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Resoconti stenografici delle indagini conoscitive

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Commissione VI
8.
Giovedì 29 ottobre 2009
INDICE

Sulla pubblicità dei lavori:

Cosimo Ventucci, Presidente ... 3

INDAGINE CONOSCITIVA SUL CREDITO AL CONSUMO

Audizione di esperti:

Cosimo Ventucci, Presidente ... 3 9 10 14 22 24 28
Ceccuzzi Franco (PD) ... 18
Conte Gianfranco (PdL) ... 27 28
D'Antoni Sergio Antonio (PD) ... 7 9 10 15
Pagano Alessandro (PdL) ... 16 26
Vaciago Giacomo, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano ... 3 7 9 10 22 24 26 27 28

ALLEGATO: Documentazione consegnata dal professor Giacomo Vaciago ... 29
Sigle dei gruppi parlamentari: Popolo della Libertà: PdL; Partito Democratico: PD; Lega Nord Padania: LNP; Unione di Centro: UdC; Italia dei Valori: IdV; Misto: Misto; Misto-Movimento per le Autonomie-Alleati per il Sud: Misto-MpA-Sud; Misto-Minoranze linguistiche: Misto-Min.ling.; Misto-Liberal Democratici-MAIE: Misto-LD-MAIE; Misto-Repubblicani; Regionalisti, Popolari: Misto-RRP.

[Avanti]
COMMISSIONE VI
FINANZE

Resoconto stenografico

INDAGINE CONOSCITIVA


Seduta di giovedì 29 ottobre 2009


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PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE COSIMO VENTUCCI

La seduta comincia alle 11,10.

(La Commissione approva il processo verbale della seduta precedente).

Sulla pubblicità dei lavori.

PRESIDENTE. Avverto che la pubblicità dei lavori della seduta odierna sarà assicurata anche attraverso l'attivazione di impianti audiovisivi a circuito chiuso e la trasmissione televisiva sul canale satellitare della Camera dei deputati.

Audizione di esperti.

PRESIDENTE. L'ordine del giorno reca, nell'ambito dell'indagine conoscitiva sul credito al consumo, l'audizione di esperti.
Do la parola al professor Giacomo Vaciago.

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. L'appunto che ho preparato, di cui lascerò una copia per gli atti, comincia con una riflessione, tratta dall'ultima enciclica del Pontefice, che merita la massima attenzione, al punto che l'ho trascritta nel mio studio presso l'università.
Si tratta di un brano illuminante. Dice il Santo Padre: «La crisi ci obbliga a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole, a trovare nuove forme di impegno. La crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità». Il collaboratore del Papa che ha ideato la frase è molto bravo, perché le due cose che tutti dobbiamo fare, in questo difficile 2009, sono proprio quelle indicate: discernere, ovvero cercare di capire cosa stia succedendo di drammaticamente diverso dal solito, e poi trarne le conseguenze, vale a dire pensare a una nuova progettualità.
Per dare ascolto al Pontefice ho provato a dividere in due parti il contenuto della minuta alla quale mi atterrò oggi.
La prima riguarda, appunto, il discernimento: cosa sta succedendo?
La seconda attiene all'aspetto progettuale: cosa fare per superare una crisi che - non ho bisogno di ricordarlo - è la più grave della nostra storia?
Stavolta non abbiamo colpe: ho studiato tutte le crisi del dopoguerra, e ce le eravamo meritate. Questa no: è la prima volta che il Paese cade in una crisi così grave senza averla causata. Non ci consola molto, però, se non apparentemente, il fatto di non avere colpe.
In passato, grazie alle crisi, si faceva pulizia. Innanzitutto, le crisi del passato, come ho detto, ce le eravamo meritate; inoltre, poiché punivano i «colpevoli», facevano pulizia. Questa volta, invece, se osservate la nostra industria, noterete che soffrono di più i migliori, quelli che erano stati più bravi negli anni scorsi. Lo dico sorridendo, ma spero vi rendiate conto - e, dato che contribuite al governo di questo Paese, dovreste ben rendervene conto - che ciò rappresenta un'aggravante, non un motivo di sollievo, anche perché non è affatto chiaro, tuttora, come si possa uscire dall'attuale momento sfavorevole.
Torniamo, tuttavia, al nostro tema, riservandoci di fare riferimento, di tanto in tanto, al contesto più generale.
Reputo molto appropriata l'iniziativa della Commissione, dal momento che il credito al consumo e, più in generale, il rapporto della famiglia italiana con il


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sistema finanziario - come risparmiatrice e/o come debitrice - sono temi cruciali.
Nella nostra storia, anche nei periodi di maggiore successo, l'Italia è sempre stata un Paese molto diverso da quelli di tradizione anglosassone, prevalente non soltanto nei libri di testo, ma anche come modello di riferimento. In questa sede, vorrei provare a chiarire proprio tale fenomeno.
Nella nostra storia la famiglia risparmia e porta i suoi soldi in banca, la quale, con essi, finanzia lo Stato e/o le imprese. Il nostro modello è unico al mondo. Nel modello anglosassone, viceversa, da secoli la famiglia finanzia il consumo tramite il sistema finanziario: è il consumatore che, decidendo cosa comprare, determina il successo delle imprese alle quali dà i propri soldi. Nel modello anglosassone, le imprese fanno profitti e finanziano gli investimenti, e sul mercato dei capitali finanziano il resto; nel nostro modello, le banche destinano la finanza alla produzione, ossia all'offerta, non alla domanda.
Questa è stata, soprattutto, la nostra storia nei secoli, fino a 10 o 15 anni fa. La famiglia italiana ci faccia il piacere di rimanere virtuosa e risparmiatrice, di comprare i titoli dello Stato o di finanziare, tramite le banche, le imprese!
I nostri problemi, le nostre difficoltà, negli anni Settanta e Ottanta, si riassumevano con la parola «spiazzamento», fenomeno che qualcuno teme si verifichi nuovamente negli anni a venire. Negli anni passati, il problema era stato risolto mediante una forte riduzione del debito pubblico. In altre parole, il problema è il seguente: se il debito pubblico cresce troppo, non affluiscono soldi alle imprese. Lo spiazzamento si ha quando il debito pubblico sostituisce gli investimenti delle imprese: quando le banche comprano titoli di Stato anziché dare soldi alle imprese, queste non possono investire. Tipicamente, negli anni Settanta e Ottanta, utilizzavamo il termine «spiazzamento» (nella letteratura inglese, crowding-out) per definire il fenomeno che si verifica quando il debito pubblico compromette lo sviluppo di un Paese, assorbendo il risparmio che avrebbe dovuto finanziare gli investimenti delle imprese. La letteratura individuava, appunto, la descritta alternativa.
Cito lo spiazzamento in questa sede perché, leggendo le analisi che riguardano i prossimi anni, sembra diffondersi un certo timore. Non tanto in Italia, quanto soprattutto nel mondo anglosassone, si vive oggi una stagione di enorme accumulo di debito pubblico. Il nostro debito sta crescendo meno di quello di altri Paesi. Del timore che una mancata riduzione del debito pubblico possa andare, nei prossimi anni, a scapito degli investimenti delle imprese si parla molto soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, meno in Europa e in Italia, sebbene anche da noi si sia interrotta la virtuosa azione di alleggerimento del debito pubblico avviata negli anni scorsi.
Vengo ora alla situazione attuale. Se la tradizione vedeva una famiglia italiana senza rilevanti debiti - il tasso di indebitamento delle famiglie italiane medie era irrisorio -, la tendenza si è modificata negli ultimi 15 anni, soprattutto perché anche la famiglia italiana ha cominciato a utilizzare il credito al consumo - oltre che l'investimento immobiliare - per far fronte ad una situazione nella quale il reddito reale disponibile delle famiglie non cresceva più. Siamo diventati più simili agli anglosassoni non tanto per effetto di una crescita sostenuta bensì, in gran parte, per fronteggiare una situazione di mancato incremento del reddito.
Se si osserva l'indebitamento delle famiglie italiane dagli anni Novanta a oggi, lo si vede continuamente aumentare in percentuale del reddito disponibile: dal 2000 al 2008, il debito della famiglia media italiana raddoppia, a causa del sommarsi di mutui per la casa e credito al consumo, con questa seconda componente che, tradizionalmente, cresce di più e addirittura si duplica, passando dal 30 al 60 per cento. Queste cifre sono, comunque, ben al di sotto del 150 per cento del mercato anglosassone (percentuale che incrementa ulteriormente il preesistente valore del 140 per cento).


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Il debito delle famiglie italiane passa, dunque, dal 30 al 60 per cento del reddito disponibile e diventa un problema significativo, mentre in passato era marginale. Si discuteva di debito delle famiglie solo in casi come, ad esempio, l'usura, problema che avevamo già da tempo, sebbene in misura modesta, poco significativa, più da cronaca criminale che da analisi economica. In Italia, anche nelle regioni meno benestanti, l'usura è sempre stata un problema da forze dell'ordine, non da studiosi. I provvedimenti adottati per contrastare il fenomeno dell'usura erano oggetto più di studio penalistico che di analisi economica, dal momento che la famiglia media italiana aveva per tradizione la virtù di considerare il risparmio una cosa importante.
Negli ultimi 15 anni il debito delle famiglie cresce anche in Italia, perché diventiamo - diciamo così - anglosassoni, seguiamo la moda. In parte, la crescita è fisiologica: il valore delle abitazioni aumenta, e si registra una maggiore diffusione dei mutui. D'altra parte, la crescita è anche dovuta al fatto che non aumenta a sufficienza il reddito dei giovani, i quali compensano con il finanziamento, attraverso il credito al consumo, il mancato incremento reddituale. Tale fenomeno è ricorrente nei paesi anglosassoni, ma inusuale in Italia. Più che la risposta ad un problema, è l'inizio di un problema.
Nel mondo anglosassone è considerato normale che le famiglie contraggano debiti, il che è sostenibile se l'indebitamento è in proporzione al reddito e se vi è consapevolezza degli oneri derivanti dall'assunzione del debito. Temo, invece, che in Italia si sia sviluppato, negli anni scorsi, un indebitamento non consapevole.
Quando affronto il tema dei rimedi, sono solito fare riferimento all'educazione finanziaria. Una ricerca che abbiamo condotto due anni fa, con il contributo di alcuni sponsor, ci ha consentito di scoprire che l'Italia è l'unico Paese al mondo a non prevedere forme di educazione finanziaria dei suoi cittadini. Soltanto da poco è stata avviata un'iniziativa in tal senso dal consorzio PattiChiari.
Quando presentammo i risultati al precedente Governo, il Ministro dell'economia e delle finanze dell'epoca, Padoa Schioppa (un vecchio amico), mi chiese quale grado di priorità assegnassi, fra i tanti obiettivi prefissati, a quello della promozione dell'educazione finanziaria nel nostro Paese. Io risposi che da un anno all'altro non sarebbe cambiato niente, ma che si trattava di una cosa molto importante nel lungo periodo; precisai, altresì, che sarebbe stato opportuno cominciare ad attuare il progetto al più presto, dal momento che gli effetti benefici da esso prodotti sarebbero stati visibili dopo vent'anni. A quel punto, lui rispose: «Allora non se ne fa niente». Secondo l'ex Ministro dell'economia e delle finanze, quindi, il sistema non deve investire in ciò che migliorerà il Paese fra venti anni. Io ho insistito. Ultimamente, il professor Filippo Cavazzuti, presidente del consorzio PattiChiari, mi ha riferito di avere finalmente raggiunto un accordo con il Ministro Gelmini. Quindi, si comincerà a fare qualcosa.
Ai tempi della nostra ricerca, abbiamo scoperto che numerosi Paesi si sono dotati di una legislazione in materia di educazione finanziaria, che parte già dalla scuola. Insegnare ad una persona come contrarre un debito sembra essere oggettivamente una buona idea: in tal modo, si cerca di evitare che possa andare incontro a guai, comprando, ad esempio, titoli argentini. Se l'Argentina è riuscita a fallire tre volte in un secolo, vuol dire che i titoli argentini erano acquistati ogni volta, da soggetti diversi.
Vengo ai problemi attuali.
Si osserva una crescita fisiologica dell'indebitamento delle famiglie italiane: fisiologica, innanzitutto, nel senso che è normale in tutto il mondo. Secondariamente, negli anni Duemila, quando è stata registrata una crescita dell'industria italiana, largamente finanziata da maggiori profitti, è stato risanato il debito pubblico ed è stato ridotto il debito delle imprese. Erano anni buoni: il risanamento del debito pubblico, attuato fino al 2007, ha lasciato lo spazio necessario affinché numerosi


