attenzione su questi temi, anche in funzione del rafforzamento dell'immagine dell'Italia in sede europea.
Veniamo ora ad alcuni dei quesiti proposti dalla Commissione sui quali proverò a fornire il contributo dell'Istituto.
I primi quattro quesiti sono dedicati alla politica fiscale e pongono l'attenzione


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sul suo impatto sulla crescita economica, mentre gli obiettivi di medio periodo di finanza pubblica non sono considerati esplicitamente.
Sull'intervento costituito da un mix fra maggiori entrate e taglio della spesa pubblica e sulle caratteristiche di quest'ultima, il quesito riprende un passaggio dell'Analisi annuale sulla crescita, che testualmente recita «l'evidenza empirica mostra che le manovre di consolidamento centrate sulla spesa abbiano maggiore possibilità di successo, ma che sono rilevanti anche la composizione e la qualità della spesa».
Quest'affermazione appare robusta, perché fondata sugli esiti di numerosi esempi di aggiustamento condotti in tempi e da Paesi diversi. A conclusioni simili, d'altronde, giunge uno studio comparativo recentemente pubblicato dal Fondo monetario internazionale relativo a 99 Paesi.
Nel nostro Paese la strada è già stata tracciata con le manovre varate a luglio, agosto e dicembre scorso, oltre che con la legge di stabilità 2012. Nell'aggregato, si tratta di misure con un impatto atteso che la Ragioneria generale dello Stato ha stimato in oltre 200 miliardi di euro sui saldi nel triennio 2012-2014, di cui poco più del 70 per cento è costituito dall'aumento delle entrate.
Queste cifre, è opportuno ricordarlo, presentano sempre elementi di indeterminatezza e ciò è vero non solo rispetto alle previsioni di gettito, ma anche alla composizione. Si pensi, per esempio, ad alcuni tagli di spesa operati sulle amministrazioni locali, alle quali, però, sia nel decreto-legge n. 138 del 2011, sia nel decreto-legge n. 201 del 2011, è stata data facoltà di introdurre aumenti delle addizionali e di altre imposte e, quindi, l'effetto finale può essere o sulle spese o sulle imposte.
Considerando, in particolare, la manovra più recente, questa ipotizza un impatto netto sui saldi pari a circa 63 miliardi di euro nel triennio 2012-2014, ripartiti in maniera simile nel periodo, ma con un peso delle entrate che raggiunge l'80 per cento a causa della rettifica della clausola di salvaguardia del gettito previsto dalla delega in materia fiscale e assistenziale.
La clausola di salvaguardia originaria prevedeva un taglio proporzionale di tutte le detrazioni fiscali e, come ho avuto già modo di osservare nell'audizione tenuta presso le Commissioni riunite V e VI della Camera e 5a e 6a del Senato il 7 dicembre 2011, aveva un carattere fortemente regressivo, tale da renderne sconsigliabile l'effettiva applicazione. Il gettito previsto nel 2012, di circa 4 miliardi di euro, è stato ora garantito in prevalenza da un aumento temporaneo di due punti per ciascuna delle aliquote IVA attualmente del 10 e del 21 per cento. Ove entro settembre non venissero poste in essere norme di attuazione della delega o modifiche ai regimi di esenzione e agevolazione fiscale, le nuove aliquote avrebbero carattere permanente e aumenterebbero di un ulteriore 0,5 per cento nel prossimo biennio.
Si tratta, evidentemente, di misure estreme, soprattutto in un momento nel quale le previsioni economiche per il biennio 2012-2013 hanno subìto un netto peggioramento e i redditi reali delle famiglie sono in diminuzione, anche a causa di un'inflazione superiore al 3 per cento. In un tale quadro è possibile che la traslazione sui prezzi di un ulteriore aumento delle aliquote IVA sia meno che proporzionale, come è già avvenuto nel caso del recente aumento dell'aliquota dal 20 al 21 per cento, ma l'effetto depressivo sulla domanda di consumi di una tale manovra sarebbe comunque non trascurabile.
Per questo motivo il Governo sembra orientato a rivedere il sistema delle detrazioni fiscali anche alla luce del lavoro svolto dall'apposita Commissione di studio guidata da Vieri Ceriani, ora sottosegretario di Stato per l'economia e le finanze. Tale revisione non colpirebbe, presumibilmente, in modo generalizzato il settore delle famiglie, come farebbe, invece, un aumento delle aliquote IVA.
Tra le spese, gli effetti più cospicui deriverebbero dalle modifiche apportate alla legislazione previdenziale. La mancata indicizzazione delle pensioni comporterebbe un risparmio netto di quasi 13 miliardi di euro nel triennio e altri 4


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miliardi di euro sono attesi dalla revisione del sistema pensionistico. Si tratta di cifre relativamente modeste nell'immediato, ma che hanno natura strutturale e, nel caso della revisione dell'età pensionabile, crescenti nel tempo.
Questo è un elemento cardine da considerare per la sostenibilità e la riuscita del consolidamento fiscale. Infatti, la Ragioneria generale dello Stato stima che l'impatto netto dei provvedimenti adottati con la manovra del dicembre scorso crescerà da poco più di 20 miliardi di euro l'anno nel triennio 2012-2014 e fino a 32 miliardi di euro nel 2020, soprattutto per effetto dei tagli di spesa, che si ipotizza possano crescere da meno di un miliardo di euro nel 2012 fino a 20 miliardi di euro annui nel 2020. Naturalmente la spending review dovrebbe consentire ulteriori risparmi, la cui entità evidentemente dipenderà dalle modalità della sua attuazione.
Sulla salvaguardia di alcune voci di spesa, tra cui, in particolare, gli investimenti in istruzione, ricerca, innovazione ed energia segnalati nel secondo quesito, vorrei sottolineare come l'evidenza mostra che le economie in cui la spesa per ricerca e sviluppo è più elevata sono anche quelle che hanno risentito meno della competizione da parte delle economie emergenti e registrato un più rapido recupero della crisi. In questo campo l'Italia sconta una situazione particolarmente insoddisfacente, ma anche una scarsa ambizione nei propri obiettivi programmatici.
In quasi tutti i Paesi più performanti, infatti, anche la componente pubblica della spesa in ricerca e sviluppo è elevata, mentre l'Italia ha una spesa in ricerca e sviluppo di poco superiore alla metà di quella dell'Unione europea, circa l'1,2 per cento del PIL contro il 2,1 per cento della media europea, sia per la componente privata, sia per quella pubblica.
L'introduzione di un incentivo fiscale automatico ha avuto un effetto positivo sulla spesa delle imprese, ma non si può non notare come gli obiettivi contenuti nel Programma nazionale di riforma 2011 siano decisamente poco coraggiosi. A fronte di un obiettivo del 3 per cento per l'insieme dell'Unione europea, l'Italia ha fissato il proprio target nel 2020 all'1,5-1,6 per cento del PIL, il livello più basso tra tutte le economie dell'Unione.
In tema di energia ricordo che l'Italia dipende dall'estero per oltre l'80 per cento del proprio fabbisogno e che nel corso del 2011 il disavanzo energetico è stato di oltre 61 miliardi di euro, mentre per gli altri prodotti si è registrato un avanzo di circa 37 miliardi di euro. Le fonti rinnovabili di energia, quasi interamente localizzate sul territorio, costituiscono un importante elemento di risparmio nei conti con l'estero, con un contributo di oltre il 50 per cento alla produzione nazionale di energia primaria, che per il 2010 equivale a un risparmio stimabile in 6-7 miliardi di euro in termini di minori importazioni.
D'altro canto, l'ISTAT stima che l'importazione di componentistica per pannelli fotovoltaici da sola, nel 2010 abbia determinato un passivo commerciale di circa 8,4 miliardi di euro - era di 2 miliardi nel 2009 -, quasi interamente concentrato nei flussi provenienti da Germania e Cina, determinando, quindi, un parziale spostamento del deficit energetico sui beni industriali.
La scelta e la modulazione degli incentivi per le fonti rinnovabili, pertanto, dovrebbero considerare aspetti quali il contenuto delle importazioni, la creazione di occupazione, la possibilità di sviluppare know-how localmente, i rendimenti relativi dell'investimento e l'impatto ambientale.
In questa prospettiva l'efficienza energetica appare sicuramente un'opportunità promettente, anche per realizzare gli obiettivi di riduzione delle emissioni entro il 2020, che includono anche un aumento del 20 per cento dell'efficienza. Infatti, una politica di incentivi forti per il risparmio energetico negli edifici fornirebbe un contributo rilevante alla riduzione di consumi ed emissioni, in particolare nel settore residenziale, rispetto all'installazione di pannelli solari. Peraltro, considerando gli aspetti di natura economica, questo tipo di


