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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione V
14.
Mercoledì 14 marzo 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA NELL'AMBITO DELL'ESAME DELLA COMUNICAZIONE DELLA COMMISSIONE - ANALISI ANNUALE DELLA CRESCITA PER IL 2012 E RELATIVI ALLEGATI (COM(2011)815 DEFINITIVO)

Audizione del Vice Segretario generale e Capo economista dell'OCSE, Pier Carlo Padoan, e del Direttore generale affari economici e finanziari della Commissione europea, Marco Buti:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3 6 8 15 20
Buti Marco, Direttore generale affari economici e finanziari della Commissione europea ... 3 5 17
Cambursano Renato (Misto) ... 10
Ciccanti Amedeo (UdCpTP) ... 10
De Micheli Paola (PD) ... 13
Duilio Lino (PD) ... 10
La Malfa Giorgio (Misto-LD-MAIE) ... 5 14
Nannicini Rolando (PD) ... 8
Padoan Pier Carlo, Vice Segretario generale e Capo economista dell'OCSE ... 6 15
Rubinato Simonetta (PD) ... 12
Vannucci Massimo (PD) ... 9
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.

COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta pomeridiana di mercoledì 14 marzo 2012


Pag. 3

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

La seduta comincia alle 14,10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del Vice Segretario generale e Capo economista dell'OCSE, Pier Carlo Padoan, e del Direttore generale affari economici e finanziari della Commissione europea, Marco Buti.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nel quadro dell'indagine conoscitiva nell'ambito dell'esame della comunicazione della Commissione - Analisi annuale della crescita per il 2012 e relativi allegati (COM(2011)815 definitivo), l'audizione del Vice Segretario generale e Capo economista dell'OCSE, Pier Carlo Padoan, e del Direttore generale affari economici e finanziari della Commissione europea, Marco Buti.
Accompagnano gli ospiti che abbiamo oggi l'onore di audire le dottoresse Laura Bardone, Lucia Piana e Francesca Cigarini, che ringrazio per essere intervenute.
Do ora la parola al dottor Marco Buti.

MARCO BUTI, Direttore generale affari economici e finanziari della Commissione europea. Grazie, presidente e onorevoli deputati. Ho presentato una memoria scritta dove troverete riportato il mio intervento in maniera più articolata.
Se il presidente è d'accordo, consiglierei di distribuire anche la memoria che ho presentato al Senato stamani in occasione dell'audizione svolta presso le Commissioni 3a, 5a e 14a riunite. Mentre quella relativa all'intervento che svolgerò in questa sede si concentra soprattutto sull'analisi annuale della crescita per il 2012, pubblicata il 23 novembre scorso, la memoria che ho presentato in audizione al Senato si occupa delle questioni di disciplina fiscale e quindi delle nuove regole, della riforma del Patto di stabilità, della sorveglianza degli squilibri macroeconomici già in vigore, delle due proposte di regolamento che accrescono la sorveglianza sulla disciplina di bilancio e infine del fiscal compact. I due interventi, quindi, si completano a vicenda e potrete avere un quadro più generale della nostra visione sulla riforma della governance economica dell'unione monetaria e sulle prospettive di crescita.
L'analisi annuale della crescita, una volta pubblicata, dà il via al cosiddetto semestre europeo. Questo è il secondo semestre europeo. Il primo è stato l'anno passato, un anno ancora sperimentale. Forse da quest'anno partiremo in maniera più standardizzata e più a regime. Il semestre europeo, seguito dal «semestre nazionale» nei Paesi membri, consiste nel concentrare, nella prima parte dell'anno, l'individuazione delle priorità generali a livello di Unione e di zona euro. Su queste priorità generali si svolge una discussione nell'ambito del Consiglio Ecofin e del Consiglio


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europeo. Spetta poi ai Paesi membri tradurre queste priorità dell'Unione in priorità nazionali.
Le priorità sono codificate nel Programma di stabilità e nel Programma nazionale di riforma, che devono essere presentati entro il 15 o al massimo il 30 aprile. Su questa base, la Commissione europea e il Consiglio Ecofin elaborano una valutazione che dà luogo a raccomandazioni dirette ai vari Paesi. Dopo di che si passa al «semestre nazionale», in cui le priorità e le raccomandazioni sono tradotte nelle leggi di bilancio, nella legge di stabilità e negli altri provvedimenti di livello statale. Questa è la logica del semestre europeo, il cui avvio è dato dall'analisi annuale della crescita, che, con riferimento all'anno 2012, è stata pubblicata, come ho indicato, il 23 novembre scorso.
Sono cinque le priorità per i Paesi membri che la Commissione attualmente identifica. La prima è continuare il processo di aggiustamento del bilancio e rappresenta una priorità comune. Tuttavia, quello che si segnala chiaramente nella nostra analisi è che il processo di aggiustamento del bilancio deve essere differenziato Paese per Paese, tenendo presente il margine di manovra di ciascuno. Allo stesso tempo, la composizione dell'aggiustamento deve essere il più possibile favorevole alla crescita. Ovviamente, quando si operano risanamenti fiscali nel breve termine, è inevitabile che ci siano impatti negativi sulla crescita. Questi possono essere ridotti se la composizione e la qualità dell'aggiustamento sono quelle giuste. La priorità è data alla spesa che può costituire un investimento per la crescita futura, in particolare nei settori dell'istruzione, della ricerca e innovazione, e a una struttura della fiscalità in grado di sostenere la crescita e l'aggiustamento.
La seconda priorità è garantire l'erogazione del credito all'economia ed evitare il credit crunch. Da questo punto di vista c'è la necessità di rafforzare le posizioni patrimoniali delle banche e in questo le misure decise dalla Banca centrale europea (BCE) hanno molto aiutato. A livello comunitario è necessario completare il quadro normativo per i mercati finanziari e rafforzare l'attività di vigilanza.
La terza priorità è l'accelerazione delle riforme strutturali, che sono essenziali per rilanciare la crescita e la competitività. Esistono un volano europeo e un volano nazionale. A livello europeo si tratta di completare il mercato unico, soprattutto sul versante del mercato digitale e del mercato integrato dell'energia. A livello nazionale sono prioritarie le riforme strutturali del mercato dei prodotti e del mercato del lavoro.
La quarta priorità riguarda le riforme per lottare contro la disoccupazione e le conseguenze della crisi. Bisogna migliorare le capacità di aggiustamento del mercato del lavoro, allineare salari e produttività, aumentare la mobilità del lavoro e limitare l'accesso al pensionamento anticipato. C'è un'attenzione particolare quest'anno per la disoccupazione giovanile, che è aumentata di molto durante la crisi, e la Commissione europea ha adottato una nuova iniziativa in questa direzione.
La quinta e ultima priorità è la modernizzazione della pubblica amministrazione. Questo è essenziale anche per utilizzare al meglio le risorse comunitarie. Vanno, quindi, fatti progressi importanti. Come vedete, sono priorità piuttosto generali. Si tratterà poi di tradurle in maniera più operativa anche e soprattutto a livello nazionale.
L'analisi annuale della crescita per il 2012, come dicevo, è stata pubblicata a fine novembre. A tre mesi di distanza, sono stati fatti notevoli progressi. Credo che per la prima volta negli ultimi quattro anni, cioè dalla crisi di Lehman Brothers dell'ottobre 2008, abbiamo la possibilità di dare una svolta alla crisi. Da un lato, le preoccupazioni dei mercati finanziari sui Paesi vulnerabili sono state alleviate dagli ultimi sviluppi. Questa settimana abbiamo raggiunto un accordo sul secondo programma di aiuti per la Grecia, che sarà deciso formalmente oggi e domani. Altri Paesi che sono stati sotto scacco dei mercati, quali Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo, hanno compiuto progressi notevoli.


