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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione V
3.
Mercoledì 3 febbraio 2010
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SULL'EFFICACIA DELLA SPESA E DELLE POLITICHE DI SOSTEGNO ALLE AREE SOTTOUTILIZZATE

Audizione del presidente della SVIMEZ, dottor Nino Novacco:

Giorgetti Giancarlo, Presidente ... 3 10 13 15
Boccia Francesco (PD) ... 11
D'Antoni Sergio Antonio (PD) ... 10
Franzoso Pietro (PdL) ... 11
Marini Cesare (PD) ... 12
Nannicini Rolando (PD) ... 13
Novacco Nino, Presidente della SVIMEZ ... 3 13
Padovani Riccardo, Direttore della SVIMEZ ... 13
Vico Ludovico (PD) ... 10

ALLEGATI:
Allegato 1:
Nota depositata dal presidente della SVIMEZ, dottor Nino Novacco ... 19
Allegato 2: Allegato statistico all'esposizione del presidente della SVIMEZ ... 35
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP; Misto-Alleanza per l'Italia: Misto-ApI; Misto-Noi Sud/Lega Sud Ausonia: Misto-NS/LS Ausonia.

[Avanti]
COMMISSIONE V
BILANCIO, TESORO E PROGRAMMAZIONE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di mercoledì 3 febbraio 2010


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PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GIANCARLO GIORGETTI

La seduta comincia alle 14,40.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che, se non vi sono obiezioni, la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso.
(Così rimane stabilito).

Audizione del presidente della SVIMEZ, dottor Nino Novacco.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sull'efficacia della spesa e delle politiche di sostegno alle aree sottoutilizzate, l'audizione del presidente della SVIMEZ, dott. Nino Novacco. Il dottor Novacco è accompagnato dal dottor Riccardo Padovani e dal dottor Luca Bianchi, rispettivamente, direttore e vice direttore della SVIMEZ, e dal dottor Giuseppe Soriero, consigliere di amministrazione della medesima associazione.
Do la parola al dottor Novacco.

NINO NOVACCO, Presidente della SVIMEZ. Grazie, presidente. L'Ecclesiaste ci ha insegnato che c'è «un tempo per tacere e un tempo per parlare». Dopo tanti silenzi sul Mezzogiorno, sui suoi ritardi, sui fattori della sua crisi e sulla problematicità del suo futuro, è forse il tempo, e comunque così sembra a noi della SVIMEZ, per «non tacere».
Nel 1993, la definitiva fine del positivo «intervento straordinario» per il sud avviatosi nel 1950, che era entrato dai primi anni Settanta in un ventennio di incertezze, segnò a fine secolo una caduta profonda nei ritmi di crescita della necessaria accumulazione produttiva e dell'occupazione nell'area meridionale. La decisione del Ministro Ciampi di dar vita a una «nuova politica economica» e alla costituzione e operatività del «Dipartimento per le politiche di sviluppo e coesione» (DPS), venne sminuita - rispetto alla loro attesa incisività - dall'approccio dispersivo dei localismi e dalle «cento idee» di Catania.
Le corrette scelte quantitative fatte dal DPS nel quadro della citata nuova politica economica si sono presto scontrate con i limiti della «capacità di spesa» di Ministeri e di amministrazioni, e soprattutto con l'incapacità programmatica e realizzativa delle regioni e dei poteri locali (per non parlare della pressione delle «leghe», che da allora condizionano in modi impropri il governo dell'economia e del Paese, facendo pesare una irrealistica «questione settentrionale» incomparabile con la storica e strutturale «questione meridionale»).
Sotto la spinta di Carlo Azeglio Ciampi e di Fabrizio Barca, si ebbe - da parte del Governo e del DPS - il coraggio politico di parlare con i «numeri» e con valori di «riserve» economico-politiche: il 45 per cento al sud delle totali spese nazionali in conto capitale, ordinarie e straordinarie; il 30 per cento di quelle solo ordinarie; l'85


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per cento di localizzazione al sud delle risorse aggiuntive per le aree meno sviluppate.
Numeri e riserve hanno però finito presto con il diventare vaghi proclami e mancate promesse, di cui si è dimostrata nel tempo l'incapacità del rispetto, ed è certo responsabilità politica non aver previsto allora e poi vincoli e sanzioni, ancora oggi necessari e non definiti.
Tutto ciò è avvenuto in un contesto di «politica regionale europea», che non ha saputo cogliere le differenze presenti - quanto ad arretratezza relativa dei territori - nell'Europa, che è cresciuta più sulle specificità dei «localismi» che sulla comprensione dei fenomeni «dualistici», che a diverso titolo Italia e Germania, soli Stati in Europa, hanno presentato e conosciuto, ma rispetto ai quali qualità e quantità del rispettivo impegno sono state straordinariamente diverse, giustificando così le differenze nei risultati registrati nei due Paesi.
È necessario tornare a parlare del Mezzogiorno. Il Presidente della Repubblica italiana, Giorgio Napolitano, nel messaggio da lui rivolto il 16 luglio 2009 in occasione della presentazione del rapporto SVIMEZ, ha indicato come indispensabile «lo sviluppo di un confronto nazionale aperto e approfondito», capace di accrescere «la consapevolezza nelle Istituzioni e in tutta la società italiana, del carattere prioritario e della portata strategica dell'obiettivo del superamento del divario fra nord e sud». In tale ottica, riteniamo possa essere di grande utilità la presente indagine conoscitiva, alla quale la SVIMEZ è onorata di poter offrire il contributo di alcune sue riflessioni.
Presidente, chiedo l'autorizzazione a depositare un testo più articolato, di cui tuttavia mi riservo di dare qui oggi, per esigenze di concisione, solo una selettiva lettura. Abbiamo fornito anche un piccolo dossier di documentazione statistica, che pure chiedo di poter depositare, con numeri, tabelle e diagrammi.
La ripresa negli ultimi mesi di un dibattito sui temi dello sviluppo meridionale non può che essere accolta con compiacimento. Molte delle annotazioni e dei temi che la SVIMEZ ha trattato anche con tenacia nel corso di questi anni di silenzio e rimozione (il divario nord-sud, il Mezzogiorno come macroarea, il Mezzogiorno come questione nazionale, la necessità di una forte revisione della programmazione delle politiche per il sud) sono tornati di una certa attualità. Ciò è stato confermato dal prestigioso convegno di studi che il 26 novembre scorso la Banca d'Italia ha dedicato al Mezzogiorno e alla politica economica dell'Italia, presentando un ampio numero di documentate analisi.
Il giudizio sulle politiche per il Mezzogiorno si è fatto più critico con riferimento a quelle relative agli ultimi dieci anni. Il clima è - a nostro avviso - positivamente mutato. La presa d'atto degli assai insoddisfacenti risultati di tale recente esperienza ha dato luogo a una favorevole riconsiderazione di politiche «aggiuntive» e «speciali» per il sud. La prospettazione nel rapporto SVIMEZ dello scorso luglio dei dati relativi al processo di deterioramento in atto nel Mezzogiorno e ai pesanti effetti di esso sul mercato del lavoro e sulla ripresa di una rilevante fuoriuscita migratoria (commisuratasi, nell'ultimo decennio, in oltre 700.000 unità), ha concorso - forse in misura non piccola - al rilancio della discussione.
Oggi, siamo usciti da una lunga stagione di silenziosa rimozione, ma occorre avere la consapevolezza che, mentre siamo di fronte a un senz'altro positivo mutamento di clima, esso non è del tutto consolidato o irreversibile. È ancora molto forte e diffusa, infatti, in gran parte del Paese - a partire dalle élites politiche ed economiche - la convinzione che i problemi dell'Italia coincidano in realtà con quelli delle sue zone forti e che basti rimettere in moto la locomotiva del nord per fare ripartire l'Italia.
Permane, dunque, il rischio di una nuova, progressiva rimozione della natura nazionalmente determinante dei macroproblemi meridionali e dell'indebolirsi del convincimento che sia necessario assicurare, al perseguimento dell'obiettivo dello