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attività avrebbe il pregio di un'elevata intensità di lavoro e di un coefficiente di importazioni molto inferiore.
Passando a considerare le entrate, ci si domanda quali siano i margini per lo spostamento del carico fiscale dall'occupazione ai consumi, all'ambiente e al patrimonio, e per una riduzione delle deduzioni ed esenzioni ritenute distorsive e fonti di inefficienza.
Le manovre di agosto e dicembre dello scorso anno hanno operato un aumento delle imposte indirette, la prima con l'aumento di un punto dell'aliquota IVA ordinaria e la seconda con l'aumento delle accise sui carburanti e l'introduzione anticipata dell'IMU sul patrimonio immobiliare. Con il decreto-legge n. 201 del 2011 è stata introdotta anche una riduzione del carico fiscale sull'occupazione, con la deducibilità ai fini dell'IRES e dell'IRE della quota dell'IRAP gravante sul costo del lavoro e per l'assunzione di giovani e donne, per un totale stimato in 8,2 miliardi di euro nel triennio 2012-2014.
In considerazione dell'attuale quadro macroeconomico, i margini per un eventuale ulteriore spostamento del carico fiscale sui consumi e sull'ambiente sembrano assai ristretti, mentre quelli per l'imposizione sul patrimonio, che presenta un minore impatto sulla crescita e potrebbe fornire risorse da reimpiegare per stimolare la crescita economica e la creazione di occupazione, dipendono strettamente dalla capacità tecnica di sottoporre a tassazione il patrimonio in modo efficace.
Per quanto attiene alla riduzione di deduzioni ed esenzioni, la Commissione europea fa riferimento, in particolare, all'IVA e alle deduzioni per le imprese. Oltre alle considerazioni già svolte sull'IVA non entro nel merito di questo tema, sul quale rinvio alle già citate conclusioni della specifica Commissione di studio.
Infine, per quanto riguarda il ruolo di un eventuale recupero di gettito dall'evasione fiscale e dall'emersione del sommerso, vorrei riprendere alcune cifre che ho avuto l'occasione di presentare già nella citata audizione del 7 dicembre 2011.
L'ISTAT elabora correntemente le stime del valore aggiunto e dell'occupazione attribuibile al cosiddetto «sommerso economico», incorporando queste grandezze nelle stime del PIL e degli aggregati economici. L'entità del valore aggiunto prodotto dall'area del sommerso economico è stimata per il 2008 in una forbice compresa tra 255 e 275 miliardi di euro, ovvero tra il 16,3 e il 17,5 per cento del PIL.
La metodologia sviluppata dall'ISTAT, oltre a garantire l'esaustività e la coerenza delle stime complessive degli aggregati economici, offre una base di riferimento per una possibile stima dell'evasione fiscale. Tuttavia non consente di giungere direttamente a una misura dell'evasione. Come ho già avuto modo di riferire presso questa Commissione, una simile stima è complessa, ma realizzabile e sarebbe auspicabile che avesse carattere ufficiale e fosse resa pubblica, come nel Regno Unito, nel quadro di un rapporto annuale sull'attività di contrasto all'evasione fiscale e contributiva e sui suoi risultati.
L'ordine di grandezza derivato dalla dimensione del sommerso economico suggerisce comunque un importo considerevole, di cui l'attuale recupero di gettito, circa 11 miliardi di euro, costituisce una frazione ridotta, ancorché rilevante in valore assoluto. Il percorso per mobilizzare questo «tesoretto» non è, tuttavia, immediato e non vanno nascosti gli effetti di eliminazione di alcune attività dal mercato e dal relativo gettito potenziale. La rilevanza dell'economia sommersa è molto diversificata tra le attività, rappresentando nel 2008 circa un terzo del valore aggiunto nel caso dell'agricoltura, quasi il 21 per cento nei servizi e il 12,4 per cento nell'industria.
Una disaggregazione proposta in via sperimentale dall'ISTAT per il 2005 mostra come, tra i servizi, la quota del sommerso economico raggiunga il 56,8 per cento per l'aggregato degli alberghi e dei pubblici esercizi, il 52,9 per cento per il lavoro domestico, ma appena il 6,4 per cento nel settore del credito e delle assicurazioni. Per l'industria, invece, la stima


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varia dal 28 per cento delle costruzioni fino all'1,8 per cento per l'aggregato composto da energia elettrica, gas e acqua.
La figura 8, che trovate nell'allegato statistico, che ho consegnato agli atti della Commissione, mostra un'evidenza interessante nella relazione tra la quota di valore aggiunto sommerso e il tasso di crescita della produttività negli anni Duemila, da cui emerge come i settori a maggiore componente di sommerso siano anche caratterizzati da una produttività stagnante o in diminuzione.
Questa evidenza è coerente con l'idea che l'evasione consente a numerose imprese di rimanere sul mercato in modo non corretto, cioè con livelli di produttività e di redditività che, in condizioni normali, non consentirebbero la loro sussistenza. In questa prospettiva, un'efficace lotta all'evasione avrebbe importanti effetti strutturali sulla dinamica aggregata della produttività e della crescita economica, anche se, nel breve termine, potrebbe determinare un effetto negativo sui livelli occupazionali e sui redditi degli imprenditori e della manodopera impiegata nelle attività dedite all'evasione.
Veniamo ora al tema del rafforzamento della competitività e dell'efficienza. La competitività del sistema produttivo è naturalmente legata al problema della produttività del lavoro. Le statistiche ufficiali mostrano una dinamica della produttività nell'ultimo decennio complessivamente negativa, pur se mitigata dall'evidenza sul versante occupazionale.
Nel periodo 2001-2010 la performance dell'Italia è stata pari a circa un terzo rispetto a quella franco-tedesca per la dinamica del valore aggiunto e appena il 12-15 per cento per quanto riguarda il contributo della produttività. A confronto con le altre maggiori economie dell'Unione europea, l'andamento della produttività in Italia è stato comparativamente peggiore in quasi tutti i settori. Inoltre, la maggior parte dell'espansione occupazionale ha riguardato comparti dei servizi relativamente poco sviluppati, ma caratterizzati in prevalenza da produttività bassa e stagnante.
Una parte della spiegazione della stagnazione della produttività del lavoro va cercata nella forte espansione nella base occupazionale. Nell'ultimo decennio la crescita dell'input di lavoro in Italia è stata del 2,7 per cento, accompagnata da un calo nelle ore medie lavorate superiore rispetto alle maggiori economie europee. Ne deriva che l'occupazione è cresciuta di ben il 7,5 per cento, contro il 3 per cento della Germania, il 5,1 per cento della Francia e il 5,7 per cento del Regno Unito.
Con riferimento al periodo 2001-2007, se l'andamento dell'input di lavoro in Italia fosse stato simile a quello della Germania, il contributo alla produttività oraria sarebbe stato pari a circa 11,5 punti percentuali, superiore cioè a quello registrato per la Francia.
La stagnazione della produttività si intreccia con la debolezza della crescita, ma le caratteristiche e l'evoluzione del sistema economico hanno comunque consentito di creare occupazione coerentemente con l'obiettivo di innalzare il rapporto tra occupati e popolazione.
Dal punto di vista delle politiche, la produttività emerge come tema di grande complessità, attorno al quale si intrecciano elementi diversi tra loro. Sono, pertanto, da considerare positivamente le misure a favore della crescita dimensionale delle imprese, quali l'introduzione dell'ACE e lo sconto IRAP per le assunzioni previste dalla manovra di fine anno. L'introduzione delle nuove tecnologie e una maggiore capacità di innovazione impongono, inoltre, importanti investimenti infrastrutturali, principalmente quelli legati all'agenda digitale, come la diffusione della banda larga.
Infine, la qualificazione e la motivazione delle risorse umane coinvolgono investimenti e miglioramenti nel campo dell'istruzione e della formazione continua e un mercato del lavoro meno frammentato in grado di offrire maggiori opportunità e un minor senso di precarietà ai lavoratori. Le imprese dovrebbero aumentare significativamente le risorse dedicate alla formazione del capitale umano disponibile. Forme di incentivazione in questa direzione