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intermediari finanziari, nell'interesse proprio e in quello (presunto) del Paese, espandessero l'offerta di credito alle famiglie italiane, le quali lo hanno utilizzato per acquistare case, auto, motocicli, altri beni di consumo durevoli, procurandosi altresì carte di credito con le quali è stata finanziata anche la spesa quotidiana. Sono cresciuti, insomma, tutti gli elementi tipici dell'indebitamento delle famiglie. Come dicevo, si trattava, più che altro, del fisiologico riequilibrio di una situazione diventata, per alcuni aspetti, più normale che in passato.
Il problema è che, da un anno e mezzo, siamo precipitati in una grave crisi, che nasce come crisi finanziaria il 9 agosto 2007 e diventa recessione. Si verificano tanti fenomeni diversi, ma tutti assieme concorrono a spiegare perché è così grave la situazione odierna.
Scendono i valori patrimoniali e, di conseguenza, siamo meno ricchi. La crisi finanziaria si manifesta tipicamente come perdita di ricchezza: siamo tutti meno ricchi, sia i più ricchi sia i meno ricchi, perché case, azioni, titoli e via dicendo valgono meno. Questo avviene nell'agosto 2007.
Nel secondo trimestre del 2008 comincia la recessione: domanda aggregata, PIL e occupazione cominciano a decrescere.
Infine, nell'ottobre dello stesso anno, si ferma l'industria. Fino ad aprile del 2009 il prodotto dell'industria italiana cala del 25 per cento: mai successo nella storia, buona e cattiva, del Paese. Il 25 per cento è un dato medio: nella siderurgia la percentuale di diminuzione tocca il 50 per cento, mentre in alcuni settori non si osserva alcuna riduzione.
Non si tratta - si badi - di crisi del consumatore. Infatti, la spesa relativa ai consumi nei negozi non diminuisce del 25 per cento, ma soltanto del 2 per cento. Inoltre, settori come l'alimentare e il farmaceutico non subiscono alcun calo. La crisi riguarda il comparto manifatturiero e, quindi, è lontana dalla famiglia e vicina all'industria a monte. La siderurgia, come ho già detto, segna un -50 per cento. Una signora, da un anno molto attiva, Emma Marcegaglia, non è soltanto presidente di Confindustria, ma possiede anche una grossa industria siderurgica, che, come altre, non attraversa certo un momento favorevole. Anche le nostre migliori aziende hanno problemi.
La somma delle tre componenti ora evidenziate influisce negativamente sul reddito delle famiglie e crea problemi di sostenibilità del credito al consumo, ma in proporzioni molto diseguali, perché la crisi è strana.
La crisi finanziaria ha fatto perdere ricchezza agli italiani, ma è stata attuata una politica monetaria che, in quanto mai praticata, ha dell'incredibile. Ancora nel luglio del 2008 la BCE stava alzando i tassi: il 3 luglio 2008 un aumento di un quarto di punto li aveva portati al 4,25 per cento. Dall'8 ottobre 2008 al 2 maggio 2009, invece, la BCE ha portato il tasso di riferimento all'1 per cento, regalando liquidità a tutti.
La predetta politica monetaria ha dimezzato la perdita di ricchezza delle famiglie. Siamo ancora tutti più poveri rispetto a due anni fa - e qualcuno ci ha anche guadagnato, se ha comprato ai minimi - ma l'effetto povertà sulla famiglia media italiana si è dimezzato, come ho detto, grazie all'incredibile politica monetaria che tutte le banche centrali del mondo hanno attuato.
Si regala, quindi, liquidità, con la quale le banche comprano asset. Le banche non hanno erogato maggior credito, ma hanno utilizzato gli enormi afflussi di liquidità per l'acquisto di titoli di Stato e per il finanziamento di strumenti che stanno nuovamente alle spalle della ricchezza. Il valore della ricchezza non è ritornato ai valori massimi di aprile del 2007, ma ha recuperato almeno la metà, se non di più, dei cali precedenti. La crisi finanziaria è stata gestita in questo modo. Le banche centrali, da pompieri che conoscono bene il loro mestiere, quanto a liquidità, buttano acqua finché c'è ancora un po'di fumo; alla fine, quando c'è un metro d'acqua, non si può sviluppare più alcun


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incendio. Questa è la situazione in cui si trovano la finanza italiana e quella mondiale.
Il peggio è passato? Assolutamente sì. Anche la recessione è terminata, ma non è ancora chiaro come ripartiremo, perché il mondo è ancora molto fermo.
La coincidenza del ciclo italiano con la media europea è incredibile: l'Italia è indistinguibile. I miei studenti sanno che l'Italia macroeconomica non esiste più da anni. Il Regno Unito ha un suo ciclo ed è un'isola che «naviga» verso gli Stati Uniti da molto tempo.
Quando mi dicono che la recessione è iniziata nel secondo trimestre 2008 ed è terminata nel terzo trimestre 2009, ribatto che ciò è vero per i 320 milioni di persone che si trovano nell'area dell'euro. Anche in Italia si avverte una ripresa, sia pure modesta. Ad ogni modo, il peggio è passato.
Il terzo problema non è affatto risolto. Mi riferisco alla crisi dell'industria manifatturiera. Sono nei guai Italia, Germania, Francia, il mondo, fatta eccezione per i cosiddetti Paesi emergenti: a causa della crisi, Cina, India e Brasile hanno subito un rallentamento per un trimestre, ma da aprile sono ripartiti alla grande. I Paesi emergenti, insomma, emergono sul serio.
Mentre il primo e il secondo mondo sono fermi, l'industria italiana continua a soffrire e a far temere, anche per i prossimi mesi, ulteriori perdite di occupazione. Gli imprenditori non dormono la notte, ma i loro dipendenti non hanno certo motivo di essere allegri: sanno che, qualora le fabbriche fossero costrette a chiudere, il giorno prima della chiusura perderebbero il posto di lavoro. La produzione industriale non è più in caduta libera, come era avvenuto da ottobre 2008 ad aprile 2009, ma il 20 per cento di ciò che è stato perduto non sarà recuperabile né facilmente, né da tutti.
Ci si interroga sulla quantità di manifatturiero italiano che resterà nel nostro territorio e sui cambiamenti che sarà costretta ad affrontare quella parte di industria che non deciderà di trasferirsi altrove.

SERGIO ANTONIO D'ANTONI. E su quanto sarà perso per sempre.

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. Non credo si tratti di perdere per sempre: i consumatori, se non perdono il lavoro, continuano a spendere; quindi, il problema non sta nel fatto che non potremo più utilizzare auto o moto, ma semplicemente nel sapere chi le produrrà.
Negli ultimi vent'anni, per la prima volta da Adamo ed Eva, molto manifatturiero era stato spostato nei Paesi emergenti. Gli imperi del passato (austro-ungarico, spagnolo e inglese) non hanno mai trasferito la produzione nelle colonie. Dalle colonie portavano via materie prime, uomini e donne, ma le fabbriche rimanevano a Londra e a New York. Negli ultimi vent'anni, invece, si è verificata una circostanza che non ha precedenti: alcuni Paesi - anglosassoni - hanno anticipato tutti gli altri nel delocalizzare la loro produzione industriale.
L'abbiamo fatto anche noi: se andate in Romania, vi troverete moltissime fabbriche italiane. Questo dovrebbe indurre noi italiani a distinguere - gli americani lo fanno da sempre - il PIL dal GDP (gross domestic product) e dal GNP (gross national product). In altre parole, quando devo spiegare ai miei studenti cosa fanno le buone imprese italiane, chiarisco che producono in Italia e altrove, che la produzione in Italia sta nel PIL italiano e che la produzione all'estero sta nei PIL degli altri Paesi.
Inoltre, spiego loro che noi, come la Germania e altre nazioni, contribuiamo al PIL altrui più che al nostro. Trattandosi di un'opera virtuosa, non ci dovrebbe essere rinfacciata; anzi, dovrebbe costituire, per il nostro Paese, un titolo di merito: siamo così bravi che facciano crescere anche i PIL degli altri.
Le fabbriche impiantate dai nostri industriali in Romania, quando aumentano la produzione, favoriscono la crescita del PIL rumeno, non di quello veneto, ma in Veneto si realizzano i profitti. In questo modo si spiega per quale motivo i nostri


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profitti sono migliorati negli anni Duemila e perché tanti nostri soldi stanno altrove. Noi non l'abbiamo capito. Leggo ancora sui giornali che gli «spalloni» portavano i soldi dall'Italia in Svizzera. Non è vero. Li portavano in Svizzera dalla Romania, non dal Veneto; erano soldi prodotti all'estero, che all'estero restavano. Non voglio entrare nella polemica politica sullo scudo fiscale. Ci mancherebbe altro! Tuttavia, capire ciò che accade nel mondo è utile per modificare i propri comportamenti e per prendere i provvedimenti più opportuni. Se, ad esempio, vogliamo che gli introiti delle imprese italiane ubicate in Romania ricapitalizzino le aziende situate nel Veneto, dobbiamo sapere che è inutile «picchiare» le banche svizzere (come, invece, stiamo facendo).
Adesso parliamo del credito al consumo.
La crisi degli ultimi due anni, in tutti e tre i suoi aspetti - perdita di valore della ricchezza, recessione per cinque trimestri e crollo dell'industria manifatturiera -, ha reso le famiglie italiane più povere (tutte, anche le ricche, ma noi ci preoccupiamo di quelle che già erano le più povere). In molti casi, soprattutto per coloro che hanno perso il lavoro e, quindi, il reddito di base - sul quale poggiava l'indebitamento -, la crisi ha creato un problema di insostenibilità di un credito al consumo che era cresciuto molto negli anni Duemila, quando l'economia sembrava destinata a migliorare di anno in anno.
Adesso non lo ricordiamo, ma negli anni Duemila abbiamo avuto tre o quattro Governi. Non è facile, quindi, capire a chi vadano i meriti. Di solito non do pagelle ai Governi. Devo constatare, tuttavia, che negli anni Duemila, quando le famiglie si indebitavano, la situazione economica stava migliorando: poiché i prezzi delle case e le borse andavano bene, vi era la sensazione che si potesse cominciare a consumare parte del reddito futuro.
Ciò è normale non soltanto dal punto di vista del soggetto il quale sa che non perderà il posto di lavoro, ma anche sotto il profilo teorico. A Franco Modigliani, economista italiano diventato famoso negli Stati Uniti, è stato conferito il Premio Nobel per una teoria che definisce razionale consumare, nel momento in cui un Paese sta crescendo (e quindi i redditi stanno crescendo), anche parte del reddito dell'anno successivo, sempre che questo sia certo. Il consumo di un reddito futuro considerato permanente, mediante l'anticipazione da parte del sistema finanziario, è razionale: Modigliani ebbe il Nobel per questa teoria, corrispondente a ciò che vedeva succedere in America (ma che, all'epoca, ancora non si verificava in Italia).
Il problema è che quando il reddito permanente crolla, perché il soggetto perde il posto di lavoro, non si tratta più di mancata crescita, ma della scomparsa di una componente del reddito. Inoltre, mentre il valore della casa si riduce, il valore del mutuo, al di là del tipo di tasso convenuto - fisso ovvero variabile -, non è legato al valore della casa per l'acquisto della quale è stato acceso, ma tende a superarlo. Il fenomeno si è verificato negli ultimi due anni, soprattutto nei casi, purtroppo frequenti, in cui le banche hanno concesso mutui sopravvalutando gli immobili per il cui acquisto erogavano il credito. In tal modo, si poteva comprare una casa con un mutuo pari anche ad un multiplo del suo valore reale. Partendo da una situazione di bolla, se si stipula un mutuo superiore al valore della casa e, in seguito, quel valore cala del 30 per cento, l'importo del mutuo gravante sull'immobile corrisponde, di fatto, al doppio del suo valore. È chiaro che, in una simile situazione, conviene non pagare: così i problemi del mutuatario diventano problemi della banca.
Per farla breve, negli ultimi due anni, abbiamo impoverito il Paese e, soprattutto, abbiamo creato nuovi poveri. I ceti medi sono diventati meno abbienti, e i penultimi sono diventati ultimi.
I dati di cui disponiamo provengono da fonti non oggettive, le quali non sono in grado di valutare la qualità delle loro stime. La Caritas, ad esempio, è una splendida istituzione; tuttavia, poiché essa non svolge funzioni di tipo statistico, non


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è nota per la precisione delle sue stime, in base alle quali, negli ultimi tre anni, sarebbero stati creati dai 2 ai 3 milioni di nuovi poveri.
Per «povero» si deve intendere chi non è in grado di assicurarsi una vita dignitosa e ha bisogno di ricorrere all'assistenza addirittura per procurarsi il cibo (soglia che, viceversa, in un Paese ricco come l'Italia consideriamo sostenibile per definizione).
È interessante vedere com'è stata definita in Francia la soglia di povertà. Come sapete, da giugno, la Francia paga un reddito minimo garantito. Tale iniziativa, che merita uno studio, può essere citata come un ipotetico rimedio contro la povertà. In Francia è stato introdotto il più avanzato sistema di tutela sociale: è previsto un reddito minimo garantito per tutti, che perdano il lavoro o lo abbiano, che siano giovani o vecchi, e via dicendo. Il modello, che è stato sperimentato per due anni ed è diventato operativo dal 1o giugno 2009, ha sostituito tutte le precedenti misure di welfare.
Abbiamo tante cose anche in Italia, dalla cassa integrazione guadagni a molte altre; i francesi hanno superato un sistema di welfare cresciuto negli anni.
Stiamo parlando del revenu de solidarité active (RSA). Non vi sono ancora studi al riguardo, ma lo strumento è stato sperimentato per due anni in più di una trentina di dipartimenti prima di essere introdotto definitivamente. Superando tutti i precedenti schemi, lo Stato dice in sostanza al cittadino: «Tenendo conto dei figli che hai e di altri elementi, per vivere dignitosamente hai bisogno di circa 1200 o 1300 euro al mese, che ti sono garantiti. Se perdi il lavoro, ti diamo di più, sempre a fronte di quanto abbiamo deciso che meriti in base alla tua situazione».
Si tratta di un modello di welfare pensato per fare in modo che non vi siano cittadini poveri: lo Stato garantisce un reddito minimo a tutti.