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sviluppo del sud e della coesione del Paese, un impegno macroeconomico certo e duraturo nel tempo.
È ancora insufficiente l'attenzione delle classi dirigenti meridionali alla dimensione strutturale e macroregionale dei fattori che sono alla base del gap di crescita registrato rispetto al resto del Paese, ma anche rispetto alle altre regioni deboli dell'Europa. Il rischio è che permanga la tendenza a privilegiare microinterventi diffusi sul territorio rispetto a interventi di più ampio respiro sulle condizioni del contesto economico e produttivo. È certo, invece, che ogni disegno strategico per lo sviluppo del Mezzogiorno potrà avere successo solo se i responsabili delle istituzioni e degli enti meridionali locali e territoriali saranno capaci di adottare comportamenti che radicalmente si distacchino dalle insoddisfacenti esperienze del passato, che hanno largamente concorso a screditare le politiche meridionaliste.
Una riflessione sull'esigenza di discontinuità nell'approccio di politica economica per il sud emerge chiaramente dai dati macroeconomici dell'ultimo decennio. Dal 2002 ad oggi, le regioni del sud sono sempre cresciute meno di quelle del resto del Paese: nel periodo 2001-2008, l'incremento annuo del prodotto del Mezzogiorno è risultato pari a poco più della metà di quello del centro-nord. Dal dopoguerra non si era mai registrato un periodo di sette anni in cui lo sviluppo del sud fosse costantemente inferiore a quello centro-settentrionale.
La mancanza di convergenza delle regioni in ritardo di sviluppo con quelle più avanzate e ricche verificatasi in Italia è in controtendenza con quanto avviene nel resto d'Europa. Gli anni duemila sono stati infatti caratterizzati a livello continentale da un significativo recupero delle aree europee del vecchio Obiettivo 1, che si sono sviluppate a un tasso superiore a quello della media dell'Unione europea a 27 Stati. Le aree più deboli del Mezzogiorno non hanno seguito questo andamento, per cui la crescita del PIL pro capite è stata nel periodo non solo lievemente minore di quella italiana, ma soprattutto molto inferiore a quella delle restanti regioni meno avanzate dell'Europa.
Il confronto con il complesso delle aree in ritardo di sviluppo in Europa è sempre sfavorevole alle regioni meridionali. Se si ordinano le 208 regioni europee NUTS 2 (Nomenclatura delle unità territoriali statistiche 2) rispetto al PIL pro capite, si nota come le 8 regioni meridionali si situassero nel 1995 tra il centododicesimo e il centonovantaduesimo posto, nel 2005 tra il centosessantacinquesimo e il duecentesimo.
L'arrivo della crisi su un'area già in difficoltà strutturale quale il sud ha avuto effetti molto pesanti soprattutto sul mercato del lavoro. Gli ultimi dati ISTAT segnalano una flessione rilevante dell'occupazione meridionale particolarmente grave nel comparto industriale, che ammonta almeno al 3 per cento, superiore a quella rilevabile nel centro-nord. La crisi, dunque, sta mordendo più al sud, fatto inedito rispetto al passato. La crisi - in definitiva - non fa altro che mostrare tutta la fragilità dell'economia meridionale e finisce per sommarsi ai peggiori andamenti degli ultimi anni.
Le cause di questo peggiore andamento del Mezzogiorno sono complesse e rimandano in larga parte al generale e prolungato ristagno dell'economia nazionale rispetto al resto dell'Europa o comunque a problemi di dimensione nazionale, ma che assumono per il sud gravità del tutto particolare, tra i quali hanno rilevanza sopratutto l'inadeguatezza sostanziale della spesa pubblica, il deficit di qualità e di efficienza delle pubbliche amministrazioni, la presenza della criminalità organizzata, il difficile avanzamento della liberalizzazione dei mercati. Non vanno sottaciuti i gravi effetti di un debole disegno delle politiche generali in materia di infrastrutture, istruzione, innovazione, ricerca, che in campi così rilevanti per lo sviluppo hanno costantemente mancato di adottare intensità e strumenti di intervento, in funzione dei divari intercorrenti