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Se non faremo errori nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, credo che abbiamo interrotto quella sensazione di effetto domino, che dalla Grecia avrebbe potuto far cadere il Portogallo e l'Irlanda per poi arrivare alla Spagna e all'Italia, vale a dire al cuore dell'unione monetaria, causando quindi la rottura del processo di integrazione europea e dell'euro. Credo che questo effetto domino sia stato interrotto e speriamo in maniera definitiva.
C'è ancora molto da fare. Bisogna aumentare le risorse nell'ambito del Meccanismo europeo di stabilità (ESM), e a tal proposito è stato raggiunto un accordo a livello di Ecofin per rivedere nel mese di marzo l'adeguatezza delle risorse ad esso destinate. Sarà questa la priorità delle prossime settimane. Credo che una decisione dovrebbe essere presa dal Consiglio Ecofin informale e dall'Eurogruppo a fine mese.
Abbiamo fatto anche notevoli progressi dal punto di vista della ricapitalizzazione delle banche. L'esercizio dell'Autorità bancaria europea (EBA), che aveva sollevato parecchie preoccupazioni, sta andando meglio del previsto non solo in Europa in generale, ma anche in Italia. La patrimonializzazione delle banche, l'accesso alla liquidità e al rifinanziamento sono importanti. Il rifinanziamento a lungo termine deciso dalla Banca centrale europea a dicembre dell'anno scorso e a febbraio di quest'anno, con un'iniezione di liquidità di un trilione di euro, ha alleviato parecchio le preoccupazioni dei mercati.
Abbiamo riformato in maniera fondamentale il quadro della governance economica con le misure che troverete illustrate nel mio intervento al Senato di stamani. Ciò che rimane adesso da fare è forse la cosa più difficile, cioè le riforme per sostenere la crescita economica. Credo, come dicevo, che abbiamo la possibilità di dare una svolta fondamentale.
Per quanto riguarda l'Italia, il Governo sta dando prova di grande determinazione nell'affrontare le sfide del risanamento fiscale e della crescita. Notevoli progressi sono stati fatti. È stato compiuto uno sforzo di risanamento fiscale molto impegnativo a partire dal maggio 2010, che era assolutamente necessario. L'obiettivo a medio termine per l'Italia, che è anche una richiesta e un vincolo contenuto nel nuovo fiscal compact, è il raggiungimento di un equilibrio di bilancio strutturale nel 2013. È un punto che ho sottolineato stamani al Senato e credo sia importante ribadire il messaggio perché la stampa non sembra averlo ben recepito.
Se l'Italia riuscirà a raggiungere il pareggio di bilancio nel 2013, la richiesta di rientro del debito pubblico di un ventesimo della distanza che separa il 120 per cento del debito italiano dal parametro del 60 per cento sarà automaticamente soddisfatta. La percezione che, a causa della nuova regola sul debito, occorreranno manovre aggiuntive per un ulteriore aumento delle entrate fiscali o una riduzione della spesa in condizioni normali è infondata. La regola sul pareggio di bilancio, infatti, in condizioni normali domina quella per la riduzione del debito. È un punto importante da sottolineare perché non credo che il messaggio sia passato in maniera chiara all'opinione pubblica.
Si sono viste ricostruzioni di fantasia nell'ordine di ulteriori 40 miliardi, ma in realtà non è così.

GIORGIO LA MALFA. Ci può spiegare l'algebra?

MARCO BUTI, Direttore generale affari economici e finanziari della Commissione europea. L'algebra è questa. Dati il debito pubblico italiano al 120 per cento e il vincolo di Maastricht del 60 per cento, il 5 per cento di riduzione della distanza corrisponde per l'Italia a un rientro di tre punti in media all'anno, dal 120 al 117 per cento e così via. Mantenendo un pareggio strutturale di bilancio, una crescita nominale, comprendente sia l'inflazione sia la crescita reale, intorno al 2,5 per cento - si tratta di condizioni di crociera perché non è una crescita particolarmente elevata - permetterà, moltiplicata per 1,2, cioè per il rapporto debito-PIL, di ottenere i tre punti richiesti.
È chiaro che in situazioni come quella attuale, in cui per l'Italia nel 2012 abbiamo


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previsto una crescita negativa dell'1,3 per cento, non è possibile rispettare il vincolo di tre punti di riduzione. Ma la regola del debito si applica non in maniera cieca e aritmetica, bensì considerando alcuni fattori rilevanti, uno dei quali è l'impatto del ciclo economico. In una situazione con crescita più bassa o crescita addirittura negativa non si richiede una riduzione di tre punti come in condizioni normali. L'insieme delle regole è costruito in modo sufficientemente intelligente e flessibile per permettere di tener conto dei fattori rilevanti. Questa è l'algebra della regola del debito.
Nel risanamento, quindi, la qualità è importante quanto e forse più della quantità. L'Italia deve condurre la spending review di cui si sta discutendo e farla bene, applicandola non solo al livello centrale, ma anche agli altri livelli di governo.
Per quanto riguarda le entrate fiscali, credo che occorra essere realistici: non c'è spazio in questa fase per ridurre l'elevata pressione fiscale. Finché non sarà raggiunto l'obiettivo di medio termine, non ci sono possibilità. Certo, si può fare molto per razionalizzare il sistema fiscale e ridurre gli effetti distorsivi, limitando e razionalizzando le agevolazioni fiscali e spostando il peso della fiscalità dai fattori produttivi ai fattori improduttivi e al patrimonio, come già si è cominciato a fare. È importante l'introduzione nella Costituzione del principio del pareggio di bilancio. Se ne sta discutendo e ci sono controversie al riguardo. Sarà importante che nella legge attuativa si declinino i principi generali in maniera coerente.
Per quanto riguarda la crescita, le debolezze strutturali dell'economia italiana sono note. Non c'è nulla da inventare. Il decreto-legge di gennaio sulle liberalizzazioni, che è ancora in discussione in Parlamento, è un progresso importante. Rimane spazio per aprire ulteriormente alla concorrenza alcuni segmenti di mercato, quali la distribuzione dei carburanti e le farmacie. Le misure introdotte al Senato vanno nella giusta direzione, mentre in altri campi ci sono state titubanze. Credo che si possa fare di più, ma senz'altro è importante procedere molto rapidamente all'approvazione di questo provvedimento.
L'argomento caldo in questi giorni è la riforma del mercato del lavoro. È assolutamente essenziale e ci aspettiamo una riforma organica e ambiziosa. Mi fermo qui. Riprenderemo alcuni temi successivamente, se vorrete.

PRESIDENTE. Ringrazio il dottor Buti per il suo intervento.
Do ora la parola al dottor Padoan.

PIER CARLO PADOAN, Vice Segretario generale e Capo economista dell'OCSE. Grazie, signor presidente, per questa opportunità. Vi annuncio che la mia presentazione sarà ancora più noiosa di quanto vi potevate aspettare, perché dovrò ripetere molte delle cose che ha già detto Marco Buti. Mi concentrerò soprattutto sull'Italia.
Le considerazioni che farò sono basate sui vari documenti che l'OCSE produce in materia di sorveglianza strutturale e macroeconomica dei vari Paesi. In particolare, mi riferisco alla pubblicazione Going for Growth, che è stata presentata qualche settimana fa e in cui, per tutti i Paesi dell'area OCSE e altri, si indicano quelle che secondo l'OCSE sono le priorità di riforma e i provvedimenti adottati dai Paesi in quei settori. Stiamo, peraltro, lavorando alla costruzione del rapporto specifico per Paese, che è più ampio della pubblicazione che citavo prima, ma che sarà pronto non prima della fine di quest'anno o all'inizio del successivo.
Prima di entrare nel merito delle questioni che mi sono state sottoposte tramite le domande che ho ricevuto, vorrei ribadire un principio che può sembrare banale, ma che trovo essenziale. Marco Buti alludeva al fatto che, soprattutto in periodi di crisi difficili come quelli che stiamo vivendo sia noi sia altri Paesi, in cui lo spazio macroeconomico è ridotto al minimo e in alcuni casi è del tutto scomparso - mi riferisco allo spazio di politica fiscale e allo spazio di politica monetaria -, le riforme strutturali assumono ancor più