SERGIO ANTONIO D'ANTONI. E quanto costa?

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. È chiaro che costa. Non ho fatto i conti, anche perché non sono uno studioso di queste cose. Comunque, le fonti ci sono e l'esperimento è in funzione.
Più volte, nel mio appunto, cito la Francia come modello. Lo farò anche quando mi soffermerò, tra poco, su un'iniziativa del Governo.

PRESIDENTE. Non hanno la cassa integrazione?

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. No, il nuovo sistema ha sostituito tutte le misure preesistenti; è un dispositivo di garanzia per il cittadino. L'acronimo «RSA» sta per «reddito di solidarietà attiva». Prima che fosse introdotto, vi erano il reddito minimo di inserimento (RMI) per i giovani, gli assegni familiari e tutta una serie di strumenti pensati per categorie di età e di bisogni. L'idea che sta alla base del reddito di solidarietà attiva è, invece, la seguente: ognuno, in base al lavoro che svolge e alla presenza o meno di altri lavoratori nel nucleo familiare, e via dicendo, ha un certo reddito; se questo non raggiunge il minimo necessario per soddisfare i bisogni essenziali, lo Stato lo integra, garantendo all'individuo o alla famiglia, anche in base al numero di figli, l'autosufficienza economica. In tal modo, anche perdere il lavoro o avere altri tipi di difficoltà economiche non costituisce più un problema per i titolari di redditi minimi.
Tornando all'Italia, vi sono due problemi: da un lato, chi perde il lavoro e/o si è impoverito a causa della crisi è in difficoltà anche sul versante del credito al consumo, che, a questo punto, diventa un problema ulteriore. Il credito al consumo concesso facilmente negli anni scorsi diventa una difficoltà in più per chi l'ha ottenuto. Nel contempo, come sempre succede in siffatte circostanze - e non solo in Italia -, è intervenuto un razionamento del credito: per tutti noi è più difficile ottenere nuovo credito, poiché la concessione


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di prestiti presenta, per la banca, una maggiore rischiosità.
In Italia si è discusso molto, in passato, proprio su quest'ultimo aspetto. Nella letteratura anglosassone il razionamento del credito è la conseguenza logica dell'affermazione di un modello di banca avversa al rischio, che nega il credito se ha ragione di ritenere che un cliente è troppo rischioso, anche se questi è disposto a corrispondere tassi d'interesse più elevati (perché sa che comunque non li pagherà). Pertanto, all'università insegniamo la teoria secondo la quale il razionamento del credito non è un difetto, bensì la logica conseguenza dell'avversione al rischio del bravo banchiere, che non deve dare soldi a chi ritiene non meritevole di ottenerli. Il fatto che il credito venga negato non è un difetto, ma un ovvio connotato del sistema. Se non si vuole che succeda, si devono introdurre altri elementi - tra poco dirò quali -, atti ad evitare che il singolo sia trattato come non merita.
La teoria del razionamento del credito, tipica dei Paesi anglosassoni, non parte dalla premessa che i banchieri sono cattivi né, tantomeno, presuppone che le banche italiane siano peggiori di quelle inglesi o statunitensi.
Peraltro, la diffusione del razionamento del credito può segnalare un difetto del sistema: il banchiere che non sa fare bene il suo mestiere, che non sa valutare bene se il cliente meriti il credito oppure no, nel dubbio glielo nega, così dorme tranquillo. Ebbene, abbiamo ragione di ritenere che le nostre banche abbiano perso la capacità di conoscere bene i loro clienti, di concedere affidamenti con professionalità, vale a dire sulla base di un'attività conoscitiva volta al reperimento delle informazioni rilevanti. Il fatto è che tale capacità derivava dal radicamento nel territorio. Infatti, qualcuno sostiene che la virtù di cui stiamo discorrendo è stata persa per effetto delle grandi concentrazioni realizzate a partire dagli anni Novanta.
Il razionamento del credito può diventare, quindi, un difetto del sistema quando le banche finiscono per non concedere credito a chi meriterebbe di ottenerlo.
Bisogna, però, fare attenzione: se vi è stato un impoverimento o se un lavoratore ha perso il posto, il problema non sta nel fatto che gli viene negato il credito, perché la concessione di credito non potrebbe mai risolvere i suoi problemi di povertà. Nessuno può auspicare che si prestino soldi ai poveri, i quali sono, per definizione, bisognosi di lavoro e di reddito, non di debito. Permettere ai poveri di contrarre debiti significherebbe aggravare i loro problemi e non farli dormire più la notte.
Vale, quindi, la regola secondo la quale ciascun problema deve essere risolto singolarmente. Se ritenessimo che il problema del credito al consumo si sia aggravato, negli ultimi anni, soltanto per effetto delle nuove povertà e dei posti di lavoro perduti, occuparsi del credito non avrebbe senso: meglio sarebbe occuparsi di come porre rimedio alla povertà e di come salvaguardare i precari che perdono il lavoro.
Credo che il razionamento del credito sia dovuto, in parte, ad ignoranza dei banchieri: se non sai fare bene i fidi, se hai perso il contatto con il territorio, la soluzione più semplice è, nel dubbio, quella di negare il credito. In questi casi, però, è chiaro che i rimedi da ricercare sono di altro tipo. In particolare, non serve costituire nuove banche - come adesso è di moda -, dando per scontato che esse sapranno comunque fare bene, perché il mestiere di banchiere si impara in vent'anni, non in due giorni.
Bisognerà tornare a ragionare con una logica mutualistica. Anche l'ignoranza è correggibile con appositi strumenti (Commenti). Ho detto qualcosa che desta ilarità?

SERGIO ANTONIO D'ANTONI. Sulle banche ha indovinato!

PRESIDENTE. D'Antoni è contrario alla Banca del Sud, ovviamente.

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. La Banca è «del Mezzogiorno», non «del Sud», perché questa già esiste e non si può farne un'altra.


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Apprezzo tutte le innovazioni e anche le aggiunte. Ho fatto una battuta sulla Banca del Mezzogiorno perché, dato che ci vogliono trent'anni per fare una buona banca, la lungimiranza merita un plauso. Tuttavia, se mi si dice che con la nuova banca risolveremo i problemi dei prossimi anni, allora mi si deve indicare qualche precedente, perché nella storia dell'umanità le cose grosse, importanti e serie hanno bisogno di tempo per produrre benefici.
Ci sono cose su cui vale la pena di riflettere. È vero che abbiamo problemi di razionamento del credito e che un sistema bancario molto concentrato perde, almeno in parte, la capacità di valutare il rischio di credito sul territorio. Il rimedio, però, non è quello di fare una banca per ogni comune.
Quando il difetto riguarda l'informazione, la soluzione può essere di due tipi. Innanzitutto, nel dubbio, occorre investire in conoscenza, perché sapere se un cliente meriti o meno il credito è fondamentale per fare bene il banchiere. Se vengono in considerazione mille clienti piccoli, poiché costa troppo sapere se ciascuno di essi sia o meno meritevole di ottenere credito, la teoria ha già trovato una soluzione: quella di tipo mutualistico-assicurativo. Insomma, per una famiglia che si indebita di qualche migliaio di euro, nel qual caso il fido costa di più, il rimedio non è investire in risorse professionali. Il fatto che la banca sia nuova o vecchia non è un problema: oltre a crearne di nuove, si possono anche migliorare le banche esistenti.
Se su mille prestiti otto non vengono rimborsati, con la polizza assicurativa il rischio di credito è coperto mediante uno strumento di tipo cooperativo, mutualistico, assicurativo. Il modo di ragionare è tipico dei grandi enti finanziari che rilasciano carte di credito internazionali a chiunque (esagero volutamente, perché ciascuno di noi crede di essere diventato importante se ne ha una in tasca): poiché sanno bene che il 3 per cento di commissioni non li ripaga, spalmano sull'universo della clientela l'onere dei costi causati da chi imbroglia. In una società di massa non si può certo monitorare il comportamento di milioni di clienti per essere sicuri che l'allocazione delle risorse sia perfetta. Un sistema tanto costoso non avrebbe senso; perciò occorre trovare soluzioni alternative.
Le mie ultime riflessioni riguardano i rimedi.
Se i problemi del credito al consumo sono riconducibili all'aumento della povertà, il rimedio non è quello di incrementare il credito. La cosa peggiore che può succedere ad un povero è essere costretto a contrarre nuovi debiti: in questo modo lo si istiga al suicidio. Analogamente, se i problemi del credito al consumo sono connessi anche ai licenziamenti operati dalla grande industria siderurgica, non possiamo risolvere i problemi della siderurgia attraverso il credito al consumo: è chiaro che dobbiamo domandarci cosa occorra per evitare la deindustrializzazione del Paese.
Tuttavia, vi sono alcune indicazioni utili riguardanti proprio l'oggetto dell'indagine conoscitiva che la Commissione ha molto opportunamente deliberato di svolgere.
In questo Paese, più che in altri, si avverte sicuramente la mancanza di educazione finanziaria. Per questo motivo, sono importanti le iniziative come il progetto PattiChiari, che l'ex senatore Cavazzuti ha portato avanti con ABI. Come ho accennato, ci avevo provato anch'io con Padoa Schioppa, ma avevo fatto un buco nell'acqua. Costituisce chiaramente un problema il fatto che una parte significativa dei nostri trentenni non conosca i rischi del credito e nemmeno la differenza fra mutui a tasso fisso e a tasso variabile.
In questo momento, abbiamo i tassi più bassi della storia, il che, per un economista come me, significa che possono soltanto salire. Chi fa debiti a tasso variabile oggi, lo sa che, se torniamo a condizioni normali, fra tre anni i tassi saranno almeno il doppio di quelli attuali? Un tasso di riferimento della BCE all'1 per cento è assurdo, è un tasso da crisi. I tassi normali della BCE negli ultimi dieci anni sono stati


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al 4 per cento. Pertanto, stipulare oggi un mutuo a un tasso variabile significa affidarsi alla speranza: se va tutto bene, nei prossimi anni i tassi raddoppieranno. Una persona non può illudersi che a lei vada tutto bene e che il Paese rimanga in crisi per vent'anni: è statisticamente difficile.
Questo la gente lo sa? Io temo che, in questo Paese, della finanza in generale, nonché dei rischi che si corrono in un mondo globale invaso da strumenti che gli stessi esperti faticano a capire, i cittadini sappiano ben poco. È bene, quindi, che si informino.
Era rimasto in sospeso il discorso relativo a un'iniziativa del Governo. Anche in questo caso cito la Francia come un modello da cui non riusciamo a copiare. Un anno fa, il Presidente Sarkozy ha inventato uno splendido strumento: il mediatore del credito alle imprese. Sarkozy mette a disposizione di questo signore e dei suoi collaboratori le prefetture, dove un dirigente della Banca di Francia, all'insegna della massima riservatezza, dispone di tutto ciò che serve per far funzionare il servizio.
Il Médiateur national du crédit è un personaggio amico del Presidente. Qui si vedono le virtù della Francia. L'organo ha sede presso le prefetture, dove il prefetto offre soltanto il tè o il caffè. Ve ne faccio la caricatura per spiegare perché il nostro sistema, al contrario di quello francese, non funziona. Il sistema è gestito dalla Banca di Francia ed è garantita la massima riservatezza. Non si deve sapere nulla di ciò che accade: la piccola impresa che ha una lamentela nei confronti della sua banca deve potersi presentare in una stanza dove, come in un confessionale (così si usava, una volta, in questo Paese), può raccontare i suoi problemi, mentre le offrono un tè o un caffè, al mediatore dipartimentale, che è un banchiere, non un prefetto.
Il prefetto è sicuramente il meglio che abbiamo nella struttura governativa sul territorio. Tuttavia, proprio in quanto rappresentante del Governo a livello provinciale, incute soggezione; non è adatto, quindi, a fare quello che una legge dello Stato gli chiederebbe di fare per risolvere i problemi del credito sul territorio. Infatti, l'iniziativa è stata un fiasco totale: per forza, perché già il modello non va bene. Non si può dire ai clienti delle banche, i quali si ritengano danneggiati nell'erogazione del credito, di scaricare un modulo dal sito del Ministero dell'economia e delle finanze, di compilarlo e di trasmetterlo alle prefetture competenti: non è così che si fa. La letteratura è molto chiara: l'effetto stigma - così viene definita, nel gergo degli studiosi, la marchiatura atta a generare discriminazione, come accadeva un tempo agli ebrei - determina il fiasco di un provvedimento. Poiché si finisce praticamente bollati, nessuno userà mai lo strumento dell'istanza di riesame, da trasmettere alle banche per il tramite delle prefetture. Al limite, lo faranno quattro gatti. Chi si orienterà in tal senso dovrà innanzitutto scaricare dal sito del Tesoro l'apposito modulo (diverso a seconda che si tratti di famiglia o di impresa), che sarà gestito da sua eccellenza il Prefetto; successivamente, dovrà prendere un appuntamento, facendolo sapere a tutti.
Il provvedimento, presentatoci come quello che avrebbe risolto i problemi sul territorio, non è confrontabile con il modello francese, nel quale il Médiateur national du crédit è un privato, amico del Presidente della Repubblica, mentre i médiateurs départementaux (che sono direttori dipartimentali della Banca di Francia) stanno in un ufficio, a disposizione dei cittadini, per telefonare al banchiere e convocarlo amichevolmente. Insomma, nel sistema francese, è la Banca di Francia il vero bastone in mano alle imprese, non il Prefetto, che non è credibile se non in situazioni emergenza. I Prefetti servono per le alluvioni - ne parlo con grande rispetto -, ma non sono in grado di risolvere controversie sul credito.
Noi, purtroppo, abbiamo copiato male il modello francese, che nei momenti di crisi è utile. Tutte le nostre piccole imprese, ma anche le famiglie, anziché andare a Porta a Porta, dovrebbero avere la possibilità di discutere dei propri problemi


