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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione V
2.
Mercoledì 22 febbraio 2012
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'INDIVIDUAZIONE DI INDICATORI DI MISURAZIONE DEL BENESSERE ULTERIORI RISPETTO AL PIL

Seguito dell'audizione del Presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3 9 14
Baretta Pier Paolo (PD) ... 5
Ciccanti Amedeo (UdCpTP) ... 8
Duilio Lino (PD) ... 3 9
Giovannini Enrico, Presidente dell'ISTAT ... 9
Marchi Maino (PD) ... 4
Nannicini Rolando (PD) ... 9
Polledri Massimo (LNP) ... 7
Vannucci Massimo (PD) ... 7
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro per il Terzo Polo: UdCpTP; Futuro e Libertà per il Terzo Polo: FLpTP; Popolo e Territorio (Noi Sud-Libertà ed Autonomia, Popolari d'Italia Domani-PID, Movimento di Responsabilità Nazionale-MRN, Azione Popolare, Alleanza di Centro-AdC, La Discussione): PT; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling; Misto-Repubblicani-Azionisti: Misto-R-A; Misto-Noi per il Partito del Sud Lega Sud Ausonia: Misto-NPSud; Misto-Fareitalia per la Costituente Popolare: Misto-FCP; Misto-Liberali per l'Italia-PLI: Misto-LI-PLI; Misto-Grande Sud-PPA: Misto-G.Sud-PPA.

COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta pomeridiana di mercoledì 22 febbraio 2012


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

La seduta comincia alle 14,10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Seguito dell'audizione del Presidente dell'ISTAT, Enrico Giovannini.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'individuazione di indicatori di misurazione del benessere ulteriori rispetto al PIL, il seguito dell'audizione del Presidente dell'ISTAT, professor Enrico Giovannini.
Ricordo che il professor Giovannini ha svolto questa mattina la sua relazione.
Do ora la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

LINO DUILIO. Ringrazio il presidente, che ci sta offrendo sempre occasioni molto interessanti di confronto. Peraltro, questo è un tema molto intrigante, che collocherei a metà tra la riflessione intellettuale e quella politica e istituzionale. Tuttavia, tale tema ci porta anche su un terreno un po' sdrucciolevole. E se questo aspetto, da una parte, aumenta l'intrinseca dimensione di fascino della questione, dall'altra, ne accresce la complessità, in modo da non farmi intravedere a breve la soluzione.
Credo che esista un problema teorico, prima che pratico, dentro il sistema economico e dentro il discorso della politica economica e così via. Ricordo che quando studiavamo economia all'università ci si spiegava che la pretesa dell'economia era quella di incorporare nei prezzi alcune questioni, ad esempio le diseconomie esterne. Ci si spiegava, banalizzando, che se uno è costretto ad andare in lavanderia per lavare la camicia, questo dipende dal fatto che i tubi di scappamento inquinano l'aria e questo inquinamento determina il fatto che la camicia viene sporcata. In sintesi, quindi, la soluzione è quella di incorporare nel prezzo della benzina il costo della lavanderia. E potrei continuare con semplificazioni che lei conosce benissimo.
Tuttavia, questa ambizione dell'economia e del sistema economico a incorporare, come in un sistema a matrice perfetta, i costi che si determinano per uno sviluppo che è di tipo quantitativo, ma che abbiamo scoperto progressivamente essere problematico - uso un eufemismo - sul piano qualitativo, mi pare che veda anche grandi economisti arrancare nel ridefinire il quadro teorico che aiuti poi i governanti, quindi anche la politica, a uscire da questa situazione.
Anch'io mi sono documentato, in questi anni, sugli sforzi compiuti per la realizzazione della cosiddetta «depilizzazione». A tale proposito, ricordo un bel libretto dal titolo DePILiamoci e ho messo da parte un'intervista di Amartya Sen, che a suo tempo parlava della sua esperienza nella Commissione presieduta da Stiglitz,