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fra la macroarea debole e quelle forti del nord, che sono tra le più avanzate e solide anche rispetto all'Europa intera.
L'assenza di risultati soddisfacenti in termini di crescita e di convergenza nel Mezzogiorno è in gran parte dovuta a una ridotta efficacia della politica regionale di sviluppo, sia nazionale, che comunitaria. Essa trova spiegazioni - in primo luogo - in una dimensione della spesa pubblica in conto capitale complessiva effettuata nel Mezzogiorno assai inferiore a quanto programmato. L'analisi dei dati relativi alla spesa del Mezzogiorno smentisce l'idea, purtroppo assai diffusa anche dalla pubblicistica, di un sud inondato da un fiume di pubbliche risorse, ma sta anche a indicare come la spesa in conto capitale aggiuntiva sia valsa negli ultimi anni solo a compensare il deficit della spesa ordinaria.
I dati elaborati dal Dipartimento per le politiche di sviluppo (DPS) mostrano che la quota di spesa pubblica in conto capitale complessivamente effettuata nelle regioni meridionali è passata, con un progressivo declino, dal 40,4 per cento del 2001 al 35,3 per cento nel 2007. Nel successivo biennio 2008-2009 dovrebbe essersi assestato al 34,8 per cento. Si tratta di valori non solo ben lontani dal 45 per cento del totale nazionale originariamente fissato in fase di programmazione, ma che non eguagliano neppure il «peso naturale» del Mezzogiorno, che può valutarsi nel 38 per cento circa, media tra la sua quota di popolazione (35 per cento) e la quota del suo territorio (40,8 per cento). Tale deludente risultato è stato conseguito con una spesa aggiuntiva di circa 12 miliardi di euro all'anno.
La quota di spesa ordinaria destinata alla formazione di capitale nel Mezzogiorno nel 2007 è stata pari ad appena il 21,4 per cento del totale nazionale, inferiore di circa 16 punti al citato peso naturale dell'area e di quasi 9 punti rispetto all'obiettivo del 30 per cento, a tal titolo indicato nei documenti governativi. Simili risultati richiedono una riflessione sulla valenza degli obiettivi programmatici adottati (il 30 e il 45 per cento), che vengono sistematicamente ignorati, fino a scomparire. Tale divario deve essere essenzialmente ricondotto all'assenza - a livello istituzionale - di meccanismi di garanzia sull'effettiva disponibilità delle risorse destinate all'attuazione degli interventi astrattamente previsti a livello programmatico.
Dal DPEF 2000-2003 fu inserito l'obiettivo di portare al 45 per cento del totale la quota del Mezzogiorno. Tale obiettivo fu poi riconfermato da tutti i successivi documenti di programmazione, insieme all'introduzione della regola di localizzazione del 30 per cento della spesa ordinaria nel sud. Per la prima volta, dopo dieci anni, nel DPEF 2009-2011 e poi nel documento di programmazione del luglio scorso non appare più l'obiettivo programmatico di un'adeguata ripartizione nord-sud della spesa totale in conto capitale. Il divario crescente che si è registrato fra enunciazione programmatica e realtà attuative, invece di determinare un impegno più forte a rispettare gli obiettivi, ha portato a una scomparsa dell'obiettivo stesso.
La conseguenza di valori assai bassi di spesa ordinaria è che le risorse specifiche per il sud perdono il loro carattere di aggiuntività e finiscono per coprire le carenze della politica nazionale di investimento. Il problema è garantire un flusso di investimenti in infrastrutture materiali e immateriali quantitativamente adeguato, almeno pari agli obiettivi enunciati, assicurando la qualità della spesa.
Il finanziamento degli interventi volti a fronteggiare gli effetti della crisi è stato assicurato in larga misura da interventi di riallocazione e rimodulazione di risorse pluriennali destinate alle aree deboli. Gran parte delle maggiori spese è stata compensata mediante tagli, riprogrammazioni e riallocazioni delle risorse nazionali finalizzate soprattutto allo sviluppo del Mezzogiorno, presenti nel Fondo per le aree sottoutilizzate (FAS).
Secondo quanto stabilito dalla legge istitutiva, il FAS avrebbe dovuto essere ripartito esclusivamente con apposite delibere CIPE per investimenti pubblici e per


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incentivi con finalità di riequilibrio economico e sociale, sulla base del criterio generale di destinazione territoriale delle risorse. Nel corso del 2008 e 2009, invece, il legislatore è intervenuto con rilevanti utilizzi della dotazione FAS per impieghi sovente senza rapporti con le finalità proprie del fondo, che erano e che avrebbero dovuto restare finalità - meridionaliste - di sviluppo territoriale verso la coesione nazionale.
Il volume delle risorse FAS mobilitato prima per il finanziamento di interventi di carattere emergenziale (situazione dei rifiuti in Campania, risanamento dei bilanci dei comuni di Roma e Catania e altri) e successivamente per misure anticrisi è stato oggettivamente ingente. A ciò si sono però aggiunti numerosi interventi, che hanno finito per dirottare risorse del FAS verso indirizzi dispersivi rispetto alla sua missione originaria.
L'intera quota nazionale del FAS 2007-2013 è stata collocata in tre fondi, il primo destinato a opere infrastrutturali, quindi coerente con la mission originaria, e gli altri due a politiche prevalentemente anticongiunturali: uno per il finanziamento degli ammortizzatori sociali e l'altro per far fronte - in primo luogo - all'emergenza in Abruzzo. L'illusione che la crisi potesse colpire meno l'economia meridionale, poi smentita dai fatti, ha alimentato la colpevole illusione di un Mezzogiorno protetto.
Secondo stime del CNEL, la quota delle risorse nazionali del FAS complessivamente dirottate verso altri indirizzi raggiunge circa 26 miliardi di euro. Questo ha implicazioni rilevanti non solo sul finanziamento degli interventi previsti nella legislazione nazionale, ma anche sul Quadro strategico nazionale, indebolendone la componente nazionale.
Come sottolineato dal Ministero dello sviluppo economico, nel proprio rapporto strategico nazionale del dicembre 2009, la riduzione della dotazione finanziaria del FAS ha rilevanti effetti sul profilo di addizionalità negoziato in occasione del documento che è stato convenuto con la Comunità europea. Il rapporto stima in circa il 27 per cento la riduzione della componente nazionale a carico del FAS, riduzione che, se non verrà compensata, determinerà in occasione della revisione di metà periodo, nel 2011, «la possibilità di rivedere il livello della spesa per il rimanente periodo» precedentemente negoziato con Bruxelles.
I tecnici del Ministero stimano per i prossimi anni, nel caso in cui tali risorse non vengano reintegrate, una riduzione del 15 per cento della spesa media nelle «regioni convergenza» e quindi un ulteriore indebolimento del principio di addizionalità. Emerge, dunque, con evidenza una configurazione di non neutralità della crisi, che rischia di dar luogo a una ridistribuzione delle risorse a favore delle aree più forti e che potrebbe perdurare anche oltre la fase congiunturale, in considerazione dell'ampiezza dei processi di ristrutturazione, pregiudicando per i prossimi anni la possibilità di conseguire obiettivi di reale convergenza delle aree deboli del Paese.
La programmazione 2007-2013 si è avviata ormai da più anni. Il livello assai basso della spesa ordinaria ha avuto fino ad oggi, e rischia di avere anche nel futuro, un'influenza decisiva nel ridurre l'efficacia delle politiche di coesione nazionale. A deprimere l'efficacia dell'azione speciale hanno certamente concorso anche le carenze nella qualità degli interventi. La frantumazione dell'intervento è in larga misura conseguenza implicita di un'impostazione della nuova programmazione, che ha affidato primaria responsabilità nella conduzione della politica alle regioni, rinunciando a un più attivo ruolo di guida e di coordinamento da parte del centro, ma costituisce anche il portato della tendenza di ciascuna regione a programmare di fatto l'intero intervento dentro i propri confini amministrativi, e quindi della difficoltà di realizzare una stabile cooperazione tra le regioni del sud in una prospettiva strategica che sia riferita al Mezzogiorno nella sua dimensione di macroarea.
In chiusura della programmazione 2000-2006, si è registrata una certa soddisfazione