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con un soggetto operante con spirito di mediatore, non con un osservatorio sul credito regionale, gestito dai Prefetti all'insaputa della Banca d'Italia. Se confrontate il provvedimento francese e il nostro, capirete perché quello francese, dopo un anno, ha avuto successo e, in maniera informale, ha risolto molti problemi. Le procedure all'italiana, gestite dal prefetto, non funzionano.
Abbiamo un'emergenza, consistente in gravi casi di sovraindebitamento riguardanti piccole imprese e famiglie. Questi problemi si affrontano con strumenti idonei a risolverli: con formule che assomigliano agli interventi della Caritas e dei boy scout - esagero, per capirci -, ovvero con una grande capacità di mediazione orientata verso la soluzione del singolo problema, prescindendo da tutti gli altri, evitando assolutamente effetti stigma, facendo ricorso a sospensioni di debiti e via dicendo.
Non è che non sia stato fatto alcunché: il decreto che disciplinava criteri, modalità e condizioni della sottoscrizione degli strumenti finanziari di cui all'articolo 12 del decreto-legge n. 185 del 2008 (i cosiddetti Tremonti bond) prevedeva già un protocollo di intenti contenente impegni delle banche nei confronti delle piccole e medie imprese. Le sole banche aderenti all'iniziativa prevedevano, quindi, formule di moratoria dei debiti a favore delle predette imprese. Il Governo e l'ABI hanno convenuto con Confindustria che la moratoria dovesse estendersi alla pluralità delle banche. L'accordo è già stato raggiunto e lo strumento è esteso all'universo delle piccole e medie aziende. Qualcosa, quindi, è stato fatto.
Nulla di analogo è stato previsto, tuttavia, a favore dei lavoratori. L'ABI ha proposto di estendere la moratoria ai mutui stipulati da lavoratori in cassa integrazione o che hanno perduto il posto di lavoro. Pertanto, sia pure con qualche ritardo e con negoziati che - immagino - non devono essere stati facili, si sta mettendo a punto un modello secondo il quale coloro che hanno problemi - soprattutto licenziamento e cassa integrazione, che sono due problemi seri - possono ottenere per 12 mesi la sospensione, senza oneri e simili, delle rate dei mutui. La moratoria non riguarderà il credito al consumo e non sarà rivolta a tutti, ma soltanto alle menzionate categorie.
Non è stato previsto alcun intervento che riguardasse, più in generale, i casi di povertà, perché noi continuiamo a ragionare, come accade da sempre, secondo canoni sindacalistici. Questo Paese, essendo stato molto sindacalizzato in passato, continua a ragionare come se il sindacato ci fosse ancora: cosa che, come sapete, non è più vera. È una battuta, onorevole D'Antoni, ma quando vedo che i sindacati e l'ABI si mettono d'accordo sulla moratoria dei mutui a favore di cassintegrati e disoccupati, mi dico: «Ecco, è il ricordo del nostro sindacalismo che continua a produrre effetti».
Mentre i francesi guardano al cittadino, noi continuiamo a pensare soltanto ai lavoratori. Che si tratti di un sottoinsieme nobile di cittadini va da sé, ma non possiamo continuare a ragionare come se le crisi riguardassero solo i lavoratori. E gli altri? E i figli? E i cittadini? L'accordo tra ABI e Confindustria si applica, by definition, ai soli lavoratori.
Sia pure in ritardo, e in misura parziale, stiamo affrontando una serie di problemi posti dall'eccessivo indebitamento delle famiglie, ma il sistema si presenta frantumato e con diseguali livelli di efficacia. Questa è, fondamentalmente, la mia critica. L'ipotesi che i prefetti risolvano i problemi creditizi delle piccole imprese non era credibile in partenza e, nei fatti, non ha funzionato. Avremmo dovuto operare con un modello molto più simile a quello francese, idoneo a garantire riservatezza, massima confidenzialità, intervento di un soggetto non pubblico.
Pensate all'effetto stigma: se si viene a sapere che un imprenditore va in prefettura per un problema, immediatamente le banche italiane gli bloccano i fidi. Questi casi vanno gestiti con la massima riservatezza, altrimenti lo strumento pregiudica


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la soluzione. Nella letteratura si parla da tempo di tale fenomeno, che quindi dovrebbe essere conosciuto.
Quanto al problema dell'eccessivo indebitamento delle famiglie italiane, che la crisi ha reso manifesto, stanno arrivando, con qualche fatica, qualche ritardo e qualche disuguaglianza, alcuni provvedimenti che potranno migliorare la situazione.
Desidero concludere la mia riflessione con una battuta: se questo Paese tornerà a crescere, il credito al consumo crescerà molto più di quanto è avvenuto in passato. Di conseguenza, è bene sapere che, in futuro, sarà utile predisporre provvedimenti che lo rendano uno strumento di crescita e non un problema in periodo di crisi. Mi riferisco a correttivi di tipo assicurativo, mutualistico e informativo. Il sistema dovrà acquisire la capacità di dare alle famiglie il credito utile - che non è un difetto -, a maggior ragione se anche in Italia, in futuro, guarderemo di più a un'economia guidata dai consumatori e non dall'offerta dei produttori, come tradizionalmente è sempre avvenuto.
Non è un caso che nel capitalismo americano tutto il sistema sia basato sul finanziamento delle famiglie: il Governo fa in modo che le famiglie abbiano potere di spesa, perché sono loro, almeno in teoria, l'arbitro del successo delle imprese.
Noi abbiamo fatto affidamento sulla convinzione che i banchieri avrebbero finanziato bene le industrie giuste, i cui prodotti la gente avrebbe acquistato. Abbiamo sempre ragionato in questi termini: le banche devono saper dare credito a quei grandi imprenditori che si dimostrano capaci di vendere i loro prodotti.
Quello americano è un capitalismo un po' diverso dal nostro, ma anche noi stiamo andando verso quel modello. In Europa, quando le cose funzionano, è possibile rendersene conto osservando l'andamento del mercato automobilistico o, più in generale, di quelli concernenti beni che sono già più europei. Ad esempio, l'auto è un bene più europeo. Infatti, le industrie che producono automobili sono in competizione tra loro, e le famiglie scelgono cosa acquistare.
Le autovetture che circolano in Italia non sono soltanto quelle prodotte dalle nostre industrie; in altre parole, non è più come una volta, quando in Italia, in Francia e in Germania circolavano solo auto di produzione nazionale. I mercati in cui l'Europa è riuscita a mettere insieme una domanda europea sono tipicamente quelli dei beni durevoli, a cominciare dall'auto. Nel settore alimentare, invece, i gusti degli italiani sono ancora diversi, ad esempio, da quelli francesi: non è irrilevante la differenza tra il prosciutto e il foie gras; quest'ultimo è, tuttora, maggiormente consumato in Francia.
Il leasing è lo strumento che, in questi anni, ha garantito agli italiani la possibilità di scegliersi l'auto che preferivano, ovunque essa fosse costruita. Essendo questa la tendenza, devo immaginare che, quando il mercato ripartirà, sebbene Marchionne sia bravo, ciascuno di noi deciderà se comprare o meno una FIAT.
Si tratta di prendere atto di una realtà: è il credito che consente agli italiani di decidere quale automobile acquistare. Poiché questo è il futuro, un ragionamento sul credito al consumo rimane molto importante.
Chiedo scusa se ho parlato troppo.

PRESIDENTE. Anche a nome del presidente Conte, la ringrazio, professore, perché ho avuto modo di ascoltare una bellissima lezione. Io sostenni l'esame di economia politica con il professor Quirino Paris: può immaginare, quindi, quali differenze vi siano tra la realtà di allora e quella di cui lei ci ha parlato oggi.
Il paragone tra il sistema italiano e quello americano ci riporta al concetto di common law, non estraneo ai grossi disastri nei quali siamo stati coinvolti, che una produzione normativa basata sul civil law di derivazione romanistica avrebbe probabilmente evitato.
Tenendo conto del fatto che parliamo di banche la cui attività è stata disciplinata, fino a poco più di quindici anni fa (e per una piccola parte ancora oggi), da una legislazione del 1936, constatare che i francesi hanno fatto meglio di noi ci porta


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ad affrontare, come giustamente ha fatto lei, professore, il discorso relativo all'educazione finanziaria. Poiché lei queste cose le insegna, non le porrò alcuna domanda, ma le chiedo di perseverare. Se non cominciamo a diffondere l'educazione finanziaria già a partire dalle scuole e se, anche come Parlamento, non cominciamo a tralasciare il quotidiano e a proiettarci nel futuro, andremo sicuramente a ramengo.
Alcuni Stati membri dell'Unione Europea dispongono di capitali incredibili perché hanno gestito colonie fino a vent'anni fa. Noi nelle colonie siamo andati a fare le strade. Non sapevamo che in Libia c'era il petrolio: siamo andati a compiere azioni umanitarie. Altri, invece, hanno depredato i territori sottomessi delle loro materie prime. Nazioni come il Belgio, con 14 milioni di abitanti, e l'Olanda, con 16 milioni di abitanti, stanno meglio di noi perché i beni che hanno trovato nelle colonie se li sono portati a casa (le aziende del Katanga rispondono, ovviamente, ai belgi e agli olandesi). Per non parlare, poi, degli inglesi, dei francesi, degli spagnoli e dei portoghesi!
Noi ci troviamo, dunque, in una situazione un po' particolare: siamo ancorati, ingessati.
Do ora la parola ai deputati che intendano porre quesiti o formulare osservazioni.

SERGIO ANTONIO D'ANTONI. Ringrazio il professor Vaciago, che conosco bene da tempo. Tra l'altro, avendolo incontrato in più occasioni per motivi di lavoro, durante la mia attività di sindacalista, ho avuto modo di apprezzarne anche le capacità, la preparazione e l'acume. Da questo punto di vista, sono veramente contento che abbia potuto apportare alla nostra indagine conoscitiva il prezioso contributo delle sue considerazioni e indicazioni.
Poiché l'argomento da trattare è già vasto, resisterò alla tentazione di ampliarlo ulteriormente. Mi piacerebbe entrare nel dibattito attuale e porre tutta una serie di domande: qual è la politica economica che dovremmo mettere in atto? Bisogna rischiare sul debito oppure no? Quanto tempo ci vorrà per ripristinare la ricchezza che abbiamo perduto? La perdita di ricchezza verificatasi non aggraverà il problema del debito? Si tratta di domande che richiederebbero un'apposita audizione. Siccome non voglio portare via troppo tempo né alla Commissione né a lei, professore, mi soffermerò su due questioni che ritengo essenziali.
Il meccanismo - che lei ha spiegato bene, professore - relativo alla perdita di ricchezza e al dimezzamento della perdita stessa per effetto della politica monetaria attuata dalla BCE, dalla quale abbiamo comunque ricavato un vantaggio, pur nella drammaticità della crisi, ha creato ulteriori disuguaglianze in un Paese che era già caratterizzato da profonde sperequazioni.
A mio avviso - ma vorrei sentire il suo parere - bisognerebbe ripartire proprio da qui, perché il vero problema è che, in un contesto nel quale il Paese ha perduto parte della propria ricchezza, si sono aggravati i problemi che avevamo già, come le disuguaglianze tra Nord e Sud ovvero tra ceti deboli e ceti forti.
Mentre altri Paesi, come Francia e Germania, si stanno riorganizzando, noi stentiamo a riconoscere il problema, anche nel dibattito politico. Se non elaboriamo una strategia per affrontare la questione delle disuguaglianze, rischiamo di aggravare il divario, già oggi ben visibile, tra chi ha un futuro e chi non lo ha e di uscire dalla crisi ancora più disuguali. Questo è il primo problema che desideravo porre.
Il secondo è legato alla questione del credito. Premesso che condivido molto ciò che ha detto al riguardo, professore, ritengo che i temi più rilevanti siano quelli di cui ci ha parlato alla fine del suo intervento. I Tremonti bond avevano tutte le garanzie, ma poiché costavano troppo non erano appetibili. Inoltre, quando abbiamo tentato di stabilire alcune regole - un po' dirigistiche, ma giuste - relativamente alla data di valuta per il beneficiario di bonifici e assegni, c'è stata una sollevazione del sistema bancario, che è


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riuscito a farle cancellare. Dobbiamo fare in modo che il sistema rispetti le regole del mercato, ma fino a quando non potremo stabilire regole certe e non faremo qualcosa per diffondere l'educazione finanziaria il cittadino resterà indifeso.
Ho fatto l'esempio della data di valuta per bonifici e assegni proprio perché è quello che rende maggiormente l'idea, ma avrei potuto farne altri mille riguardanti le imprese e la famiglia. Nel caso che ho citato, però, era evidente la speculazione. Come pensiamo di difendere il cittadino se temiamo di essere tacciati di dirigismo e se non promuoviamo l'educazione economica?
Se non facciamo qualcosa, il più debole resterà veramente indifeso. Per Zunino e per il gruppo Risanamento, o per Zaleski, una soluzione si trova: si fanno i cartelli e si trovano tutti i soldi che occorrono, prescindendo anche dagli errori che qualcuno ha potuto commettere. Quando, invece, i problemi li ha un povero cristo - famiglia o impresa -, non c'è tutela.
Lei, professore, ci ha parlato delle virtù del sistema francese, nel quale una vera concorrenza tutela i soggetti più deboli. Da noi, invece, i più deboli non sono affatto tutelati.
Avrei tante altre cose da dire, ma mi astengo dal farlo per non rischiare di invadere altri campi e di prolungare oltre misura la nostra discussione.