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dove era stato chiamato da Sarkozy. Nell'intervista rilasciata al Sole 24 Ore, Amartya Sen esprimeva grandi giudizi su Strauss Kahn che poi, ahimè, è finito come sappiamo. Anche i grandi economisti sbagliano.
Tornando al tema, le pongo la mia prima domanda. Lei condivide il fatto che ci sono nodi teorici prima che pratici nel sistema economico e, quindi, per quanto ci si possa affidare al «fai da te», sia pure a livello globale, di politici, economisti e così via, se non risolviamo i problemi teorici sarà difficile risolvere i problemi tecnici?
La seconda domanda, di ordine più pratico, fa seguito alla prima. Noi siamo dentro un paradosso che non capisco ancora come possiamo risolvere. Ad esempio, sappiamo che la riduzione dell'orario di lavoro riduce anche il PIL, ma migliora la qualità della vita dei cittadini; sappiamo, a proposito della preservazione del patrimonio naturale, che sfruttare il suddetto patrimonio produce reddito, ma nello stesso tempo danneggia l'ecosistema. Tuttavia, realisticamente sappiamo anche che, come mi ero annotato, se tutti i Paesi emettessero il quantitativo di CO2 che producono gli Stati Uniti occorrerebbero nove pianeti per ristabilire l'equilibrio. Su questo si misurano i rapporti di forza tra Paesi, per cui i Paesi ricchi chiedono ai Paesi poveri di fare alcune cose che loro hanno abbondantemente omesso di fare per arrivare al livello raggiunto di benessere, il che obiettivamente rende tutto un po' più complicato.
Professore, tenga presente che io sono weberiano, nel senso che credo che bisogna sempre tentare l'impossibile per realizzare il possibile. Tuttavia, un minimo di principio di realtà bisogna possederlo, altrimenti facciamo i sognatori. Studiamo, progrediamo, diciamo che, come nella teoria dello sviluppo economico peraltro si è già acquisito, dobbiamo sostituire gli indici. Lei ha citato Kuznets, io potrei citare Samuelson, che invece affermava che il PIL serve per misurare in termini comparativi la situazione dei diversi Paesi. Lo stesso Amartya Sen richiama l'acronimo inglese HDI, che fa riferimento all'indice di sviluppo umano, PIL, istruzione, salute, e così via. Tuttavia, pur apprezzando ed essendo molto intrigato da questa prospettiva, siccome dobbiamo calarla nella realtà politica, nella realtà degli Stati nazionali e così via, le chiedo - con una dose di realismo temperata, perché bisogna sempre puntare all'impossibile, come dicevo - se questo percorso degli organismi che affiancano la politica, che si sforzano di individuare indici, parametri e così via, a suo avviso prima o poi approderà a un nuovo equilibrio delle politiche che possa aiutare gli Stati a misurare in modo diverso il benessere, con riferimento a parametri differenti rispetto a quelli quantitativi oggi utilizzati.
Scusi la civetteria intellettuale, ma una volta mi dedicavo di più a queste cose e ricordo che avevo trovato da qualche parte il libretto aureo di Schumacher, Small is beautiful, che raccontava un aneddoto relativo alla nascita della cattedra di economia politica e raccontava che ad Harbour Park il rettore del college era ostile all'introduzione per la prima volta della cattedra di economia politica perché sosteneva che, alla fine, l'economia politica avrebbe imposto la sua razionalità, propria di una dimensione strumentale dell'agire per lo scopo, e, quindi, avrebbe annichilito anche la politica.
Anche lei si è diffuso in considerazioni che mi interessano molto, ma di carattere più etico-culturale, se così posso dire. Non pensa che bisognerebbe ritornare a questa dimensione? Diversamente, ragioniamo sugli effetti ma ignoriamo le cause, e questo rende le cose più complicate. Grazie.

MAINO MARCHI. Signor presidente, io credo che stiamo affrontando un tema fondamentale per il governo della complessità che deriva dalla globalizzazione, quindi non possiamo ridurre tutto a un unico indicatore come il PIL. A mio avviso è molto importante il lavoro che si sta facendo per cercare di arricchire gli indicatori di misurazione del benessere.


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Per quanto riguarda gli effetti, tra questo lavoro che si sta producendo e il governo dell'economia, mi pare che ci possa essere un livello in cui si può fare anche una sperimentazione - al limite anche locale, ma pur sempre guidata a livello nazionale - per arricchire di indicatori le informazioni che possono servire ai Governi e ai Parlamenti per assumere decisioni.
Cito un esempio: ho presentato, insieme ad altri deputati del gruppo del PD, una proposta di legge sulla contabilità ambientale. Il tema riguarda in particolare gli enti locali e le regioni, ma anche ovviamente il livello statale. Questo può essere uno strumento che arricchisce il bagaglio di informazioni, con modalità condivise, per le decisioni politiche che devono essere assunte.
Va detto che questo non stravolge gli indicatori fondamentali che abbiamo adesso per assumere le decisioni - l'indicatore fondamentale è il PIL - tuttavia può produrre un arricchimento, come ho detto, per questioni che riteniamo fondamentali, anche per lo stesso piano nazionale delle riforme, che ogni anno dobbiamo compilare e che accompagna, annualmente, la legge di stabilità.
Credo che la decisione, assunta a livello europeo, di portare avanti le politiche seguendo sia l'obiettivo della stabilità che quello della crescita, abbia bisogno di strumenti sempre più affinati e condivisi per capire il quadro concreto della situazione e debba avere degli indicatori di misurazione.
A mio avviso, questo è un campo che ci può permettere, anche come Parlamenti nazionali, di innovare e di fare delle sperimentazioni. Tuttavia, essendo noi all'interno dell'Unione europea, le politiche devono avere, nella dimensione europea, il punto di riferimento fondamentale. Ora, in che condizione siamo, a livello europeo, per poter superare l'attuale situazione in cui il dato fondamentale è quello del PIL? Peraltro, adesso lo è ancora di più, per certi versi, perché non c'è solo il deficit, ma anche il debito a condizionare e a determinare le politiche dei prossimi anni, e ancor più le decisioni assunte in questa fase.
In conclusione, in base al lavoro che è stato fatto, che previsione può farci rispetto alla possibilità concreta che si arrivi in tempi non infiniti a una condivisione di indicatori che poi determinino effetti concreti sulle politiche e sulle decisioni da assumere?
Credo che la scala ottimale sarebbe quella globale, però almeno la dimensione europea - anche per quello che lei ci ha detto dell'esperienza e del lavoro che si è fatto - sarebbe già importante per superare una logica basata sostanzialmente sul PIL come strumento per definire le previsioni e per misurare i risultati, arricchendolo con altri indicatori.
A suo parere, quali possono essere gli scenari a livello europeo, nei prossimi anni, per arrivare a cambiare la situazione attuale?