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rilevanza perché possono produrre effetti positivi sulla crescita e devono essere soprattutto concepite come dei «pacchetti».
Il risultato netto dei pacchetti di misure strutturali è maggiore della somma delle singole componenti, perché ci sono effetti virtuosi che a volte non sono percepiti, ma che noi riscontriamo con la nostra osservazione ex post dei processi di riforma in molti Paesi. È, quindi, estremamente importante seguire una strategia unitaria. Questa strategia si accompagna in molti casi alla strategia di risanamento finanziario, di cui è l'altro elemento. Forse non si riflette abbastanza sul fatto che, se osserviamo quanto hanno fatto i Paesi dopo la crisi, ci rendiamo conto che gli sforzi di riforma in molti Paesi dell'area dell'euro, ma non solo, sono fortemente accelerati. C'è una risposta di politica economica, pur in un contesto macroeconomico estremamente difficile, che fa ben sperare, anche perché normalmente ci si aspetta che i risultati delle riforme strutturali necessitino di qualche tempo per manifestarsi.
Detto questo, vorrei brevemente toccare cinque punti, scegliendo tra quelli che mi sono stati sottoposti e restando a vostra disposizione per completare la discussione. Il primo è l'aggiustamento del bilancio. Al riguardo Marco Buti ha già detto molto; io vorrei sottolineare la questione della sua composizione. L'esperienza osservata in molti Paesi ci dice che sarebbe preferibile effettuare un aggiustamento di bilancio dal lato della riduzione delle spese piuttosto che dal lato dell'aumento delle entrate. A volte questo non è consentito o non è un'opzione possibile perché l'urgenza dell'aggiustamento, così da dare un segnale positivo ai mercati come è stato nel caso dell'Italia e di altri Paesi, non permette di procedere a un taglio delle spese con l'estensione che sarebbe desiderabile.
Detto questo, mi associo all'idea che è indispensabile, come sta avvenendo, attuare rapidamente una spending review che abbia come prospettiva il medio termine e che si ponga non solo il problema di ridurre la spesa in aggregato, ma ancor di più il problema di migliorare la qualità della spesa nelle voci anche da voi ricordate, cioè istruzione e spesa sanitaria. L'evidenza OCSE ci dice che una riforma delle componenti pubbliche dei grandi servizi può avere benefici molto significativi in termini di aumento del PIL oppure di riduzione della spesa a parità di prestazioni. Questo naturalmente richiede tempo e richiede uno sforzo che va proseguito con costanza.
Dal lato dell'imposizione, è ben noto che a parità di pressione fiscale la composizione della tassazione può avere effetti molto diversi sulla crescita. Da questo punto di vista le misure adottate dal Governo, che vanno verso un aumento della pressione relativa sui consumi e sulla proprietà immobiliare e verso un alleggerimento delle imposte sul lavoro e altre attività, seguono i principi che in altri Paesi abbiamo osservato essere quelli più fruttuosi in termini di crescita.
Naturalmente lo sforzo per la lotta all'evasione fiscale rimane fondamentale. È uno sforzo di lunga lena, anche se le misure già introdotte ben promettono. Sono misure relativamente semplici, ma estremamente efficaci. Anche questa mia affermazione si basa sull'esperienza di altri Paesi. È chiaro che nel lungo termine è indispensabile che la lotta all'evasione non sia contraddetta dall'utilizzo di condoni fiscali. Questo darebbe il segnale esattamente opposto e non aiuterebbe a mutare l'atteggiamento dei contribuenti.
Le riforme nel mercato dei prodotti - anche questo è un tema già toccato - vanno valutate nel loro insieme. Abbiamo provato, attraverso alcuni esercizi applicati ai Paesi dell'area dell'euro, a capire quali sarebbero i benefici in termini di PIL se questi Paesi adottassero pacchetti di riforma favorevoli alla concorrenza e alla liberalizzazione. I risultati sono piuttosto incoraggianti. Variano ovviamente da Paese a Paese, ma in media ci si può attendere un aumento di dieci punti di PIL su un periodo di dieci anni, che non sono poca cosa.
Ribadisco nuovamente il principio in base al quale i benefici in termini di aumento del PIL sono complessivamente


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maggiori della somma delle componenti dei pacchetti di riforma. Questo significa non solo e non tanto che bisogna allungare la lista delle riforme, ma soprattutto che, quando si disegnano riforme specifiche, non ci si deve chiedere quale sarebbe l'impatto immediato su un particolare settore, bensì quali sarebbero gli impatti derivati sulla concorrenza in altri settori, così da creare una massa critica di spinte competitive, che la nostra esperienza ci dice favoriscono la crescita e l'innovazione.
L'innovazione è un altro punto su cui vorrei soffermarmi, ma desidero aggiungere una considerazione sul punto precedente. Sottolineo quanto diceva Marco Buti a proposito della complementarietà tra le riforme a livello nazionale e quelle a livello europeo. Nel caso specifico, il completamento del mercato interno, in particolare per quanto riguarda i servizi, a nostro avviso sarebbe di estrema importanza perché aumenterebbe ancor più quell'effetto di massa critica di cui parlavo. Se simultaneamente ci fossero le riforme suggerite a livello nazionale e una forte spinta riformatrice a livello europeo, per esempio, nei servizi, i vantaggi sarebbero ancora maggiori.
Osservo a margine che queste riforme sono indispensabili per i Paesi che hanno problemi di crescita, ma sarebbero estremamente benefiche anche per altri Paesi, che apparentemente hanno meno problemi. Mi riferisco in particolare al caso della Germania. Qualche settimana fa l'OCSE ha presentato il rapporto sulla Germania, in cui si nota che, accanto alla grande forza del settore manifatturiero del Paese, per converso il settore dei servizi rimane fortemente protetto e frena l'investimento. In Germania si potrebbe avere più investimento e più crescita, il che tra l'altro implicherebbe il riequilibrio dei conti di parte corrente all'interno dell'area dell'euro, il cui disequilibrio viene giustamente ritenuto un fattore di freno allo sviluppo.
Per quanto riguarda l'innovazione, sarebbe molto utile uno sforzo a livello europeo per adottare misure che da tempo si attendono, come per esempio il brevetto europeo. A livello italiano, come è noto, l'attività di innovazione è frenata da vari fattori, non ultima la scarsa dimensione delle imprese. A nostro giudizio, sarebbe opportuno considerare un riordino delle misure di agevolazione fiscale alle attività di innovazione. Potrebbe essere presa in considerazione l'idea di applicare l'esenzione fiscale non tanto agli investimenti in ricerca e sviluppo quanto all'investimento in capitale umano orientato a ricerca e sviluppo, il che favorirebbe sia l'occupazione sia l'innovazione delle imprese più piccole.
In tema di mercato del lavoro, condivido l'opinione diffusa che si tratti di una riforma cruciale che deve considerare i grandi principi: la graduale eliminazione del precariato, la facilitazione all'accesso dei giovani, la semplificazione della contrattualistica, la riforma degli ammortizzatori sociali.
Infine, sottolineo il ruolo della pubblica amministrazione e la lotta alla corruzione. Tra le cause che, a nostro avviso, spiegano la bassa crescita strutturale dell'economia italiana ci sono certamente impedimenti strutturali e scarsa concorrenza in molti settori, ma intervengono anche elementi affini. L'elevata corruzione è un freno alla crescita e questo si basa su un'evidenza amplissima in molti Paesi. Un altro fattore estremamente importante nel caso dell'Italia è l'elevato costo della giustizia amministrativa. Di nuovo in base all'evidenza di cui si dispone, l'adeguata soluzione di questo problema potrebbe rappresentare un vantaggio competitivo estremamente importante e permanente.
Ho concluso.

PRESIDENTE. Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

ROLANDO NANNICINI. Ringrazio i nostri ospiti. La vostra è un'analisi Paese per Paese, ma io vi chiedo quale contrazione o miglioramento della spesa pubblica, in miliardi di euro, determini il risanamento nei Paesi dell'area dell'euro.


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La Germania e la Francia devono portare il debito al 60 per cento rispetto al PIL. La Spagna ha un deficit più alto e un debito più basso. Il mercato unico europeo è sì caratterizzato da inefficienze, ma questi miliardi sono sulla pelle dell'economia reale.
La nostra politica deve ridare energia all'economia produttiva e ai servizi riducendo alcuni sprechi e alcuni elementi di spesa «cattiva» dello Stato. Le vostre analisi, però, non sono mai aggregate a livello di Europa. Si dice che manca l'Europa, ma anche le vostre relazioni distinguono Paese per Paese per dimostrare che uno è fermo e l'altro si muove. Il tema, invece, è europeo. Con una contrazione del nostro mercato, la Germania venderà meno e noi avremo meno.
Al di là di alcune riflessioni su concorrenza, libertà, mercato, farmacisti e tassisti, che citate anche voi, non vedo l'attenzione dovuta a quella politica keynesiana che è stato il perno fondamentale dello sviluppo dello stato sociale europeo e occidentale. Oltre a risanare, occorrono anche proposte più nette e più precise non su tassisti e farmacisti, ma su alcune politiche industriali e sulla presenza dell'Europa nel mondo e nella globalizzazione.