ALESSANDRO PAGANO. Innanzitutto, rivolgo un ringraziamento al presidente per questo momento di incontro che ci ha permesso di svolgere una riflessione di grande profilo e, soprattutto, illuminante.
Secondo me, è possibile indicare un fil rouge: per risollevarsi e per rinascere, l'Italia deve continuare a investire nel lungo periodo. La crisi del Paese è emblematicamente rappresentata dal nostro sistema contabile: si fa sempre meno attenzione allo stato patrimoniale e sempre più, invece, al conto economico. Accade da anni negli Stati Uniti e nei Paesi anglosassoni, i quali, proprio per questo motivo, sono stati colpiti dalla crisi in maniera violenta. Ora abbiamo cominciato ad americanizzare anche le nostre abitudini contabili: per avere risultati economici adeguati, facciamo attenzione esclusivamente al breve periodo.
Professore, non soltanto la relazione mi ha convinto, ma ritengo che l'impostazione proposta sia adeguata e vincente. Al di là delle occasioni che si presenteranno per aggiustare il tiro e per migliorare il più possibile la nostra risposta alla crisi in atto - che, secondo il mio modesto parere, e non sono certo il solo a crederlo, è stata data in maniera adeguata dal nostro Governo -, è indispensabile capire cosa fare per rilanciare il Paese e per farlo tornare di nuovo come era fino a qualche decennio fa.
Immagino sicuramente, nei prossimi vent'anni, un investimento che abbia a che fare con la famiglia, la quale non dovrà più essere vista, secondo la cultura anglosassone, come un limone da spremere. Noi siamo diversi. Il nostro Paese era abituato a risparmiare, mentre oggi c'è una tendenza culturale che lo porta, invece, a consumare. Tuttavia, questo comportamento non è né nel DNA né nella cultura del nostro Paese: qualora seguissimo l'impostazione anglosassone non potremmo fare altro che sprofondare sempre più. Credo che l'attuale Ministro dell'economia e delle finanze stia dimostrando la volontà del Governo di non far andare il Paese verso una simile deriva.
Ciò premesso, pongo la mia prima domanda: al di là dei miliardi di euro di investimenti che porterebbero benefici tra 15 o 20 anni, quindi per la prossima generazione, bisogna investire sul quoziente familiare, anche in riferimento all'argomento di cui stiamo discutendo oggi?
Il secondo gruppo di domande riguarda i prossimi vent'anni. Mi riferisco all'educazione finanziaria, e le chiedo: si sta facendo qualcosa? L'onorevole Ventucci le ha rivolto l'invito a perseverare nel suo lavoro, ma gli sforzi personali non possono bastare: deve aggiungersi l'impegno del sistema. Inoltre, quali costi avrà una legge che porterà benefici nei prossimi vent'anni? E che tipo di impostazione dovrà avere? Le azioni da svolgere saranno


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di tipo pedagogico, ma la pedagogia dà frutti quando il bambino diventa uomo.
Mi sembra di poter dire che lei, professore, sta fornendo un assist a questa Commissione. Tuttavia, se appare indispensabile impostare qualcosa sotto il profilo legislativo, bisogna anche capire quali saranno i costi e come dovrà essere affrontato il problema. Ebbene, poiché lei ha posto l'accento, all'inizio del suo intervento, sull'aspetto progettuale, ci aspettiamo che il suo dipartimento ci suggerisca qualche soluzione alla quale sia possibile dare veste legislativa.
Le banche costituiscono un ulteriore elemento di interesse. Anche da questo punto di vista, professore, penso sia stato corretto il ragionamento da lei sviluppato, che bisognava seguire con attenzione fino alla fine.
Se ho capito bene, lei ha detto che la Banca del Mezzogiorno è indispensabile. Da siciliano, ho assistito alla fagocitazione di tutto il sistema bancario isolano, pagato sei o sette volte il suo valore reale. Ovviamente, a chi ha venduto non si può rimproverare di avere speculato e guadagnato, dal momento che chiunque avrebbe approfittato della situazione favorevole per vendere a un prezzo eccessivo rispetto al valore effettivo. Tuttavia, quel sistema bancario - che funzionava, nonostante le tante difficoltà nelle quali si dibatteva il Sud negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta - non esiste più. Decine e decine di banche sono state fagocitate - il termine è quello più appropriato -, ma oggi bisogna ripartire. Certo, gli effetti benefici delle iniziative che assumeremo si vedranno nel lungo periodo, ma ha ragione il Ministro Tremonti quando sottolinea che, se si resta inerti, si rischia di non vedere mai realizzati i risultati sperati.
A tale proposito, sarei dell'avviso che questa Commissione debba intestarsi una politica a favore delle banche di credito cooperativo, in modo da dare inizio ad una stagione di fioritura di nuove e vantaggiose iniziative all'interno di tale ambito. Mi piacerebbe, professore, conoscere la sua opinione al riguardo. D'altra parte, se è vero che, per imparare il mestiere di banchiere, un'azienda dalle dimensioni notevolissime come quelle dei grandi istituti di credito impiega anche decenni, è verosimile che un piccolo istituto di credito con a capo un buon direttore, magari con un bagaglio di esperienze dello stesso tipo, possa impiegare molto meno tempo. In un'ottica di investimento nel lungo periodo, non si tratta di una soluzione tampone, ma di un primo passo, di un primo tassello, anzi di un caposaldo, a cui altri dovranno aggiungersi.
Per quanto riguarda il Médiateur du crédit, in Francia lo strumento ha funzionato. Se ho capito bene, professore, lei suggerisce di riprodurlo pedissequamente. La proposta, ovviamente, mi sembra formulata in termini assolutamente convincenti. Anche sulla scorta delle informazioni reperibili nei siti Internet francesi, si potrebbe valutare in quale modo il Médiateur du crédit ha funzionato oltralpe. Le chiedo, professore, di farci avere, se possibile, anche qualche dato statistico. La figura del Médiateur du crédit esiste, se non sbaglio, da un anno, un arco temporale sufficiente per capire se e quali risultati abbia prodotto.
Non hanno ancora un anno, invece, le disposizioni recate dal decreto-legge n. 185 del 2008. Fra due o tre mesi, quando l'arco temporale di applicazione del provvedimento raggiungerà l'anno, si potrà fare un confronto. In tale occasione, tenendo nel debito conto le differenze culturali, potremmo anche maturare la convinzione che la strada da seguire sia quella indicata. Il tentativo è stato chiaramente ammirevole, ma probabilmente il risultato non è stato pari alle attese.
Per quanto concerne il rifiuto dei Tremonti bond da parte dei grandi istituti di credito, non posso assolutamente concordare con il collega D'Antoni quando afferma che tanto si fa pagare alle imprese un costo più alto. Non si capisce perché le banche dovrebbero accettare un'operazione svantaggiosa per loro dal momento che, da un punto di vista contrattuale, hanno già il potere di scaricare su altri i loro costi. Solo questo è il motivo per cui il progetto è fallito.


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Tuttavia, professore, lei sostiene che questo passaggio è interessante perché possiamo fare la stessa cosa con le famiglie. Poiché questo punto non mi è del tutto chiaro, mi farebbe piacere avere qualche spiegazione più dettagliata. Forse ero distratto, oppure non ho prestato sufficiente attenzione. Vorrei capire meglio cosa intendesse dire.
A margine del ragionamento, esprimo una curiosità: le altre crisi che ci siamo meritati appartengono alla nostra storia economica; professore, mi piacerebbe ascoltare qualche sua considerazione sulle crisi precedenti.

FRANCO CECCUZZI. Signor presidente, anch'io desidero esprimere il mio apprezzamento per il contenuto della relazione del professor Vaciago, con il quale sono assolutamente d'accordo sia sulle valutazioni espresse in merito agli strumenti che il Governo ha messo in campo per fronteggiare la crisi - non occorre che entri nei particolari - sia con specifico riferimento ad alcune considerazioni che ci stimolano a guardare in prospettiva.
Ad esempio, per quanto riguarda l'educazione finanziaria, vorrei sapere, professore, cosa pensa della direttiva MiFID a due anni dalla sua entrata in vigore. Cosa si può fare, di meglio e di più, per riavvicinare i risparmiatori agli investimenti, specialmente in una fase in cui il congelamento dei conti correnti è una pratica molto diffusa? La paura induce a non investire, con la conseguenza che viene meno una parte di integrazione al reddito. Credo che all'aumento delle disparità, sotto il profilo della distribuzione della ricchezza, abbia contribuito anche l'inaridimento di tale canale. Come pensa che si possa sbloccare la situazione? Oltre che preoccuparci dei fenomeni di sovraindebitamento e degli effetti perversi del credito al consumo, dovremmo anche pensare alla sostanziale crisi del nostro risparmio gestito, che aveva già subito un duro colpo prima della crisi e che tuttora si trova in una condizione molto difficile.

GIANFRANCO CONTE. Professore, oggi abbiamo ascoltato un'analisi socioeconomica che in parte condivido.
Ricordo che qualche anno fa, nel corso di un'indagine conoscitiva sul credito al Mezzogiorno, ebbi un dissidio con Corrado Passera, il quale difendeva le concentrazioni nel settore bancario. Io sostenevo che andare in tale direzione, vale a dire verso la non contendibilità delle banche, avrebbe prodotto, nel tempo, una desertificazione del territorio: le nuove strutture sarebbero diventate talmente grandi da allontanarsi sempre di più dal cliente finale, dal consumatore.
In realtà, il tema dell'audizione era diverso. Non volevamo occuparci di macroeconomia o di andamento del settore creditizio, né desideravamo effettuare valutazioni riguardanti il funzionamento degli osservatori sul credito. Peraltro, lei sa bene, professore, che gli osservatori sono falliti semplicemente perché le strutture che fanno capo alle prefetture hanno inteso concentrare l'attività a livello regionale.
A suo tempo osservai che si commetteva un errore, perché bisognava avvicinarsi ancora di più ai cittadini e alle imprese sul territorio. A mio avviso, gli osservatori dovevano fungere quasi da buca delle lettere, per ricevere reclami il cui contenuto, rigorosamente anonimo e organizzato in dati aggregati, avrebbe dovuto rivelare l'andamento del credito nei diversi territori. Ciò non è stato fatto. Quando siamo passati alla fase operativa - non dobbiamo dimenticarlo - abbiamo constatato che le strutture messe in campo (ministeriali, prefettizie e via elencando), anziché ricercare e applicare le metodologie che porterebbero più vicino alla soluzione dei problemi, preferiscono non fare.
Inoltre, il sistema bancario si pone in maniera non proattiva - in questo sono d'accordo con lei, professore - nei confronti del mercato. Qualche giorno fa, discutendo con i vertici di UniCredit, ho sostenuto che quella della moratoria è una pessima idea, per le stesse ragioni che indicava lei, professore, ossia per l'effetto