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per il raggiungimento, benché tardivo, dell'obiettivo del pieno utilizzo delle risorse. Se la performance del Mezzogiorno è stata assai insoddisfacente, tanto da far sostenere che la quantità delle risorse impegnate non sia di per sé un fattore qualificativo, è opportuno riflettere su alcuni gravi limiti di programmazione dei fondi strutturali. Una chiara manifestazione di tali limiti è costituita dall'elevato ricorso ai cosiddetti «programmi coerenti».
L'impostazione del nuovo Quadro strategico nazionale 2007-2013 si è mossa all'interno di una sostanziale continuità con il precedente ciclo di programmazione. La struttura dei programmi risulta inoltre caratterizzata da una maggiore flessibilità, ma anche indeterminatezza. Sono stati identificati i target da raggiungere, ma sono solo accennati i contenuti operativi della programmazione e delle linee di intervento. Appare assente una regia complessiva del processo di attuazione nella direzione del perseguimento degli obiettivi enunciati. Ciò conferma l'esistenza di un disegno di sviluppo debole e il rischio di una riproposizione dell'esperienza negativa del ciclo di programmazione 2000-2006.
I primi dati di attuazione del nuovo ciclo, a ben tre anni dal suo avvio, indicano un forte ritardo nell'impostazione e attivazione dei programmi. A oggi, abbiamo ancora circa il 60 per cento delle risorse, a fronte delle quali non sono ancora stati identificati gli interventi da finanziare. Deve essere sottolineato, in particolare, il ritardo nell'attuazione dei programmi interregionali, che avrebbero dovuto rappresentare la modalità per realizzare progetti in grado di tenere conto della natura macroregionale di alcuni dei problemi strutturali del Mezzogiorno.
Per evitare che nel ciclo 2007-2013 si ripresentino le criticità emerse nel precedente periodo, è necessario prevedere, affrontare e risolvere i nodi decisionali e procedurali che rallentano l'avvio e la realizzazione dei programmi. Un mutamento di rotta è possibile. Se per il passato uno dei limiti principali è consistito nella scarsa capacità di integrare, valutare e selezionare gli interventi su cui investire ai fini dello sviluppo, l'indicazione di rotta è di garantire per il prossimo futuro un luogo autorevole di elaborazione strategica.
Questo non può risolversi in un approccio solo centralista alle politiche di sviluppo, ormai reso difficile dal quadro istituzionale e politico consolidatosi nel nostro Paese. Le vie da seguire consistono, da un lato, in una più effettiva e stabile cooperazione fra le regioni del sud e, dall'altro, nel favorire un più forte coordinamento tra esse e l'azione dell'amministrazione centrale.
Sulle prospettive di questa politica di coesione per gli anni successivi al 2013, la SVIMEZ concorda largamente con quanto rilevato nell'audizione del 21 ottobre 2009 - svolta in questa Commissione - dal dottor Barca, riguardo all'esigenza di mantenere nei prossimi anni una politica di sviluppo europea incentrata sui territori, nonché sulla critica a un approccio «euro-burocratico», che si concentra più sulla correttezza delle procedure che sulla valutazione degli obiettivi perseguiti.
Tra le politiche perseguite dall'Unione europea attraverso il proprio bilancio, ben quattro sono direttamente correlate a questa tematica: la Politica agricola comune (PAC), la politica di sviluppo rurale, la politica di coesione e le politiche riguardanti la competitività. Lo sviluppo del Mezzogiorno dipende da tutte queste politiche e dalla loro ottimale combinazione, e non solo da quella per la coesione, che pure è la finalità nazionale. Le quattro politiche devono pertanto essere tutte finalizzate a superare le macrosituazioni di arretratezza, nella misura in cui le politiche si traducono in azioni che interessano le aree, di fatto solo meridionali, che si trovano in ritardo di sviluppo nel nostro Paese.
La SVIMEZ ritiene che per dare forza alla politica di coesione e per superare il dualismo italiano, occorra, per prima cosa, meglio connettere la politica di coesione con il ruolo della politica di sviluppo. Questo significa agire per eliminare o