MASSIMO VANNUCCI. Ringrazio il dottor Padoan e il dottor Buti. Il dottor Buti ha insistito sul tema della patrimonializzazione delle banche. Noi abbiamo audito, nell'ambito di questa indagine conoscitiva sulla crescita, l'Associazione bancaria italiana (ABI) e il Direttore generale dell'Associazione europea delle banche cooperative, Hervé Guider. Io mi auguro che anche questo tema trovi spazio nella risoluzione del relatore, onorevole La Malfa.
Lei ha fatto riferimento a questa necessità in maniera del tutto acritica, mentre noi sappiamo che è in corso un confronto molto fermo e che esistono serie preoccupazioni su come l'Europa ha declinato l'Accordo di Basilea 3 attraverso l'Autorità bancaria europea (EBA) - io vorrei approfondire i poteri reali di questa autorità -, gli stress test eccetera. L'Europa è andata oltre. Gli Stati Uniti d'America hanno già dichiarato che applicheranno Basilea 3 solo a sette grandi banche e che non pensano minimamente di estenderla a tutto il settore. L'Europa, invece, si sta muovendo in maniera diversa.
Siccome il dottor Buti è Direttore generale degli affari economici e finanziari, io credo che il tema debba essere approfondito. Questi meccanismi di patrimonializzazione tout court mi sembrano molto pericolosi, soprattutto per il sistema italiano. Bisognerebbe tenere conto, ad esempio, di un parametro quale l'utilizzo della raccolta delle banche a favore della crescita e della piccola e media impresa. Se la media europea di utilizzo della raccolta è del 40 per cento e in Italia, invece, questa media è del 70 per cento, credo che questo dovrebbe incidere sui livelli di patrimonializzazione.
C'è una originalità italiana, ma non solo italiana. Guider diceva che le piccole banche sono diverse dalle altre. Le banche non fanno tutte lo stesso mestiere o non lo fanno tutte nello stesso modo, come ben sappiamo. Noi siamo, quindi, molto preoccupati da questo aspetto, che lei invece cita con insistenza, e crediamo che occorrerebbe approfondire.
Vorrei inoltre una risposta a un altro paradosso. La crisi, come sappiamo, in Europa è arrivata per contagio. Dapprima la crisi ha colpito il settore bancario e poi si è trasferita ai debiti sovrani, ed è cominciata negli Stati Uniti d'America. Gli Stati Uniti d'America all'inizio della crisi avevano un rapporto debito-PIL pari a circa il 50-60 per cento e un alto indebitamento o basso risparmio delle famiglie. Oggi hanno un alto debito pubblico, con un rapporto vicino al 100 per cento, e lo stesso problema legato alle famiglie.
L'Europa e l'Italia in particolare avevano un forte debito pubblico in generale, ma anche un forte risparmio delle famiglie. Dopo la crisi, l'Italia rimane con un livello debito-PIL ancora alto e con un risparmio delle famiglie che ha tenuto, mentre la situazione degli Stati Uniti è in teoria più grave perché il debito pubblico


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è più alto di prima e la situazione patrimoniale delle famiglie è sostanzialmente invariata. Tuttavia, negli Stati Uniti c'è maggiore liquidità e ci sono immissioni di liquidità nel mercato.
Questo viene attentamente osservato? Ci dobbiamo aspettare una seconda bolla e un secondo contagio? E, rispetto a quel che fanno gli altri, l'iniziativa dell'Europa così rigorosa è adeguata o no?

AMEDEO CICCANTI. Sulla casella di posta elettronica dei deputati stanno arrivando alcune e-mail dal cosiddetto popolo della rete contro il fiscal compact. La tesi è che si sta ponendo fine alla politica keynesiana che ha fatto le fortune sia dell'Europa sia del nostro Paese, e che le politiche di bilancio vanno a detrimento della crescita. Salterebbe il modello europeo di economia sociale di mercato.
Io sono convinto che le politiche di bilancio debbano creare degli attivi necessari per la crescita e quindi innestare un sistema virtuoso, che nel medio termine migliori i fattori produttivi totali rispetto a quelli attuali. Io sono convinto di questa strada, ma lei, che ha una visione sui Paesi dell'area dell'euro più approfondita, ritiene che questa preoccupazione del «popolo della rete» sia fondata?
O stiamo sbagliando noi, che vediamo in modo tecnocratico tutta la vicenda?

RENATO CAMBURSANO. Ringrazio i due relatori. La mia domanda credo che riguardi entrambi. È stato detto che avviare vere liberalizzazioni nel nostro Paese porterebbe a una crescita del PIL nel medio periodo o, meglio ancora, nel lungo periodo. Lei, dottor Padoan, parla addirittura di dieci punti percentuali di PIL in più in dieci anni, il che sarebbe davvero un grande risultato.
Stamani, il presidente della Santander Consumer Bank, Ettore Gotti Tedeschi, ci ha detto, però, che probabilmente è sbagliato il tempo, perché le liberalizzazioni attuate in un momento in cui non c'è crescita si possono leggere in un solo modo, cioè come uguale o maggiore disoccupazione. Non so se sia così automatico, ma chiaramente si è trattato di una forzatura per farci arrivare il messaggio. Chi parla ha presentato una proposta di legge di riforma del mercato del lavoro piuttosto forte, ma le organizzazioni del mondo del lavoro e delle imprese sostengono la tesi, di nuovo, che non sia il momento per tale riforma perché non c'è crescita e quindi si avrebbe soltanto maggiore disoccupazione. Come coniugare le due cose?
La seconda domanda riguarda invece le maggiori entrate. Il dottor Marco Buti nella sua relazione ha detto che sul versante delle entrate dobbiamo essere realistici: non c'è spazio per ridurre l'elevata pressione fiscale. È un annuncio che chiaramente non fa piacere a nessuno, tanto meno ai lavoratori dipendenti e alle buone imprese, che - ahimè - sono anche le uniche che pagano e si accollano l'onere della pressione fiscale.
Lei sostiene che neppure utilizzando i proventi della lotta all'evasione fiscale si potrà ridurre la pressione del fisco, ma in compenso parla di spostamento del carico fiscale dal lavoro e dal capitale verso i consumi e la proprietà immobiliare. Un passo in questa direzione è stato fatto con il decreto-legge «salva Italia». Io ho votato a favore, ma - ahimè - quel decreto sta anche riducendo pesantemente i consumi a causa della maggiore pressione fiscale su questi e dell'introduzione generalizzata dell'IMU, i cui effetti si toccheranno fra due o tre mesi al massimo.
Rivolgo questa domanda a entrambi gli auditi. Non sarebbe stato meglio prevedere, come indicato anche da autorevoli operatori economici, talora chiamati a intervenire con una mano sul cuore e l'altra al portafoglio, un'imposta straordinaria patrimoniale?

LINO DUILIO. Vorrei esordire con una premessa assolutamente cordiale e chiedo scusa se la esprimerò con un sostantivo che invece potrebbe sembrare eccessivamente critico.
Permettetemi di dire che ho l'impressione che ci stiamo muovendo in un quadro, anche teorico, di grande, per non dire


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assoluto, conformismo nel prospettare soluzioni per uscire da questa situazione. Oramai il «ritornello» che stiamo cantando da tempo è quello di una razionalizzazione dell'esistente e delle spese. Bisogna ricorrere alla spending review, ma, come sappiamo bene, è uno strumento che per essere efficace richiede tempo e sul cui risultato definitivo, cioè il reperimento di risorse di entità tale da poterle utilizzare con efficacia sul versante degli investimenti produttivi, dobbiamo mettere comunque un punto interrogativo, quantomeno nel breve termine. Sul versante fiscale, come è stato detto anche qui, si propongono alcune soluzioni, l'ultima delle quali è trasferire il carico fiscale sui consumi, passando dalla tassazione diretta alla tassazione indiretta, e così via.
Se è una mia impressione, mi piacerebbe essere smentito, ma io sono molto dubbioso sul fatto che, procedendo in questo modo, si possa ottenere risultati di stimolo per il nostro sistema economico tali da permetterci di uscire da quella condizione un po' rachitica in cui da troppi anni il nostro Paese si trova sul versante della produttività, della crescita e così via. Sono persuaso che forse siamo orfani di una teoria. Dopo tanti anni in cui siamo andati avanti, bene o male, con ricette keynesiane o neokeynesiane, adesso ci sentiamo dire che non si può più per tante ragioni che non è il caso qui di indagare. Non c'è, però, qualcosa di sostitutivo che, sia a livello teorico che pratico, sia altrettanto efficace.
Vengo allora alle mie domande. Siamo andati avanti per molti anni con svalutazioni competitive, in modo tale - lo dico rozzamente - da scaricare sugli altri Paesi i nostri problemi. Come mai adesso, dovendo procedere a livello aggregato come Unione europea, si continua a non sentire alcun riferimento serio a possibili risorse da utilizzare a livello di bilancio europeo? A Bruxelles più volte abbiamo cercato di toccare il tasto dell'incremento delle risorse proprie del bilancio europeo, perché non si può andare a nozze con i fichi secchi, ma questo argomento, anche a livello di pura discussione pubblica o di proposte provocatorie, mi pare che non venga recepito più di tanto, probabilmente perché non condiviso o non giusto. Mi piacerebbe sapere come la pensate voi.
Alcuni hanno sostenuto in passato che un euro speso a livello comunitario avrebbe una maggiore efficacia di un euro speso a livello nazionale, evocando quindi l'esigenza di procedere con decisioni che siano finanziate a carico del bilancio comunitario, bilancio che però ha una consistenza risibile e che bisognerebbe pensare di incrementare. Noi, come ripeto, continuiamo a ragionare in termini di singolo Paese sulla razionalizzazione dell'esistente, ma della possibilità di attingere risorse a livello comunitario non si parla. Questa è una prima domanda.
Più in generale vorrei sapere se, a vostro avviso, questa mancanza di riferimento sovranazionale, sempre che la si condivida, si debba spiegare solo basandosi sulla situazione esistente ovvero se a regime l'Unione europea continuerà a reclamare, richiedere o invocare i singoli Paesi perché facciano una cosa piuttosto che l'altra, dato che il bilancio comunitario non potrà fare nulla poiché risorse non ce ne sono.
La seconda domanda riguarda ciò che ha già detto il collega Vannucci. Vorrei solo ricordare che la Commissione finanze della Camera ha approvato una risoluzione con la quale ha chiesto di valutare se sia possibile differire l'applicazione delle raccomandazioni dell'EBA, in relazione a una serie di preoccupazioni. Al di là del fatto che probabilmente questa richiesta è velleitaria, anche alla luce dell'altra audizione che veniva richiamata, la Commissione finanze sta chiedendo, secondo me giustamente, che quelle raccomandazioni si applichino tenendo conto della situazione delle banche prese una per una. Una cosa, infatti, sono le grandi banche e una cosa, come si diceva in quella sede, sono le piccole e medie banche che operano sul territorio. In ogni caso sarebbe bene evitare di arrivare alla conseguenza disastrosa di porre a carico