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potrebbero aiutare a colmare la distanza esistente rispetto ai competitor, con effetti benefici sulla produttività e sulle performance aziendali.
La direttiva europea sui servizi è stata recepita dall'Italia con relativo ritardo e solo con le più recenti misure il tema del funzionamento dei mercati dei servizi è tornato preminente nell'agenda di Governo. Come ricordato in precedenza, nelle sue raccomandazioni sul Programma nazionale di riforma per il 2011, il Consiglio europeo evidenzia la necessità di introdurre misure per aprire il settore dei servizi a una maggiore concorrenza, in particolare nell'ambito dei servizi professionali. La presenza di barriere alla concorrenza in questi ultimi è evidenziata anche dall'OCSE nel rapporto Going for Growth del 2011.
Con il decreto-legge n. 1 del 2012, in materia di liberalizzazioni, sono state introdotte innovazioni per quanto riguarda, tra l'altro, l'abolizione delle tariffe per le professioni regolamentate, la possibilità di pattuire compensi al conferimento dell'incarico e l'incremento del numero dei notai.
Vorrei soffermarmi sul quadro che emerge dall'andamento dei prezzi dei servizi in Italia rispetto al resto d'Europa.
Tra il 2001 e il 2011 l'inflazione, misurata dagli indici armonizzati dei prezzi al consumo, è stata più elevata nel nostro Paese rispetto a quelli dell'area dell'euro (il 25,5 per cento in Italia contro il 23,1 per cento nell'area dell'euro), e, in particolare, della Germania (pari al 18,1 per cento). Gran parte del differenziale tra Italia e Germania è spiegato dall'andamento dei prezzi nel comparto dei servizi, che nel nostro Paese hanno fatto registrare nell'arco di tempo considerato una crescita nettamente più elevata rispetto a quella misurata in Germania (il 27,2 per cento in Italia contro il 16,2 per cento in Germania).
Anche nel settore dei beni l'andamento dei prezzi in Italia ha evidenziato una dinamica di periodo più accentuata rispetto a quella tedesca, sebbene il differenziale di inflazione sia rimasto su valori relativamente più moderati.
Nell'ultimo decennio, dunque, l'economia tedesca sembra aver tratto vantaggio da dinamiche inflazionistiche più moderate e dalla diminuzione del prezzo relativo dei servizi, che, al contrario, nel nostro Paese è risultato in aumento. In particolare, nei primi otto posti della lista dei servizi a più elevato tasso di crescita dei prezzi in Italia compaiono servizi di pubblica utilità, come i servizi di trasporto marittimo, lo smaltimento delle acque reflue, la tariffa rifiuti, ma anche le assicurazioni sui mezzi di trasporto, i servizi di trasporto ferroviario, i servizi di riparazione e manutenzione dei mezzi di trasporto, il trasporto aereo e i servizi finanziari.
Per questi prodotti, con l'unica eccezione del trasporto aereo, il differenziale di crescita dei prezzi risulta sistematicamente sfavorevole al nostro Paese e in modo marcato. Si va dai prezzi dei servizi di assicurazione dei mezzi di trasporto, cresciuti in Italia di circa il 49 per cento, mentre in Germania evidenziano una lieve diminuzione, al trasporto ferroviario, i cui prezzi hanno evidenziato un incremento di oltre il 25 per cento più elevato nel nostro Paese.
Considerando, invece, i prodotti che in Italia hanno fatto segnare una flessione del prezzo, accanto a diverse tipologie di beni a forte contenuto tecnologico compare un'unica categoria di servizi, quella relativa ai servizi di telecomunicazione, i cui prezzi nel periodo considerato hanno registrato una diminuzione del 9,6 per cento, sostanzialmente in linea con quella misurata per la Germania.
Vorrei sottolineare, a questo proposito, un dato. Guardando ai livelli dei prezzi, cioè alle cosiddette parità dei poteri d'acquisto, oggi in Italia abbiamo un livello dei prezzi al consumo sostanzialmente in linea con quello tedesco. Considerato pari a 100 il livello medio dei prezzi in Europa, l'indice tedesco è sceso da 110 a 103 in dieci anni, mentre in Italia è salito, se ricordo bene, da 95 a 102. I tedeschi


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hanno, dunque, perso 7 punti relativi rispetto alla media dei prezzi in Europa, mentre noi ne abbiamo guadagnato circa 7. Ormai i prezzi in Italia hanno raggiunto un livello simile a quello della Germania, ma naturalmente i salari e i redditi non hanno fatto altrettanto.

PRESIDENTE. Abbiamo spiegato le ragioni della percezione dell'effetto dell'inflazione sull'euro. I nostri prezzi sono aumentati rispetto a quelli tedeschi, i quali hanno una percezione dell'impatto inflattivo sull'euro diversa dal nostra.

ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell'ISTAT. Certamente, anche se - magari ci possiamo tornare successivamente - con riferimento all'inflazione percepita in Italia, vediamo che essa è stata di circa il 20 per cento all'anno per cinque anni, mentre l'inflazione ufficiale naturalmente è stata molto più bassa.
Io sono profondamente convinto - lavoravo all'OCSE a Parigi all'epoca e, quindi, non c'è conflitto di interessi - che le stime ISTAT fossero corrette, tanto che, nel momento in cui nel 2009 il reddito reale è diminuito del 5 per cento, abbiamo visto che l'occupazione è crollata ed è successo di tutto. Se fossero state vere le percezioni dell'inflazione al 20 per cento all'anno a fronte di redditi che crescevano di circa il 3 per cento, ciò avrebbe comportato una riduzione del reddito reale del 17 per cento all'anno per cinque anni, che per fortuna non si è verificata, altrimenti saremmo in un Paese molto diverso.
Tutto ciò ha dimostrato ex post che le stime ISTAT erano corrette, mentre non lo era l'inflazione percepita. Dopodiché, naturalmente, come anche noi mostriamo, attualmente l'andamento dei prezzi del cosiddetto carrello della spesa, cioè dei beni e servizi acquistati più frequentemente, è superiore al 4,5 per cento, quando l'inflazione media è intorno al 3 per cento. Si vede, infatti, che negli ultimi mesi l'inflazione percepita sta risalendo in linea con questo carrello della spesa, i cui prezzi noi forniamo ogni mese.
In conclusione, il sostegno della competitività esterna al sistema produttivo, che nei prossimi anni continuerà a confrontarsi con una domanda interna debole, emerge come un ulteriore elemento da considerare dal punto di vista strategico. Alla luce del quadro macroeconomico internazionale, si suggerisce di individuare strumenti efficaci di supporto all'export in aree che richiedono un approccio di sistema alla penetrazione delle nostre imprese sui mercati locali. Ciò è tanto più rilevante se si considera la specifica struttura del nostro sistema esportatore, con le piccole e medie imprese che realizzano circa la metà delle vendite di prodotti manifatturieri all'estero.
Questi interventi a favore delle sole imprese residenti in Italia con attività di esportazione diretta, realizzati attraverso un coordinamento stretto tra entità pubbliche e private e con un monitoraggio costante dei risultati, potrebbero avere un ritorno evidente in termini di crescita interna, a fronte di un aggravio di spesa limitato.
Veniamo all'inclusione sociale, un altro dei punti trattati dall'indagine conoscitiva. Nel corso del 2011 i tassi di occupazione sono rimasti sostanzialmente costanti, con importanti differenze di genere ed età. Il tasso di disoccupazione, alla fine del 2011, si colloca all'8,9 per cento, un livello del 10 per cento superiore rispetto all'anno precedente.
Vista la recente pubblicazione, da parte dell'INPS, dell'ISTAT e del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, del Rapporto sulla coesione sociale, ricco di dati sull'argomento, in questa sede mi concentrerò su due aspetti: la condizione delle donne e quella dei giovani. Non vorrei, però, omettere di ricordare che in questo rapporto figurano alcuni dati che personalmente mi hanno colpito molto. Ne cito uno, in particolare, che riguarda il valore medio delle retribuzioni percepite in Italia dai lavoratori dipendenti: guardando ai 12 milioni di lavoratori dipendenti iscritti all'INPS, emerge che la retribuzione netta media percepita si attesta intorno a 1.400 euro e, per i lavoratori stranieri, sotto i mille euro.


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GIORGIO LA MALFA Che cosa si intende per «percepite»?

ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell'ISTAT. Si intende la retribuzione lorda percepita in busta paga. In effetti è un valore terribilmente basso. È un valore medio, naturalmente. Ci sono differenze, ma il valore medio è veramente molto basso.
Tornando al tema, e mi avvio alla conclusione, meno di una donna su due lavora nel nostro Paese e solo il 30 per cento nel Sud, nonostante che dal 1995 al 2008 si sia assistito a un aumento quasi ininterrotto dell'occupazione femminile. Le donne, inoltre, continuano a essere occupate in lavori precari più frequentemente degli uomini e permangono in condizioni di precarietà più a lungo nel tempo.
La distanza dell'Italia dai principali Paesi europei nei tassi di occupazione, nonostante i progressi compiuti, resta estremamente elevata. Specularmente, il tasso di inattività delle donne italiane rimane tra i più alti in ambito europeo, determinando un'incidenza relativamente modesta della disoccupazione femminile.
Per definire le strategie complessive per l'occupazione, in particolare quella femminile, è necessario, quindi, affrontare le criticità del rapporto delle donne con il mercato del lavoro. Esiste, ad esempio, una difficoltà delle donne a permanere sul lavoro in concomitanza con una gravidanza. Le cosiddette dimissioni in bianco hanno riguardato circa 800 mila donne nel corso della loro vita.
Nel corso degli anni, il part-time ha contribuito notevolmente alla crescita dell'occupazione femminile, ma l'Italia continua ad avere tassi di impiego a tempo parziale inferiori rispetto alla media europea e, insieme, livelli doppi della componente di part-time involontario. L'elevata asimmetria dei ruoli disincentiva la partecipazione. Se si considera il lavoro totale, cioè il lavoro retribuito e il lavoro di cura, le occupate lavorano un'ora in più al giorno degli uomini e si fanno carico di più del 70 per cento del lavoro familiare.
Con la crescita dell'occupazione femminile, l'aumento dalla speranza di vita e il calo della fecondità, il lavoro di cura offerto dalle donne è destinato a ridursi progressivamente. Di conseguenza, standard elevati di welfare e occupazione femminile appaiono sostenibili solo a fronte di politiche per la redistribuzione del lavoro di cura nella coppia e dell'erogazione di servizi sociali adeguati alle necessità.
Dopo la forte caduta nel biennio 2009-2010, l'occupazione dei giovani tra i 18 e i 29 anni continua a calare. A fronte di una moderata crescita complessiva, nella media dei primi tre trimestri del 2011, l'occupazione giovanile ha subìto una flessione del 2,5 per cento. Al contempo, il tasso di disoccupazione dei giovani tra i 18 e i 29 anni è sceso dal 20,5 per cento del primo trimestre 2011 al 18,6 per cento del terzo trimestre, rimanendo almeno 11 punti percentuali al di sopra di quello complessivo.
Tuttavia, se consideriamo la fascia di età compresa tra i 15 e i 24 anni, che è quella proposta dall'Unione europea, la disoccupazione sale al 31 per cento, la più alta dopo la Spagna.
I già citati incentivi IRAP per l'occupazione femminile e giovanile nelle aree a bassa partecipazione, nonché le recenti misure per l'accesso dei giovani alla costituzione di società a responsabilità limitata vanno nella direzione di rendere più inclusivo il mercato del lavoro e di offrire maggiori opportunità occupazionali.
Per poter analizzare le politiche contro la povertà e l'esclusione sociale è opportuno fare riferimento a due misure. La prima è la povertà assoluta, calcolabile solo a livello nazionale, e la seconda, inclusa tra gli indicatori della strategia «Europa 2020», è quella relativa al rischio di povertà e di esclusione sociale, che viene calcolata a livello europeo e che tiene conto della povertà, della deprivazione, ma anche delle famiglie a bassa intensità di lavoro.
La povertà assoluta in Italia nel 2010 riguarda il 5,2 per cento della popolazione. Nel Mezzogiorno l'incidenza sale fino al 7,7 per cento. Il suddetto indicatore della


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strategia «Europa 2020» mostra come, nel 2010, circa un quarto della popolazione in Italia fosse a rischio di povertà e di esclusione sociale, valore più elevato della media europea. Il rischio si concentra nel Mezzogiorno, tra le famiglie numerose, le madri sole e gli anziani soli. Tra gli immigrati, l'incidenza arriva al 51 per cento tra le famiglie con almeno un componente straniero.
I trasferimenti sociali nel nostro Paese riducono il rischio di povertà di circa 5 punti percentuali, contro gli oltre 10 punti di Belgio, Danimarca e Francia e gli 8 di Spagna e Germania. Il rischio di povertà, che prima dei trasferimenti sociali è pari al 23,2 per cento, inferiore alla media europea, a seguito dei trasferimenti, quasi totalmente rappresentati da trasferimenti pensionistici, si attesta, invece, su valori superiori alle medie europee.
L'Italia è tra i pochi Paesi europei a non disporre di uno strumento specifico di lotta alla povertà, quale, ad esempio, il reddito di cittadinanza, e non appare casuale l'effetto contenuto dei trasferimenti sociali.
Concludo con un breve riferimento al miglioramento dell'efficienza del sistema giudiziario, il quale può svolgere un ruolo importante nel funzionamento del sistema economico. I dati per operare confronti internazionali in questo campo sono pochi, frammentari e talvolta disomogenei.
Se guardiamo al 2008, la spesa pubblica per il funzionamento della giustizia in Italia e il numero di magistrati per abitante, uno ogni 10 mila abitanti, non appaiono bassi, se confrontati con quelli degli altri Paesi europei, che pure hanno performance in termini di lunghezza dei processi molto migliori. In Italia occorrono, in media, oltre 1.200 giorni per la conclusione di un procedimento, in Francia ne occorrono 331. Non si tratta di un fenomeno recente, ma di una situazione perdurante nel tempo.
Le principali inefficienze dal lato dell'offerta non appaiono dovute alla scarsità delle risorse impiegate, quanto piuttosto ad altri aspetti di inefficienza organizzativa. In particolare, i risultati di un'analisi econometrica svolta su dati dell'ISTAT e del Ministero della giustizia portano alla conclusione che il principale elemento di inefficienza dell'offerta di giustizia in Italia risieda nella presenza di economie di scala non sfruttate nell'attività degli uffici giudiziari, sebbene emergano anche alcune strozzature territoriali nell'allocazione dei magistrati tra le diverse aree geografiche.
La produttività del magistrato, infatti, è fortemente condizionata dalla dimensione dell'ufficio giudiziario in cui opera. Le economie di specializzazione non sono possibili nei piccoli tribunali, dove il giudice si occupa delle questioni più disparate, in materia sia civile, sia penale.
Le stime riportate nell'appendice statistica che ho depositato evidenziano, inoltre, che il principale nodo di inefficienza si concentra nella giustizia civile. La fusione tra preture e tribunali e l'introduzione del giudice unico, a seguito della riforma del sistema giudiziario approvata nel 1998, hanno determinato un aumento della dimensione media degli uffici giudiziari e un primo recupero di efficienza.
In ogni caso l'eccessivo numero di sedi trova conferma anche nel confronto internazionale. Secondo i dati del Consiglio d'Europa, in Italia gli abitanti serviti da una corte di prima istanza sono mediamente 55 mila, la metà di ciò che si riscontra in Francia, in Germania e nel Regno Unito.
Una modifica della distribuzione degli uffici giudiziari sarebbe realizzabile senza pregiudicare i diritti degli utenti. Da un lato, vista l'evoluzione dei mezzi di trasporto, le distanze massime tra utente e ufficio previste dall'attuale disciplina, che risale agli anni Quaranta del secolo scorso, potrebbero essere riviste senza il venir meno delle garanzie, dall'altro lato, sfruttando gli investimenti nell'informatizzazione dei tribunali che si stanno realizzando, potrebbero essere evitati massicci spostamenti e accorpamenti fisici delle diverse sedi.
Infatti, analoghi risultati in termini di efficienza produttiva potrebbero essere raggiunti specializzando le singole sedi di tribunali all'interno di uno stesso distretto


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di Corte d'appello. In questo modo, tutte le materie sarebbero coperte all'interno di uno stesso distretto, ma ogni tribunale si occuperebbe solo di alcune di esse.
Grazie per l'attenzione.

PRESIDENTE. Credo che abbiamo avuto un'ulteriore conferma che, quando ascoltiamo l'ISTAT, possiamo abbeverarci a un pozzo inesauribile di informazioni assai interessanti.
Do la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