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ridurre i fattori che sono causa dello storico ritardo delle nostre aree deboli. In particolare, nel caso del Mezzogiorno, estremamente rilevanti sono la debolezza del generale sistema infrastrutturale e quindi del contesto funzionale alle produzioni, la bassa produttività delle imprese, le insufficienze qualitative della forza lavoro, la presenza di importanti diseconomie esterne, legate alla carenza sia dei servizi pubblici, sia dell'insieme dei servizi alle imprese.
Per il periodo successivo al 2013 - e si sarebbe dovuto farlo già assai prima - occorrerà rivedere le regole di eligibilità delle regioni del Mezzogiorno, utilizzando come indicatore lo scostamento dell'insieme di esse dal livello del reddito reale pro capite rilevabile nel complesso delle aree più avanzate dell'Europa, abbandonando l'inadatto e irragionevole parametro del 75 per cento del PIL medio dell'Europa, che di fatto ha avviato una sostanziale disarticolazione nel Mezzogiorno.
L'Italia meridionale e insulare, che è ovviamente diversificata, ma economicamente unitaria, è stata considerata, con riferimento alle sue otto regioni amministrative, non significative per quanto attiene il necessario sviluppo e il perseguimento degli obiettivi di coesione, che non possono non avere sempre valenza insieme europea, nazionale e di macroregione NUTS 1 e non, invece, come si è fatto, di microregioni NUTS 2.
Sarà infine decisivo rafforzare il ruolo delle decisioni del bilancio europeo nell'indirizzare, monitorare e verificare gli obiettivi di sviluppo e coesione, e gli strumenti e le risorse messe in opera dalle autorità nazionali e territoriali, a partire dal richiamato principio dell'addizionalità delle risorse.
È da ritenere che la responsabilità europea non possa esaurirsi sul piano della quantità delle risorse. È invece obiettivo dichiarato delle norme costitutive dell'Unione quello dello sviluppo, e, nella sua realizzazione, l'Unione deve impegnarsi non solo destinando risorse, ma anche validando le finalità, l'efficacia, le priorità delle azioni proposte dallo Stato membro.
Le considerazioni avanzate evidenziano un quadro di grande complessità, che ripropone l'esigenza di un franco confronto nazionale di politica economica, da cui emergano impegni strutturali sul futuro del Mezzogiorno dell'Italia. Nel quadro politico che ha seguito la presentazione dell'ultimo rapporto annuale SVIMEZ, abbiamo perciò rinnovato la richiesta ai poteri pubblici di organizzare una conferenza nazionale sul Mezzogiorno. Al dibattito, da approfondire, la SVIMEZ - come di consueto - ha cercato anche qui di offrire un contributo.
Vorremmo già sintetizzare alcune puntuali affermazioni. L'eccessivo ritardo dell'Italia - rilevante soprattutto per gli interventi pubblici nazionali ed europei a favore del Mezzogiorno - nell'avviare il ciclo 2007-2013 dei fondi dell'Unione europea, impone di trovare soluzioni urgenti e più efficaci che in passato. È necessario rafforzare - in sede di Governo ma anche nel Parlamento - l'unità e la qualità del luogo (soggetto, autorità) chiamato ad assicurare il coordinamento delle politiche di sviluppo e di coesione. Tale luogo deve essere capace di garantire strategie e ottiche macroeconomiche. Occorre evitare quello che è avvenuto nel 2009 in ordine allo spiazzamento territoriale, cioè i trasferimenti illegittimi e non marginali delle risorse destinate al Mezzogiorno su fondi FAS e altri.
Vi è l'esigenza che la Conferenza Stato-regioni accentui i momenti di considerazione del Mezzogiorno come grande regione debole dell'Italia. Occorre, comunque, che le posizioni delle nostre macroregioni, che sarebbe bene fossero rappresentate come tali nella Conferenza, vengano evidenziate e valorizzate, costituendo oggetto di necessarie decisioni e insieme discrimine politico-sociale, produttivo e occupazionale.
È comune e diffuso il convincimento che - nella concreta attività di programmazione e di gestione della spesa pubblica - vi sia una grande responsabilità delle amministrazioni regionali e locali. Esse


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non hanno né sufficienti pregresse esperienze, né autonomia di giudizio tecnico-economico.
Da questo punto di vista, non può non preoccupare la prospettiva di introdurre in Italia - e specie nel sud - dosi di maggiore federalismo, che possono tradursi in dosi di maggiore localismo. Grazie, queste sono alcune riflessioni che abbiamo ritenuto di dover fare in questa circostanza.

PRESIDENTE. Grazie per il contributo. Finalmente, troviamo qualcuno che parla in termini dubitativi del federalismo, altrimenti tutti sembrano d'accordo.
Do la parola ai colleghi che intendano intervenire per porre quesiti o formulare osservazioni.

SERGIO ANTONIO D'ANTONI. Ringrazio il presidente per aver organizzato questa audizione e il presidente Novacco e i suoi collaboratori per questa puntuale e molto dettagliata informativa sullo stato delle cose nel nostro Paese.
Poiché condivido le considerazioni svolte, non ho domande particolari da porre, ma vorrei chiedere solo alcuni approfondimenti. Il divario si è ampliato. In quindici anni di crescita modesta dell'Italia, la crescita del Mezzogiorno è stata inferiore a quella del resto del Paese: fatto grave di per sé. Abbiamo avuto, quindi, bassi tassi di crescita e all'interno del Paese le distanze sono aumentate.
Altri Paesi, come la Spagna e la Germania, puntando sulle loro aree deboli, hanno avuto una crescita maggiore e ciò ha accorciato le distanze al loro interno. Se quindi si punta sulle aree deboli, tutto il Paese ne ricava un vantaggio.
Considero inutile parlare in questa sede delle forze politiche, del dibattito tra maggioranza e opposizione, tra nord e sud, ma considero fondamentale convincere tutti che puntare sulle zone deboli garantirà la crescita di tutto il Paese. Questo è il primo presupposto per ragionamenti che altri Paesi hanno realizzato e che l'Italia non riesce a fare.
Vorrei sapere, inoltre, se ce la faremo e rispetteremo i famosi obiettivi del 45 e del 30 per cento e il criterio dell'addizionalità; quali ulteriori strumenti - qui non trattati - possano essere utilizzati e se la fiscalità di vantaggio possa essere veramente decisiva.