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di questo sistema creditizio oneri di ricapitalizzazione tali per cui ci troveremmo a praticare politiche autolesionistiche.
La terza questione riguarda lo spostamento del carico fiscale dalla tassazione diretta alla tassazione indiretta. Nel nostro Paese, come voi bene sapete, abbiamo già proceduto ad aumentare l'IVA dal 20 al 21 per cento ed è già stabilito che dovremo arrivare al 23 per cento tra pochi mesi; si tratta già di tre punti percentuali di carico fiscale spostati sul versante della tassazione indiretta.
Personalmente io credo che questo avrà effetti regressivi, quindi non particolarmente brillanti, ma al di là di questa mia opinione vorrei capire meglio che cosa significhi spostare ulteriormente sulla tassazione indiretta il carico fiscale, tenuto conto di quanto già è previsto e tenuto conto che la pressione fiscale relativa alla tassazione diretta non è bassa. Quali conseguenze, secondo voi, questo potrà produrre sul reddito disponibile e sulla domanda dei cittadini, che a sua volta può determinare effetti particolarmente preoccupanti sul fronte dell'equilibrio economico più complessivo?
Circa l'imposta sulle transazioni finanziarie, ormai decisa a livello comunitario, abbiamo posto la stessa domanda anche in sede europea e in quella occasione ci è stata data una risposta, seppure non particolarmente approfondita, secondo me, rassicurante. Voi non avete il timore che questa imposta, anche solo per gli effetti che accompagnano il suo annuncio e non tanto forse per la sua consistenza, rischi di determinare al di fuori dell'Europa tutta una serie di conseguenze e di ordini a favore di aziende extraeuropee?
Da ultimo, in un articolo del Corriere della Sera che commentava la situazione degli Stati Uniti d'America si diceva che, al di là di altre considerazioni, la situazione più positiva che lì si registra deriverebbe dal fatto che hanno rovesciato l'approccio: prima di pensare a mettere a posto i conti per perseguire l'obiettivo della crescita, hanno pensato all'obiettivo della crescita per poi mettere a posto i conti. È quasi uno slogan, ma secondo me qualche riflessione su questo nostro approccio europeo, che rischia di essere autolesionistico, forse bisognerebbe farla. Io non sono così convinto, e oramai lo dicono anche molti autorevoli commentatori, che a furia di procedere con questo rigore conseguiremo l'obiettivo della crescita così tanto evocata.
Il nostro pregevole relatore di recente ha scritto una lettera aperta al Presidente Monti, chiedendo che, nel caso in cui si aggiustino le condizioni strutturali dell'equilibrio di bilancio, si dia la possibilità, almeno una tantum, di fare investimenti che stimolino la crescita. Che sia questa o altra soluzione, con un pareggio di bilancio che ci obbligherà ad alcune decisioni e produrrà alcune conseguenze, con un bilancio comunitario inattingibile, con un versante della spesa in cui, per quanto si proceda con la spending review, come ho detto, se anche si otterranno risultati non saranno immediati, con lo spostamento verso la tassazione indiretta e una domanda connessa al reddito disponibile che sarà quello che sarà, non pensate che bisognerà fare qualcosa che esca da questo conformismo rigorista, di cui forse potremmo pentirci?

SIMONETTA RUBINATO. Ringrazio i nostri ospiti e mi collego all'intervento precedente.
La domanda che mi pongo è quale crescita stiamo perseguendo. Continuando nell'introduzione che ha già fatto il collega Duilio, temo che la crescita sia stata sostenuta, a volte in eccesso, anche dalla spesa pubblica e sia stata sostenuta anche dalla crescita del debito privato. Mi riferisco, per esempio, a quanto successo oltreoceano, dove si è sostenuta la crescita mettendo maggiore liquidità a disposizione delle famiglie. Da noi si è forse ricorso più alla spesa pubblica, da qualche altra parte più al debito privato, ma questo ha alimentato la possibilità di una domanda di consumo e di investimenti, che ha alimentato a sua volta la crescita.
Nell'attuale situazione bisogna ed è giusto mettere a posto i conti e risanare, il che però significa adottare una politica


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fiscale, come l'avete descritta anche voi, estremamente severa più ancora che austera, politica che in questo momento, per esempio nel caso dell'Italia, come si vede a livello di vita quotidiana nei territori, crea per le famiglie la difficoltà di sostenere i consumi anche più elementari. È vero che la composizione della manovra ha cercato di spostare il carico fiscale sul patrimonio immobiliare, piuttosto che sul lavoro e sui redditi di impresa, ma è vero anche che l'imposta patrimoniale che abbiamo costruito in Italia è un po' sui generis.
Innanzitutto, per quanto riguarda l'imposta sulla prima casa, essa deprimerà ulteriormente la possibilità di consumo delle famiglie. Io sono tra coloro che ritengono che un'imposta sulla prima casa sia tecnicamente corretta e che sia stato un errore, a suo tempo, abolirla, ma in questo momento di forte recessione, è un'ulteriore limitazione alla spesa per consumi delle famiglie. La prima casa non dà reddito e non è consentito dedurre da questa imposta gli oneri necessari per rendere una casa abitabile. Inoltre, si colpisce il patrimonio produttivo e anche da questo punto di vista si crea una distorsione. Come ha spiegato il Presidente Monti, in questo momento probabilmente non è possibile in Italia applicare un'imposta patrimoniale sul modello francese perché «avremmo abbaiato ma non morso». Rimane il fatto che la ricomposizione, secondo me, non è priva di distorsioni.
Allo stesso modo, è vero che la pubblica amministrazione italiana deve ridurre la spesa, ma, come ha detto anche il dottor Padoan, probabilmente in molti casi si tratta di una riqualificazione della spesa, al netto degli sprechi, più che di una vera e propria riduzione. Ancora non abbiamo elementi perché la spending review non è operativa. Non abbiamo misurazione di indicatori di performance rispetto alle varie pubbliche amministrazioni e amministrazioni territoriali. Ci ritroviamo, quindi, con amministrazioni che, sotto la scure dei tagli lineari del Patto di stabilità, non possono neppure pensare al benché minimo investimento in direzione della modernizzazione dell'apparato amministrativo.
Come ci ha detto ieri la Corte dei conti, siamo un Paese in cui le imprese, che più di tutti dovrebbero sostenere la crescita, subiscono un'imposizione fiscale, tenuto conto della ricomposizione dell'ultima manovra, fortemente più elevata della media dell'Europa a diciassette e in cui il sistema produttivo deve farsi carico di un peso enorme, quello dei mancati pagamenti da parte della pubblica amministrazione che rappresentano una sorta di ulteriore prestito forzoso temporaneo, e deve farsi carico dei ritardi nelle compensazioni fiscali. Chi deve fare la corsa è messo in una situazione veramente molto difficile, come se un campione di nuoto fosse costretto a tuffarsi in piscina con una palla al piede.
La mia domanda è come se ne esce. La Corte dei conti ieri ha detto che l'unica speranza, oltre a ridurre gli sprechi, è la lotta alla corruzione, citata anche dal dottor Padoan, all'elusione e all'evasione fiscale, i cui risultati però non sono immediatamente iscrivibili a bilancio. Come si esce da questo circolo vizioso, se nemmeno a livello europeo c'è una forte spinta alla crescita attraverso il finanziamento di investimenti finalizzati alla competitività dell'Europa e dei singoli Paesi?
Vorrei sapere inoltre se fosse possibile avere qualche elemento in più sulla lotta alla corruzione e sul costo della giustizia amministrativa, che mi sembrano temi molto rilevanti sui quali il Parlamento italiano ha ancora molto da fare. Ritengo che le regole non possano bastare senza una riconquistata etica pubblica da parte di chi opera nell'apparato pubblico e dei cittadini europei.
Quali sono gli strumenti che, secondo voi tecnici, dovremmo mettere in campo per dare una mano in questa direzione?