GIORGIO LA MALFA. Grazie, presidente. Anch'io, come lei, desidero ringraziare il presidente dell'ISTAT per la relazione di enorme interesse, ricchissima di dati e di considerazioni.
Naturalmente abbiamo poco tempo e, quindi, sarò brevissimo nelle considerazioni. Ciò che emerge da questa relazione è che noi ci troviamo di fronte a un problema insolubile, quando dobbiamo affrontare il tema della crescita e del risanamento. Sfortunatamente la teoria economica non ci dà una risposta oggettiva sui meccanismi di causazione e sui legami tra i diversi fenomeni.
Porto un esempio che spiega questo problema. A pagina 15 della sua relazione è presente un'osservazione formulata nel modo seguente: «Nell'ultimo decennio l'economia tedesca sembra aver tratto vantaggio da dinamiche inflazionistiche più moderate e dalla diminuzione del prezzo relativo...».
Io avrei scritto nel modo seguente: «Nell'ultimo decennio la crescita dell'economia tedesca ha determinato un vantaggio, nel senso che l'inflazione è stata più bassa». La crescita determina una bassa inflazione, non è la bassa inflazione a determinare un'alta crescita. Sono due mondi filosofici diversi. Una filosofia sostiene che la stabilità è la condizione necessaria, e forse ci arrivo anch'io, e sufficiente per la crescita, mentre un'altra afferma che la crescita è condizione necessaria e forse sufficiente per la stabilità. In questo modo non usciamo da questo problema.
L'Unione europea adotta una filosofia che ci indica di mettere a posto i conti e l'inflazione per ottenere la crescita. Siamo sicuri di questo? Questo è il punto a cui la nostra discussione arriverà. La Commissione bilancio ha scelto un relatore sul documento in esame che scriverebbe la relazione dell'ISTAT in un altro modo.
La relazione è fondata su dati di primissimo ordine, la mia non è una critica. Stiamo discutendo di filosofia e non di statistica, ma i numeri che correttamente il presidente ci presenta di quale insieme di causazione sono il prodotto? Se è diversa l'analisi sulle cause, è diversa anche la politica economica che ne discende. La politica economica che l'Unione europea impone a tutti i Paesi europei, alla Grecia, all'Italia e a tutti gli altri, è una politica economica che porta, a mio avviso, a ridurre la crescita e questo è il punto di fondo su cui noi discutiamo.
D'altra parte, l'aspetto che colpisce della comunicazione della Commissione europea di cui io sono relatore, è che metà del documento è dedicata alla stabilità dei conti e l'altra metà alle cinque proposte per la crescita, tra cui il miglioramento dell'apparato giudiziario e via elencando.
Metà del testo indica che se vogliamo crescere dobbiamo mettere a posto i conti. La questione che io pongo è che, se noi potessimo allentare le briglie sulla finanza pubblica, probabilmente eviteremmo il bagno di sangue della caduta del reddito del 2012 che lei ci annunzia. Se, invece di aumentare l'IVA, la diminuissimo e, invece di tagliare la spesa per gli investimenti pubblici, li aumentassimo, avremmo un po' di respiro. Se non possiamo darci noi questo respiro, perché la regione Italia ha i conti in disordine, deve essere il Paese Europa ad avere una politica di sviluppo. È molto difficile pensare che la somma di tante politiche restrittive di tutte le regioni che compongono l'Unione monetaria europea dia luogo a una crescita dell'Unione monetaria europea, se l'Unione non ha una politica per la crescita. Oppure deve essere consentito a noi di attuare gli strumenti più efficaci per la crescita, come la leva fiscale. Lo strumento della leva


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fiscale è efficacissimo nel determinare la recessione e sarà evidentemente altrettanto efficace nel determinare la crescita.
Ha ragione il presidente, quando sostiene che, se noi, invece di aumentare le tasse, tagliassimo le spese, otterremmo un effetto meno negativo di quello che avremmo se facciamo l'inverso. Rovesciamo, però, il discorso: se noi potessimo allentare un po' il controllo sulla spesa, probabilmente otterremmo un effetto positivo.
La domanda che mi pongo è se dobbiamo per forza accettare questa dinamica insopportabile dei tagli. Se ciascuna regione che comprende l'Unione monetaria è costretta ad attuarla, ma l'Unione monetaria nel suo insieme non l'attua, sarà davvero utile? Questo è il punto su cui ho dubbi.
A pagina 16 della sua relazione afferma che una delle questioni importanti è rappresentata dalle esportazioni e ciò si ricollega all'altro grande problema dell'Europa. Io considero molto importante ciò che sta facendo la Banca centrale europea attraverso la politica di finanziamento delle banche, ma ancora più importante è lo slittamento del valore dell'euro. È l'unica politica che può consentire di attuare una politica di rigore nella spesa pubblica. Se si intende restringere le dimensioni del settore pubblico, allarghiamo quelle del settore produttivo. Il settore produttivo si allarga esportando, come voi osservate.
Se quella diventa la politica dell'Unione europea, ossia se «scivola» l'euro, allora forse è possibile indicare alle regioni che compongono l'Unione europea di attuare politiche di risanamento dei conti. Quella della Grecia è una prospettiva allarmante.
Presidente, io non ho altro da aggiungere, anche se ci sarebbero moltissime considerazioni da svolgere su questo tema. Terremo in merito una discussione quando dovremo scrivere la relazione sul documento in esame.

AMEDEO CICCANTI. Il vero problema è quello che poneva il relatore, l'onorevole La Malfa. La vicenda greca insegna che la tenuta dei conti pubblici crea un dissesto di carattere sociale, ma anche economico. È un dato consequenziale, però io mi pongo una domanda sul piano politico. Se non ci fosse una disciplina di bilancio, gli Stati libererebbero risorse per una crescita di carattere virtuoso? Se l'Italia non avesse avuto i vincoli del Patto di stabilità, probabilmente, avrebbe continuato nella linea tradizionale delle politiche basate sull'indebitamento pubblico.
Quando Guido Carli ci inserì in questo circuito europeo della moneta unica nella fase della sua preparazione, ebbe ben chiaro che sarebbe diventata una camicia di forza sul piano politico per il nostro Paese. Era di tutta evidenza che volesse che la politica diventasse virtuosa anche per cause esogene, per cause esterne.
Io credo che oggi noi ci siamo posti i problemi del pareggio di bilancio a causa del «semestre europeo» e della nuova governance economica che si sono date l'Unione europea e l'area dell'euro. Diversamente, non avremmo avuto la capacità e la forza di arrivare al punto in cui siamo. Si tratta adesso di vedere se la medicina ammazza il paziente, anziché guarirlo. Si pone una questione di equilibrio delle decisioni prese.
Lo studio sulla spesa pubblica svolto dal Ministro Giarda non ci offre soluzioni, ma ci indica alcuni caratteri di criticità sui quali adesso sta al decisore politico poter intervenire. C'è una spesa improduttiva e addirittura inutile, ragion per cui si tratta di comparare costi e benefici.
Io credo che gli interventi a favore della crescita debbano essere quelli che deriveranno dalle misure di efficientamento sia della spesa pubblica, sia del sistema Italia. I fattori produttivi totali del nostro sistema devono andare in un'unica direzione, che è quella della produttività del sistema.
In questo senso chiedo il suo parere, dato che lei presiede anche la Commissione incaricata di raccogliere e fornire le informazioni necessarie al livellamento delle retribuzioni dei titolari di cariche elettive e delle figure apicali delle amministrazioni pubbliche; avendo, quindi, conoscenza dei costi della politica diretti e


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indiretti può aiutarci. Al tema dei costi indiretti si collega quello sui tetti stipendiali, che ci ha interessato poco fa in Commissione e su cui sarebbe stato utile un contributo della Commissione da lei presieduta, che speriamo arrivi presto.

PRESIDENTE. Il primo tema che io pongo sempre all'attenzione è quello dell'inflazione. Siamo arrivati al 3 per cento, e, per le famiglie, al 4,5 per cento. Lei ha richiamato alcuni dati sulla retribuzione in busta paga dei lavoratori dipendenti e, penso, anche dei pensionati, su cui siamo intervenuti per garantire il recupero dell'inflazione.
Credo che questo dato debba cominciare a preoccupare, anche se, vedendo alcune riflessioni apparse anche recentemente sulla stampa, osservo che, quando si richiama la capacità del prodotto nominale di abbattere il debito senza crescita reale, qualcuno dovrebbe anche affermare esplicitamente che pensa proprio a questa come strumento per ricondurre il debito pubblico ai valori richiesti in sede europea.
Ho visto alcuni studi che indicano come il pareggio di bilancio già di per sé, in assenza di crescita, garantirebbe il risultato, ma grazie all'inflazione, che sappiamo tutti essere una tassa implicita sui cittadini. Sull'inflazione che grava sulle famiglie, quella del carrello della spesa, credo che occorra svolgere alcune riflessioni in più.
Passo a un elemento che richiama gli interventi che mi hanno preceduto. Guardando la tabella riportata a pagina 3 dell'allegato statistico e le sue proiezioni, vedo che sono illustrate le previsioni di crescita per l'area euro e per l'Unione europea, e noto che distinguete il Regno Unito. Sarebbe interessante capire se è compreso nell'Unione europea oppure distinto. Voi prevedete che il Regno Unito, che non fa parte dell'area euro, cresca dello 0,6 per cento nel 2012 e addirittura del 2 per cento nel 2013, mentre la povera area euro sarebbe penalizzata dalle politiche che nell'area euro stessa si decidono. Paradossalmente, si potrebbe misurare l'effetto di un approccio che il relatore, onorevole la Malfa, ha richiamato.
Spendo due parole sull'evasione fiscale. Ho posto la stessa domanda a chi aveva partecipato per conto dell'ISTAT ad un'audizione al Senato, nella quale si è discusso dell'evasione di «sussistenza» e di «sopravvivenza». Si può, ragionevolmente, stimare che cosa potrebbe succedere se effettivamente da domani mattina tutti pagassero le tasse nominalmente previste? Quanta parte di quel 20 per cento di economia sommersa che voi stimate, dal giorno dopo non potrebbe più sopravvivere e scomparirebbe? In particolare, io penso ad alcune zone del Paese. È un problema che dobbiamo porci, anche ai fini della finanza pubblica.
Aggiungo ancora un'altra domanda. L'evasione recuperata, ammesso che riusciamo a recuperarla, naturalmente va a diretto beneficio dei saldi di finanza pubblica. Il PIL che emerge conseguentemente si elide rispetto a quello che è già contabilizzato? Praticamente sul PIL non cambierebbe nulla, mentre andrebbe tutto a beneficio dei saldi di finanza pubblica. Il PIL rimarrebbe immutato, perché il sommerso è già contabilizzato. Questa è una questione importante, su cui volevo avere conferma.

ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell'ISTAT. Il reddito disponibile diminuirebbe, perché il PIL, se le nostre stime sono corrette, non cambierebbe. Aumenterebbe, invece, in assenza di compensazioni il gettito fiscale, il che determinerebbe una riduzione del reddito disponibile e, quindi, eventualmente un effetto keynesiano successivo.

PRESIDENTE. L'ultima osservazione che svolgo, purtroppo triste, è che, nel passaggio in cui si è parlato dell'occupazione, mi sembra aver capito che l'occupazione in Italia è cresciuta, ma è stata un'occupazione «povera» e poco produttiva. Temo, dunque, in prospettiva che sia un'occupazione effimera, perché, se si è creata occupazione su aree in cui poi non riusciamo a reggere la competitività, essa


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è destinata inevitabilmente a scontrarsi con economie che nella globalizzazione risultano essere più produttive e più competitive.
Noi abbiamo creato occupazione, ma purtroppo probabilmente si tratta di un'occupazione «povera». Questo è quello che ho capito io tra le righe. È un altro elemento che pongo per la discussione e per un ulteriore approfondimento. Se la produttività in Italia continua a decrescere, mentre dalle altre parti cresce e l'occupazione da noi cresce, mentre dalle altre parti non cresce come da noi, inevitabilmente mi sembra evidente che abbiamo creato occupazione, ma purtroppo non si tratta di un'occupazione produttiva.
Non so che effetti tutto ciò abbia prodotto complessivamente sul CLUP che, come è noto, è l'indicatore che nel medio-lungo periodo ci mostra se la nostra economia può sopravvivere o no.

LINO DUILIO. Vorrei porre un paio di domande all'interno di un discorso generale, che riprende quanto affermava il collega La Malfa, esordendo col rilevare che si respira da tutte le parti e in tutte le analisi il fatto che siamo orfani di una teoria. Da tutto ciò che leggo e ascolto osservo che, per usare un'espressione non elegantissima, ma che rende l'idea, non si sa più che pesci pigliare, per non dire che ci siamo un poco incartati.
Stiamo attuando iniziative un po' contraddittorie tra di loro: per un verso avremmo bisogno di stimolare l'economia con investimenti produttivi, che però richiedono risorse, ma, per l'altro, abbiamo celebrato la fine del keynesismo e del neo-keynesismo. Di conseguenza, non se ne parla proprio di compiere simili operazioni con le risorse pubbliche.
Abbiamo scritto che dobbiamo perseguire il pareggio di bilancio, ma, a meno che qualcuno non pensi che la virtù si compra al supermercato, io non so come si riuscirà a perseguire tale obiettivo e, nello stesso tempo, a esercitare un ruolo pubblico per favorire investimenti produttivi.
Tutto ciò, evidentemente, innesta o alimenta meccanismi ulteriormente perversi, per cui alla fine non si riesce a ben comprendere, anche a livello tecnico, come si raggiunga l'obiettivo della crescita che tutti evochiamo da tutte le parti e che alla fine tutti sosteniamo essere l'elemento determinante per combattere la grave malattia di cui soffriamo, che è il debito pubblico, diventato una montagna alta come l'Himalaya.
A me sembra che, per quanto stiamo facendo noi, e lo ribadisco senza vena di critica, per riprendere il tema delle filosofie a cui ci si ispira, ci sia di nuovo una grande fiducia nel mercato. Noi pensiamo di cominciare a eliminare quelli che una volta Guido Carli chiamava i lacci e i laccioli, ad attuare le liberalizzazioni, la semplificazione e via elencando, confidando che poi le virtù del mercato, quasi come una nuova mano invisibile, si rimetteranno in moto e consentiranno all'economia di crescere.
Io spero che sia così, ma non ne sono proprio convinto, se devo essere sincero. Dal momento che è stata chiesta una sua opinione, ovviamente come studioso, più che come presidente dell'ISTAT, e che l'analisi che lei ha svolto fa riferimento a ciò che è certo, ossia ai dati, mentre noi chiediamo elementi incerti, io sono comunque interessato alla sua opinione e le sarei grato se me la fornisse.
Sul merito, invece, delle nostre questioni, che si riallaccia a questo quadro e, quindi, alla mancanza di strumentazione che consegue anche al difetto di politica, in questo caso, oltre che di pensiero, pongo in evidenza che noi non abbiamo dimestichezza con l'utilizzo di strumenti di azione che colleghino il breve con il medio e con il lungo termine.
Se perseguiamo l'evasione fiscale, in alcune realtà del Paese si determina come effetto immediato il fatto che molte persone perderanno la loro attività, seppure precaria e «in nero». Peraltro, si tratta di persone non censite, che non risultano da nessuna parte, ma che rientrano in quella percentuale di quasi il 20 per cento di economia sommersa che lei ci ha citato e


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che non beneficiano nemmeno di ammortizzatori sociali che consentano loro di vivere. Queste situazioni diventano molto difficili da gestire politicamente, come lei può immaginare, ma producono anche effetti in termini di condizioni di vita delle persone e di economia reale che devono essere presi in considerazione e che andrebbero gestiti in connessione alla strategia per la crescita nel medio e nel lungo periodo e, quindi, anche con l'utilizzo di strumenti che consentano a queste persone di non passare dal sottoscala, dove producono le scarpe che riescono a vendere, al piano terra, dove si trovano disoccupati e senza nulla da fare, per usare una metafora.
Questa è una prima difficoltà, rispetto alla quale io mi trovo a disagio. A parte il fatto che non ne parliamo mai in merito alle misure che cerchiamo di adottare, le chiedo come e se si possano legare queste due dimensioni, da una parte la lotta al sommerso che non possiamo non attuare, e, dall'altra, una forma di incentivazione all'emersione che si colleghi all'esigenza di fugare i rischi di cui parlavo prima.
Per quanto riguarda la seconda considerazione che volevo svolgere, lei ci ha offerto un quadro che, attraverso i numeri, rappresenta assolutamente una fotografia dell'esistente e che, con riferimento al PIL ci consente di affermare, ahimè, che siamo entrati in recessione. Lei ci ha riferito in merito all'andamento dell'economia nel 2011, alle previsioni per il 2012, con l'inflazione che aumenta e con la disoccupazione che è aumentata del 10 per cento rispetto all'anno precedente, e ci ha illustrato i dati sulla povertà che vede il nostro Paese in una condizione tra le peggiori o forse al primo posto, in questo caso, in Europa, con una disaggregazione qualitativa anch'essa molto preoccupante a livello sia geografico, sia sociale.
Rispetto a questa situazione, tornando a quanto accennavo prima, a me sembra di osservare che noi continuiamo a svolgere analisi quantitative e ci concentriamo poco su analisi qualitative, se esistono, che attengano a una politica economica che contempli interventi i quali, almeno auspicabilmente, possano aiutare la crescita del nostro Paese.
Abbiamo appena audito i rappresentanti di Confindustria ai quali è stato chiesto se non fosse il caso di provare a riconquistare nicchie del mercato mondiale, dove abbiamo perso alcune posizioni, e se non sia il caso di interrogarci - mi ricollego al discorso del medio-lungo periodo - se sia necessario aggiungere al tradizionale made in Italy qualcos'altro in termini di innovazione dei prodotti, andando oltre l'innovazione dei processi produttivi.
Mi è stato risposto che il discorso dell'obsolescenza dei settori produttivi è sorpassato, perché, in effetti, il nostro tradizionale made in Italy va alla grande e non c'è bisogno di compiere grandi sforzi, se non quelli classici legati all'innovazione e via dicendo.
Le chiedo se sia proprio così e se noi, guardando non nella sfera di cristallo, ma un poco oltre il domani, non dobbiamo interrogarci in termini un po' schumpeteriani - in questa nuova divisione del lavoro, come si sarebbe affermato una volta, e in questa situazione di interdipendenza delle economie - se la ricerca di nuovi mercati e di nuovi prodotti non rientri in una strategia qualitativa di politica economica di un Paese che nelle sedi proprie, a partire dal Parlamento, si interroghi su come conseguire il risultato di una maggiore crescita che Dio solo sa se non rappresenti per noi il problema cruciale, visto che, come sappiamo tutti, i nostri tassi di crescita sono rachitici da troppi anni. Avremmo bisogno, secondo me, di crescere a una media del 3 per cento all'anno per dieci anni per affrontare tutti i problemi che abbiamo, ma mi pare che le previsioni siano altre.
Stamattina, nel corso di una conversazione informale con il presidente della Svimez, ragionavamo su alcune questioni e pensavamo che ci sarebbe bisogno anche di politiche integrate, cioè di approcci integrati. Non si può ragionare per settori, non vi può essere una situazione in cui