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stigma. A fronte di un invito specifico proveniente dalla banca, che assume l'iniziativa, portando a conoscenza dei clienti la possibilità di usufruire di una moratoria, gli imprenditori interessati si avvicinano allo sportello. Quale imprenditore, invece, va a rendere noto che ha un problema, con la certezza che il giorno dopo gli revocheranno tutte le linee di credito?
A proposito di educazione finanziaria, ritengo che PattiChiari sia un fallimento clamoroso, come ho detto anche a Giuseppe Zadra. È stato affermato che si tratta di un'apertura delle banche, di una sorta di disclosure mediante la quale si comunica di essere in grado di garantire alcune cose. Tuttavia, nessuno si è mai impegnato a rendere noto ciò che una banca può o non può fare, e in questa mancanza di trasparenza c'è dolo. Altro che lezioni di educazione finanziaria! In questa fase di crisi, consigliare mutui a tasso variabile, come fanno alcune banche, è un'azione al limite della criminalità. Proprio ieri, una collega che ha sottoscritto un mutuo a tasso fisso al 4,25 per cento, mi diceva che la banca le ha consigliato di passare al variabile per una questione di convenienza. Io le ho detto di non fidarsi. Ho citato il caso di una parlamentare, ovvero di una persona che dovrebbe avere una cultura un po' più elevata. Figuriamoci cosa può succedere al povero cittadino che è completamente all'oscuro delle tecniche e delle modalità di finanziamento!
Il mio punto di vista, indipendentemente dai proclami dell'ABI sulle moratorie, è che vi sia un problema fondamentale di comunicazione.
In questi termini noi stiamo cercando di affrontare il tema del credito al consumo. Su tale argomento la relazione mi è sembrata un po' carente. Il senso dell'audizione non era - ripeto - avere un generale quadro macroeconomico (che, tutto sommato, ci è abbastanza chiaro), ma conoscere meglio il mercato del credito al consumo, in funzione dell'elaborazione di soluzioni legislative possibilmente idonee a risolverne i problemi.
Qualche giorno fa, quando abbiamo ascoltato i rappresentanti delle associazioni dei mediatori creditizi, mi ha molto colpito una loro affermazione in tema di home banking e di strumenti oggi disponibili per diminuire i costi e garantire maggiori rendimenti. Sostanzialmente, esternalizzando le valutazioni di merito creditizio, le banche risparmierebbero molti soldi, perché un professionista esterno costa 30 centesimi al minuto, mentre un impiegato bancario costa 2 euro al minuto. È chiaro che la banca, se fa due conti, prende la decisione conseguente.
Non per scendere in polemica con l'amico D'Antoni, ma lui sa benissimo, a proposito del costo dei Tremonti bond, che Intesa Sanpaolo ha emesso un ibrido all'8,50 per cento, mentre i bond costavano intorno all'8,25 per cento per i primi anni. Queste sono valutazioni che ciascuno sa leggere. Il vero problema è che l'emissione dei bond è subordinata all'assunzione, da parte delle banche, di alcuni impegni, tra i quali l'adozione di un codice etico. Evidentemente, né UniCredit né Intesa Sanpaolo avevano intenzione di impegnarsi in una serie di operazioni che andavano incontro al mercato.
Tornando al tema del credito al consumo - vorrei che si rimanesse in tale ambito - credo che esista un problema sostanziale. Oggi, quando si parla di costo del denaro, si fa un certo ragionamento sulle banche: queste mantengono disponibilità finanziarie e liquidità a breve, perché attendono che i tassi crescano, in modo da potersene avvantaggiare; oppure, fanno operazioni che stanno andando molto bene, ad esempio con titoli come i covered bond, che creano maggiore disponibilità per le imprese. Un'operazione di successo, a parte quella lanciata da Finmeccanica, è stata realizzata dal gruppo Campari, le cui obbligazioni offrono una cedola annua superiore al 5 per cento. Mi sembra che si tratti veramente di una buona operazione per le banche.
Il problema è che, nel settore del credito al consumo, i tassi medi dei finanziamenti - senza considerare il credito revolving - sono intorno al 17 per cento.


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La media risente, ovviamente, dei casi di mancato rimborso, ma di certo non si può sostenere che il 3 per cento circa di insolvenze incida su di essa in maniera così consistente.
La nostra indagine sul credito al consumo riguarda il funzionamento della catena distributiva.
A tale proposito, abbiamo già rilevato, nel corso delle precedenti audizioni, come vi sia un eccesso di offerta, ovvero un eccesso di soggetti che operano sul mercato: almeno 160.000, mettendo insieme mediatori, collocatori, agenti, subagenti, finanziarie, fino ad arrivare alle strutture collegate alle grandi banche, come Ducato, Neos e altre ancora.
Il tema che dobbiamo affrontare è la garanzia di un costo ragionevole per il consumatore, il quale deve avere la possibilità di accedere al credito a un costo accettabile. Presto entrerà in vigore la direttiva relativa ai servizi di pagamento, e interverranno altre innovazioni. La vicenda della data di valuta sugli assegni era già stata affrontata da una direttiva europea. Noi avevamo anticipato la normativa europea prevedendo termini più rigorosi ma, in realtà, andiamo verso quella direzione.
Nell'ambito del credito al consumo, ci interessa sapere se il Parlamento possa fare qualcosa per accorciare la filiera e rendere meno costoso il ricorso al credito.
Qualche giorno fa si parlava di mutui immobiliari. Personalmente, ritengo che gli acquirenti di prima casa - se hanno un reddito fisso - dovrebbero essere obbligati a prendere un mutuo a tasso fisso, in modo da sapere quanto pagheranno esattamente per tutta la durata del rimborso, ovvero che dovranno pagare una certa cifra senza bisogno di ulteriori interventi. Se, invece, la logica sarà quella di lasciare libero il mercato, nonostante ci possano essere offerte diversificate, troveremo sicuramente il soggetto che si fa convincere a prendere un mutuo all'1, all'1,25 o all'1,75 per cento, il quale correrà il rischio di ritrovarsi, dopo sei mesi - penso, infatti, che dall'anno prossimo i tassi cominceranno a salire -, impossibilitato a pagare le rate del mutuo, a causa del sopravvenuto aumento dei tassi.
Naturalmente, si potrebbe anche discutere della politica di quelle banche che finanziavano il 100 per cento del valore dell'immobile da acquistare (c'era addirittura la pubblicità televisiva), con le conseguenze che tutti abbiamo visto.
A questo punto, dovremmo parlare dell'etica nel sistema bancario e di una tendenza che si sta riproponendo. Abbiamo superato sei mesi di crisi, finora più che altro mediatica, ma che avrà effetti, come lei giustamente ha osservato, professore, specialmente sul settore manifatturiero e soprattutto l'anno prossimo.
In seguito alla crisi del 1992, gli effetti peggiori, in termini di sofferenze, si sono visti nel 1994. Com'è noto, in un sistema come il nostro, composto di tante piccole e piccolissime imprese, queste ultime tendono a salvaguardare i posti di lavoro: ritardano, quindi, il pagamento dei contributi e delle imposte, pensando che prima o poi usciranno dalla crisi, ma all'improvviso implodono se la crisi dura di più rispetto alle aspettative, anche perché la loro situazione di sofferenza ha un certo peso per il sistema bancario. Quest'ultimo, nel nostro Paese, non si rende conto che deve poter continuare a mungere la mucca: spremerla fino a toglierle energie vitali significa ammazzare il mercato. Non so a quanti convenga operare in tal modo.
Anche per quanto riguarda il credito al consumo, penso che tassi più ragionevoli siano auspicabili.
Lei, professore, ha posto l'accento sull'educazione finanziaria. A tale proposito, mi domando se sia meglio, come si fa per il venture capital in Francia, prevedere una somma da far pagare alle banche per l'informazione finanziaria, ovvero se sia lo Stato a doversene fare carico. Non mi dica, professore, che PattiChiari ha risolto il problema, perché non è vero.
La seconda questione riguarda il sistema complessivo. Nel settore dell'agricoltura stiamo andando verso i farmers' markets, che tagliano i costi di filiera


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mettendo i contadini in contatto diretto con i consumatori. Poiché pensiamo a sistemi per accorciare la catena del credito, professore, gradiremmo una sua riflessione in merito.
Ci è stato detto che il broker di auto ha più interesse a fare il contratto di finanziamento che a vendere la macchina. È ridicolo, ma siamo arrivati al punto in cui si guadagna di più con il finanziamento che con la vendita della macchina in sé. Ho saputo di persone disposte a pagare in contanti, le quali si sono sentite dire che non avrebbero potuto concludere l'acquisto senza il finanziamento: questo accade perché ai broker vengono concesse, sul finanziamento, provvigioni che possono arrivare al 6 e anche all'8 per cento. Allora, cosa facciamo? Assistiamo passivamente o interveniamo per tentare di accorciare la filiera e rendere il credito al consumo più vantaggioso? Lei capisce, professore, che non è ininfluente pagare un tasso medio del 17 per cento (il che significa che si arriva anche a tassi molto superiori).
I mediatori creditizi chiedono l'albo, vogliono essere in qualche modo garantiti. Bisogna cominciare a pensare se sia il caso di richiedere la costituzione di società di mediazione creditizia e di «asciugare» un po' tutto il mercato.
Tra i temi sui quali ci dovremmo concentrare vi è anche il fenomeno delle carte. Le catene di distribuzione, attraverso le fidelity card, mettono a disposizione determinate somme per fare acquisti. Il fatto è che sulla disponibilità di denaro che si riesce ad ottenere si pagano tassi di interesse vicini al 28 per cento. Lei capisce, professore, che non possiamo assolutamente accettarlo. Naturalmente, gli ignari cittadini apprendono come funziona il meccanismo soltanto quando vedono gli estratti conto delle spese effettuate utilizzando la carta.
Un'altra collega mi ha raccontato di avere acquistato a tasso zero una sauna, ma con l'obbligo di sottoscrivere una fidelity card. Lei ha chiesto a cosa le sarebbe servita, e le è stato risposto che si trattava di un servizio a disposizione della clientela: nel caso in cui avesse deciso di fare ulteriori acquisti, avrebbe avuto un «borsellino» da utilizzare. Naturalmente, nella fidelity card transitano le rate relative all'acquisto effettuato a tasso zero, ma quando la si usa per fare ulteriori spese si pagano interessi dal 28 al 32 per cento. Dobbiamo assistere a simili fenomeni senza intervenire? Possiamo renderli, in qualche modo, un po' più favorevoli al consumatore?
Non ho parlato della Banca del Sud. Il collega D'Antoni mi ha sempre preso in giro, ma in questo Parlamento la prima proposta relativa all'istituzione della Banca del Sud, poi diventata Banca del Mezzogiorno, l'ho presentata io, anche se l'iniziativa non è stata presa molto sul serio.
Ne abbiamo parlato con le banche di credito cooperativo e con le banche popolari, ma all'esterno di tale ambito non si ha la percezione di ciò che la Banca del Mezzogiorno può essere. Abbiamo pensato a un attivatore che metta progressivamente in rete le BCC, le banche popolari, le camere di commercio, i confidi, vale a dire tutte quelle entità che, operando sul territorio a stretto contatto con i soggetti economici, ne possono intercettare più facilmente le esigenze.
Nei report aventi ad oggetto l'attività bancaria, anche in tempi di congiuntura sfavorevole, si nota che, mentre le banche di credito cooperativo crescono, quelle ordinarie tendono a decrescere, anche sotto il profilo degli impieghi e della raccolta. Il dato è significativo.
Nel pieno della crisi, gli istituti di credito hanno diramato circolari in cui si chiedeva ai direttori delle sedi periferiche di restringere del 15 per cento il credito, a prescindere da qualsivoglia valutazione di merito. In una situazione in cui a un direttore di filiale è concesso di gestire in autonomia fino a 5.000 euro - se va bene -, dopo di che c'è bisogno dell'autorizzazione della sede centrale, la quale non sa niente di quello che succede sul territorio, è chiaro che nessun dirigente si prende la responsabilità di discostarsi dalle direttive ricevute. Per il direttore della filiale locale


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di un istituto di credito è facile addurre a propria giustificazione che, se poi qualcuno va in sofferenza, lui ci rimette personalmente.
Con questo sistema il nostro Paese non andrà molto lontano. Si avverte, dunque, la necessità di riportare sul territorio dirigenti che possano alzare il telefono, parlare direttamente con il vertice della banca e dare risposte immediate, cosa che attualmente non succede. La polemica interna a UniCredit riguarda proprio la suddivisione delle responsabilità per aree e per competenze, e lo stesso vale per Intesa Sanpaolo.
Pertanto, guardare con molta sufficienza all'idea di creare una sorta di holding, che attivi il meccanismo e poi ne rimanga fuori, mi sembra un atteggiamento un po'qualunquista. Poi, chiaramente, l'iniziativa potrà anche non avere il successo che io auspico, ma almeno avremo fatto un tentativo di mettere in rete, nel senso che ho già spiegato, persone che operano sul territorio e che conoscono i propri clienti.

PRESIDENTE. Do la parola al nostro ospite per la replica.