LUDOVICO VICO. Desidero ringraziare la SVIMEZ, che nei momenti più difficili di questi anni è stata un punto di riferimento certo per molti di noi del Mezzogiorno. Peraltro, personalmente mi colloco tra i meridionalisti storici e vorrei mantenere tale impostazione.
Svolgerò una considerazione e porrò due domande. In Parlamento, in questi due anni di carica del Governo, in seguito allo smantellamento dell'efficacia di tutte le agevolazioni fiscali, quelle automatiche che conosciamo benissimo, e ai decreti «anticrisi» licenziati dalla maggioranza di questo Parlamento, abbiamo osservato - l'aiuto della SVIMEZ e di altri osservatori è stato importante - come parte delle risorse destinate al Mezzogiorno - tra cui il FAS - siano diventate funzionali alla ristrutturazione di una sola parte del Paese e cioè delle due altre macroaree e, fondamentalmente, di una.
Quando abbiamo osservato anche come questa parte di risorse programmate per le politiche industriali del Paese sia stata dirottata verso il settore del credito, favorendo la ricapitalizzazione delle banche, abbiamo constatato come si muovessero risorse che erano però state distratte. Rilevo lo stile con cui oggi la SVIMEZ parla di spiazzamento territoriale delle risorse.
Dal rapporto SVIMEZ ho colto alcuni suggerimenti, dei quali vorrei conferma in questa sede: il ripristino di un corretto metodo di programmazione sulle risorse 2007-2013 (ovvio mancano le regioni); la realizzazione di concreti piani di investimento, accorciando i tempi attraverso cabine di regia, ed il coordinamento tecnico del Governo in alternativa al Ministero per il Mezzogiorno di cui si parlava alcuni mesi fa o ad altre ipotesi lette sui giornali; concreti piani di investimento da concordare con i concessionari affinché tra il 2007 e il 2013 la forbice sia non allargata,


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ma avvicinata. Inoltre, con riferimento alla pubblica amministrazione ed alla realizzazione delle opere prioritarie bisogna promuovere delle azioni che siano negoziate.
Tale negoziazione deve spazzare via l'idea del Mezzogiorno spesso presentata, laddove, parlando di Mezzogiorno, si tratta di 41 province con 21 milioni di abitanti, pari al 35,6 per cento della popolazione del nostro Paese, con una superficie di 124.000 chilometri quadrati, pari al 46 per cento del nostro Paese, ma con un prodotto interno lordo molto debole (solo il 26 per cento) e con una poco articolata struttura industriale e occupazionale e un prodotto pro capite che è solo del 23,7 per cento.

FRANCESCO BOCCIA. Signor presidente, desidero solo porre alcune domande, anche perché molte delle considerazioni svolte oggi dovrebbero servire a questa Commissione per mettere a punto alcune cose con maggior chiarezza, anche se non vedo molti colleghi della maggioranza.
La scomparsa degli obiettivi programmatici dal DPEF dovrebbe tuttavia indurci ad alcune considerazioni, come anche il crollo della spesa in conto capitale dal 40,4 al 34,8 per cento di oggi, come anche i dati che il presidente Novacco non ha letto per ragioni di tempo, ma che fanno riferimento agli investimenti delle imprese dello Stato (in particolare Ferrovie dello Stato, ENEL e Poste) nel Mezzogiorno, imbarazzanti nei numeri.
Ovviamente, su questi temi il Partito Democratico e questa Commissione non potranno non chiedere valutazioni di tipo politico, perché in alcuni casi si rileva la violazione di patti siglati anche dentro questa Commissione, come nel caso dell'incidenza delle risorse in conto capitale da investire nel Mezzogiorno.
Nell'ultimo punto delle conclusioni contenute nel documento depositato si fa riferimento a una grande responsabilità delle amministrazioni pubbliche regionali e locali. Sarebbe interessante sapere quali siano e se abbiate incrociato queste considerazioni con l'eccellente lavoro fatto dalla Banca d'Italia, che voi stessi citate nel rapporto e che a nostro avviso rappresenta il lavoro più importante realizzato negli ultimi dieci anni, e se riteniate che queste valutazioni, anziché essere critiche, possano essere costruttive, anche rispetto al lavoro che questo Parlamento vorrà fare attraverso la Commissione bicamerale e nei prossimi 24 mesi con il Governo sui decreti di attuazione del federalismo fiscale.
Ritengo che le considerazioni espresse dal dottor Novacco siano corrette, ma che mettere a fuoco alcune contraddizioni anche rispetto al lavoro fatto dalla Banca d'Italia potrebbe aiutare il Governo e il legislatore, che dovrebbe controllare, a compiere passi in avanti e soprattutto a evitare di compiere altri errori.
Alla luce della disperata condizione della programmazione 2007-2013 - poiché il rischio è fare esattamente gli stessi errori del 2000-2006, tirando dentro anche quote di risorse nazionali, quali il FAS e risorse di cofinanziamento interno - vorrei sapere se di qui al 2013 sia possibile concentrare le risorse sulle tre grandi direttrici alle quali il presidente Novacco ha fatto riferimento all'inizio della relazione, ovvero grandi infrastrutture, istruzione e innovazione, capitoli ben definiti che possono corrispondere anche a investimenti che non lasciano spazio a interpretazioni complicate, che inducono le regioni a frammentare gli interventi fino a riprodurre vicende già contestate anche da noi in questa Commissione.

PIETRO FRANZOSO. Ho ascoltato la relazione, leggendola in parte. Indipendentemente dall'aspetto dei fondi FAS, che ritengo debbano essere reintegrati, volevo porre una domanda prima di esprimere una riflessione. Vorrei sapere, infatti, se dei 26 miliardi dirottati verso indirizzi diversi si abbia una rendicontazione sulle aree nei quali sono stati utilizzati.
È poi necessario soffermarsi sulla performance avuta dai fondi europei del 2000-2006 e sull'affanno con cui si sono utilizzati, sia per l'inappropriatezza delle


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risorse, sia perché alla fine, anche se con ritardo, si sono potuti utilizzare i fondi utilizzando i cosiddetti «progetti coerenti» o «progetti sponda». Poiché pare che per quanto riguarda i fondi 2007-2013 non sarà possibile utilizzare i cosiddetti «progetti sponda», sarebbe forse necessario dirottare l'attenzione sulle conclusioni della relazione, atteso che per quanto riguarda i fondi 2007-2013, come spesso abbiamo avuto modo di denunciare specie nel Mezzogiorno, si è ancora attivato appena il 38 per cento delle risorse.
Poiché non potremo utilizzare i «progetti sponda», bisogna essere seriamente preoccupati dell'effettivo utilizzo delle risorse e dell'appropriatezza e della qualità della spesa. Come spesso è avvenuto, anche a livello nazionale, sui fondi FAS utilizzati per altri indirizzi, spesso anche le risorse dei fondi europei sono state utilizzate non per lo sviluppo, ma per altri fini.
Forse, è giunto il momento di dare corpo al secondo suggerimento della SVIMEZ, che evidenzia la necessità di rafforzare in sede di Governo, ma anche nel Parlamento, l'unità e la qualità del luogo capace di assicurare il coordinamento delle politiche di sviluppo e di coesione. Tale luogo deve essere in grado di garantire strategie e ottiche macroeconomiche.
Questa affermazione riconduce a quanto da noi denunciato: l'inappropriatezza della spesa, il fatto che spesso le risorse del Mezzogiorno siano state utilizzate non per lo sviluppo, ma per fini diversi. Si tratta di elementi sui quali riflettere come Parlamento per dare un'univocità agli indirizzi, ma nello stesso tempo anche un'accelerazione della spesa, altrimenti, non potendo utilizzare i «progetti sponda», a causa dei ritardi delle regioni rischieremmo seriamente di rispedire risorse al mittente.