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ogni regione agisce per conto proprio, non si può discutere di prodotti a sé stanti.
Si portava l'esempio del settore del fotovoltaico, che è stato richiamato anche in un'altra audizione, laddove si affermava che abbiamo scelto di investire nel fotovoltaico, con la conseguenza che questa decisione ha comportato un saldo assolutamente negativo di alcuni miliardi di euro della nostra bilancia commerciale, perché i Paesi che in questo settore producono gli impianti che noi abbiamo realizzato sono sostanzialmente la Germania e la Cina, ragion per cui il risultato non è stato positivo.
Forse sarebbe il caso, riferiva il nostro interlocutore, di riflettere sul fatto che abbiamo rinunciato al nucleare, dal momento che si parlava di energia e di ambiente. Essendo state previste risorse da destinare a tale finalità, forse si potrebbe ragionare su come riconvertire quelle risorse verso il settore dell'energia geotermica, che magari vedrebbe grandi enti di questo Paese, come l'ENEL, prendere alcune decisioni in alcune realtà, come quelle meridionali, che potrebbero beneficiare di scelte del genere.
Non crede che sarebbe il caso che ci concentrassimo un poco di più sul tema della qualità e non solo su quello della quantità? Il fatto che la quantità ci accompagni nella statistica, nel censimento di ciò che è accaduto, è certamente utile per ciò che potrà accadere, ma sarebbe più utile se l'affiancassimo anche con alcuni esercizi di natura diversa.
Con una battuta finale, poiché lei ha fatto riferimento al nostro essere gli ultimi in Europa anche rispetto agli obiettivi della strategia «Europa 2020», solo per sua conoscenza, le faccio presente che al Ministro Moavero Milanesi, nel corso di un'audizione svolta pochi giorni fa, abbiamo ricordato anche noi l'affastellato Programma nazionale di riforma che ci è stato presentato lo scorso anno, messo insieme in tre giorni forse per collage. Il prossimo dovrebbe essere un po' più ambizioso. Il Ministro ci ha risposto che lavorando in modo collegiale - il Ministro Profumo lavorerà con lui alla redazione del documento -, vi sono buone ragioni per ritenere che quella distanza, che aumenta, come lei sa, fino al 2020 tra noi e l'Europa, si dovrebbe ridurre o quanto meno accorciare rispetto a quanto è scritto adesso.

PRESIDENTE. Do la parola al professor Giovannini per la replica.

ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell'ISTAT. Essendo presidente di un ente di ricerca i cui fondi sono continuamente tagliati e che contribuisce, quindi, all'1,2-1,3 per cento del prodotto interno lordo destinato al settore che è stato citato, accolgo con grande piacere e favore il fatto che aumenteranno i fondi per la ricerca e spero anche per la ricerca pubblica.
Capisco le osservazioni, in particolare quelle del relatore, onorevole La Malfa, e degli altri intervenuti su questo senso di confusione, impotenza e contraddittorietà. Essendo un economista prestato alla statistica, non mi annovero tra gli economisti che credono nel mercato come soluzione di tutti i problemi e mi sento molto più simpatetico, anche per la mia formazione, con un'idea in cui il settore pubblico può e deve svolgere un ruolo importante.
Che cosa provoca il tema della causazione? In merito a quella frase sulla Germania, supponiamo di riscriverla e di affermare che la Germania ha beneficiato di una sostanziale stazionarietà del prezzo delle assicurazioni, mentre in Italia il prezzo è aumentato del 70 per cento. Se la vedessimo in questo modo, credo che il tema di che cosa causa che cosa non si porrebbe. È evidente che, se in un Paese il prezzo è stabile per dieci anni e in un altro aumenta tantissimo, c'è un problema di mercato, soprattutto in un'area in cui, teoricamente, vige la libertà di movimento di capitali.
A mio parere, ciò induce a sostenere che, se anche oggi noi fossimo in grado di stimolare la crescita con la scoperta del petrolio nel Mar Ionio, come è successo per la Norvegia, non necessariamente avremmo i frutti che vorremmo. I frutti che vorremmo sarebbero quelli di un'inflazione


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comunque contenuta, di un prodotto sull'occupazione di qualità, di una crescita della domanda che non andasse unicamente a favore della Germania e della Cina, come, invece, è successo per i pannelli fotovoltaici.
Questa sensazione di contrasto può essere superata, se si pensa che è vero che dobbiamo mettere la casa in ordine, ma non solo con riferimento alla finanza pubblica, bensì anche rispetto al funzionamento dei mercati.
Quando si afferma, e io ho provato a mostrare alcune evidenze, che i settori ad alta presenza di economia sommersa che consentono la sopravvivenza di imprese marginali, ostacolano l'entrata sul mercato di nuove imprese, magari più dinamiche, e di realizzare la distruzione creativa teorizzata da Schumpeter, non parliamo di astratte teorie, ma di realtà molto concrete, soprattutto quando cominciamo a leggerle in termini intergenerazionali.
Molte di quelle aziende marginali sono, in realtà, detenute e organizzate da persone che hanno venti o trent'anni di più di quelle che non riescono a trovare lavoro, perché il mercato è bloccato.
Ci sono numerosi interventi che, a mio parere, sono benefici ma che, e concordo con quanto affermava il presidente, nel breve periodo possono determinare effetti negativi. È il gioco dell'uovo e della gallina, dove l'uovo e la gallina riguardano la dimensione, rispettivamente, di breve e di lungo termine. Forse noi non abbiamo capito, non oggi, non sei mesi fa, non due anni fa, ma, quando Carli firmò il Trattato di Maastricht e il Parlamento dedicò pochi minuti alla sua ratifica, che cosa stavamo facendo. Non abbiamo capito come Paese e non ci siamo chiesti dove volevamo essere da allora a dieci anni.
Ieri, in una trasmissione televisiva, mi hanno chiesto che cosa pensassi delle Olimpiadi del 2020 e io ho risposto che avrei voluto parlare degli obiettivi della strategia «Europa 2020», che sono le vere Olimpiadi - e non di quelle da tenere a Roma - quelle nelle quali, se non cambiamo passo, non vinceremo né la medaglia d'oro, né quella d'argento, né quella di bronzo.
Io credo che la politica in questo momento sia stretta terribilmente in un angolo, dovendo risolvere alcuni problemi urgenti e dare una prospettiva di medio termine o di lungo termine. Questo è il problema vero. Qualsiasi iniziativa si attuerà nell'ottica della liberalizzazione, dei mercati, del contrasto all'evasione darà effetti non tra sei mesi, non tra un anno, non tra due anni, ma nel lungo termine.
Questo aspetto lega molti dei vostri commenti, per esempio, in merito al tema della penalizzazione che si riscontra nelle previsioni del Fondo monetario internazionale, e non nostre, rispetto all'Unione europea o all'Unione monetaria e al Regno Unito. L'effetto della recessione o del rallentamento forte nell'Unione europea non è tanto e solo dovuto, a mio parere, all'effetto di restrizione delle politiche di bilancio, ma a uno shock sulle aspettative provocato dall'instabilità finanziaria.
In Italia, ricordiamolo, nei due anni difficili, 2009 e 2010, la propensione al consumo è aumentata, mentre in tutti gli altri Paesi è diminuita, coerentemente con la teoria secondo cui, come individui, quando capiamo che siamo a rischio, tentiamo di risparmiare di più, il che produce un effetto immediato di riduzione del consumo.
In Italia, invece, la propensione al consumo è aumentata, nell'evidente convinzione che la crisi fosse un fatto temporaneo per cui, coerentemente con la teoria del life-cycle, si aumentano i consumi adesso, perché poi si ricostituirà risparmio domani.
Quello che sta accadendo è che forse, nel momento in cui ci si rende conto che la crisi non è temporanea, ma è un po' più lunga, si determina un effetto di compensazione forte nelle scelte di consumo e di investimento, il che spiega un vuoto deflazionistico forte in questi ultimi trimestri. Questa, però, è una correzione rispetto forse a una valutazione non corretta del passato.