PIER PAOLO BARETTA. Questa mattina, introducendo i lavori, il presidente Giorgetti ha affermato che il modo migliore per cominciare la nostra indagine era ascoltare l'ISTAT e, in particolare, lei: effettivamente il presidente non ha fatto fatica, ma ha indovinato. Mi pare, infatti, che la sua relazione di questa mattina sia stata molto utile - e di questo la ringrazio - innanzitutto perché dimostra la maturità politica di questo dibattito, e non solo quella scientifica, cioè a livello degli esperti che stanno affrontando il tema, come lei ci ha raccontato. Come lei sa, qualche tempo fa, in audizione il professor Fitoussi ci aveva raccontato anche l'esperienza francese.
Vi è ancora la percezione diffusa che l'oggetto della nostra audizione sia una materia da accademici, una materia di «lusso», mentre il ragionamento che è stato fatto questa mattina conferma la tesi, che personalmente sostengo assieme ad altri, che ormai c'è la maturità politica per affrontare questo dibattito.
Vi è, in particolare, un elemento che a me pare cogente e sul quale la riflessione complessiva rischia di essere un po' arretrata:


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nell'arco di una generazione, è, sostanzialmente, cambiato tutto sia dal punto di vista demografico e ambientale, sia da quello della tecnologia applicata. Quando ho cominciato a lavorare, quarant'anni fa, la stragrande maggioranza degli italiani - per limitarci al nostro paese - cominciava a lavorare tra i quattordici e i diciotto anni; in altri termini, l'età media era di sei, otto, dieci anni inferiore a quella attuale; insomma, complessivamente è cambiata la struttura della società.
Uno dei grandi problemi che hanno le classi dirigenti è, ad esempio, la sostenibilità finanziaria e sociale dei sistemi di welfare. Non si capisce questo tema se lo si affronta con criteri solo tradizionali e se non si hanno indicatori adeguati, anche perché una riflessione come quella che stiamo facendo, come lei ha ricordato stamattina, ha conseguenze sulle scelte politiche. Penso, per citarne una, alle politiche fiscali: non c'è dubbio che, a seconda della lettura che si fa e degli indicatori che si possiedono, si orientano le scelte fiscali in una direzione o in un'altra, e non solo per governare la crisi, ma anche in una condizione normale.
La seconda ragione per la quale parlo di maturità politica è che finalmente si può sgombrare questa discussione da un equivoco ideologico: noi non stiamo parlando del Bhutan e della felicità, argomento interessante ma che, secondo me, non riguarda nemmeno gli Stati - infatti, non credo che la politica e lo Stato debbano garantire la felicità, ma questo è un altro discorso -; stiamo parlando del mercato, della scelta capitalistica, di come migliorarla, di come renderla più efficiente, più efficace, più giusta, più equa. Pertanto, sgombrare il dibattito da questo equivoco è indispensabile perché rende concreta e praticabile questa discussione.
Penso anche che, nell'affrontare questo tema, ci sia una conseguenza sulle relazioni. Lei ha fatto riferimento, a un certo punto, alla responsabilità sociale d'impresa come a un percorso affiancato e integrato. Personalmente aggiungo che credo che ci sia anche un esito forse più strutturale, ossia una dimensione complessiva di partecipazione e di democrazia economica, come esito anche di un sistema di relazioni economiche. Avere una struttura di indicatori che confermano andamenti sociali ed economici di un certo tipo può aiutare ad andare oltre l'antagonismo, purché tali indicatori siano strutturati in un sistema. Oggi siamo a metà del guado: c'è poco antagonismo, poca partecipazione, ma tanto conflitto, e la differenza è chiara.
Vorrei capire da lei, fatte queste premesse, come possiamo poi tradurre questi ragionamenti in una dimensione praticabile. In altre parole, come la politica, in particolare il Parlamento, e noi possiamo passare dalla fase di analisi scientifica di un tema affascinante a una proposta più operativa?
Il collega Marchi ricordava un progetto di legge. Nella riforma della legge di contabilità, quando parlammo della legge n. 196 del 2009, introducemmo due piccoli «sensori», che non so nemmeno quanto siamo riusciti a mettere in pratica: la contabilità di genere e la contabilità ambientale, dopo Kyoto. Sono due piccole cose, ma non marginali. Probabilmente, noi siamo in grado, a questo punto, di affiancare - uso questo termine per prudenza - alla normale attività della costruzione del bilancio alcuni elementi che potrebbero essere di straordinaria utilità.
Tenendo conto della situazione italiana ed europea, c'è una scala di priorità che lei può indicare? La scala di priorità è fondamentale, così evitiamo di perderci in tanti rivoli. Mi sembra che sarebbe anche utile - se il presidente è d'accordo - una collaborazione molto stretta, attraverso il percorso che lei ha annunciato, prevedendo ad esempio, un incontro a metà marzo. Potrebbe essere assolutamente utile e interessante per noi porci come osservatori laici delle vostre iniziative.
Insomma, cercherei di portare avanti qualche idea per introdurre elementi utili a compiere un piccolo passo in avanti nella condizione italiana. Considero questa fase politica utile per approfittare della


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situazione per un ragionamento un po' più organico, però abbiamo bisogno di individuare delle priorità.