CESARE MARINI. Signor presidente, ringrazio la SVIMEZ non solo per l'audizione di oggi, ma soprattutto per il lavoro che svolge in condizioni difficili, non avendo nemmeno la disponibilità di fondi per le ricerche.
Condivido la responsabilità degli amministratori locali, anche perché sono convinto che un meridionalismo nuovo debba iniziare a guardare dal di dentro, a stabilire perché si siano verificati alcuni episodi in Sicilia, ad esempio a Catania, o a Napoli, che cosa sia avvenuto nella formazione dei gruppi dirigenti e via dicendo. Su questo, probabilmente, la SVIMEZ dovrebbe soffermarsi nei prossimi lavori, per capire cosa sia avvenuto all'interno dell'area meridionale.
Dinanzi alla prospettiva della costruzione di un mercato di libero scambio, che significa la fine di una serie di dazi e di balzelli che gravano sulle merci provenienti dal nord Africa, il Mezzogiorno sarà investito direttamente da prodotti concorrenziali, con un prevedibile crollo dei prezzi, già molto bassi, nel settore agricolo.
Vorrei chiedervi, quindi, se sia possibile quantificare l'impatto di questa prospettiva sul Mezzogiorno, che invece avrebbe l'opportunità di diventare piattaforma logistica. A tal fine, sarebbero, però, necessari forti finanziamenti pubblici nelle infrastrutture e nei servizi, non presenti né previsti allo stato attuale. Si rileva, quindi, il rischio che il Mezzogiorno possa essere investito in termini negativi da un processo giusto quale l'allargamento di un'area di libero scambio.
Due anni fa, nelle sue considerazioni finali, il Governatore della Banca d'Italia aveva trattato il problema della scuola nel Mezzogiorno, ritenendo che la formazione fosse ad un livello inferiore, con il conseguente rischio per i giovani meridionali di non poter concorrere nel mercato del lavoro. L'ultimo rapporto SVIMEZ ci ha tranquillizzati, perché ha evidenziato l'elemento positivo dei risultati della scuola. Vorrei sapere se la riduzione dei trasferimenti pubblici nella scuola, che era già prevista nel DPEF del 2008 per una cifra pari a 2,5 miliardi di euro, abbia già inciso negativamente nel Mezzogiorno e in che termini.
Consideriamo sempre negativamente gli incentivi, perché riteniamo che spesso non abbiano dato i risultati sperati, ma non si


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può prescindere dal costo superiore delle merci prodotte nel Mezzogiorno, dovuto al costo maggiore dei trasporti e al costo della presenza della delinquenza organizzata nell'area in cui si produce. Anche le infrastrutture materiali sono, poi, inferiori rispetto al resto del Paese: basti pensare a cosa significa avere un allacciamento da parte dell'ENEL in un'area meridionale, soprattutto nelle aree meno fortunate. Vorrei sapere, quindi, quale politica di incentivi debba essere perseguita per non ripetere gli errori compiuti in passato con un loro maldestro utilizzo.
Mi sembra che l'imprenditoria giovanile abbia dato pessimi risultati nel Mezzogiorno, perché, a mio giudizio, la legge istitutiva non andava bene, per cui le imprese si trovano quasi tutte in stato di sofferenza, con procedure di recupero coattivo di dubbia utilità, giacché si tratta di un'agenzia, Sviluppo Italia, alimentata da fondi pubblici. Vorrei sapere se sia possibile quantificare il danno per il Mezzogiorno derivante dai cosiddetti «progetti sponda» in termini di mancata utilizzazione di investimenti in conto capitale, che si riconducono a fondi di coesione, fondi dell'Unione europea.
Nella fase critica inauguratasi nel Paese dopo il 1990, dal punto di vista politico generale è venuta meno l'idea di fare del Mezzogiorno una delle questioni centrali dello Stato, in quanto interesse nazionale e non per realizzare una politica solidaristica. Consideriamo dannosa questa mancanza di centralità, indipendentemente dalle eventuali politiche coerenti che possono seguire l'affermazione del principio, laddove spesso si devono fare i conti con le compatibilità di bilancio. Credo che accantonare il principio della centralità, che era stato la grande intuizione della nota aggiuntiva del 1962 di La Malfa alla Relazione generale sulla situazione economica del Paese, sia un forte freno per le politiche meridionalistiche.

ROLANDO NANNICINI. A pagina 13 della nota depositata vi soffermate su un argomento essenziale. Per il periodo successivo al 2013 (e si sarebbe dovuto fare assai prima) occorrerà rivedere le regole di eligibilità delle regioni del Mezzogiorno, utilizzando come indicatore lo scostamento dell'insieme di esse dal livello di reddito pro capite rilevabile nel complesso delle aree più avanzate dell'Europa, e abbandonare il parametro, inadatto e inadeguato, del 75 per cento del PIL medio dell'Unione europea. Poi, vi soffermate sulla macroregione NUTS 1, mentre noi, invece, abbiamo fatto riferimento alle regioni NUTS 2, e sull'addizionalità delle risorse.
In queste due pagine, in questi piccoli commi, vorrei vedere un elemento di forte riflessione politica, perché il tema dello sviluppo e della coesione sta in una macroarea e le otto regioni non sono sufficienti alla soluzione del problema. Intendo, quindi, in questo senso federalismo e localismo quando lei li nomina.
Riprendo questa parte della vostra relazione, perché la politica nazionale e regionale può fare molto in questo caso, laddove la dispersione tra Stato e regioni (il 60 per cento di risorse non è utilizzato), la sottrazione di risorse e non risorse addizionali, costituiscono un tema forte, perché non è al centro la politica di coesione dei fondi europei. Questa è la figura che l'Italia fa rispetto a questo riguardo nel mondo.
Per non fallire nuovamente e riaprire una discussione sui difetti di tutti noi, vorrei sapere se riteniate che con istituzioni così organizzate e frammentate rispetto all'elemento dello sviluppo si possa dare una risposta seria in un'area come il Mezzogiorno, che l'onorevole Vico ricordava nella sua dimensione del 35-36 per cento della popolazione nazionale.