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Sul discorso dell'evasione di sussistenza noi non abbiamo una stima, però mi sembra che anche le dichiarazioni del Presidente del Consiglio di un paio di giorni fa vadano nella direzione di indicare che i proventi da evasione non vanno alla riduzione del deficit e del debito, ma vengono ridistribuiti per ridurre le aliquote fiscali oppure per aumentare le detrazioni per chi paga le tasse. Questo avrebbe l'effetto di non produrre l'aumento della pressione fiscale e di generare una sorta di «maxi effetto conflitto di interesse», che forse può essere più efficace del chiedere la fattura ogni volta, perché si può scaricare una quota, magari minima, dalla dichiarazione dei redditi.
Io sono profondamente convinto che l'evasione sia anche un aspetto che scoraggia gli investimenti diretti all'estero, insieme ai problemi della giustizia civile e ad altri, ma, lo ripeto, i risultati di un'operazione del genere non avrebbero effetti immediati e forse, poiché la lotta all'evasione non azzera l'evasione da un giorno all'altro, darebbero un po' di tempo per migliorare, anche con ammortizzatori sociali, le condizioni di chi esce dal mercato a causa dell'emersione, compensata da chi entra nel mercato, magari con nuove idee, con soggetti più giovani, con più efficienza, oppure provvedere al riutilizzo del maggior gettito di imposta in favore di progetti di start-up su alcuni settori, per esempio.
Questa è la dimensione in cui breve e lungo periodo forse si riconciliano, anche se politicamente è estremamente difficile.
Devo una risposta sul tema delle esportazioni e del tasso di cambio. Di nuovo, se ci fosse una svalutazione forte e per i meccanismi di mercato l'Italia avesse un'inflazione come quella registrata nel settore delle assicurazioni, mentre la Germania avesse un'inflazione come quella delle assicurazioni in tale Paese, noi ci mangeremmo rapidamente il vantaggio rispetto alla Germania di una svalutazione dell'euro in termini relativi e non andremmo molto lontani.
La capacità di migliorare il funzionamento dei mercati è indispensabile anche nell'ipotesi in cui l'Unione europea decida di compiere una svalutazione del cambio al fine di far ripartire la crescita, perché in termini relativi perderemmo, comunque, posizioni rispetto alla Germania.
Vorrei sottolineare, rispetto alle vere Olimpiadi 2020, cioè alla strategia «Europa 2020», che abbiamo una situazione, secondo me, molto a rischio sotto il fronte sociale, quando vedo che in Italia il tasso di abbandono scolastico degli stranieri è di oltre il 40 per cento, a fronte di un tasso di abbandono degli italiani di circa il 15 per cento. Perdere il 40 per cento della popolazione giovanile immigrata nel nostro Paese rischia di caricare una molla che poi evidentemente esploderà.
In parte il dato può essere legato a un lavoro precario e svolto in nero, con tutte le situazioni tipiche del sottoproletariato, secondo la terminologia utilizzata in passato, e comunque dell'emarginazione di capitale umano che poi si ferma a quel punto. Magari sul posto di lavoro si impara anche, come facevano negli anni Cinquanta i nostri nonni o i nostri genitori, però oggi la competizione è molto diversa rispetto a quella degli anni Cinquanta.
Questo è un dato, a mio parere, preoccupante. Se anche raggiungiamo gli obiettivi già fissati nel PNR dell'anno scorso, che comunque sono lontani dall'obiettivo del 10 per cento stabilito a livello europeo, ma sono obiettivi realistici, e acceleriamo anche, occorre un salto enorme, analogo a quello degli investimenti in ricerca e sviluppo, cioè un raddoppio degli investimenti in ricerca e sviluppo per raggiungere l'obiettivo europeo.
Sono dimensioni grandi, che richiedono la riallocazione di enormi risorse all'interno del bilancio dello Stato, in vista di un futuro diverso, per tornare al tema del legame tra breve e lungo periodo.
Vorrei svolgere un'osservazione sul tema della qualità, che è stato sollevato dall'onorevole Duilio. Noi ci concentriamo molto sull'industria, sul settore manifatturiero, ma abbiamo un settore terziario che è di gran lunga più grande di quello manifatturiero in termini di PIL, ma per


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esportazioni di servizi siamo molto bassi in graduatoria rispetto agli altri Paesi. Ci sarebbe un'enorme potenzialità di crescita, il che naturalmente significa essere forti nei servizi telematici e nell'integrazione delle nostre imprese di servizi all'interno di grandi reti europee o internazionali.
Con riferimento alla qualità mi concentrerei molto sui settori nei quali siamo indietro. Il settore dei servizi in generale è un po' indietro e il fatto di non riuscire a esportare è un evidente problema.
Mi avvio alla conclusione. Nei modelli di crescita di economia chiusa gli strumenti a disposizione sono quelli di cui parlava prima l'onorevole La Malfa. In un modello di economia globale c'è un potenziale di investimenti diretti all'estero che può compiere eventualmente il salto, generando un moltiplicatore elevato, il che significa risorse aggiuntive come se fossero un investimento che si aggiunge a quello tipico pubblico.
Io credo che questa sia una strada indispensabile, ma che significa di nuovo intervenire sul funzionamento della giustizia civile, sull'evasione, sulla criminalità e sulla chiarezza delle regole. Quando si parla con gli imprenditori internazionali, rispondono che siamo troppi complicati, che è difficile riuscire a capire le nostre regole, che le cambiate continuamente e che è complicato elaborare progetti.
È vero o non è vero? Forse un'indagine conoscitiva su questo tema, sull'effettiva o presunta differenza di attrattività sugli investimenti, potrebbe aiutare a identificare alcuni interventi in questo ambito. Io credo che gli investimenti diretti dall'estero siano indispensabili soprattutto per superare quello che abbiamo visto nel rapporto annuale dell'anno scorso, ossia un aumento forte di penetrazione per alcuni settori delle importazioni sui mercati nazionali. Parliamo dei mercati dell'elettronica, della carta, della gomma, delle auto, in cui evidentemente la produzione nazionale non riesce a rinnovarsi sufficientemente.
Quanto all'occupazione, è vero che un'occupazione è stata creata in posizioni meno qualificate, ma ciò non è vero necessariamente per le donne, soprattutto nel periodo dal 1995-1997 in avanti, nel quale l'occupazione femminile è cresciuta anche in posizioni qualificate. Indubbiamente nella crisi c'è un reshuffling con una penalizzazione di posizioni più qualificate e una valorizzazione di posizioni meno qualificate.
Il tema è reale, dunque, ma vorrei anche precisare, come ho affermato nella mia relazione, che le imprese italiane spendono molto poco sulla formazione rispetto a quanto spendono altri Paesi, il che incide sulla qualità del capitale umano complessivo.
Concludo con un'osservazione che ha a che vedere non con il tema del concetto di crescita, su cui torneremo in una prossima audizione, ma con il tema del benessere eco-sostenibile e vorrei ripetere una considerazione che ho svolto in altre occasioni.
In Italia non abbiamo un sistema ben strutturato di valutazione ex post ed ex ante dell'impatto delle politiche. L'onorevole Duilio sollevava il tema della qualità e io osservo che noi, presi un po' dall'attivismo, tendiamo talvolta ad affastellare o a cambiare le norme senza aver svolto, in realtà, un'indagine approfondita dell'impatto che tali norme hanno avuto.
Il fatto che in Italia non ci sia un'istituzione - non sto candidando l'ISTAT - che, come fa negli Stati Uniti il Government Accountability Office, svolga una valutazione non solo finanziaria, ma anche economica complessiva soprattutto delle politiche ex ante, è una carenza.
Vorrei ricordare, ma voi lo sapete bene, che gran parte della normativa viene ormai realizzata a livello europeo e che, quindi, forse servirebbe un'analisi continua e dettagliata dell'impatto dei regolamenti comunitari ex ante, perché questo aspetto ormai incide moltissimo.
Il fatto che manchi un organismo che si occupi di compiere le valutazioni ex ante ed ex post, soprattutto nel momento in cui le risorse sono così limitate e bisognerebbe investirle veramente con il massimo del


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valore aggiunto, a mio parere è un altro elemento di debolezza del nostro Paese. Grazie.

PRESIDENTE. Grazie a lei e ai suoi collaboratori, Presidente Giovannini. Come al solito, pur se a beneficio di pochi eletti, l'audizione dell'ISTAT è di grandissimo interesse. Il resoconto dell'audizione e la documentazione saranno comunque a disposizione di tutti i colleghi.
Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna della documentazione consegnata dal professor Giovannini, consistente in una nota predisposta in occasione della seduta odierna (vedi allegato 2) e in un allegato statistico (vedi allegato 3).
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 16,45.

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