PAOLA DE MICHELI. Il dibattito sulle politiche di rigore, come avete potuto vedere, è particolarmente acceso.
Non voglio entrare nel merito della questione se il rigore serva o meno alla crescita, al netto del fatto che, come


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sempre, su questo tema c'è qualche opinione abbastanza approfondita. Io penso che le politiche di rigore siano assolutamente necessarie, ma il problema in Italia si sta ponendo, a volte in termini drammatici, perché la qualità delle politiche che ci possono portare al pareggio di bilancio non è una variabile indipendente.
Non entro nella polemica sulle occasioni perse in passato per avviare politiche di risanamento, politiche che, anche in termini di consenso, forse si sarebbero potute affrontare all'inizio della crisi. Mi soffermo solo sugli effetti, che oggi scontiamo e che in parte sono stati sottolineati anche da alcuni colleghi, dei tagli lineari. Di fatto questi hanno generato, sul fronte della spesa corrente, una compressione della spesa «buona», quella che serve per l'erogazione di servizi alla persona, e, con il combinato disposto del Patto di stabilità, spesso anche della spesa efficiente. Con il rigurgito della crisi della scorsa estate, abbiamo potuto constatare gli effetti negativi complessivamente sul dato finale della spesa corrente, che di fatto non si è ridotta rispetto agli obiettivi prefissati.
L'effetto peggiore, però, è la riduzione della spesa per investimenti, che è spesa «buona» e necessaria, in particolar modo in Italia e nel suo Mezzogiorno, per farci superare il gap infrastrutturale ancora molto evidente in alcune zone del Paese e per rilanciare la filiera portante del nostro Paese, collegata direttamente alla crescita.
All'interno di un meccanismo di rigore di bilancio, quali politiche sarebbero possibili per invertire questo trend, con la consapevolezza che gli enti locali in Italia erano responsabili di più del 50 per cento della spesa per investimenti e che oggi non sarebbe possibile immaginare una ripartenza degli enti locali in questa direzione con le stesse dimensioni e la stessa capacità di farsi volano dell'economia?
Bisogna anche tenere conto del fatto che il decreto-legge sulle liberalizzazioni non è solo questo. Più della metà delle misure da esso recate, infatti, riguarda interventi sulle questioni legate al settore delle infrastrutture, dai project bond alla revisione della procedura del project financing. C'è anche attenzione agli strumenti di attrazione delle risorse private, visto che di risorse pubbliche probabilmente non ne avremo molte da spendere nei prossimi anni. Si prevede, inoltre, l'ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse destinate alle aree sottoutilizzate e l'ottimizzazione del rapporto con l'Europa. Tutto questo, però, ha tempi lunghi rispetto alle esigenze di crescita di questo Paese. Quali politiche, anche choc, si potrebbero attuare per far muovere l'impresa italiana?
Infine, visto che è stato introdotto l'argomento del credito, vorrei la vostra opinione sulla proposta di inserire nell'accordo di Basilea 3 il cosiddetto PMI supporting factor, proposta che le associazioni di categoria italiane hanno presentato all'Unione europea e che una parte del Parlamento ha chiesto al Governo e alle istituzioni europee di sostenere presso il Comitato di Basilea.

GIORGIO LA MALFA. Io ho una sola domanda. Ne sono state poste talmente tante che i nostri cortesi interlocutori avranno di che rispondere sia sulle questioni di principio sia sulle questioni di fatto.
Il Governo italiano prevede, e così anche la Commissione europea, quest'anno una caduta del reddito dell'1,3 o 1,4 per cento - qualcuno dice 1,5 - in termini reali e una crescita trascurabile l'anno prossimo. Supponendo che loro fossero stati chiamati, come è successo a loro eminenti colleghi, a guidare questo Paese o ad assumersi la responsabilità del Ministero dell'economia e delle finanze, cosa che poteva ben avvenire date le loro qualità, che cosa si riproporrebbero di fare o di consigliare al Governo, di fronte a un andamento così grave e drammatico dell'economia italiana? Nulla, cioè attendere che passi la bufera? Sperare che le liberalizzazioni possano avere un effetto immediato?
Ha ragione il dottor Padoan quando dice dieci punti di PIL in dieci anni, ma bisogna sapere se si comincia all'indomani del decreto-legge che dispone le liberalizzazioni


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o qualche tempo dopo, quando vengono adottate le norme attuative o si provvede alle ammissioni di notai nelle professioni e così via. C'è qualche problema di questo genere non piccolissimo.
Al posto del Presidente Monti, i nostri due interlocutori, parlando dall'alta cattedra delle loro istituzioni, farebbero nulla, riterrebbero che nulla possa essere fatto per far riprendere fiato all'economia italiana, chiederebbero all'Unione europea, visto che il bilancio è strutturalmente in pareggio nel 2013, qualche una tantum a sostegno degli investimenti nella ricerca scientifica o farebbero qualche cosa? E se sì che cosa?
Sarebbe un consiglio utile.

PRESIDENTE. Vorrei porre una domanda anch'io. Vorrei conoscere le ragioni per la quali la Polonia, che non è nella zona euro, va così bene e sapere se possiamo trarne qualche insegnamento.
Do ora la parola ai nostri ospiti per la replica.

PIER CARLO PADOAN, Vice Segretario generale e Capo economista dell'OCSE. Vi ringrazio per le domande, a cui non prometto di rispondere in modo esaustivo e completo. Cercherò, anzi, di raggruppare molti dei punti, anche perché mi sembra che negli interventi degli onorevoli deputati intervenuti ci siano temi comuni e diffusi. Permettetemi di indossare per un attimo - senza arroganza - il mio cappello di docente universitario e di discutere con voi sul tema oggetto di esame da parte di questa Commissione.
Da dove viene la crescita? Molti onorevoli hanno evocato il fatto che con la perdita delle politiche keynesiane la crescita non c'è più. Non so se ho capito bene, ma se questo vuol dire che la crescita, negli anni in cui, per esempio, l'Italia cresceva a tassi molto più alti di adesso, era il risultato di politiche fiscali espansive, direi che non sono d'accordo. Direi che la fonte di crescita della maggior parte dei Paesi del sistema globale e oggi anche dei Paesi emergenti ha molto poco a che fare con una sostenuta azione di espansione fiscale, e sottolineo il termine sostenuta.
Questo implicherebbe un permanente deficit del bilancio pubblico a sostegno della crescita, ma non è così. Non mi risulta che la crescita elevata dei Paesi ad alta crescita dipenda da quello, e, anche se fosse, sarebbe una ricetta che finirebbe rapidamente per autodistruggersi. Non dimentichiamoci che il ragionamento che stiamo facendo assieme per l'Italia e in generale per l'Europa avviene in un contesto globale molto diverso da quello, per esempio, di dieci anni fa. È un contesto che si può descrivere in molti modi, ma io sottolineerei un aspetto, quello del debito.
Dopo la crisi, il debito pubblico dell'area OCSE, per una serie di ragioni e non ultima la recessione medesima, ha superato mediamente il 100 per cento. Questo è importante perché l'analisi economica non tanto delle istituzioni internazionali, che potrebbero essere biased in senso più rigorista o più conservatore, quanto di autorevoli economisti indipendenti sta cominciando a fornire evidenza crescente del fatto che, al di là di una soglia critica del debito, che per i Paesi avanzati si colloca fra l'85 e il 90 per cento, la crescita diminuisce radicalmente, fino a fermarsi in alcuni casi.
Poiché l'oggetto dell'indagine conoscitiva di questa Commissione è la crescita, io invito la Commissione a chiedersi se politiche che aumentano il debito siano favorevoli alla crescita stessa. Nelle condizioni attuali la mia risposta è sicuramente no. Non si vuole abbattere il debito pubblico per qualche forma di ossessione rigorista, ma proprio per avere più crescita. Vi chiedo scusa se il tono può sembrare cattedratico, ma volevo semplicemente discutere assieme a voi questo tema fondamentale, per il quale sfortunatamente, è un mio limite, io non conosco scorciatoie.
Io non credo esistano scorciatoie sufficientemente grandi per tutti i Paesi europei e per l'Europa nel suo complesso tali per cui esisterebbero misure di politica economica alternative che non si vogliono prendere per ossessione ideologica. Disperatamente