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. Ringrazio per le moltissime osservazioni, in parte provocatorie, e per le critiche relative agli argomenti che ho esposto in precedenza.
Desidero svolgere rapidamente alcune considerazioni sul modo in cui la vicenda del credito al consumo si è innestata, negli anni Duemila, nelle trasformazioni che hanno interessato il sistema creditizio italiano, che sono enormi, epocali e nient'affatto digerite, nel senso che è ancora da capire quale esito produrranno.
Mi spiego meglio. Se, da ragazzo, qualcuno mi avesse detto che Cariplo avrebbe acquistato Comit, io avrei risposto che era una favola, anzi un incubo. Se qualcuno mi avesse detto che si sarebbero fusi San Paolo IMI e Banca Intesa - che a sua volta conteneva Cariplo, Banco ambrosiano veneto e Comit - avrei detto che era fantascienza.
In realtà, non va dimenticato che noi, una volta entrati nell'UEM, abbiamo pensato - c'è da capire se questo disegno andrà avanti - che dovevamo realizzare due grandi banche europee con sede legale in Italia, accanto a grandi banche europee con sede legale negli altri Paesi. Se avessimo fatto gli Stati Uniti d'Europa, avremmo dovuto avere dieci grandi banche europee: due italiane, due francesi, due tedesche, una spagnola e via elencando, le quali, essendo grandi banche europee caratterizzate da una dimensione competitiva globale, avrebbero avuto poca rete sul territorio.
Mi sarei aspettato, dopo la fusione tra San Paolo e Banca Intesa, la dismissione di metà degli sportelli delle due banche nei rispettivi territori, perché due grandi banche europee non servono più tutta la rete sul territorio; difatti, le grandi banche americane o inglesi non hanno sportelli in tutti i rispettivi distretti territoriali, mentre li hanno in tutto il mondo.
Anche in questo caso, il sistema parte dalla costituzione di grandi banche europee, ma si ritrova con poche banche italiane di grandi dimensioni. Questo è il paradosso nella fase di transizione.
Quando leggo le statistiche relative alle enormi quote di mercato degli istituti guidati da Sandro Profumo e Corrado Passera, mi domando se stiano lavorando sull'Italia o sull'Europa: il loro mercato è l'Europa, non l'Italia. Si dice che, non avendo chiuso gli sportelli, Intesa Sanpaolo e UniCredit siano diventate due banche italiane troppo grandi. Le grandi banche italiane sono troppo poche. Quanto durerà? Si tratta di una vistosa anomalia alla quale è chiamata a porre rimedio l'Autorità presieduta da Antonio Catricalà. È un costo derivante dal cambiamento: le nostre grandi banche si troveranno sempre più in Cina, in India e in Russia, dove è giusto che stiano se sono così grosse. Le abbiamo fatte così grandi perché accompagnassero le nostre imprese nel mondo o perché «torturassero» i cittadini italiani a casa loro? Questo è il paradosso.


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Nel settore del credito al consumo abbiamo copiato i difetti degli americani, ma non i pregi. La grande crescita del sistema del credito al consumo in America è funzionale al fatto che i debiti li contraggono le famiglie, non le imprese. Quindi, gli intermediari e tutti gli sportelli delle banche non finanziano le imprese, altrimenti ci sarebbero due sistemi.
In Italia, il risparmio gestito è rimasto bancocentrico. Le banche hanno «ucciso» società di loro proprietà: ma in quale Paese al mondo è successo? Il problema è che il sistema creditizio italiano è stato diretto, all'inizio, da un regista che stava in via Nazionale, ma poi ha proseguito il proprio cammino senza regia e, tuttora, è un interessante esperimento di come un sistema cambi sperando che vada tutto bene. Io sono ottimista dalla nascita e considero con stima e affetto Sandro Profumo e Corrado Passera, che conosco da una vita; ma conosco da una vita anche Giulio Tremonti e Mario Draghi, verso i quali nutro altrettanto affetto.
Cerchiamo di venire al sodo. Poiché è chiaro che il nostro sistema è cresciuto per successivi squilibri, è comprensibile che voi ragioniate sul modo in cui mettere ordine. La Commissione ritiene di dover interviene mentre siamo in una situazione di piena emergenza (che mi preoccupa molto). Giustamente, il presidente mi ricorda che devo aiutarvi a disegnare il futuro. Vi parlerò, quindi, del futuro.
Come nei Paesi seri, anche da noi, prima o poi, ci saranno un paio di grandi banche che saranno ovunque meno che in Italia. Su questo punto, a quanto pare, non ci siamo capiti. Le grandi banche aiutano l'Italia nel mondo. Allora perché hanno 18 sportelli ciascuna a Piacenza? Non si capisce a cosa servano tutti quegli sportelli in palazzi di granito che oltretutto costano molto.
A New York, le branch sparpagliate per la città hanno i pavimenti in linoleum e costano poco; le apri, le vendi e le chiudi da un giorno all'altro. Noi abbiamo ancora banche che devono colpire i risparmiatori con il simbolo granitico della loro eternità. Costa l'ira di Dio solo muovere le pratiche all'interno di quei fantastici edifici.
Il credito al consumo ha preso piede in Italia negli ultimi 10-15 anni, per imitazione del modello americano. Tutti gli strumenti, a cominciare dalla fidelity card, nascono dal ragionamento della massaia americana o del suo giovane marito. In America i giovani mariti fanno la spesa come le mogli; in Italia no: da noi la spesa la fanno i pensionati. Il supermercato americano e il supermercato italiano ci appaiono incredibilmente diversi se confrontiamo l'età di chi fa la spesa e gli strumenti che sono utilizzati. La Coop ci ha provato a fare le fidelity card, ma in Italia queste cose non attecchiscono. La gente accede al credito al consumo con gli strumenti tradizionali adeguati all'Italia. Ne viene fuori un pasticcio, perché alla fine si torna sempre alla banca: il sistema è rimasto bancocentrico.
Succede come con Internet: alcuni mi mandano e-mail chiedendomi di mandare loro un fax. Sono due sistemi diversi. Noi li abbiamo entrambi: riceviamo ed inviamo e-mail e fax. Accade solo in Italia, e in nessun altro Paese al mondo.
Voglio dire che il Parlamento, prima o poi, deve aiutare il Paese a scegliere un sistema. Noi eravamo un Paese bancocentrico. Le banche - poi vedremo se e come riuscire a migliorarle, con la competizione o con le leggi - servivano famiglie, imprese, Stato, e via dicendo, ed erano il punto di riferimento naturale. Fino a 10 o 15 anni fa, quasi ogni cosa fuori dalle banche era, se non illegale, a-legale: esistevano e crescevano attività spontanee, come i broker, ma non sapevi mai se fossero legali o no, se fosse tutelato chi se ne serviva.
Adesso dobbiamo decidere di nuovo. Il risparmio gestito è fallito, in Italia, perché ucciso dai suoi padroni, che erano i banchieri; non ha mai costituito un'alternativa, come nel mondo anglosassone.
Il credito al consumo è da tutelare almeno quanto il credito alle imprese, perché le famiglie in Italia sono più deboli delle imprese. Il paradosso è che partiamo


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sempre dall'idea che dobbiamo tutelare l'imprenditore. Invece, è la famiglia l'anello più debole del Paese, perché l'età media dei componenti è più alta e anche perché è minore, all'interno di un nucleo familiare, la capacità di ragionare sui temi finanziari (e questo è un problema di educazione finanziaria). In Italia, la tutela della famiglia che va in banca o dal broker è ancora più importante della tutela delle imprese. Questa è una scelta politica.
La crisi attuale, che è gravissima, ma auspicabilmente superabile, non deve indurci a prendere provvedimenti che potrebbero contrastare la crescita del sistema.
La dotazione di sportelli bancari per metro quadrato nelle nostre città non ha uguali al mondo. La rete non è stata assolutamente ridimensionata, nonostante il fatto che, concentrandosi, le banche avrebbero dovuto crescere altrove. Permanendo un sistema bancario così incombente come il nostro, da economista che osserva la realtà italiana, dico che la crescita in Italia di una rete parallela di credito alle famiglie, tutta privata, costituita da broker e da altre figure professionali, mi lascerebbe molto perplesso. Su tale questione dovremmo ragionare.
I Tremonti bond sono stati pensati nel momento giusto, ma sono diventati operativi quando ormai il mercato della liquidità e delle borse era molto cambiato: sono stati stroncati dai fatti e non dalla cattiveria o dalla prepotenza dei banchieri. Nel momento in cui i bond sono stati introdotti - ottobre dell'anno scorso - i Governi di tutto il mondo stavano ricapitalizzando le banche.
C'è un'obiezione che è già stata mossa a Tremonti fin dall'origine, quando ha presentato il suo progetto nel corso di un convegno. Il ragionamento del Ministro era il seguente: se le banche emettono 12 miliardi di euro di bond, tenendo conto del coefficiente patrimoniale Tier 1, potranno erogare credito per 120 miliardi. I miei colleghi, da Luigi Spaventa a tanti altri, hanno chiesto subito: «Siete sicuri che ci sarà domanda di questi bond? Con una crisi così grave in atto, potranno i banchieri impegnarsi esplicitamente ad erogare maggiore credito?».
Non si trattava, signor presidente, soltanto del codice etico, ma anche del fatto che il Ministro Tremonti presentava i bond come strumento di ricapitalizzazione e, al contempo, come strumento per uscire dalla crisi mediante un enorme aumento dell'offerta di credito. Intanto, il credito non è aumentato, ma poi è cambiato enormemente il mercato, per cui è diventato possibile fare a meno dei cosiddetti Tremonti bond: è questo che ha fatto la differenza.

PRESIDENTE. Nel momento di massima crisi, ovvero quando l'effetto mediatico si faceva sentire, le aziende hanno prosciugato le proprie scorte: a fronte di una previsione di calo delle vendite, piuttosto che continuare a fare ordini, hanno messo mano al magazzino. Ovviamente, questo atteggiamento si ripercuote su chi, invece, produce per i magazzini.
Nel pianificare una strategia di uscita, bisogna pensare anche a cosa fare nel momento in cui il sistema si sarà consolidato. Per riempire nuovamente i magazzini, gli imprenditori avranno bisogno di soldi. Allora, il messaggio da lanciare è il seguente: «Io rimetto in moto tutto il sistema, tu imprenditore riempi i magazzini - ai tassi correnti costa poco - e ricominci a produrre».
Occorre considerare anche il rovescio della medaglia: ove le aziende cominciassero a riempire i propri magazzini tutte insieme, improvvisamente, l'effetto inflazionistico sarebbe talmente elevato da mettere la nostra economia su un binario che dobbiamo saper evitare se vogliamo essere competitivi sui mercati internazionali.

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. Signor presidente, su questo siamo tutti d'accordo, ma il problema riguarderà il 2010.
Io ho scritto e detto, un anno fa, che bene aveva fatto il Ministro, perché tutti


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stavano prendendo provvedimenti per fronteggiare una situazione diventata drammatica. Nelle banche centrali non si dormiva: è impossibile farlo quando esplode una crisi globale, perché nel mondo si aprono altri mercati che possono causare danni. Sono stati organizzati turni, nelle banche centrali, per poter essere sempre svegli 24 ore su 24: se crolla il mercato di Tokio, bisogna prendere provvedimenti alle tre di notte. I mercati crollavano a turno, e i banchieri centrali non dormivano.
Ripeto che ho scritto e detto, un anno fa, come avesse fatto bene il Ministro Tremonti a dire che c'erano 12 miliardi: in quel momento è servito. L'annuncio è bastato a far capire che il Paese non stava chiudendo. Il problema - è un difetto umano, non politico - sta nel fatto che il Ministro si è offeso: poiché nel frattempo la situazione è migliorata, gli è sembrato quasi che ce l'avessero con lui quei banchieri che hanno deciso di non ricorrere più ai bond.
Un banchiere cerca di evitare il ricorso agli aiuti, mentre tanti altri, in giro per il mondo, stanno facendo a gara per restituire quanto è stato loro concesso. Qui da noi non era nemmeno chiaro se, presi i soldi in una situazione di emergenza, le banche avrebbero potuto restituirli dopo sei mesi. Sapete meglio di me che tutte le banche aiutate dai Governi nel momento di maggiore gravità della crisi stanno cercando di prendere i soldi in borsa, adesso che praticamente glieli regalano, per restituirli ai Governi. Quindi, questi ultimi non dovrebbero offendersi se, essendo stati utili, ora non lo sono più. Gli aiuti servono quando sono utili, non sei mesi dopo, quando la situazione è migliorata. Il paradosso è che, avendo considerato i bond uno strumento importante, al Ministro sembrava quasi un'offesa il fatto che le banche non ne avessero più bisogno.
C'è tanto altro da fare in questo Paese. Al di là della battuta e delle facili polemiche giornalistiche, il problema resta per il futuro. Se riparte l'economia, ci saranno i soldi per finanziare i magazzini, ancora vuoti, della nostra industria manifatturiera? Questo è il problema.
Il credit crunch non c'è stato. Anche per quanto riguarda il credito al consumo, i dati dicono che, in questo momento, la domanda non sta crescendo, o perché, per definizione, la gente tira i remi in barca e non corre in banca a chiedere soldi, o perché è povera e, quindi, sa che comunque nessuno glieli darebbe - meglio, così non fanno nuovi debiti -, o perché sta risparmiando; del resto, la crisi ha indotto tutti a essere più risparmiatori.
In questo momento, che il problema della domanda di credito possa essere risolto apportando denaro al capitale delle banche, in modo che possano finalmente finanziare le imprese, io continuo a sperarlo, ma non l'ho ancora visto accadere. Prima o poi succederà, ma al momento non ci siamo.
Il problema del Paese, non solo del sistema creditizio e delle banche, è se restare italiani - quindi persone lungimiranti, che danno valore alla famiglia e allo stato patrimoniale e rifiutano la filosofia del «giorno per giorno», propria dei mercati finanziari e del mondo anglosassone - oppure diventare anglosassoni anche noi e farci prendere dall'ossessione, come loro, di fare qualcosa soltanto se la Borsa va bene. Una volta, eravamo fatti diversamente; peccato che, negli anni Duemila, abbiamo cominciato ad imitare i difetti del modello anglosassone senza averne i pregi.
La crisi è comune ma, paradossalmente, poiché l'enorme aumento di liquidità non è confluito nel canale creditizio, che da noi è rimasto il più importante, l'unico effetto che abbiamo è una spinta all'ottimismo da ripresa borsistica, anche se la Borsa non ha ricapitalizzato né le imprese né le famiglie. Il paradosso è che usciamo dalla crisi grazie a liquidità regalata: si incrementa la ricchezza, sperando che ciò basti per fare in modo che la gente vada a fare la spesa e che il canale del credito, prima o poi, si adegui.
Quelli del credito e dei mercati sono canali diversi. Non soltanto siamo rimasti più bancocentrici degli americani, ma non