MASSIMO VANNUCCI. Ringrazio il presidente Giovannini per averci offerto, all'avvio di questa indagine conoscitiva, un quadro d'insieme piuttosto ricco, con riferimenti internazionali e via dicendo. Anch'io, come l'onorevole Baretta e altri, sono interessato a uscire dall'accademia e arrivare alla pratica, e mi sembra che le sue conclusioni di questa mattina dessero già qualche indicazione in tal senso.
Lei dice che a breve le misure del benessere equo e sostenibile saranno a disposizione, quindi dobbiamo usarle. Ad esempio, le relazioni tecniche che noi riceviamo potrebbero essere integrate in tal senso; del resto, questo l'abbiamo sempre fatto, o meglio abbiamo sempre cercato di farlo. Ci siamo sempre chiesti, di fronte ad ogni manovra economica, quanti posti di lavoro creiamo, quanti danni collaterali causiamo, ma senza che tali interrogativi avessero un'organicità.
Mi sembra di capire, presidente, che il problema sia anche quello della velocità dei tempi necessari all'acquisizione di tali elementi. Il dato sul PIL si ottiene immediatamente, mentre gli altri dati sono più difficili da reperire. Credo che uno degli obiettivi della Commissione Stiglitz-Sen-Fitoussi sia la produzione di informazioni sociali e ambientali in tempo reale a sostegno del processo decisionale e informazioni più precise su distribuzioni e diseguaglianze.
Quello che dobbiamo fare, quindi, lo sappiamo. Ciò che manca è una fase iniziale di condivisione degli obiettivi. Lei, presidente, stamattina diceva che se gli indicatori fossero condivisi anche le azioni sarebbero più agevoli. Con il termine «condivisi» intendeva fare riferimento alle forze politiche, al Parlamento, e alle parti sociali?
Forse in Italia il CNEL è un organismo che potrebbe servire a questo scopo. In ogni caso, secondo me, questa azione ha diversi profili: uno su scala nazionale - ci si dota di strumenti per capire in che direzione debba muoversi il proprio Paese - e uno su scala più ampia, quella europea. Del resto, il mondo bisogna analizzarlo per aree: confrontare Cuba con la Svezia non è possibile; Cuba bisogna confrontarla con Haiti, mentre la Svezia è difficile confrontarla anche con l'Italia. Adesso per il lavoro in Italia si parla di modello danese, ma comprendiamo che anche culturalmente siamo diversi.
Comunque sia, vi è un profilo su scala globale, quindi è necessario un misuratore che sappia comparare Paesi, al di là della ricchezza, e serva ad esempio ad attrarre meglio investimenti o a mettere in chiaro che la competizione globale molto spesso avviene con grandi distorsioni. È certamente difficile competere con chi non rispetta l'ambiente e non rispetta i diritti. Tale misuratore deve essere adottato, in seno agli organismi internazionali, insieme a sistemi di penalizzazione o di premialità.
Forse un giorno dovremmo aspirare ad avere un indicatore che ponga certi Paesi nella black list, altri nella white list, e altri ancora in una lista di mezzo, e a prevedere che sulla base di tale collazione siano disposte specifiche sanzioni. È un'idea utopistica, ma credo che il mondo debba andare in questa direzione. Un mondo globale ha necessità di guide globali, ma per averle occorrono regole globali condivise.
Credo che l'Italia possa dare un contributo, come lei oggi ci ha dimostrato ampiamente. Lo strumento è utile di per sé su scala nazionale, è utile su scala europea e può avere grandi espansioni - mi ha fatto molto piacere sentire i riferimenti internazionali all'Australia e alla Nuova Zelanda - a livello globale. Così come c'è stata la dichiarazione del G20, tale strumento potrebbe essere adottato negli organismi internazionali, ad esempio dovrebbe avere un'attenzione particolare a livello di Nazioni Unite.
Credo che l'Italia debba fare la sua parte con riferimento a tutti e tre i livelli.

MASSIMO POLLEDRI. Anche io credo che sia un po' difficile giudicare l'anima e la felicità attraverso i numeri, però ci si


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può provare, soprattutto se si cerca di condividere qualche obiettivo. L'indice della ricchezza non è sufficiente - e lo abbiamo visto tutti - per dare un indicatore e soprattutto per mettere in piedi delle buone politiche.
Ci sono aree tematiche interessanti che possono orientare anche la politica. Mi viene in mente la psicologia comunitaria, che sostiene che la felicità viene realizzata da tre elementi: il piacere - e quindi anche la ricchezza -, la partecipazione e la condivisione di un'identità; in altri termini, se io tifo Cagliari e la mia comunità tifa Juventus - a parte il risultato delle partite - faccio fatica ad essere felice.
Con il taylorismo l'operaio non ha condivisione, poiché non sa cosa effettivamente succede nella fabbrica in cui lavora, mentre nel Medioevo lo scalpellino, che faceva un'opera molto più difficile e costruiva la cattedrale, era sicuramente più felice perché condivideva uno sforzo per poter arrivare a un risultato di costruzione collettiva.
Vedo in nuce alcuni di questi temi e mi sembra che società materialmente molto più povere delle nostre sono in realtà molto più felici, forse perché gli altri due indicatori, quelli ulteriori rispetto al piacere, sono molto più presenti.

AMEDEO CICCANTI. La ringrazio, presidente, per aver approfondito e organizzato temi che sarebbe stato difficile, per noi, mettere insieme in un disegno coerente.
Mi hanno colpito le conclusioni del suo intervento e in particolare l'interpretazione che ha dato di un fenomeno messo in luce dall'indagine condotta dall'ISTAT nel febbraio 2011 sul campione di 45.000 persone di età superiore a quattordici anni. Non entro nel merito dei parametri che lei ha utilizzato nella definizione del BES, e che condividiamo. Mi ha colpito - tra l'altro, lei registra una realtà, non la inventa - la conclusione che la salute si conferma come la dimensione in assoluto più importante. Me lo diceva anche mia nonna, gli italiani confermano il buonsenso delle generazioni precedenti.
Quando si arriva all'importanza dei temi della sostenibilità, la possibilità - e anche qui mia nonna insegna - di assicurare un futuro ai figli è la priorità degli italiani. In fondo alla graduatoria, compare la partecipazione alla vita politica e la sua interpretazione è che probabilmente questo riflette il clima di sfiducia dei cittadini piuttosto che un reale disinteresse per l'argomento. Lei prima fotografa una situazione, ma in questo caso propone una sua interpretazione: ne è convinto? Come si può essere preoccupati della possibilità di assicurare un futuro ai figli e poi indicare come ultima tra le proprie preoccupazioni la partecipazione alla vita politica? Qui si confondono gli strumenti con i fini: se il fine è assicurare un futuro ai figli, in termini generali di Benessere equo sostenibile - BES -, chi dovrebbe realizzare tutto questo? A mio avviso, non c'è sfiducia verso la politica, come afferma lei; c'è, invece, a mio avviso, la mancanza di coscienza del proprio ruolo di cittadino all'interno di una società, o meglio di un contesto sociale.
Se si trattasse di sfiducia verso questa politica, il cittadino dovrebbe avvertire maggiormente il bisogno di partecipazione, perché la partecipazione politica è uno dei parametri dell'indicatore del benessere equo sostenibile: un cittadino sta dentro la vicenda sociale e politica quanto più è alta la misurazione del benessere. È impensabile che ci sia una sorta di governante che procura il pane quotidiano a tutti e nessuno se lo guadagna. Ogni mattina recitiamo «dacci oggi il nostro pane quotidiano»; mia nonna mi diceva di riflettere su questo passaggio, il cui significato a molti sfugge, dal momento che lo si ripete meccanicamente. «Dacci oggi il nostro pane quotidiano» implica una responsabilità: è pensabile un benessere senza responsabilità? Questo è ciò che mi spaventa nelle conclusioni tratte in precedenza.
Quando nelle assemblee politiche, a causa del clima di antipolitica, siamo accusati di essere i responsabili di tutti i mali del mondo, io dico sempre che qualcuno ci ha pur scelti. Il cittadino dovrebbe