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tutti i giorni, visto che la crescita è il tema principe dell'analisi dell'OCSE, io cerco di sapere se ci sono ricette utili, ma sistematicamente trovo un elenco, a volte anche lungo, di singole misure che da sole non risolvono il problema, ma che insieme e con pazienza possono portare più crescita.
Vorrei aggiungere un'osservazione sulla questione dello spazio macroeconomico. La crisi ha prodotto tanti risultati. Uno di questi è che lo spazio macroeconomico fiscale e monetario è molto più ridotto di prima. Questo vuol dire che i margini entro i quali un'azione macroeconomica è efficace sono ristretti. Non sto dicendo che, se un Governo vuole spendere, non lo può fare: sto dicendo che un Governo può spendere, ma non otterrà quello che vuole o forse otterrà il risultato contrario sia a livello fiscale sia a livello monetario, ivi compresa la politica monetaria dell'area euro.
Abbiamo osservato che la BCE ha adottato misure straordinarie di iniezione di liquidità, misure che sono benvenute, ma c'è la consapevolezza in Europa e altrove che queste misure di aumento della liquidità abbiano rendimenti fortemente decrescenti. Prima o poi smetteranno di avere impatti positivi e cominceranno a vedersi quelli negativi. Non dobbiamo, quindi, dimenticare che a livello macroeconomico gli spazi sono molto ridotti.
Da questo punto di vista, consentitemi una risposta a chi ha sollevato il caso americano versus quello europeo. Innanzitutto, allo stato attuale, la dinamica del debito pubblico americano è insostenibile. Lo ha confermato Timothy Geithner al G20. Negli Stati Uniti non esiste una politica di sostenibilità fiscale credibile. Vero è che i mercati finanziari sono disposti, a parità di condizioni macroeconomiche, a finanziare il debito pubblico americano con molta più generosità di quanto non avvenga per quasi tutti i Paesi europei. Questo è un limite oggettivo. È un limite entro il quale è indispensabile collocare i ragionamenti sulla politica di crescita.
Detto questo, io sono assolutamente sensibile a tutte le osservazioni che sono state fatte in questo senso. Ogni aggiustamento fiscale taglia la domanda, il reddito disponibile e in qualche modo taglia anche la crescita. È sicuramente vero e mi guarderei bene dal negare questa evidenza. È però vero con intensità diverse, in diverse condizioni, per diversi Paesi. Il cosiddetto moltiplicatore fiscale non è uguale per tutti, ma certamente esiste. Poiché non vi sono scorciatoie, il problema è capire quale sia la possibile ricetta. Come ho detto all'inizio, la ricetta è un pacchetto di misure che darà i suoi frutti in misura crescente nel tempo.
Sono molto favorevole a chi sottolinea che bisognerebbe trovare risorse per attenuare, se non altro, l'impatto delle misure nel breve termine. Aggiungo una raccomandazione che l'OCSE generalmente rivolge a tutti i Paesi con i quali ha rapporti: bisognerebbe farlo in modo selettivo, perché non tutte le componenti della popolazione hanno le stesse possibilità di sopravvivere alle politiche di rigore. Nei pacchetti di aggiustamento questa componente distributiva dovrebbe essere estremamente importante. Ciò vale per i Paesi in grandissima difficoltà, come la Grecia, e vale per i Paesi che hanno maggiore spazio fiscale, come la Germania, anche se con intensità diversa.
Per tornare al quesito che ponevo prima, la crescita - ormai su questo c'è accordo - viene dall'aumento della produttività, e così sarà nel futuro. Negli Stati Uniti la ripresa sta derivando sempre meno dal contributo dell'occupazione e sempre più dal contributo della produttività e dell'innovazione e in particolare degli investimenti in «conoscenza», i cosiddetti intangible asset, quegli elementi di capitale intangibile in cui condensiamo la conoscenza. Ci sono stime assolutamente sorprendenti sull'aumento di produttività che si ottiene da una strategia di questo genere. Non ve le ho citate, ma sicuramente sarebbero superiori ai numeri che ho suggerito essere i possibili risultati in Europa, e che vedo con piacere avete registrato.


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Ovviamente non è qualcosa di immediato e non si tratta semplicemente di investire in un laboratorio. Occorre ridisegnare l'organizzazione produttiva, il che significa riaggiustare il mercato del lavoro, ridefinire i criteri di allocazione delle risorse finanziarie e ridefinire la qualità della spesa. Il trade off è tra ridurre la spesa a parità di qualità oppure aumentare la qualità a parità di spesa. È una scelta che il Governo ha a disposizione e, come ripeto, in molti Paesi c'è evidenza del fatto che funzioni.
Per non rubare ulteriore tempo a Marco Buti, aggiungerò solo due considerazioni. L'onorevole Rubinato ha parlato del costo della giustizia amministrativa. Attualmente all'OCSE abbiamo attivato una ricerca per tentare di misurarlo con esattezza. In questi casi ci scontriamo con un problema oggettivo, e cioè che per fare una ricerca istituzionalmente valida serve una valutazione di tutti i Paesi e non tutti i Paesi, purtroppo, possono fornire alle istituzioni internazionali l'informazione necessaria.
Detto questo, noi proseguiremo perché riteniamo che le cifre che troveremo saranno significative. Come dicevo prima, si potrebbe realizzare un aumento di competitività permanente e significativo. Per fare un solo esempio, il costo dei mutui richiesto dal sistema bancario di un Paese versus un altro, a parità di condizioni finanziarie, è influenzato dai costi di recupero dei debiti non più esigibili, cioè dal costo della gestione dei fallimenti. Questo può essere nell'ordine di cento punti base, che non è poco per un finanziamento.
La seconda considerazione riguarda la dimensione europea della crescita. Sono molto d'accordo con tutti gli onorevoli che hanno sollevato questo problema. Anche in questo caso, permettetemi di dire che c'è bisogno di un pacchetto di misure. Tale pacchetto passa in modo molto significativo per il mercato interno, passa eventualmente - non so se Marco Buti sia d'accordo - per l'introduzione di strumenti finanziari per la crescita di lungo termine e per il finanziamento delle infrastrutture - una forma di eurobond - e passa, forse, per un utilizzo più efficiente, a parità di risorse, dei fondi comunitari. Se crediamo che le fonti della crescita siano quelle che ho suggerito, allora dovrebbe esserci coerenza nell'allocazione delle risorse europee.
Vi ringrazio per l'attenzione.

MARCO BUTI, Direttore generale affari economici e finanziari della Commissione europea. Il dibattito è molto ricco e le domande sono molto pertinenti. Io ho annotato otto punti: interpretazione della crisi; Europa versus Stati Uniti; disciplina fiscale, crescita, e modello sociale europeo; tempistica delle riforme; impiego delle risorse comunitarie; giustizia civile e corruzione; banche; politiche per uscire dalla crisi.
Sul primo punto, sono totalmente d'accordo con Pier Carlo Padoan. Questa non è una crisi keynesiana. È una crisi che deriva da uno squilibrio del sistema bancario e finanziario e dal sovraindebitamento sia delle famiglie, delle imprese e delle banche sia del settore pubblico. È necessario effettuare un deleveraging, cioè una riduzione dell'indebitamento, e questo inevitabilmente costa. Non si ritorna su un sentiero di crescita stabile e duratura aumentando l'indebitamento. Bisogna passare da questo sentiero così stretto. Di scorciatoie e soluzioni miracolose non ce ne sono.
Il secondo punto è collegato a questo. È vero che negli Stati Uniti prima si è cercato di stabilizzare l'economia e successivamente si guarderà al risanamento fiscale. Gli Stati Uniti, però, sono seduti su una bomba fiscale molto più preoccupante di quella dell'Europa sia in termini di debito esplicito, che è più alto rispetto alla media comunitaria e si aggira intorno al 100 per cento del PIL, sia in termini di debito implicito nel loro sistema pensionistico e sanitario. È vero che nel brevissimo termine l'Europa corre maggiori rischi degli Stati Uniti, ma nel medio termine - e non si tratta di un periodo indefinito - gli Stati Uniti rischiano molto più dell'Europa. Nell'ambito della discussione al G20 questo è riconosciuto, come