PRESIDENTE. Do la parola al presidente Novacco, avvertendolo, però, che all'improvviso potrei togliergliela qualora iniziassero i lavori dell'Assemblea.

NINO NOVACCO, Presidente della SVIMEZ. Se il presidente lo consente passerei la parola al direttore Padovani.

RICCARDO PADOVANI, Direttore della SVIMEZ. Le domande sono molte, per cui


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proverò a rispondere in sequenza. L'onorevole D'Antoni chiedeva se riusciremo a rispettare la quota del 45 per cento della spesa in conto capitale. Ovviamente, il rispetto della quota è decisivo. Ma ai fini della addizionalità anche la qualità è importante. Potremmo anche non farcela, se si continua a spendere in maniera così dispersiva, perché mille interventi piccoli si risolvono in un livello di spesa complessivamente basso.
Chiedeva anche quali ulteriori strumenti si possano suggerire. Dovrebbe essere riconsiderata una ripresa della politica industriale di incentivazione, che sta sparendo al Sud, mentre in tutta Europa nel corso degli ultimi anni stanno aumentando gli aiuti di Stato alle imprese: l'Inghilterra veleggia sul 2 per cento del PIL. Il centro-nord sta assorbendo maggiormente le risorse soprattutto per la ricerca e l'innovazione e potrà attingere nel frattempo anche ai 7 miliardi del Programma attuativo nazionale «Ricerca e competitività» (PAN FAS), che diventano nazionali, mentre erano prima destinati alle sole aree deboli.
Riteniamo che non una semplice variazione delle aliquote, ma una vera fiscalità di vantaggio, in grado di modificare le convenienze - perché riservata solo al Sud - sarebbe essenziale. Infatti, è stata la leva dello sviluppo per Paesi in ritardo come l'Irlanda.
L'onorevole Vico si è soffermato sulla pubblica amministrazione e sulle azioni negoziate, per ripristinare, in qualche modo, anche un corretto metodo di programmazione. Rileviamo il problema di una sede di coordinamento. Dato il quadro istituzionale, se per «negoziate» si intende la partecipazione dei soggetti, e in particolare delle Regioni, è difficile individuare il «luogo» di questa cooperazione. Ma non possiamo pensare in un'ottica centralistica, sul modello della Cassa per il Mezzogiorno.
Sul soggetto da creare, cioè un'Agenzia per il territorio, la SVIMEZ ha istituito un gruppo di lavoro. Non è facile la compatibilità con un quadro istituzionale diventato federalistico. Credo che ci sia un problema di sussidiarietà e di competenza, a geometria variabile, giacché in alcuni campi le Regioni non possono intervenire e in altri non è opportuno che lo facciano.
L'onorevole Boccia poneva il tema degli studi della Banca d'Italia. Sotto questo profilo, alcuni aspetti non emersi, nel Convegno su «Mezzogiorno e politiche regionali» dello scorso 26 novembre ma presenti negli studi dei gruppi di lavoro, danno risposta ad alcuni dei quesiti posti oggi. Ad esempio, nel caso delle grandi infrastrutture, c'è uno studio molto approfondito di Bentivogli e altri, che evidenzia la necessità di «ricentralizzare» le grandi opere, ed un altro, di Giordano ed altri, che rivela l'effetto negativo del decentramento per determinati servizi nelle zone che partivano da livelli di pubblica amministrazione «bassa», cioè di cattiva qualità, ed effetti positivi, dove i livelli erano già adeguati, e cioè al nord. Si tratta di studi che mostrano l'esigenza di una ricognizione delle funzioni pubbliche per valutare cosa debba rimanere alle Regioni e cosa al centro, stabilendo che le cose vengano realizzate da chi può farle meglio.
Infatti, per interi settori di grandi opere, come quelle della «legge obiettivo», nessuno dubita più che il meccanismo di programmazione e le capacità di progettazione degli enti locali siano insufficienti.
Gli studi della Banca d'Italia hanno evidenziato elementi molto interessanti sotto il profilo della qualità dei servizi forniti dalla pubblica amministrazione, che dovrebbero essere assolutamente presi in considerazione dai policy makers, soprattutto per quanto concerne la sanità.
Riteniamo, onorevole Boccia, che, a partire da questa analisi dei limiti derivanti dalla frammentazione, una correzione di rotta dovrebbe essere rapidamente realizzata e che esistano gli spazi tecnici per farlo: per la maggiore flessibilità della programmazione, relativa al ciclo 2007-2013 troviamo una forte frattura tra la programmazione strategica e i contenuti operativi della programmazione stessa: per cui molte risorse sono libere, forse in misura superiore a quel 60 per cento di risorse definite - con uno strano termine - ancora «non attuate». Ci sono ampi


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margini e una minore stringenza di impegni e vincoli con la Comunità europea.
Sarebbe, dunque, opportuno individuare forme di revisione della programmazione e, soprattutto, una sede in grado di progettare, e coordinare che potrebbe essere una sede cooperativa delle Regioni oppure una Agenzia cui le Regioni delegano, secondo il modello delle grandi Authorities statunitensi, che avevano dei board ai quali, gli Stati federali affidavano compiti di programmazione per poi gestire direttamente gli interventi.
La SVIMEZ sta affrontando questa materia con un apposito gruppo di lavoro presieduto dall'onorevole Maccanico, che dovrebbe produrre dei documenti al riguardo, soprattutto con riferimento alle opere nel territorio, alle infrastrutture e ai principali servizi, quali la gestione delle risorse idriche ed il trattamento dei rifiuti.

PRESIDENTE. Autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna di una nota (vedi allegato 1) e di un allegato statistico (vedi allegato 2) consegnati dal dottor Nino Novacco.
Ringrazio i nostri ospiti per il contributo fornito e dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 15,50.

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