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riflettere, perché molte volte è lui il responsabile di tante situazioni. Non può chiedere, quindi, qualcosa senza la consapevolezza che egli stesso deve contribuire alla sua realizzazione.

ROLANDO NANNICINI. Presidente, questa mattina non ero presente, ma nell'intervallo ho letto le sue conclusioni, che mi stimolano a fare una differenziazione. Quando, in apertura della relazione, lei pone il tema del prodotto interno lordo, non lo abbandona, ossia lei pone che è pur sempre un dato in grado di quantizzare gli elementi dell'andamento della produzione di un Paese, della sua produzione dei servizi e delle sue condizioni di crescita o di decrescita.
Credo che gli indicatori debbano essere sottoposti all'attenzione delle politiche, ma dipende in che scala si mettono le politiche. Rispetto a una politica macroeconomica, è chiaro che il PIL non basta, perché rispetto ai tempi il PIL consuma energia, consuma risorse, quindi di fatto mi porterà a temi come la decrescita delle condizioni, perché non sempre le condizioni rimangono storicamente inalterate.
Sarebbe estremamente interessante avere dei dati per capire cosa vuol dire l'aumento vertiginoso del PIL di alcuni Paesi rispetto alle risorse disponibili nelle intere aree e nei rapporti tra le aree. È chiaro che una tale situazione determina tensione sui prezzi e alla lunga, al di là degli effetti immediati, tensione porta al venir meno più quelle risorse, a meno che non si abbia un cambiamento positivo nell'uso delle stesse. Occorrono parametri convincenti, come il consumo delle risorse che sono del mondo, non di una singola nazione. La sua relazione ci porta a prestare attenzione a questo dato che considero interessante.
Ritengo altresì interessanti le sue conclusioni. Ho letto il testo del decreto-legge in materia di concorrenza e competitività. Sono molto curioso - per uscire dal dibattito se il provvedimento sia giusto o sbagliato, se con lo stesso si difendano le lobby, eccetera - di vedere le conseguenze di quel pacchetto.
Vorrei tanto che ci fosse un articolo in cui finalmente, rispetto a questa e ad altre leggi, si istituisce un'autorità indipendente che ne valuti i risultati: insomma, se riesco a prendere prima un taxi, se pago meno, se ho una fruizione di servizi migliori, se il farmaco è distribuito in modo più coerente, se si abbassano i prezzi. Questo è il futuro di una società che vuol fare politica e stare nella modernità, perché non sempre il dibattito ideologico o punitivo porta alla soluzione del problema.
Sposo dunque le sue conclusioni e spero si riescano a presentare, non so se in questa o in altre occasioni, emendamenti che aggiungano l'articolo che ho detto. Se la legge è di 46 articoli si introduca un articolo 47, con cui si preveda che, in presenza dello sforzo di ISTAT, c'è da richiedere uno sforzo anche alla Banca d'Italia e all'accademia italiana che segue questi settori per capire se queste azioni sono da guelfi e ghibellini.
Presidente Giovannini, la ringrazio per le sue conclusioni e mi scuso se stamani non ero presente. Lei ha offerto uno spunto di lavoro interessante a noi che svolgiamo un lavoro parlamentare e talvolta ci sentiamo bendati. La ricerca dei dati è sempre più difficile anche in considerazione della complessità della situazione che stiamo vivendo.

LINO DUILIO. Mi viene in mente una chiosa telegrafica dopo l'intervento di Nannicini. Presidente, lei cosa pensa della decrescita prospettata da Latouche?

PRESIDENTE. Do la parola al presidente Giovannini per la replica.