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diceva Pier Carlo Padoan, anche da Timothy Geithner e dalle autorità americane.
Per quanto riguarda il punto concernente la disciplina fiscale, la crescita e il modello sociale europeo, il riferimento è standard. In Europa il modello nordico-scandinavo è quello che riesce a coniugare disciplina fiscale e giustizia sociale. I paesi nordici sono i sostenitori più accaniti del Patto di stabilità e crescita e della disciplina fiscale. Il fiscal compact non annulla la possibilità di attuare una politica keynesiana di reazione al ciclo. È il contrario, perché si recupera in condizioni normali un margine di manovra di cui si potrà disporre nei periodi negativi.
In Europa si è manifestato un keynesianismo miope o strabico. Di fatto si aumenta la spesa nei periodi favorevoli perché si trovano «tesoretti» dal lato delle entrate che permettono di mantenere il bilancio più o meno sotto controllo. Nei periodi difficili, però, non si ha la possibilità di utilizzare in maniera attiva o far intervenire gli stabilizzatori automatici perché si è perso il margine di manovra. Il fiscal compact - la mia è una affermazione forte e un po' d'effetto - è un modo per recuperare una gestione moderatamente keynesiana del bilancio pubblico.
Passando al quarto punto, non esiste mai un momento buono per le riforme. Nei periodi di crisi si sottolineano i rischi legati agli effetti negativi e nei periodi positivi ci si dimentica delle priorità. Io credo che questo sia il momento di spingere e continuare con determinazione con le riforme. Questa è già una prima risposta alla domanda cosa fare nel prossimo futuro.
Il bilancio comunitario appare a qualcuno asfittico e ingestibile. È in corso la negoziazione sulle nuove prospettive finanziarie per il periodo 2014-2020 e io mi aspetto che l'Italia dia un contributo positivo sulla struttura e sulla dimensione del bilancio. Per il momento, l'Italia ha tenuto una posizione ambigua e si è allineata sulle posizioni dei Paesi che vogliono ridurre il bilancio comunitario, anziché aumentarlo e ristrutturarlo in maniera fondamentale.
Le risorse ci sono. Ci sono risorse nell'ambito dei fondi strutturali che non riusciamo a spendere. Una delle prime misure del Ministro Barca è stato presentare un piano di azione sulla coesione che riprogramma buona parte delle risorse comunitarie destinate al Sud, orientandole soprattutto verso i settori del futuro, verso gli investimenti e le spese produttive. Credo che si debba proseguire in questa direzione. Le risorse ci sono e vanno utilizzate al meglio.
Giustizia civile e corruzione sono temi fondamentali. Stando alle statistiche relative alla lunghezza dei processi, In Italia la durata totale delle varie fasi dei processi civili è di 630 giorni, la più alta in Europa. La fase processuale, che è di 450 giorni, è in assoluto la più lunga d'Europa. Riformare la giustizia civile e amministrativa è assolutamente necessario, anche per attrarre investimenti esteri in Italia. Per la corruzione il messaggio è lo stesso.
Vorrei segnalarvi alcuni dati contenuti in Doing business, il rapporto annuale della Banca mondiale. Su 183 Paesi appartenenti al mondo industrializzato, al Terzo mondo e al Quarto mondo, l'Italia è al 77o posto per l'inizio di un'attività; all'84o posto per la registrazione di una proprietà; al 134o posto per il pagamento delle imposte; al 158o posto per l'applicazione dei contratti. Questi sono i dati. Si possono anche «fare le pulci» a questa analisi della Banca mondiale, ma il margine di miglioramento è enorme e va rapidamente colmato.
Per quanto riguarda le banche, la proposta specifica a cui si è fatto riferimento è in fase di valutazione da parte della Commissione europea, del Commissario Barnier e dei suoi servizi. La traduzione a livello comunitario dei principi di Basilea 3 nella quarta direttiva sui requisiti patrimoniali (CRD 4) porta a concludere che l'interpretazione seguita dalla Commissione non penalizzi il credito alle piccole e medie imprese. In ogni caso l'articolo 485 della proposta di regolamento contiene


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una clausola di revisione che permette di cambiare le regole nel caso in cui questo si avveri. La Commissione sta, quindi, valutando la proposta e nelle prossime settimane presenterà le proprie conclusioni. A questo stadio, non posso fornirvi ulteriori dettagli.
Più in generale, tuttavia, il sistema bancario italiano ha attraversato due fasi durante la crisi. Nella prima fase le banche italiane hanno resistito meglio di quelle di altri Paesi. Il professor Tremonti, in maniera un po' provocatoria, diceva a quel tempo che le banche italiane hanno meglio resistito perché i banchieri non parlano l'inglese e quindi non si erano avventurati sui prodotti tossici della prima generazione, quali i subprime e così via. Nella seconda fase le banche italiane sono state penalizzate perché sono emersi dubbi sulla solvibilità del sistema Paese. Il fatto che nei loro portafogli ci fossero titoli pubblici sovrani italiani in particolare, ma anche di altri Paesi, ha attirato l'attenzione dei mercati.
Per risolvere i problemi delle banche italiane è assolutamente necessario proseguire con il risanamento fiscale e annullare i dubbi del mercato sulla solvibilità del Paese, favorendo la riduzione degli spread e così via. L'interazione fra la disciplina di bilancio e la solidità del sistema bancario italiano in questa fase è assolutamente diretta.
Le critiche, che io personalmente ritengo piuttosto sconsiderate, rivolte all'EBA prima del Natale scorso a proposito delle proposte di capitalizzazione delle banche, con attacchi virulenti, tra l'altro, a un nostro connazionale, il dottor Enria, capo egregio ed eroico dell'Autorità bancaria europea, alla prova dei fatti si sono rivelate abbastanza inconsistenti. Nell'ambito della ricapitalizzazione delle banche europee, il bisogno di capitalizzazione delle banche italiane era poco più di 15 miliardi di euro. Dopo che Unicredit, superate le titubanze, ha ricapitalizzato per circa 7,5 miliardi di euro, il bisogno di finanziamento si è già dimezzato.
In realtà, in questa fase di recupero di fiducia dei mercati finanziari e più in generale del sistema Paese, le banche hanno dimostrato di riuscire a «ricapitalizzarsi» in maniera più efficace di quanto si ritenesse. In ogni caso, i mercati vedono le cose in modo molto chiaro: o il sistema bancario è considerato sufficientemente capitalizzato da ridurre i rischi oppure le banche sono penalizzate. Questo è chiaro nella valutazione dei mercati, tanto più che il buffer del 9 per cento stabilito dall'Autorità bancaria europea non è permanente, ma temporaneo e serve a far fronte alla pressione dei mercati in questo momento.
Credo che, in base a quello che ho detto, la risposta alla domanda che cosa fare per uscire dalla crisi sia automatica. In primo luogo, secondo me è concettualmente scorretto, economicamente sbagliato e politicamente rischioso distinguere fra il breve e il medio-lungo termine. Alla luce dell'interpretazione della crisi che davo precedentemente, le cose da fare nel breve termine e nel medio termine devono essere fatte tutte insieme. C'è la necessità di proseguire nell'implementazione dei cosiddetti decreti «salva Italia» e «cresci Italia» e speriamo che le liberalizzazioni vadano avanti in maniera convincente e ancora più accelerata. La crisi di fiducia deve essere superata anche per far ripartire i consumi.
Per quanto riguarda l'aggiustamento del bilancio, è già stato detto molto dal lato delle spese. Dal lato delle entrate, l'Italia ha 3,5 punti di carico fiscale in più della media della zona euro. È inevitabile, dato il debito pubblico così elevato. Tuttavia, l'Italia ha una tassazione sul lavoro e sul capitale molto più elevata rispetto alla media dell'area dell'euro e ha un carico fiscale sui consumi molto più basso. Bisogna ricomporre il carico fiscale, spostandolo dai fattori produttivi - capitale e lavoro - ai consumi e alla proprietà. È vero che nel breve termine questo ha un effetto restrittivo sulla domanda, ma occorre scegliere tra due priorità: produttività e competitività, da un lato, impatto sui consumi nel breve termine, dall'altro.


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Io credo che sia prioritario spostare la fiscalità per aumentare la produttività e la competitività.
Dei fondi strutturali ho già parlato. Per quanto riguarda i project bond, credo che siano una delle prospettive importanti. Il Consiglio e il Parlamento europeo ne stanno discutendo. Si prevedono 230 milioni di euro come fase pilota per un anno o due, utilizzando le poche risorse che esistono a livello comunitario e aprendo la strada, dopo il 2014, a un incremento significativo delle risorse da destinarvi. I progetti pilota saranno sette o forse otto.
La discussione in Parlamento e in Consiglio è difficile perché alcuni Paesi stanno aggiungendo una serie di clausole di salvaguardia, di elementi di rigidità e di vincoli all'utilizzazione di queste risorse. Se non si cambierà rotta, è probabile che la proposta iniziale della Commissione venga completamente stravolta e che i project bond esistano sono nominalmente, ma non sia possibile metterli in campo.
L'appello al Governo e al Parlamento è a negoziare una regolamentazione dei project bond che permetta di applicarli in modo effettivo.

PRESIDENTE. Ringrazio tutti gli intervenuti e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,50.

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