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siamo nemmeno riusciti ad ottenere che le banche, percependo un aumento del grado di concorrenza, competessero sulle cose che contano, cioè sui giorni di valuta e su altre materie analoghe, sulle quali l'oligopolio bancario ha tenuto benissimo. Non è affatto strano che l'ABI riesca a svolgere un'efficace azione difensiva quando vengono in rilievo sulle materie di interesse comune: è nata per questo; è scritto nel suo statuto che deve difendere gli interessi comuni delle banche.
D'altra parte, tutti voi avete visto aumentare il numero di pagine illeggibili, scritte a caratteri minuscoli, che arrivano nelle case delle famiglie italiane: perché lo facciano, non lo so. Quando ero in Inghilterra o in America, la mia banca locale non mi mandava nulla: io sapevo che mi avrebbe trattato bene perché avrei potuto cambiarla senza spendere nulla.
Anche da questo punto di vista, se vogliamo diventare come gli americani, dobbiamo garantire che le persone possano in qualunque momento trasferire il proprio conto altrove, senza alcun costo - in parte, lo abbiamo fatto -, perché è l'unico modo per far capire al banchiere che o tratta bene il cliente tutti i giorni oppure lo perde.
In passato, trasferire un mutuo da una banca all'altra voleva dire suicidarsi: quasi conveniva vendere la casa! Insomma, sottoscritto il contratto di mutuo, il cittadino diventava prigioniero della banca.

ALESSANDRO PAGANO. Non vale per i conti correnti.

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. Non più.
O riteniamo che le banche siano un servizio pubblico, come erano una volta - in tal caso, voi fate le leggi e loro le rispettano -, oppure le consideriamo imprese come la FIAT, la quale, da quando posso comprare la macchina che preferisco, non mi tratta più come mi trattava 30 o 40 anni fa. I due modi sono quelli, e non ne esiste un terzo.
Se le banche sono come la FIAT, io devo poter scegliere in ogni momento la banca che mi tratta meglio, punto. Non vi sono altre soluzioni possibili: il legislatore deve garantire che, ogni giorno e senza costi, il cittadino possa scegliere dove tenere i suoi soldi, con chi contrarre i suoi debiti e via dicendo. Se il banchiere mi tratta male, il giorno dopo devo potermi rivolgere ad altri. Questo, del resto, succede dal droghiere o dal parrucchiere. Anche nel settore dell'automobile, come dicevo, la situazione è cambiata molto. Ricorderete un mondo in cui le auto vendute in Italia erano al 90 per cento FIAT, mentre adesso la percentuale si è ridotta al 10 per cento. È cambiato enormemente il potere del produttore sul cittadino. C'è poco da fare: l'unica cosa che conta, e noi lo sappiamo, è che il consumatore sia libero di scegliere.
Mi è stato chiesto delle crisi passate. Si tratta di tutt'altre storie: esageravamo con l'inflazione e c'era troppo deficit pubblico; allora, si faceva una bella manovra con svalutazione della lira, si soffriva un anno o due e se ne usciva. L'ultima grande crisi di questo tipo l'abbiamo avuta nel 1992. Ricordiamo tutti che vi fu un crollo dei consumi. Il Governo dell'epoca svalutò la lira, elevò la tassazione e tagliò le spese: insomma, fece una manovra. Stavolta, invece, il Ministro Tremonti non ha fatto alcuna manovra che potesse determinare un crollo delle produzioni.
In passato, accumulavamo problemi irrisolti. Negli anni Duemila non è successo, tanto è vero che il nostro manifatturiero era ripartito e la bilancia dei pagamenti era buona. Siamo entrati in crisi con una bilancia di pagamenti in surplus: non era mai successo dal dopoguerra.
Questa volta la crisi non deriva da una nostra colpa, ma è globale: è il mondo che si è fermato, spaventato da una serie di problemi irrisolti.
Le crisi del passato, in questo Paese, erano sempre precedute da emergenze politiche, ma nel 2008 non vi è stata alcuna emergenza politica: ha vinto un nuovo Governo, con un'enorme maggioranza, e la luna di miele è stata buona.
Per lo studioso questa crisi è incomprensibile, se non la studia con cura. Non


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abbiamo ancora capito perché si sia rotto il mondo - diciamo così - e, soprattutto, quali politiche e rimedi si debbano adottare per ripararlo.
Sto parlando di un Paese industriale. Non saremo gli Stati Uniti d'America, ma siamo comunque uno dei primi Paesi industrializzati al mondo insieme a Giappone, Germania e Francia. Non a caso i tre Paesi citati sono quelli che più soffrono in questo momento: alla fine di tutto il pasticcio che conosciamo, la crisi è diventata industriale, senza colpa dell'industria.
Le nostre imprese più in sofferenza sono quelle che, fino a un anno fa, andavano meglio. La friulana Danieli Construction, una delle nostre migliori aziende, ha visto metà degli ordini cancellati nel giro di un mese: una volta non succedeva. Anche questo rappresenta un impoverimento per gli italiani, immeritato perché non è colpa loro, né del loro Governo. Tuttavia, il fatto di non avere colpe non deve essere consolatorio, perché significa avere un problema in più, ovvero quello di dover fronteggiare una crisi senza che neanche gli imprenditori abbiano ancora compreso in cosa abbiano sbagliato.
Infatti, gli imprenditori non se la prendono con il Governo. Tuttavia, Emma Marcegaglia ed altri si chiedono se, dopo un anno, il Governo abbia capito o meno che hanno problemi. I piccoli industriali lamentano sempre più la propria situazione di sofferenza, che si protrae da un anno. Sanno di non avere colpe, e che nemmeno il Governo ne ha, ma chiedono che sia data loro una mano.
Questo è anche l'atteggiamento di molte famiglie: se il giovane ha perso il lavoro ed è ritornato a casa con un mutuo sulle spalle, chi se ne occupa? Dicono che le famiglie italiane hanno le spalle robuste: mica tutte!
Anche per le famiglie si possono trovare sistemi che prevedano l'intervento di mediatori, ma solo se riusciamo a farlo «alla francese»: se stabiliamo che i prefetti debbano occuparsi anche dei mutui delle famiglie, allora addio! «Alla francese» significa mettere a disposizione delle famiglie, e pure delle imprese, un ufficio dove qualcuno, operando con la massima riservatezza, sia in grado di dare una mano a mettere a fuoco il business plan della loro ripresa, del loro risanamento.
Per un imprenditore, oggi, è fondamentale capire i suoi problemi e avere una strategia di uscita. Se aspetta che nevichi in agosto, chiude.

GIANFRANCO CONTE. Lei delinea un Paese che non esiste. Noi siamo il Paese dei reality, delle chat.

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. Se si va a verificare sul territorio, ci si rende conto che la situazione è realmente grave. Immagino che accada anche a voi, quando visitate i vostri collegi (spero che ci siano ancora).
Non possiamo fare gli spiritosi sui problemi del Paese. Sono migliaia le piccole imprese che non sanno se arriveranno a Pasqua; e anche i loro lavoratori, naturalmente, vorrebbero saperlo.
Il problema è se basti la ripresa franco-tedesca. Il ciclo politico ha fatto sì che Sarkozy, salito al potere per primo, abbia capito benissimo i problemi e sia partito subito. La Merkel ha capito che ora tocca a lei. Secondo il nostro ciclo politico, dal 13 aprile 2008 abbiamo anche noi un Governo sovrano e, quindi, non abbiamo più scuse.
La Merkel era imbalsamata in una coalizione a termine, ma ricomincerà a fare politica da lunedì: l'avete vista tutti. Sarkozy lo ha fatto subito: si è occupato dei problemi della Francia subito dopo essere stato eletto. Noi, invece, abbiamo avuto una grande vittoria politica e poi l'abbiamo sprecata nell'attesa che il tempo migliori.
Scusate se sono estremamente franco, però la situazione comincia a diventare paradossale: cresce un malcontento dovuto non tanto a risentimento nei confronti del Governo, quanto alla consapevolezza dell'esistenza dei problemi. Parlo con tanti imprenditori, i quali mi dicono con amarezza che Roma non è in grado di capirli.


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Signori deputati, se mi è consentito, vi invito a visitare anche il Nord, perché non esiste soltanto il Sud.
Gli imprenditori manifestano amarezza perché erano convinti che fosse merito loro se le cose andavano bene; adesso che sono precipitati in una crisi gravissima non capiscono dove abbiano sbagliato e non sentono il Governo vicino. È veramente triste.

GIANFRANCO CONTE. Scusi, professore, ma quando parla di Governo «vicino», cosa intende dire?

GIACOMO VACIAGO, Professore ordinario presso l'Università Cattolica di Milano. Intendo un Governo pronto a discutere con loro sulle possibili iniziative, come fa il centrodestra in Europa, a Parigi e a Berlino. Non è mica strano. Io mi amareggio di fronte a queste situazioni.

PRESIDENTE. Professore, lei mi stimola ad intervenire.
Se un'azienda che ha una linea di credito di 2 milioni di euro riceve una lettera, a dicembre di quest'anno, nella quale la banca la invita a rientrare di 1 milione, capisce bene che il problema non è il Governo «vicino»: in un caso simile il problema è diverso, e lei lo conosce bene, perché è uno studioso e anche uno storico dell'economia. Lei conosce perfettamente i disastri dei quali ci dobbiamo occupare. La nostra legislazione è vecchia ma, a mio parere, ci ha salvati proprio perché è vecchia, non perché siamo virtuosi.
I diciotto sportelli che tengono aperti a Piacenza i due più grandi gruppi bancari italiani fanno solamente raccolta di quattrini, ma non erogano credito: questo è il problema che abbiamo dovuto affrontare e studiare in questa Commissione. Le banche fanno unicamente raccolta, punto e basta.
Come ha osservato il presidente Conte, il direttore della singola filiale di Piacenza dell'una o dell'altra banca non può finanziare oltre i 5.000 euro senza chiedere il permesso al capo sezione, il quale deve essere a sua volta autorizzato dalla direzione centrale: è lì che nasce il problema per le piccole e medie imprese!
Piccolo è bello: era questo lo slogan. Una successiva vulgata degli economisti ci dice, al contrario, che piccolo non è bello, perché ci vogliono le grandi banche per entrare nella finanza mondiale. Come giustamente ha affermato lei, professore, le grandi banche devono essere presenti all'estero, dove le nostre industrie manifatturiere devono vendere i loro prodotti.
Il discorso è estremamente complesso. Gli imprenditori chiedono che il Governo sia loro vicino, ma io non so quale Governo avrebbe potuto far meglio di quello in carica. Come spiega il Ministro Tremonti nei suoi libri, pare che sia stato lui il primo ad accorgersi del pasticcio.
Per Sarkozy è diverso. Bisogna ricordare che nell'Unione europea siamo gli ultimi: non gestiamo alcun settore dell'apparato decisionale comunitario. Abbiamo molti funzionari di grado inferiore, ma non soggetti che possano tutelare efficacemente il nostro Paese (e questo accade fin dal 1957, anno in cui abbiamo sottoscritto, con altri cinque Paesi, i Trattati di Roma). Questo è un grosso problema. Pur essendo un Paese di 60 milioni di abitanti, non riusciamo ancora ad esercitare un ruolo forte all'interno dell'Unione europea. Quando un Presidente del Consiglio va all'estero a presentare i prodotti italiani, qualcuno storce il naso, com'è capitato in questi giorni.
La ringrazio, professore, per il suo contributo e per la documentazione consegnata, di cui autorizzo la pubblicazione in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna (vedi allegato).
Dichiaro conclusa l'audizione.

La seduta termina alle 13,25.

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