ENRICO GIOVANNINI, Presidente dell'ISTAT. Intanto grazie di questo dibattito estremamente arricchente anche per uno che, ormai da dieci anni, è in mezzo ai dibattiti che su queste materie si svolgono in giro per il mondo. Soprattutto grazie perché una delle mie grandi frustrazioni personali è che tutto il processo che vi ho raccontato, nato nel 2004 quando organizzai a Palermo, su sollecitazione del presidente del General Accountability Office,


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il primo Forum mondiale su questi temi, non avesse interessato l'Italia. Mi fa molto piacere che, invece, con questo dibattito anche l'Italia partecipi a queste tematiche. Il mio cruccio era che, pur essendo partiti dall'Italia, il nostro Paese non era riuscito a inserirsi in questo dibattito.
Rispondo immediatamente alla penultima domanda, anche con riferimento alla questione della decrescita. L'articolo che manca è facile da scrivere: basta copiare, ad esempio, l'esperienza inglese che dice - forse ricorderete Paperino quando voleva lo 0,00001 per cento da Paperone - che quello «zero virgola» dei risparmi di spesa va a finanziare la statistica e la valutazione delle politiche.
Potrebbe tranquillamente essere un'aggiunta sistematica quella di prevedere che si finanzi - non dico l'Istat naturalmente - il sistema statistico nazionale e una valutazione ex post delle politiche. Parlo di un accantonamento sistematico di risorse per valutare le politiche se non ex ante - cosa che sarebbe comunque auspicabile e su cui tornerò a breve - almeno ex post.
Parto da qui perché un autorevole membro di questo Parlamento un giorno disse - non so se è vero - che ormai il 70 per cento della legislazione italiana è fatta in realtà a livello comunitario, il 20 per cento a livello regionale e il 10 per cento dal Parlamento. Ora, se il 70 per cento, o qualsiasi percentuale, della legislazione è prevista in regolamenti comunitari che entrano a far parte del nostro ordinamento senza una valutazione analoga a quella che voi fate per il 10 per cento, in realtà stiamo sistematicamente importando politiche senza capire fino in fondo quali ne sono gli effetti.
Questo tema della conoscenza per la politica è esattamente l'asticella di cui stiamo parlando, se si vuole fare o meno un salto. Per questo ho parlato di democrazia nella società dell'informazione. Come dico sempre, sarà un caso che la quota dei profitti è ai livelli massimi in tutto il mondo e le imprese investono così tanti soldi nell'informazione, mentre il pubblico taglia i fondi - non solo in Italia - per la statistica e la formazione? Non è che qualcuno ha capito come funziona la società dell'informazione, quindi investe ed estrae quello che Samuelson chiamerebbe la rendita del consumatore per i propri fini, e il pubblico è sistematicamente spiazzato? Questa è la domanda che in realtà ci stiamo ponendo oggi.
Tornando alla domanda dell'onorevole Duilio sugli indicatori, mi piace molto questa idea di scendere sul terreno concreto. Se ci fossimo messi d'accordo a livello internazionale e guardassimo, anziché al PIL medio, al reddito mediano, cioè quello che tiene conto anche della distribuzione, negli anni Novanta avremmo detto che gli Stati Uniti sono un pessimo Paese, perché il reddito mediano è diminuito. Quando l'OCSE, nel 2005, ha pubblicato il suo primo Going for Growth, cioè un'analisi comparativa delle politiche strutturali, solo prendendo il reddito mediano invece che il reddito medio, non avrebbe preso gli Stati Uniti come modello rispetto al quale si valutavano tutti i Paesi, ma forse avrebbe preso un altro Paese.
Questo intende Amartya Sen quando afferma che discutere di indicatori vuol dire, in realtà, discutere del Paese che vogliamo. Poiché la teoria economica neoclassica ci dice che la distribuzione del reddito è irrilevante per la crescita del reddito, mentre sappiamo che i neo-keynesiani dicevano una cosa diversa, se siamo di una scuola guardiamo al reddito medio, se siamo di un'altra scuola guardiamo al reddito mediano. Non possiamo sorprenderci se poi, improvvisamente, scoppia la bolla negli Stati Uniti, visto che il marketing ha fatto sì che la gente fosse indotta a consumare e a indebitarsi per raggiungere quel livello che la piramide di Maslow, un altro costrutto che ben descrive il marketing. Infatti, io cerco di salire continuamente dai bisogni necessari a quelli più elevati; peccato che, se il marketing mi sposta continuamente l'obiettivo, io resto sempre in basso e mi arrovello perché voglio un telefono, un telefono portatile, anzi l'ultimissimo modello di telefono perché ne ho bisogno, sento che questo è il mio bisogno.


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Sarebbe stato sufficiente cambiare il reddito medio con il reddito mediano e forse il mondo sarebbe cambiato. Di questo stiamo parlando. Al di là degli aspetti teorici - l'onorevole Duilio faceva riferimento ai prezzi - se qualcuno mi dice che l'andamento del prezzo della benzina o del petrolio in qualche modo rispecchia la scarsità relativa del bene petrolio rispetto agli altri credo vincerà il premio Nobel. La verità è che i prezzi, in condizione di concorrenza non perfetta, non indicano le scarsità relative, non indicano i trade off, non indicano altro che lo squilibrio tra domanda e offerta.
Noi contabili nazionali, noi statistici siamo riusciti a costruire una contabilità nazionale che è il più grande costrutto concettuale che è mai stato sviluppato al mondo nella misurazione ed è pieno di ipotesi che i giovani contabili nazionali non hanno mai studiato, mentre quelli più grandi lo sanno benissimo. Non è vero che il PIL è perfetto e le altre misure sono un po' deboli. Il PIL è pieno di imprecisioni, ma cerchiamo comunque di farne la misura più precisa. Tutta la nostra costruzione concettuale, non solo economica, è basata su ipotesi.
Il tema della sostenibilità e dei trade off che sono stati richiamati da alcuni unifica, secondo me, gran parte di questa discussione. Sono stato molto onorato di essere stato cooptato nel Club di Roma: forse qualcuno ricorda che quarant'anni fa il Club di Roma, iniziativa di Aurelio Peccei, pubblicò il volume I limiti della crescita. Inoltre, suggerirei a tutti di leggere il libro Prosperity without Growth, recentemente pubblicato anche in italiano, di Tim Jackson.
Queste valutazioni ci dicono che in realtà siamo ai limiti delle disponibilità di risorse. Gli economisti che hanno costruito per cent'anni le loro teorie, essendo all'interno della frontiera dell'efficienza, hanno potuto fare politiche che hanno portato fuori dalla povertà estrema miliardi di persone nella storia, ma tali politiche non funzionano più quando siamo ai limiti.
Vorrei ricordarvi che tra il 2007 e il 2011 abbiamo passato la crisi del cibo - i prezzi delle materie prime e degli alimentari erano esplosi - la crisi dell'energia, la crisi ambientale, la crisi finanziaria, la crisi economica e forse la crisi sociale. Insomma, le abbiamo viste tutte. Se oggi miracolosamente ricominciassimo a crescere al 3-4 per cento, i prezzi delle materie prime schizzerebbero verso l'alto e bloccherebbero questo processo.
Questo è il tema della compatibilità in cui ci troviamo. Il tema del trade off, allora, è chiaro. Quando è iniziata la recessione, un mio amico di Confindustria mi ha detto: «Adesso vediamo se la felicità aumenta?». È chiaro che la felicità non aumenta. Non aumenta perché, come diceva il presidente e come i classici economisti sapevano bene, anche se loro, nei loro modelli, non avevano il PIL, ma l'occupazione: il valore del lavoro va molto al di là del salario che uno riceve, come anche alcuni di voi hanno ricordato.
Vorrei prendere un minuto del vostro tempo per leggervi un passo: «La gente di questo Paese è stata erroneamente incoraggiata a credere che si potesse aumentare indefinitamente la produzione e che un mago avrebbe trovato un modo per trasformare la produzione in consumi e in profitti per i produttori. La felicità non viene unicamente dal possesso dei soldi, ma dal piacere che viene dal raggiungimento di uno scopo, dall'emozione che deriva dallo sforzo creativo. La gioia e la tensione morale non devono più essere dimenticate a favore di una folle ricerca di profitti evanescenti. Noi dobbiamo affrontare insieme le comuni difficoltà, ma grazie a Dio tali difficoltà riguardano solamente cose materiali. Senza distinzioni di partito, la grande maggioranza del nostro popolo cerca l'opportunità di far prosperare l'umanità e di trovare la propria felicità. Il nostro popolo riconosce che il benessere umano non si raggiunge unicamente attraverso il materialismo e il lusso, ma che esso cresce grazie all'integrità, all'altruismo, al senso di responsabilità e alla giustizia».
Non sto citando il Papa, ma Franklin Delano Roosevelt, con frasi pronunciate nel 1932-1933, cioè nel pieno della Grande


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depressione, peraltro quando si stava sviluppando il PIL. Tutte le crisi hanno sempre portato una discussione sulla metrica e oggi stiamo facendo questa discussione perché siamo in una crisi concettuale e di metrica.
Cosa si può fare in pratica? Qualcuno ha detto che non stiamo parlando del Bhutan, ma se andiamo a guardare la checklist che il Bhutan si è scelto per la valutazione delle politiche ex ante, rispetto ai vari criteri della felicità, non è molto diversa da quella che vi ho detto dell'australiano o addirittura della checklist sulla sostenibilità dell'Unione europea. L'omogeneità è impressionante. Magari si usano parole diverse, ma di fatto il tema è come faccio a valutare ex ante le politiche rispetto a quei domini di cui abbiamo parlato. Questo è il tema politico. Ancora, il tema è come faccio a costruire una visione del mondo che mi faccia vincere le elezioni, facendo le riforme ed essendo rieletto, perché riesco a dare quel senso di partecipazione che un Paese richiede per accettare anche i sacrifici nel breve termine. Questa è la sfida che voi, come politici, dovete affrontare.
All'OCSE, tempo fa, un ministro svedese diceva che la più grande sfida è fare le riforme ed essere rieletti. In questa situazione di limitazione, le riforme hanno un costo di breve periodo e un vantaggio di lungo periodo, peccato che le elezioni arrivino prima che il vantaggio di lungo si manifesti. Questa è la complessità ed è la motivazione dell'attualità di questa discussione.
Certo, nel concreto si possono avviare diverse azioni. Noi abbiamo comunque sviluppato la contabilità ambientale e sarebbe bello poter fare delle simulazioni che comprendano anche l'impatto ambientale e l'impatto sociale. Per questo, nelle mie conclusioni, ritengo che forse bisognerebbe chiedere a qualcuno di sviluppare della modellistica integrata: non affiancata, ma integrata. È complicato, ma si può fare.
L'Europa ha già scelto, in qualche modo, Europa 2020 come prospettiva, ma non è detto che tale modello sia in grado di rappresentare completamente il nostro modo di vedere.
È vero, il rischio - lo diceva l'onorevole Baretta - è di considerare questo dibattito come un bene di lusso, quando invece la domanda fondamentale che stiamo discutendo è dove stiamo andando. La risposta è la ricerca. Non dimentichiamo, e l'onorevole Baretta lo ha giustamente richiamato, il tema delle relazioni. La teoria neoclassica, su cui abbiamo impostato tutti i nostri modelli di politica economica, si basa sul cosiddetto «agente rappresentativo», cioè sull'idea che ognuno, teoricamente, in ogni momento può decidere di diventare imprenditore, dipendente, insomma fare quello che vuole compiendo delle scelte. Ci sono, inoltre, teorie diverse che si rifanno al concetto di classi, e non sto parlando della teoria marxiana - i risparmiatori, i rentier, gli imprenditori - perché c'è un'isteresi nell'essere classe, soprattutto in Paesi come l'Italia in cui la mobilità interprofessionale è così bassa.
Un libro di microeconomia che è stato appena scritto da tre italiani, riprendendo la scuola storica del Settecento degli economisti italiani, mette in relazione i beni relazionali con le scelte individuali. Magari un giorno qualcuno troverà che questo è il punto di partenza.
Accolgo volentieri l'idea di invitare membri della Commissione a osservare il dibattito al CNEL. Noi abbiamo scelto di non coinvolgere la politica in questa fase, ma è chiaro che poi ci dovrà essere una parola da parte della politica. Quella potrebbe essere un'occasione per accelerare.
Cosa si può fare in pratica? L'onorevole Vannucci ricordava la velocità dei dati. Noi avremmo potuto darvi a febbraio i dati della condizione delle famiglie aggiornate al 2011, anziché al 2010, se avessimo avuto 600.000 euro. Abbiamo cercato disperatamente di fare una convenzione in merito con alcuni ministeri, perché questo avrebbe consentito di rispondere oggi alla domanda su che cosa è successo alla distribuzione del reddito dell'anno scorso. Invece, dobbiamo consegnarvi


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i dati di due anni fa. Il trade off tra informazione e politica ha un costo, in questo caso, di 600.000 euro.
Non sto dicendo che è una banalità, ma queste sono le scelte che voi siete chiamati a fare, oltre che decidere se l'anno prossimo l'ISTAT chiude, visto che i revisori dei conti ci hanno detto che se non abbiamo più fondi andiamo in disavanzo e veniamo sciolti, secondo le normative. Purtroppo è esattamente così: l'anno prossimo saremo fuori di circa 10 milioni di euro sui 180 del nostro bilancio, perché ci sono stati tagliati i fondi. Pertanto, non solo riceviamo metà di quello che viene destinato in altri Paesi, ma di fatto, se la dotazione finanziaria dei prossimi anni non cambia, l'ISTAT alla fine del 2012 dovrà sciogliersi.
Cito un elemento culturale e politico molto importante, che forse non interessa questa Commissione, ma mi permetto di richiamare. È in atto una discussione sui nuovi Millennium Development Goals, cioè sugli Obiettivi di sviluppo del Millennio che finora, per tutti gli anni Novanta e Duemila, sono stati riferiti solo ai Paesi in via di sviluppo, mentre adesso si discute se si debba passare ai cosiddetti Sustainable Development Indicators che si applicheranno anche ai Paesi sviluppati.
Questa discussione, che è già stata avviata e che passerà per la Conferenza Rio 20 e poi, a settembre, all'Assemblea generale delle Nazioni Unite, è dirimente, ossia se questa storia degli indicatori deve riguardare soltanto i Paesi che stanno indietro o anche quelli che stanno più avanti, proprio per ribilanciare gli squilibri che oggi si verificano nell'uso delle risorse. L'Italia deve assumere una posizione su questi aspetti.
Ancora, la black list è un'utopia? No, è la realtà. In alcuni Paesi, prima delle elezioni regionali, per citare un esempio, vengono pubblicati gli indicatori della performance dei vari governatori o delle varie giunte. A noi amministrazioni pubbliche, giustamente, avete imposto una serie di indicatori di performance, che stiamo cercando di realizzare, e i manager pubblici verranno valutati e avranno di meno o di più a seconda di questa valutazione. In alcuni Paesi questa procedura si sta già applicando anche alla politica.
In Colombia, per le elezioni comunali di Bogotà, i candidati sindaci devono sottoscrivere un accordo impegnandosi a riportare, con indicatori condivisi con i cittadini, l'esito della loro amministrazione. Se non lo fanno vengono buttati fuori con una procedura di impeachment. Questa è la democrazia nella società dell'informazione che sta crescendo.
Concludo accennando al tema della sfiducia della politica o nella politica. Abbiamo capito che qui non stiamo parlando di felicità, ma di qualcosa di molto più concreto, anche se la valutazione soggettiva integra quella oggettiva. Nella rilevazione che abbiamo fatto in quel sondaggio non abbiamo chiesto se la politica è importante, ma se, per il proprio benessere, la partecipazione politica è importante. La risposta è «no»: vuol dire che la partecipazione politica non aumenta il benessere, non che la politica non sia importante. Vuol dire, allora, che la partecipazione dei cittadini alla politica non è un elemento di benessere, indipendentemente dal frutto che la politica produce. Questa è la cosiddetta crisi dei partiti e della rappresentanza politica.
In conclusione, credo che questa discussione sia l'inizio - lo spero - di una riflessione alta, come abbiamo visto in questo dibattito. Ritengo anche che ci sia bisogno di parlarne perché - come è stato ricordato prima - si tratta di un terreno sdrucciolevole e complesso. Come ho cercato di dire nella presentazione, ci sono cose concrete che voi potete decidere di fare subito e incoraggiare il Governo a farle. Come il Tesoro australiano e neozelandese hanno un framework per la politica del benessere, il Parlamento potrebbe spingere il Governo a fare qualcosa del genere.
Naturalmente noi siamo a vostra disposizione non solo per aiutare la vostra capacità nel valutare le politiche, ma anche per continuare questa riflessione. Eventualmente, in occasione dell'incontro dell'OCSE di giugno e nel Forum mondiale di ottobre, sarebbe molto bello poter avere


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un rappresentante di questa Commissione che prenda la parola a nome dell'Italia per raccontare a che punto è la riflessione politica, quindi non di tipo statistico, su questo tema nel nostro Paese.

PRESIDENTE. Grazie, presidente Giovannini. Come al solito, con l'ISTAT ci troviamo bene, dunque speriamo che non vi sciolgano. Noi saremo sicuramente sciolti l'anno prossimo, quindi ci sarà un'altra Commissione bilancio.
Nel frattempo, faremo un test sui politici presenti per capire se l'attività politica genera in loro un senso di benessere e di felicità.
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,15.

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